Partito Comunista Internazionale "Dall’Archivio della Sinistra"

Partito Socialista Italiano
Frazione Comunista Astensionista

 

IN DIFESA DEL PROGRAMMA COMUNISTA
(Avanti!, 2 settembre 1919)






 

II programma della frazione comunista astensionista è stato proposto alla discussione dei compagni e delle sezioni che si preparano al congresso nazionale senza che finora alcuni dei proponenti abbia preso la penna per discuterlo dalle colonne dell’Avanti!. Molti sono i compagni che se ne sono occupati su tutta la stampa del Partito, ed è venuto il momento di replicare alle principali obiezioni che sono state sollevate.

Nella sua genesi e nella sua impostazione quel programma vuole esprimere l’indirizzo della parte più rigorosamente intransigente del Partito, continuando storicamente l’opera di orientamento compiuta da questa negli ultimi anni.

Esso dottrinalmente si basa sulla più ortodossa concezione marxista e vuol essere il risultato della solenne riconferma che a tale concezione hanno dato i grandi avvenimenti mondiali, dalla grande guerra capitalistica alle rivoluzioni comuniste. Esso è la sintesi della doppia vittoria teorica riportata dal socialismo rivoluzionario marxista contro le due grandi revisioni: quella riformistica e quella sindacalista anarchica che hanno tentato di intaccarlo, vittoria teorica che procede di pari passo con la realizzazione storica delle conclusioni e delle previsioni del marxismo applicate alla guerra borghese ed al processo che conduce dal regime capitalistico a quello socialista. Questa dottrina fu chiamata dai precursori socialismo scientifico o comunismo critico: ed essi assunsero il nome di comunisti per distinguersi dalle allora imperanti scuole socialiste a contenuto utopistico e conservatore. Cominciamo a sgombrare gli equivoci dei termini che adoperiamo; ognuno ha un valore proprio etimologico ed immanente ed un altro valore storico. Il fondo del nostro sistema di intendere i fatti storici e sociali è la dialettica, che vede tutto muoversi, opposta alla metafisica che vede tutto per sé stesso eternamente stare. Poco quindi ci preme del significato letterale dei termini da adoperare; l’essenziale è il valore storico che li definisce.

Etimologicamente e letteralmente comunismo e socialismo vogliono dire assolutamente lo stesso: regime economico della proprietà collettiva non distribuita tra gli individui. Storicamente comunisti dovettero chiamarsi i socialisti che sullo svolgimento della storia avevano le vedute rivoluzionarie del Manifesto. In seguito costoro si chiamarono socialdemocratici. La revisione riformista si è impossessata di questo nome: ed è per distinguersi da questa scuola degenerativa che conviene oggi chiamarsi di nuovo comunisti (vedi programma della III Internazionale ultima parte), anche per esprimere questo concetto storico, che i continuatori del marxismo rivoluzionario sono oggi i partiti della III Internazionale fautori ed instauratori della dittatura proletaria.

Ed eccoci ad un’altra definizione di termini. Democrazia e dittatura. Aristotelicamente, come dice G. Bianchi o, come dice Lenin, nel senso di democrazia pura e dittatura pura la scelta nostra cadrebbe sul sistema della democrazia, che vuol dire governo di popolo, o della maggioranza, mentre dittatura vuol dire governo dispotico di pochi, o di uno solo. Ma queste categorie lasciamole ai metafisici per loro sollazzo e veniamo ai concetti storici e politici, che noi riassumiamo quando adoperiamo quelle parole.

Democrazia sintetizza per noi tutto il sistema di governo della classe capitalistica non quale la decantano i suoi fautori, ma quale spietatamente la diagnostica il comunismo critico: regime nel quale una classe sfrutta ed opprime economicamente l’altra riconoscendo una teorica eguaglianza politica tra i cittadini di qualunque classe, nella formazione degli organi elettivi dello stato. Vuol dire diritto formale e giuridico della maggioranza a governare, una intangibilità concreta del privilegio economico e del potere della minoranza detentrice dei capitali. Dittatura vuol dire: regime in cui la classe dominante esclude la classe dominata da ogni ingerenza negli organi politici che dirigono la società. Dittatura della borghesia si avrebbe se questa sopprimesse (ipotesi che si fa per scopo di definizione) il regime parlamentare prendendosi direttamente quel potere politico che il regime stesso le delega infallantemente. Una cosa, in buona sostanza, vicina assai alla condizione attuale. Dittatura proletaria comprende per noi, invece, tutto il concetto storico marxista della via per la quale il proletariato si emancipa, nel periodo che va dall’abbattimento violento del governo borghese fino alla definitiva espletazione della espropriazione economica della classe borghese.

