Partito Comunista Internazionale  
Bilan, 1936

Il problema del Pacifico e il fallimento della Conferenza di Londra

  

Presentazione del 2017

Nel quadro del lavoro che il partito sta affrontando sulla questione dell’attuale confronto tra i maggiori Stati imperialisti, vogliamo ripubblicare un articolo del 1936 tratto da “Bilan”, “Bollettino teorico mensile della Frazione italiana della Sinistra comunista”, che affronta lo scontro tra gli imperialismi nell’area del Pacifico nel periodo che precede lo scoppio della Seconda Guerra mondiale.

L’importanza del Pacifico si pone storicamente solo nell’epoca dell’imperialismo ed in particolare con l’entrata in scena di Stati Uniti e Giappone. La Prima Guerra mondiale non aveva cambiato di molto gli equilibri tra le potenze nell’area: di rilevante solo che il Giappone aveva ottenuto per sé la precedente concessione tedesca in Cina e un mandato sulle colonie tedesche del Pacifico.

Oltre al Giappone e agli Stati Uniti a contendersi la supremazia in quei mari c’era la Gran Bretagna. Il problema del Pacifico e, quindi, dell’Asia era una controversia a tre. Sarà la Seconda Guerra mondiale che decreterà la supremazia incontrastata degli Stati Uniti. Ma fra le due guerre i giochi non erano ancora fatti. È in questo periodo di pace che si preparava il secondo macello mondiale.

Noi marxisti sappiamo che in regime capitalistico la guerra è inevitabile e consideriamo la pace imperialista come un periodo di preparazione per la prossima guerra. Per questo motivo non ci illudiamo, come non ci siamo mai illusi, con i sogni dei pacifisti piccolo-borghesi sul disarmo e sulla capacità di perseguire la pace e il controllo degli armamenti con dei trattati: gli accordi di pace tra gli imperialisti non sono altro che un momento di respiro tra una guerra e l’altra.

E su queste solide basi marxiste che la Frazione italiana della Sinistra comunista diede il suo giudizio su quelle che furono le conferenze che riguardavano il disarmo navale: Washington (1922) e Londra (1930 e 1936).

* * *

Ancora nella seconda metà degli anni Trenta la Gran Bretagna è al comando del più vasto impero mondiale. Nei territori coloniali del sud-est asiatico ha milioni di sudditi e possiede ricche ed importanti basi e regioni: l’India, la Malesia, la Birmania, Hong Kong, Singapore.

Con il possesso della Malesia, oltre alle sue immense ricchezze naturali, la Gran Bretagna può controllare la base navale di Singapore, fulcro del sistema difensivo britannico in Estremo Oriente. I lavori di costruzione della base, iniziati nel 1923, vengono conclusi nel 1938.

Importante era anche il controllo della Birmania. L’amministrazione coloniale britannica esercitava un potere quasi illimitato su un territorio di 680.000 chilometri quadrati, con una popolazione di 17 milioni di abitanti. Oltre che per le sue risorse, la Birmania serviva alla Gran Bretagna per proteggere da un’invasione via terra il fianco orientale della grande colonia indiana. Il paese aveva 1.600 chilometri di confine con la Cina e altrettanti con l’India.

L’India con i suoi 384 milioni di abitanti concentrati su 4 milioni di chilometri quadrati era il più importante possedimento coloniale britannico, e le sue frontiere orientali saranno il luogo di uno dei conflitti più violenti della Seconda Guerra mondiale.

Per questo stato di cose la Gran Bretagna si troverà al centro dei combattimenti che scoppieranno nel Pacifico alla fine del 1941, ma, in ragione della maggiore vicinanza geografica del pericolo tedesco, la guerra in Asia non sarà mai una priorità per i britannici.

Gli Stati Uniti per motivi storici non avevano partecipato alla prima fase della colonizzazione in Asia; erano intervenuti in modo abbastanza marginale nel processo di inserimento coatto dell’Asia orientale nei meccanismi del mercato mondiale, utilizzando soprattutto strumenti giuridici ed economici che estendevano a tutte le potenze i vantaggi ottenuti da chi per primo aveva portato l’attacco.

Impegnati dalla guerra di Secessione e dalle sue conseguenze economiche, non avevano potuto sfruttare appieno il successo iniziale del commodoro Perry, che nel 1853 impose al Giappone di aprire alcuni suoi porti al commercio statunitense.

Ma la colonizzazione della costa occidentale dell’America, alla metà del secolo XIX, li aveva fatti una potenza affacciata sul Pacifico.

