Partito Comunista Internazionale  



Imperialismo e lotte dei popoli coloniali nella sanguinosa esperienza dell’Indonesia

Dalle origini al 1920
 

(Il Programma Comunista, n.1-5,7-9, 1967)




1) L’Indonesia precoloniale
2) L’Impero commerciale portoghese: Aurora dell’era della produzione capitalistica
3) La prima fase del sistema coloniale olandese: L’epoca della manifattura
4) Seconda fase del sistema coloniale olandese: L’intermezzo “giacobino” e l’era della grande industria
5) Il sistema Van den Bosch
6) Prime conclusioni dello studio sulla Indonesia e la genesi del capitalismo: a. La definizione leninista dell’imperialismo -b. La legge agraria del 1870: Definitiva distruzione della proprietà comune di villaggio -c. L’accaparramento del petrolio indonesiano da parte dei trust -d. Il movimento politico e sociale in Indonesia dal 1908 al 1920

 

Il bagno di sangue proletario da cui esce, o meglio è ancora sprofondata l’Indonesia, è l’ultimo anello di una tragica catena che ci proponiamo qui di documentare, ad illustrazione della pirateria capitalistica e a riconferma del programma rivoluzionario marxista.

Il vastissimo arcipelago che forma l’attuale Indonesia (3.000 isole, di cui solo 1.000 abitate) appare dal punto di vista del clima, della fauna, della flora uno di quegli eldoradi naturali donati dagli dei alla felicità dell’uomo. Su 1.900.000 km² da Sabang a nord di Sumatra fino a Merauke nella Nuova Guinea Occidentale vivono 82.500.000 abitanti, alla densità media di 44 abitanti per km² (cifre del 1958). La temperatura è costante e uniforme (26,2° a Pontianak a nord-ovest di Kalimantan e a Kupang nell’isola di Timor; a Djakarta 26,4° in maggio e 25,5° in gennaio), e ancor oggi il 70% della superficie delle isole orientali è ricoperto di foreste (l’80% a Kalimantan, il 60% a Sumatra, il 25% a Giava).

Ma già le cifre che forniscono la densità della popolazione offrono un’idea degli sconvolgimenti storici cui sono soggiaciute le popolazioni delle “isole felici”. Se la densità media è di 44 ab. per km², essa tocca gli 80 nelle Molucche, i 65 nelle isole della Sonda, i 30 a Sulawesi (o Celebes), i 25 a Sumatra, i 7 nel Kalimantan (o Borneo). A Giava si concentrano circa i due terzi della popolazione, con una densità di 410 ab. per km².

Molte cose sono cambiate, certo, per gli abitanti delle “isole felici”, dal periodo in cui su di esse dominava il dispotismo asiatico del regno di Srivijaya, fondato sulle comunità di villaggio fino a quando fu loro imposto, attraverso alterne vicende, infami, sanguinose e feroci, il sistema coloniale, «il dio straniero che salì sull’altare accanto ai vecchi idoli dell’Europa e che un bel giorno con una spinta improvvisa li fece ruzzolar via tutti insieme e proclamò che fare del plusvalore era il fine ultimo e unico dell’umanità» (Karl Marx, Il Capitale, Libro 1, Sez. VII, Capitolo 24).


1) L’Indonesia precoloniale

Tralasciando le congetture intorno all’antichissima permanenza della specie umana nelle isole dell’arcipelago indonesiano (nel 1891 fu scoperto nella pianura di Trinil, a nord-est di Sumatra, il famoso Pitecantropo, un altro venne ritrovato a Giava), soffermiamoci sul periodo che va dal X al XIII secolo, che vide il fiorire del regno di Srivijaya, espressione del dispotismo asiatico e basato sulla tipica comunità di villaggio (dessa) sopravvissuta fino alla fine dell’800. Vedremo poi attraverso quali infamie, con quali metodi feroci, i cristiani colonizzatori, portoghesi, francesi, inglesi, olandesi, riuscirono nel corso di quattro secoli ad inculcare ai contadini delle “isole felici” il principio “naturale” della proprietà privata, obbligandoli col saccheggio, la rapina, il massacro, ad abbandonare il sistema tradizionale della comunità di villaggio.

Con la caduta del Regno di Srivijaya, e al sorgere nel XII sec. dell’impero navale costituito dal Regno di Modjopahit, si giunge alla penetrazione dell’Islam nelle isole dell’arcipelago indonesiano. A differenza di quanto avvenne altrove, ad esempio in India, la diffusione dell’islamismo fu rapida e sicura, così che oggi l’88% della popolazione indonesiana è di religione musulmana. Sul piano sociale interno, la nuova religione portò alla scomparsa del sistema delle caste.