Questo processo con frasi e brani del Manifesto, del programma della III Internazionale e della costituzione dei Soviet russi è svolto nel programma comunista, ed è strano che alcuni, tra cui ci stupisce sia G. Bianchi, non l’abbiamo ancora capito e vedano una contraddizione dove non c’è. La dittatura proletaria è appunto la via della realizzazione del comunismo che la dottrina marxista traccia con meravigliosa antiveggenza, e che, realizzandosi con evidenza maestosa nelle rivoluzioni contemporanee, ha sbarazzato il campo, come dicevamo, dalle concezioni revisionistiche degli anarchici e dei riformisti sul trapasso del regime borghese al comunismo.

Dobbiamo ancora una volta insistere su tale processo, e sulle sue fasi? Prima il proletario insorge e, colla violenza, abbatte il governo borghese, sostituendovi il sistema politico proletario, lo stato dei soviet, fondato sulla esclusione dei borghesi dal diritto politico.

Quindi in un processo evolutivo per quanto accelerato, lo stato proletario espropria i capitali privati accentrandoli nelle sue mani e amministrando la produzione a mezzo dei suoi organi costitutivi. Durante questo processo evolutivo, che durerà anni e anni, vi sono ancora borghesi che sfruttano, ma si va eliminandoli ed assorbendoli nel proletariato.

Potenzialmente essi sono eliminati fin dal primo momento col privarli di ogni diritto politico. Ciò è la dittatura proletaria.

Si tende così alla abolizione delle classi, e del potere politico esecutivo di una classe contro l’altra, ma non all’abolizione della amministrazione economica centrale, caratteristica che definisce il regime comunista contro quella dell’economia privata. Le due revisioni, l’anarchica e la riformista, negano questo processo e sono perciò fuori della realtà storica. Il riformismo dice: al comunismo si arriverà con trasformazioni graduali dell’ordine economico, quali può attuarle il sistema di rappresentanza democratica oggi vigente. L’anarchismo dice: al comunismo si giunge abbattendo lo stato borghese, espropriando la borghesia nel tempo stesso della insurrezione, senza costituire un nuovo stato e un nuovo governo. L’anarchia fa coincidere la insurrezione proletaria con la abolizione delle classi.

Riformismo ed anarchia negano la dittatura proletaria. Accettare il nostro programma vuol dire rendere incompatibile nel Partito ogni addentellato col concetto riformista e con quello anarchico, e precisarne l’azione sulla via che sola permette il superamento rivoluzionario del regime borghese.

La via che ci conduce alla conclusione tattica della astensione elettorale nulla ha a che vedere con le motivazioni anarchiche dell’astensionismo, che discendono invece dalla negazione di ogni governo e di ogni potere, dai comunisti rifiutata. Noi affermiamo che è aperto il periodo rivoluzionario, internazionalmente considerato, perché la guerra mondiale, crisi terribile del regime borghese, ha messo il proletariato dinanzi alla formidabile antitesi storica: democrazia borghese, ossia imperialismo e militarismo, o dittatura proletaria internazionale. È ingenuo dire che il periodo rivoluzionario in Italia non è aperto; se l’insurrezione fosse nelle vie, l’azione elettorale cadrebbe da sé. Ma noi parliamo di periodo rivoluzionario mondiale perché siamo penetrati del dilemma: o la dittatura proletaria diviene internazionale nell’attuale fase storica o anche la Russia tornerà sotto le catene della democrazia capitalistica. L’opera dei partiti comunisti, di coloro che vogliono seguire e salvare la Russia nel tempo stesso, consiste nel preparare il proletariato dei singoli paesi all’urto contro lo stato borghese, creando in esso la consapevolezza politica e storica della necessità che il programma comunista, il processo della rivoluzione proletaria, si realizzi in tutte le sue fasi. Il fondamento di questa consapevolezza è il concetto della dittatura proletaria, a cui il proletariato deve prepararsi; e l’arma più formidabile della conservazione borghese contro di essa è la diffusione della ideologia e del metodo social-democratico.

Convinti di questa antitesi (e noi scriviamo in polemica sopratutto coi massimalisti elezionisti, omettendo di insistere nella dimostrazione di quanto è da essi notoriamente accettato) i partiti comunisti devono diffonderne la coscienza, come dicono le conclusioni di Mosca, nelle più larghe masse del proletariato.

Salvadori chiede quale trapasso ci sia dall’epoca nella quale accettavamo le elezioni all’attuale in cui le neghiamo.