Già Marx nel 1850 aveva previsto che lo sviluppo della costa occidentale americana avrebbe comportato uno spostamento dei traffici che avrebbe fatto del Pacifico il centro del mondo:

     «In America è accaduto qualcosa di più importante della rivoluzione di febbraio (1848): la scoperta delle miniere d’oro in California. Sebbene siano passati appena diciotto mesi, già è possibile prevedere che tale avvenimento avrà effetti più sconvolgenti della scoperta stessa dell’America.
     «Per trecentotrenta anni tutto il commercio diretto nel Pacifico era stato condotto con commovente e sofferta pazienza, attorno al Capo di Buona Speranza o da Capo Horn. Tutti i progetti di praticare un’apertura nell’istmo di Panama erano falliti a causa delle rivalità e delle invidie meschine tra le Nazioni commercianti. Diciotto mesi dopo la scoperta delle miniere d’oro in California, gli yankees avevano già cominciato a costruire una ferrovia, una grande strada e un canale sul Golfo del Messico. E già esiste una linea regolare di battelli a vapore da New York a Chagres, da Panama a San Francisco, mentre il commercio con il Pacifico si sta concentrando su Panama, rendendo obsoleta la rotta di capo Horn. Il vasto litorale della California, di 30 gradi di latitudine, uno dei più belli e più fertili del mondo, quasi disabitato, si sta per trasformare presto in un ricco Paese civilizzato, densamente popolato da uomini di tutte le razze, yankees e cinesi, negri, indios e mulatti, creoli e meticci, europei. L’oro californiano scorre abbondante per l’America e lungo la costa asiatica del Pacifico, e sta spingendo i riluttanti barbari al commercio mondiale e alla civilizzazione. 
     «Per la seconda volta il commercio mondiale cambia direzione. Quello che erano nell’antichità Cartagine, Tiro, Alessandria, nel Medio evo Genova e Venezia, e attualmente Londra e Liverpool, cioè gli empori del commercio mondiale, saranno nel futuro New York e San Francisco, San Giovanni del Nicaragua, e Leon, Chagres e Panama. Il centro di gravità del mercato mondiale era l’Italia nel medioevo, l’Inghilterra nell’era moderna, e la parte meridionale dell’appendice Nord-Americana oggi
     «Grazie all’oro californiano e all’inesauribile energia degli yankees, i due lati del Pacifico saranno in breve tempo tanto popolati e tanto attivi nel commercio e nell’industria quanto la costa da Boston a New Orleans. L’Oceano Pacifico svolgerà nel futuro lo stesso ruolo che ha svolto l’Atlantico nella nostra era, e che era del Mediterraneo nell’antichità: una grande via marittima del commercio mondiale, e l’Atlantico sarà al livello di un mare interno, come oggi è il caso del Mediterraneo» (“Neue Rheinische Zeitung”, 2 febbraio 1850).

Nel 1867 gli Stati Uniti acquistarono dai russi l’Alaska, poi sottomisero al loro controllo le Hawaii completandone l’annessione nel 1898 e intervennero anche nella grande corsa per la spartizione della Cina nel 1899. Ma la vera svolta avvenne con la guerra contro la Spagna che gli Stati Uniti combatterono nel 1898 per assicurarsi il predominio nei Caraibi: un effetto della vittoria fu la conquista statunitense delle Filippine.

In Asia, quindi, gli Stati Uniti controllavano le Hawaii, Guam e le Filippine.

Durante la Prima Guerra mondiale, e soprattutto dal 1916 in poi, gli Stati Uniti avevano notevolmente potenziato la loro flotta da guerra, e continuarono a farlo dopo. Inevitabilmente le altre due potenze, Gran Bretagna e Giappone, che si sentivano minacciate dal riarmo americano, iniziarono a loro volta una corsa agli armamenti, tanto che già pochi anni dopo la fine dell’ultima guerra sembrava imminente lo scoppio di un’altra. La Prima Guerra mondiale aveva dato conseguenze quasi esclusivamente in Europa, nell’area del Pacifico era rimasto quasi tutto immutato: una nuova spartizione era inevitabile.

Gli Stati Uniti, in quel tempo, temevano una possibile alleanza tra la Gran Bretagna e il Giappone, e ciò spinse gli americani a proporre una tregua degli armamenti per qualche anno. Così si arriva alla conferenza di Washington del 1922. Il vero significato di questa conferenza era stato magnificamente colto dall’Internazionale Comunista, che nel 1922 ancora non era caduta nel tradimento staliniano. Nel novembre del 1922 il Quarto Congresso del Comintern approvava le Tesi sulla questione orientale. Ne riportiamo alcuni passi dalla tesi VII, I compiti del proletariato nei paesi del Pacifico:

     «L’esigenza di dare forma organizzata al fronte unico antimperialista è dettata, inoltre, dal continuato ed ininterrotto aggravarsi delle rivalità imperialistiche. Queste sono ormai giunte a un tale grado di intensità da rendere inevitabile una nuova guerra mondiale, che avrà il Pacifico come campo di battaglia, a meno che non venga preventivamente impedita dalla rivoluzione internazionale. La conferenza di Washington ha rappresentato un tentativo di scongiurare il pericolo incombente, ma in effetti essa non ha che approfondito ed aggravato le contraddizioni imperialistiche (...) La nuova guerra da cui il mondo è minacciato coinvolgerà non soltanto il Giappone, l’America e l’Inghilterra, ma anche altri Stati capitalistici (Francia, Olanda ecc.). Essa minaccia distruzioni persino maggiori di quelle della guerra del 1914-18».