A metà del secolo XIII si costituiscono nel nord di Sumatra i primi Stati musulmani. Quando nel 1511 i portoghesi faranno la loro comparsa in queste regioni si troveranno di fronte tre potenti regni musulmani: il sultanato di Atjeh (Sumatra), di Demak (est di Giava), di Ternate (nelle Molucche). Interessante è che le cronache riferiscano come nel 1414 fosse principe di Malacca un musulmano, Mohammed Iskandar Shah: interessante perché la Malacca rappresentava la possibilità di controllare il commercio delle spezie dalle isole dell’est all’India.In realtà, portatori dell’islamismo in Indonesia furono i pirati e i mercanti arabi, persiani e indiani del Sind e del Gujarat. Scopo unico dei regni musulmani di Malacca, di Atjeh, di Demak, di Ternate era difendere il monopolio del commercio delle spezie. Per dare un’idea dei profitti assicurati da tale monopolio ricordiamo che ad esempio il prezzo dei chiodi di garofano (diffuso soprattutto nelle Molucche, a Ternate, Tidore, Halmahera) raddoppiava nel solo viaggio dalle Molucche alla Malacca, e subiva un ulteriore aumento dalla Malacca all’Europa.


2) L’impero commerciale portoghese – Aurora dell’era della produzione capitalistica

Lo svolgimento dell’artigiano in capitalista industriale, nell’Europa del XV secolo, rappresentava un processo troppo lento di fronte alle esigenze commerciali create dal mercato mondiale, allora in via di formazione. Esso procedeva, come scrive Marx nel capitolo citato del Capitale, “a passo di lumaca”; la società feudale nelle campagne, corporativa nelle città, costituivano i suoi limiti. Gli stessi limiti incontravano al loro sviluppo le due forme del capitale che il Medioevo aveva ereditato conservandole da precedenti formazioni economiche: il capitale usurario e il capitale commerciale. Tali barriere dovevano essere spezzate, e lo furono, «con la violenza... levatrice di ogni vecchia società, gravida di una nuova, essa stessa una potenza economica» (Marx, Il Capitale, Libro I, Capitolo 24). «La scoperta delle terre aurifere e argentifere in America, lo sterminio e la riduzione in schiavitù della popolazione aborigena, seppellita nelle miniere, l’incipiente conquista e il saccheggio delle Indie Orientali, la trasformazione dell’Africa in una riserva di caccia commerciale delle pelli nere, sono i segni che contraddistinguono l’aurora dell’era della produzione capitalistica».

Tali le parole di Marx intorno alla «incipiente conquista e saccheggio delle Indie Orientali» realizzati nel corso del XVI secolo dai navigatori portoghesi. Esso segna l’aurora dell’era della produzione capitalistica. Albuquerque, l’avventuriero portoghese conquistatore di Goa nel 1510, occupa nel 1511 la Malacca, impiegando la più brutale violenza contro le popolazioni locali, e invia Francesco Serao nelle Molucche, centro della produzione dei chiodi di garofano. Queste isole avevano già attirato l’attenzione degli spagnoli (nel 1521 vi era approdato Magellano favorevolmente accolto dal sultano di Tidore), i quali le abbandonarono nel 1529.

Nonostante la violenza cui i portoghesi ricorsero nella politica di espansione commerciale (nel 1550 il governatore portoghese fece assassinare il sultano di Ternate, provocando una insurrezione) i metodi da essi impiegati per assicurarsi il monopolio del commercio delle spezie consistevano essenzialmente in una serie di accordi con i regni mussulmani dell’arcipelago. Nel 1521 venne creato un banco portoghese a Ternate; in seguito stipularono compromessi con il sultano di Atjeh per il pepe, e contratti commerciali nelle Molucche con il sultano di Ternate. A questi metodi, si accompagnavano quelli violenti dell’annessione. Timor fu occupata, così a Giava, gli Stati di Gresik, Panarukan e Cheribon (oggi Cirebon). La concorrenza degli altri Stati commerciali europei (gli Spagnoli occuparono le Filippine e fondarono Manila nel 1517, gli inglesi giunsero con Drake a Ternate e ripartivano con ingenti carichi), fece salire enormemente il prezzo delle spezie. Secondo Jean Bruhat, Histoire de l’Indonésie (Presses Universitaires de France, 1958) il prezzo delle spezie sarebbe addirittura triplicato dopo l’arrivo dei portoghesi. Giganteschi profitti furono dunque accumulati nel periodo che corrisponde alla formazione dell’impero commerciale portoghese, grazie al monopolio del commercio delle spezie imposto con la violenza nelle Indie Orientali, e tali profitti si riversarono in Europa, favorendo la genesi del capitale industriale.

Da un lato, il capitale usurario e commerciale europeo aveva trovato, al di fuori degli impacci costituiti dalla costituzione feudale delle campagne e dalla costituzione corporativa delle città, libero campo d’impiego nelle Indie Occidentali: la ferocia dei metodi da esso impiegati apparirà idilliaca, quando la paragoneremo a quella caratteristica del sistema coloniale corrispondente al periodo della manifattura e della grande industria.