Tra il 1913 e il 1919 intercorre semplicemente, caro Salvadori, la guerra mondiale e la rivoluzione di Russia e di altri paesi! Scusa se è poco. Come non regge l’obiezione che noi siamo anarchici, non regge quella che vogliamo sostituire il programma di Genova per cancellare la separazione con gli anarchici fatta nel 1892 (io non nego, in parentesi, che tra i fautori dell’astensione ci sia qualche anarcheggiante: ma posso parlare pei compagni di Napoli, del Soviet e per i convenuti a Roma il 6 luglio che votarono il programma nostro). La scissione del 1892, in quanto ripeteva la sua origine dalla divisione tra marxisti e libertari, è da noi riconosciuta un logico episodio della vita proletaria italiana. Il fondo del dissenso non era la negazione anarchica della conquista di mandati elettorali, ma della conquista del potere politico. Ora nella necessità di questa conquista noi siamo con la dottrina fondamentale del partito, contro l’anarchismo, così come Marx era, sullo stesso problema, contro Bakunin. Ma il programma di Genova affermava (sulla traccia delle direttive social-democratiche già imperanti nella II Internazionale) che tale conquista poteva avvenire da parte del proletariato col metodo elettorale e maggioritario, mentre noi riteniamo che possa avvenire solo con la insurrezione, e per ciò superiamo quel programma.

Gli anarchici vogliono la insurrezione: ma non per la conquista del potere; bensì per la distruzione del potere. Ciò è per noi pura illusione. Anche i massimalisti elezionisti vogliono, del resto, abolire il programma di Genova, ma non hanno ancora proposto il nuovo. Quello a firma di Gennari, Bombacci, Salvadori, è una relazione polemica, non già un programma da affibbiare al partito.

La direzione, intanto, di cui fan parte i tre compagni suddetti, invoca ancora, per sostenere l’elezionismo, il programma fondamentale del partito. Questo del resto è già superato da quando la frazione rivoluzionaria ha proclamato che si va in parlamento solo per agitare la nostra propaganda. E questo pare anche essere il criterio degli odierni massimalisti elezionisti. Anche questo è un criterio superato. Poteva andare quando, prima della guerra, non erano immediate le prospettive della rivoluzione, e non era indispensabile una precisa delineazione programmatica dei suoi imminenti sviluppi.

Si pensava allora a criticare l’ordine capitalistico, più che a precisare la via per giungere all’ordine nuovo comunista. Oggi che la rivoluzione iniziata ci pone sull’orlo di questo problema, e ne dà una soluzione per noi classica insurrezione per la conquista del potere politico e dittatura del proletariato l’azione elettorale non è più un terreno di propaganda, perché il fatto della partecipazione concreta alla democrazia rappresentativa distruggerebbe ogni astratta propaganda per la dittatura proletaria.

Allora l’elezionismo era l’unica possibile forma di concretare la politica proletaria. Essa ha dato tremende delusioni; tuttavia evitarlo poteva voler dire incoraggiare nel proletariato il neutralismo o l’indifferentismo politico, spingendolo verso un’attività puramente corporativa e massimalista. Il sindacalismo con la sua bancarotta conferma tutto ciò. Oggi vi è il programma di azione politica che deve prendere il posto dell’antica propaganda nei comizi elettorali: la conquista rivoluzionaria del potere.

Non è più solo programma: è fatto in corso di realizzazione. Io riconosco logico chi non vuole modificare le tavole del partito, non vuole aderire alla terza Internazionale che è un patto di alleanza coi comunisti di tutto il mondo, e che vincitori e vinti nei singoli paesi ed in momenti contingenti sanno che la storia riserva loro una sorte comune ed è per la partecipazione elettorale.

Noi contrapponiamo la incompatibilità programmatica non già tra azione insurrezionale e azione elettorale (che è una incompatibilità di fatto) ma tra la preparazione politica del proletariato alla conquista rivoluzionaria del potere e all’esercizio della dittatura e la preparazione alle elezioni, l’intervento in queste, l’esplicazione dell’attività parlamentare del partito.

Queste due correnti dovrebbero contendersi la prevalenza nel congresso e quindi dividersi per sempre. I compagni massimalisti che vogliono le elezioni si aggirano nelle spire della contraddizione. Ogni loro argomento elettorale distrugge qualcuna delle premesse massimaliste. Quando, come Salvadori, essi si riducono a dire che noi teoricamente abbiamo ragione, ma contingentemente fanno un bel tuffo nel mezzo della tattica massimalista, tutta piena delle eccezioni contingenti al diritto perseguimento della massima finalità.

Ma discuteremo anche gli aspetti contingenti della questione.

A. B.