Nel 1930 una nuova conferenza, a Londra, fu rivolta alla limitazione del riarmo navale. Il trattato navale di Londra fu un accordo tra Regno Unito, Giappone, Francia, Italia e Stati Uniti d’America, firmato il 22 aprile 1930, che regolava la guerra sottomarina e limitava la costruzione di armamenti navali.

Ma nel corso degli anni Trenta, mentre il Giappone iniziava una politica sempre più aggressiva in Asia, gli Stati Uniti e anche la Gran Bretagna, a causa della crisi del 29 e di una distensione nelle loro reciproche relazioni, avevano rallentato il ritmo delle costruzioni navali. Nel 1934, il Giappone denunciava i trattati sulle limitazioni navali: la conferenza di Londra del 1936 non poté che rivelarsi un completo fallimento.

Lo scoppio di un conflitto in Asia ormai era inevitabile. Mentre Stati Uniti e Gran Bretagna avevano bisogno di tempo per prepararsi allo scontro, il Giappone aveva tutto l’interesse ad una guerra in tempi brevi. Poiché, come sottolineato nell’articolo, il tempo poteva solo favorire i suoi avversari, fu il Giappone ad iniziare una nuova spartizione delle regioni asiatiche.

Alla fine del 1929 arrivarono in Giappone le conseguenze della grande crisi, aggravate dai dazi del 23% imposti dagli Stati Uniti sulle merci giapponesi nel 1930. In Giappone furono travolti i settori più deboli e in primo luogo l’agricoltura. La disperazione dei contadini, dovuta al crollo del prezzo del riso e già afflitti dalle pesanti condizioni di affittanza e dalla mancanza di terra, aumentava in quanto sulle campagne ricadevano le conseguenze della chiusura delle fabbriche col ritorno dei lavoratori licenziati ai paesi d’origine.

Anche il settore industriale subiva pesanti perdite. Crollavano i prezzi delle merci, le esportazioni si dimezzavano e si susseguivano i fallimenti. I disoccupati salirono a circa 3 milioni.

Per far riprendere l’economia fu molto aumentata la spesa pubblica. Gli interventi di stimolo all’economia consentirono al Giappone di uscire dalla crisi prima degli altri paesi capitalistici e segnarono una tappa decisiva nella trasformazione del Giappone, che solo negli anni Trenta acquisì le strutture di un paese moderno: la produzione industriale, fatto 100 il 1930, era a 205 nel 1936, ma aveva mutato caratteristiche perché il tessile (al 50% nel 1929, al 35% nel 1937) aveva ceduto il posto all’industria pesante.

Il fattore trainante di questa ripresa economica furono le spese militari. Queste avevano sempre gravato sul bilancio statale giapponese: all’inizio degli anni Venti erano state ridotte dal 40% del 1922 al 30% del 1925; dopo la crisi ripartirono in fretta, dal 37,6% nel 1932 al 39,2% nel 1933, al 44,2% del 1934, al 46,8% del 1935, e continuarono a salire negli anni seguenti. Il riarmo divenne il principale obiettivo dello Stato.

Inoltre il Giappone aveva anche un problema demografico da risolvere: a metà degli anni Trenta contava circa 70 milioni di abitanti e tra il 1935 e il 1940 venne registrato un elevato tasso di aumento della popolazione, pari al 5,6% annuo. Una politica estera sempre più aggressiva, oltre ad essere l’unica via d’uscita dalla crisi economica, serviva ad attenuare le tensioni sociali effetto della crisi e contribuiva a risolvere i problemi derivanti da un massiccia crescita demografica.

All’inizio degli anni Trenta il Giappone, toccato duramente dalla grande crisi a causa dei legami con l’industria americana, spostava progressivamente la sua attenzione verso i mercati asiatici, considerati come propria sfera d’influenza.

L’espansionismo giapponese affonda le sue radici nel periodo Meiji: 1879 annessione del regno delle isole Ryukyu; 1895 trattato di pace di Shimonoseki che riconosce l’occupazione di Taiwan sottratta all’agonizzante impero cinese.

Con la vittoria del 1905 sulla Russia zarista il Giappone acquisisce un indiscutibile prestigio e ruolo in tutta l’Asia. E con la fine della Prima Guerra mondiale conquista una posizione ancora più forte, che gli dava diritto a un posto di pari importanza a quello delle maggiori potenze mondiali.

Ben presto tale ruolo si mutò in una politica annessionistica che iniziò dalle pretese avanzate sulla Manciuria e dal dislocamento di truppe in quell’area a partire dal 1919. A quel tempo il Giappone aveva già assorbito la Corea, dal 1910, facendone praticamente una colonia e avviando una decisa politica di assimilazione. Nel settembre del 1931 il Giappone si impossessò della Manciuria. Indifferente alle risoluzioni della Società delle Nazioni, che chiedevano l’immediata evacuazione della regione, il Giappone decideva nel marzo del 1933 di uscire dall’organismo internazionale.

Col 1931 iniziava lo smembramento della Cina: l’aggressione giapponese si abbatteva sulla Manciuria, sulle quattro province cinesi del nord-est e su Shanghai. Nel febbraio del 1932 la campagna militare giapponese si concludeva, e da essa nasceva lo stato fantoccio del Manchukuo. Cinque anni dopo, nel luglio del 1937 il Giappone cercò di estendere il suo dominio all’intera Cina: nell’arco di due mesi, da luglio a settembre, le truppe giapponesi sul territorio cinese passarono da 10 mila a 200 mila uomini. Nella tragica occupazione di Nanchino il militarismo giapponese massacrò circa 250 mila abitanti, un primo esempio dei massacri che negli anni successivi, durante la Seconda Guerra mondiale, coinvolsero milioni di civili su tutti i fronti. Con l’invasione della Cina il Giappone diede inizio alla guerra in Asia Orientale, che in pochi anni si allargherà in guerra del Pacifico.

Se al momento della conferenza di Londra del 1936 il Giappone era avanti nel riarmo, e ciò gli permetterà di espandersi abbastanza velocemente nelle regioni asiatiche, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna ben presto seguiranno la stessa strada. Nell’articolo viene individuato nel 1942 l’anno in cui Stati Uniti e Gran Bretagna saranno in grado di realizzare in pieno il proprio riarmo. Se fino al 1942 i giapponesi avranno una supremazia netta nelle acque del Pacifico, conquistando le Filippine, l’Indocina, la Birmania, la Malesia, l’Indonesia, Singapore, dalla metà di quell’anno inizierà la controffensiva degli Alleati, soprattutto degli Stati Uniti. Il primo successo degli Alleati si verificò con le battaglie navali del Mar dei Coralli (maggio 1942) e delle Midway (giugno 1942), cui seguirono numerose altre vittorie sulle forze terrestri e navali giapponesi, che porteranno nel 1945 alla completa disfatta del Giappone segnata anche dal bombardamento atomico su Hiroshima e su Nagasaki da parte degli Stati Uniti.

* * *

Nel 1936, al tempo della conferenza di Londra, per i nostri compagni era chiaro che il problema del Pacifico, e quindi dell’Asia, poteva essere risolto solo mediante un conflitto che avrebbe coinvolto le maggiori potenze imperialistiche presenti nell’area: Gran Bretagna, Stati Uniti e Giappone.

Il riarmo, in particolare quello navale, delle potenze imperialiste di cui si parla nell’articolo, doveva servire «per prepararsi meglio alla seconda deflagrazione mondiale», perché solo una guerra poteva risolvere il problema di una nuova spartizione delle colonie e dei mercati.

Questo  ci porta a delle considerazioni sulla situazione attuale nell’area del Pacifico.

Nelle acque del Pacifico si svolge gran parte del commercio mondiale, e controllare quelle rotte diviene un importante fattore strategico. Per contro per gli stretti di Malacca e della Sonda transita il 40% del commercio mondiale. Il controllo degli arcipelaghi o delle isole poste lungo queste rotte è il principale obiettivo. Ciò sta facendo salire la tensione tra gli Stati che si affacciano su quelle acque, soprattutto nel Mar Cinese Meridionale.

Scrivevamo nel 1936: «Ogni guerra, navale o terrestre è una questione di posizioni, soprattutto quando si tratta di un enorme teatro come quello del Pacifico».

Oggi questa guerra di posizionamento è ritornata e sta facendo scricchiolare gli equilibri nelle acque dei mari cinesi. Nei numeri precedenti del giornale abbiamo parlato di questa guerra di posizionamento (Isole Paracel, Scarborough, Isole Spratly, Senkaku), in un confronto faccia a faccia tra briganti vecchi, USA e Giappone, e nuovi, la Cina.

La Rotta Imperiale britannica, di cui si parla nell’articolo, mostra una certa affinità con il filo di perle cinese: istallare basi militari soprattutto nei punti critici per proteggere le rotte commerciali e per interesse strategico. E come in quel periodo anche oggi gli Stati Uniti e la Cina stanno rinforzando e creando nuove basi militari nel Pacifico. E il riarmo descritto nell’articolo è anche oggi all’ordine del giorno: abbiamo riportato i dati sul riarmo nell’area del Pacifico, dove protagonisti sono, non solo i maggiori briganti imperialisti, USA e Cina prima di tutto, e il Giappone, ma anche gli altri Stati della regione, dal Vietnam all’Australia.

La situazione ha delle caratteristiche sicuramente diverse rispetto a quella degli anni Trenta, ma il problema di fondo dell’imperialismo rimane invariato: il riarmo anticipa una nuova guerra, che è l’unica via d’uscita dalla crisi del capitalismo. Questo riarmo annuncia una nuova spartizione mondiale e il Pacifico sarà il principale teatro del prossimo scontro tra gli imperialismi.

Ma in quest’area, oggi, c’è un gigante che può fermare la prossima carneficina: nelle metropoli dell’Asia una forza proletaria sterminata e compatta, unita al proletariato internazionale, potrà rigettare ogni appello alla difesa nazionale e alzare la bandiera del disfattismo rivoluzionario e della rivoluzione proletaria mondiale.

  

  

Il problema del Pacifico e il fallimento della Conferenza di Londra
“Bilan”, Bollettino teorico mensile della Frazione italiana della Sinistra Comunista, n.27, gennaio‑febbraio 1936, Le problème du pacifique et la faillite de la conférence de Londres

 

Nei secoli passati l’Oceano Pacifico fu teatro delle guerre di pirati, la “guerra di Corsa” degli Olandesi e soprattutto degli Inglesi contro l’Impero coloniale della Spagna. Nessun paese si sognava in quell’epoca di occupare effettivamente quelle isole che furono scoperte quasi tutte nella seconda metà del XVIII secolo.

Anche nel continente australiano le prime installazioni inglesi furono delle colonie penitenziarie, come fece più tardi la Francia nella Nuova Caledonia. Quando nel XIX secolo si passò all’occupazione definitiva delle isole del Pacifico, furono solo le potenze europee, Inghilterra in testa, ad approfittarne.

Il problema del Pacifico non si pose nella sua interezza che con l’entrata in scena di due grandi potenze rivierasche del Pacifico, gli Stati Uniti e il Giappone. I primi con l’annessione dichiarata unilateralmente delle isole Hawaii nel 1898, con l’occupazione delle isole Filippine e dell’isola di Guam, nell’arcipelago delle Marianne, dopo la sua vittoria sulla Spagna nel 1898. Il secondo che aveva occupato solo Bonin nel 1876 e Vulcan nel 1891 (piccolo isolotto nel Pacifico settentrionale) dopo la sua vittoria contro la Cina, nel 1894-95 e contro la Russia nel 1904-1905 che gli portò Formosa con le Pescadores, la metà meridionale di Sakhalin e l’occupazione effettiva della Corea. L’apertura del Canale di Panama nel 1914 rappresentò soprattutto la possibilità per gli Stati Uniti di accentuare le loro pretese nel Pacifico.

La guerra mondiale non fece che accentuare in Estremo Oriente i vantaggi acquisiti da questi due paesi extra europei, soprattutto quelli del Giappone che ottenne in proprio la concessione tedesca in Cina e un mandato sulle altre colonie tedesche nel Pacifico: le isole Caroline, le Marshall e le Marianne, arrivando così ad insinuarsi tra i possessi nord americani delle Hawaii e delle Filippine.

A causa di questi avvenimenti si acuirono i contrasti, fino ad allora latenti, tra queste due potenze. I primi segnali di questo scontro si erano già manifestati negli anni precedenti la guerra mondiale con l’ostilità degli Stati Uniti per l’immigrazione giapponese alle Hawaii e in California e con il principio della politica della “Porta aperta” affermata nel 1899 da Hay al fine di impedire ogni pretesa di monopolio del Giappone sulla Cina.

L’Inghilterra appoggiava il Giappone perché nella contesa anglo-americana per la supremazia dei mari, essa trovava nel Giappone un alleato contro le minacce americane e anche contro quelle della Russia sovietica che, con la sua politica verso la Persia e l’Afghanistan, sembrava minacciare la potenza di Londra nelle Indie. Ma la rivalità anglo-americana restò l’antagonismo più acuto nell’immediato dopoguerra.

Durante la guerra questo conflitto aveva preso la forma di un contrasto tra gli Stati Uniti, che sostenevano la libertà di commercio dei paesi neutrali con i belligeranti, e l’Inghilterra che vi si opponeva. Nel 1916 il Congresso americano si era pronunciato per “una flotta superiore a tutte le altre” e aveva adottato un programma navale che prevedeva la costruzione di 156 unità di tutti i tipi compresi i “dreadnoughts” di un tonnellaggio e di un armamento superiore a quelli delle altre flotte. Per questo programma era stata stanziata una somma pari a 100 milioni di dollari.

L’entrata in guerra degli Stati Uniti, nel 1917, a fianco dell’Intesa fece aggiornare questo programma, ma già nel 1919 nello stesso tempo in cui rifiutavano di ratificare il Trattato di Versailles e di partecipare alla Società delle Nazioni, gli Stati Uniti decisero di proseguire la realizzazione del programma del 1916 aumentando di 52 unità il numero delle navi previste.

Tutto questo si spiega col fatto che gli USA dovevano mantenere la loro supremazia acquisita durante la guerra mondiale, non soltanto per lo sviluppo del loro apparato economico ma soprattutto per la formazione di una potente flotta capace di tener testa agli altri imperialismi.

Nella fase imperialista, ogni volta che una potenza aumenta i suoi armamenti, automaticamente i capitalismi che si sentono minacciati rispondono allo stesso modo; è quello che fecero l’Inghilterra e il Giappone. L’Inghilterra si sentì direttamente minacciata nella sua tradizionale supremazia navale. Il Giappone comprese che la nuova flotta risolveva il più importante dei problemi per l’imperialismo americano, cioè il controllo del Pacifico. Di conseguenza, per non parlare che delle unità più potenti, mentre l’Inghilterra metteva in cantiere 12 navi di cui 4 gigantesche, di più di 50.000 tonnellate, il Giappone da parte sua decideva la costruzione di 8 grosse navi, di un tonnellaggio uguale e anche superiore a quello degli americani. Per conseguenza, nel corso dell’estate del 1921, si assistette ad una vera corsa agli armamenti in confronto alla quale la corsa simile tra l’Inghilterra e la Germania prima della guerra, non era stata che un gioco da ragazzi.

E la situazione continuò ad aggravarsi a tal punto che due anni dopo la fine dell’“ultima guerra” nuove minacce di un altro conflitto mondiale già si profilavano.

Ogni guerra, navale o terrestre, è una questione di posizioni, soprattutto quando si tratta di un enorme teatro come quello del Pacifico. Le navi devono poter essere rifornite e riparate; d’altra parte ogni potenza deve essere sicura delle sue basi di operazioni e della libertà delle sue comunicazioni. Per garantirsi da possibili interruzioni alle sue linee di comunicazione verso l’Oriente, la Gran Bretagna dispone della “Rotta Imperiale” che si appoggia su Gibilterra, Malta, Porto Said, Aden, Ceylon e Singapore.

Gli Stati Uniti, già prima della Conferenza di Washington, avevano rinforzato le loro basi delle isole Hawaii e Samoa e ne avevano create delle nuove all’isola di Guam e alle Filippine. Ma furono soprattutto i tentativi che essi fecero nei confronti della Cina per l’ottenimento di una base continentale sulle coste del Fu-Kien che dovevano allarmare il Giappone, che avrebbe risposto trasformando le isole “sotto mandato” in basi militari.

Tuttavia, benché le spese navali americane siano triplicate dopo la fine della guerra, e che in poco tempo essi abbiano speso più della Germania per la sua flotta nel corso dei 25 anni che avevano preceduto la guerra mondiale, gli Stati Uniti non erano ancora certi di aver sorpassato nella corsa agli armamenti l’Inghilterra e il Giappone. Al contrario sussisteva il rischio di vedere queste due flotte unite contro di loro, in dispetto delle riserve in loro favore previste nel Trattato di alleanza Anglo-Giapponese.

A tutto questo bisogna aggiungere il problema del Canale di Panama di cui parleremo in seguito.

Tutte queste ragioni convinsero gli Stati Uniti a proporre una tregua degli armamenti per qualche anno. Fu, dunque, la Conferenza di Washington che doveva permettere alle potenze navali di prepararsi al meglio per il prossimo conflitto.

Si cominciò con la limitazione degli armamenti navali perché la guerra navale era considerata come decisiva per il prossimo conflitto e perché si trattava del problema più complesso. La Gran Bretagna, La Francia e l’Italia, cioè i “paesi vittoriosi” erano spossati mentre l’intera Europa usciva vinta dal conflitto rispetto all’America.

La Gran Bretagna doveva, d’altra parte, tener conto dell’opinione dei Dominions che avevano partecipato alla grande guerra, come l’Australia che temeva l’organizzazione militare del Giappone e il Canada, orientato verso gli Stati Uniti e che si oppose ad un’alleanza che avrebbe potuto trascinare l’Inghilterra in un conflitto a fianco del Giappone contro gli Stati Uniti.

Da parte sua la Francia, con i suoi possedimenti in Oceania, particolarmente l’Indo-Cina, aveva ogni interesse a vedere regolare la situazione del Pacifico.

E in tutti i Paesi, durante questa battaglia imperialista, il proletariato stava dalla parte dell’Unione Sovietica che nel 1922 non era ancora diventata il più solido appoggio alle manovre inter-imperialiste.

Per arrivare ad un accordo per la limitazione degli armamenti navali gli Stati Uniti convocarono una conferenza delle cinque principali potenze marittime dell’epoca (Impero britannico, Stati Uniti, Giappone, Francia e Italia), Questa conferenza arrivò all’Accordo di Washington del 1922 che fissò una prima riduzione dei vascelli di linea e determinò i coefficienti 5; 5; 3; 1,7; 1,7 rispettivamente per il tonnellaggio globale delle flotte britannica, americana, giapponese, francese e italiana. Benché non limitata ai problemi del Pacifico, questa conferenza ebbe per questi imperialismi un significato decisivo a causa dell’abolizione dell’alleanza anglo-giapponese che era stata fino ad allora il fattore determinante in quei mari, attraverso la fissazione del rapporto 5, 5, e 3 per le flotte rivali degli Stati Uniti, dell’Inghilterra e del Giappone.

Infine l’accordo del 1922 ebbe una certa importanza per la smobilitazione della superficie marina compresa tra le basi marittime delle isole Hawaii (Stati Uniti), Singapore (Inghilterra) e le coste del Giappone.

Inoltre il solo obbligo politico contrattato durante la Conferenza fu il trattato delle quattro potenze direttamente interessate (Impero britannico, Stati Uniti, Giappone e Francia) che si impegnarono a rispettare lo statu quo nelle loro colonie e possedimenti sotto mandato nel Pacifico: complemento del Trattato detto delle nove potenze che avrebbe dovuto garantire l’integrità della Cina sulla base della “Porta aperta” praticata dalle potenze firmatarie.

Gli accordi di Washington portarono all’attenuazione della rivalità anglo-americana per la supremazia navale con il raggiungimento di un compromesso nel quale ciascuno dei briganti imperialisti vedeva un suo personale vantaggio: gli Stati Uniti dalla fine dell’alleanza anglo-giapponese considerata pericolosa per loro, la Gran Bretagna dalla rinuncia, almeno momentanea, del programma americano di supremazia navale e il Giappone che, benché avesse ottenuto il rango di potenza di terzo ordine  nella marina mondiale, si trovava favorito perché non aveva da salvaguardare che un solo fronte, quello del Pacifico mentre gli Stati Uniti dovevano proteggere due fronti oceanici e la Gran Bretagna doveva vegliare sulla sicurezza delle sue immense linee di comunicazione in tutti i mari.

Il Trattato di Washington era valido fino al 31 dicembre 1936 e rinnovabile per tacito consenso. La facoltà di denunciarlo era lasciata a ciascuna delle parti, dando un preavviso di due anni. Più tardi, nel 1930, si tenne una nuova conferenza navale a Londra, dove la Gran Bretagna e gli Stati Uniti perfezionarono il loro accordo sulla parità navale con la fissazione del tonnellaggio delle categorie inferiori che non erano rientrate nell’Accordo di Washington. Anche questo accordo supplementare veniva a scadere il 31 dicembre 1936. Ma, se con questi accordi si determinò una distensione nella rivalità anglo-americana, le rivalità nel Pacifico crescevano di continuo con l’offensiva giapponese che portò all’uscita del Giappone dalla Società delle Nazioni e con la denuncia, che ebbe luogo nel dicembre 1934, del Trattato di Washington.

La distensione raggiunta tra l’Inghilterra e gli Stati Uniti e la crisi economica avevano rallentato il ritmo delle costruzioni navali consentite a queste due potenza dagli accordi suddetti. Il Giappone, invece, aveva fatto pieno uso del suo diritto a rimpiazzare i suoi vecchi navigli in modo che il rapporto di 65% che avrebbe dovuto sussistere tra il tonnellaggio della sua flotta da guerra con quella delle due potenze rivali, si trovava ad essere invalidato se si contavano i navigli realmente efficienti, ciò che era d’altronde essenziale. Una flotta sempre più potente era d’altronde indispensabile al Giappone per appoggiare la sua politica sempre più aggressiva in Estremo Oriente (presentata come la sola via d’uscita dalla crisi economica e dalla crescita demografica) traducendosi nella sua aggressione alla Manciuria, alla Cina del Nord, alla Mongolia, seguendo le direttive del famoso programma di Tanaka.

Poiché il tempo può solo favorire i suoi avversari (la Russia, la Cina attualmente impotente, gli Stati Uniti), il Giappone che ha una situazione interna delle più instabili, in crisi a causa di una esasperata industrializzazione, minacciato dalla catastrofe finanziaria, sempre di più intravede la sola via d’uscita in una guerra in tempi brevi.

Gli altri Paesi hanno, al contrario, ogni interesse a guadagnare tempo per prepararsi meglio alla seconda deflagrazione mondiale. È questo che spiega la Conferenza di Londra che si tiene attualmente e che ha già ricevuto un primo colpo con l’abbandono della conferenza da parte del Giappone.

È chiaro che, specialmente dopo lo scacco della Conferenza sul disarmo di Ginevra e della Conferenza navale a tre dell’anno passato a Londra, gli Stati Uniti, l’Inghilterra e il Giappone, dopo la sua richiesta di tonnellaggio globale uguale alle altre due potenze, hanno riattivato il ritmo della loro preparazione navale.

La risposta immediata degli Stati Uniti alla richiesta di parità navale avanzata dal Giappone, visto anche che quest’ultimo si era rifiutato, dopo la sua uscita dalla Società delle Nazioni, di restituire le colonie che erano state trasformate in basi per sottomarini, fu la “dimostrazione” del passaggio di quasi tutta la flotta americana dall’Atlantico al Pacifico: 180 navi da guerra l’hanno effettuata senza incidenti in 40 ore. Ma il Canale di Panama è esposto agli attacchi aerei e per di più è impraticabile per i colossi del mare di 10.000 tonnellate e più. Da qui la necessità di una seconda grande via di comunicazione tra il Pacifico e l’Atlantico rappresentata dal progetto del Canale del Nicaragua.

Sono cento anni che il Senato americano ha approvato la eventuale costruzione di questo canale e sono passati venti anni da quando un trattato col Nicaragua ha assicurato agli Stati Uniti il diritto perpetuo ed esclusivo alla costruzione di questo canale.

Allo stato attuale il Canale di Panama permette un transito annuale nelle due direzioni di navigli di un tonnellaggio globale di 70 milioni, l’80% della sua capacità massima, e i lavori di miglioramento progettati per 150 milioni di dollari permetterebbero di aumentare questa capacità di altri 50 milioni all’anno. Ma a causa delle necessità militari si finirà per spendere un miliardo di dollari per il nuovo canale di una capacità massima di 80 milioni di tonnellate per anno.

Ciononostante altre ragioni determinarono gli Stati Uniti e l’Inghilterra a cercare una nuova tregua di qualche anno e questo perché le loro flotte sono lontane dall’aver raggiunto i limiti massimi consentiti dai trattati. La costruzione di grandi unità richiede dai 3 ai 4 anni. Le unità inferiori richiedono da 2 a 3 anni. Così il programma di incremento navale americano, cominciato con l’esercizio 1934-35, non sarà realizzato in pieno che nel 1942. Anche la Gran Bretagna ha adottato un programma di costruzioni navali diluito su 7 anni che porterà nel 1942 ad un aumento di 296 navi per un totale di un milione e mezzo di tonnellate.

Dunque nel momento in cui la denuncia del Giappone mette fine agli accordi di Washington, mentre gli accordi di Londra scadranno nel 1937, gli Stati Uniti come l’Inghilterra si troveranno con la flotta che non avrà ancora raggiunto l’efficienza che era consentita dai trattati. Naturalmente per far fronte a tutti gli avvenimenti, cioè alla possibilità del vicino scoppio di un nuovo conflitto mondiale, tutti i Paesi stanno procedendo alla costruzione intensiva della loro flotta aerea e gli Stati Uniti, seguendo le ultime decisioni, ne possiederanno una di 4.500 apparecchi.

Ogni imperialismo resta, evidentemente a parole, partigiano del “disarmo” ma, per ciascuno di essi, disarmo significa abolizione delle specialità che sono per esso particolarmente dannose e che l’avversario possiede.

Così il Giappone sostiene la limitazione della dimensione delle navi e l’abolizione delle portaerei, per garantirsi dalla minaccia americana; gli Stati Uniti vorrebbero limitare i sottomarini, pericolosi per una grande flotta che deve agire a grande distanza dalle sue basi, l’Inghilterra, che deve proteggere le sue immense linee di comunicazione, richiede piuttosto la necessità di numerosi navigli piccoli e medi che un numero limitato di grandi navi da battaglia, il contrario di ciò che richiedono gli Stati Uniti, la Francia e l’Italia. Tutte le grandi potenze navali vorrebbero l’abolizione dei sottomarini che sono l’arma delle potenze più deboli. Ma senza dubbio la Conferenza di Londra riuscirà nuovamente a trovare un compromesso su alcuni punti secondari centrati su alcune limitazioni quantitative rapportate alle dimensioni delle navi e dei cannoni, il quantitativo del tonnellaggio globale restando invariato.

La situazione generale si è modificata molto in Europa rispetto a quella che esisteva nel 1922. L’URSS, attraverso la sua entrata nel gioco della competizione imperialista, sta approntando una forte flotta nel Mar Baltico, soprattutto di sottomarini, necessari per raggiungere il mare aperto, fuori dai mari d’Europa che sono chiusi. La Germania, tramite l’accordo anglo-tedesco, ha ottenuto il 35% del tonnellaggio della flotta inglese e presto possiederà una flotta comparabile a quella dell’Italia e inferiore soltanto di un terzo a quella della Francia. Nel Mare del Nord Finlandia, Svezia e Norvegia, nel Mediterraneo Spagna, Turchia, Grecia, Iugoslavia, stanno rinforzando le loro flotte da guerra. Tuttavia la situazione in Europa è meno acuta, anche nel Mediterraneo, di quella dell’Estremo Oriente, nonostante il contrasto anglo-italiano a seguito dell’impresa africana.

Il problema più minaccioso è oggi la controversia triangolare britannico-americana-giapponese cioè il problema del Pacifico, o meglio dell’Asia.

E questo conflitto si incastra nell’altro, più generale, per la nuova spartizione mondiale delle colonie e dei mercati perché non è solo il mercato cinese che è in gioco. Se l’America riesce ad assicurarsi una base di operazioni nel continente asiatico, e questo risultato non potrà ottenerlo che schiacciando il Giappone, essa potrà passare alla fase successiva del suo programma imperialista: scacciare dall’Asia il suo grande rivale, la Gran Bretagna.