Dall’altro lato, i profitti accumulati attraverso il monopolio del commercio delle spezie, riversandosi in Europa passando da Spagna e Portogallo ad Olanda, permetteranno il sorgere delle prime manifatture e del capitale industriale. Scrive Marx, nel citato Capitolo 24 del Capitale: «Con i debiti pubblici è sorto un sistema di credito internazionale che spesso nasconde una delle fonti dell’accumulazione originaria di questo o di quel popolo. Così le bassezze del sistema di rapina veneziano sono ancora uno di tali fondamenti arcani della ricchezza di capitali dell’Olanda, alla quale Venezia in decadenza prestò forti somme di denaro. Altrettanto avviene fra l’Olanda e l’Inghilterra».

Segnando l’aurora dell’era della produzione capitalistica, l’impero commerciale portoghese delle Indie Orientali ne inaugura anche i metodi economici, così come l’alba annuncia i raggi del sole: risulta infatti che i commercianti portoghesi, non paghi del risultato ottenuto facendo triplicare il prezzo delle spezie, quando la produzione locale superava le possibilità di trasporto e le richieste del mercato distruggevano i surplus sul luogo onde evitare una caduta di prezzi. A ragione Camõens poté cantare «il pepe ardente, il fiore essiccato di Banda, la noce moscata e il nero garofano che illustrano la novella isola Molucca». Il “pepe ardente”, in realtà, i commercianti portoghesi lo ardevano quando la sovrapproduzione ne minacciava i prezzi, illuminando con queste e altre fiamme la “novella isola” Molucca.


3) La prima fase del sistema coloniale olandese - L’epoca della manifattura

Marx, dopo di avere enumerato, nel passo citato, «i segni che contraddistinguono l’aurora dell’era della produzione capitalistica», continua: «Queste idilliache vicende sono momenti fondamentali dell’accumulazione originaria. Alle loro calcagna viene la guerra commerciale delle nazioni europee, con l’orbe terracqueo come teatro. La guerra commerciale si apre con la secessione dei Paesi Bassi dalla Spagna, assume proporzioni gigantesche nella guerra antigiacobina dell’Inghilterra e continua ancora nelle guerre dell’oppio contro la Cina, ecc.».

La secessione dei Paesi Bassi dalla Spagna, inizio secondo Marx della guerra commerciale delle nazioni europee, con l’orbe terracqueo come teatro, si pone all’inizio della colonizzazione olandese dell’Indonesia come una delle sue cause principali. Dopo l’annessione del Portogallo da parte della Spagna (1580), la lotta dei Paesi Bassi contro quest’ultima rende difficile ai mercanti olandesi procurarsi le spezie a Lisbona: di qui la necessità economica per l’Olanda di colonizzare le Indie Orientali. Ne sorge una lunga guerra commerciale, che ha come teatro l’arcipelago indonesiano, coinvolge crudelmente le popolazioni, e si conclude soltanto nel 1648, quando la Spagna riconosce l’indipendenza dei Paesi Bassi. Alcuni episodi di essa: nel 1595 una flotta ispano-portoghese parte da Goa nell’intento di distruggere la flotta olandese; nel 1601 gli olandesi cacciano gli ispano-portoghesi dal porto di Bantam, e li vincono a Ternate. In una lunga guerra commerciale, la colonizzazione dell’Indonesia da parte dell’Olanda trova però alle sue origini non l’iniziativa statale, ma della borghesia commerciale e manifatturiera in formazione. Scrive Marx: «La nuova manifattura venne impiantata nei porti marittimi d’esportazione o in punti della terraferma che erano al di fuori del controllo dell’antico sistema cittadino e della sua costituzione corporativa».. E ancora: «Le “società monopolia” (Lutero) furono leve potenti della concentrazione del capitale».

La colonia assicurava alle manifatture in boccio il mercato di sbocco di un’accumulazione potenziata dal monopolio del mercato. Il tesoro, catturato fuori d’Europa direttamente con il saccheggio, l’asservimento, la rapina e l’assassinio, rifluiva nella madrepatria e quivi si trasformava in capitale. L’Olanda, che è stata la prima a sviluppare in pieno il sistema coloniale, era già nel 1684 all’apogeo della sua grandezza commerciale. Era «in possesso quasi esclusivo del commercio delle Indie Orientali e del traffico fra il sud-ovest e il nord-est europeo. Le sue imprese di pesca, la sua marina, le sue manifatture superavano quelle di ogni altro paese. I capitali della repubblica erano forse maggiori di quelli del resto d’Europa nel loro insieme. Il Gülich dimentica di aggiungere che la massa popolare olandese era già nel 1648 più logorata dal lavoro, più impoverita e più brutalmente oppressa di quella del resto d’Europa nel suo insieme».

Quindi, da un lato i profitti, estorti nelle colonie «direttamente con il saccheggio, l’asservimento, la rapina e l’assassinio», rifluiscono nella madrepatria e si trasformano in capitale per le prime manifatture, dall’altra queste stesse manifatture trovano nelle colonie per i loro prodotti «il mercato di sbocco di un’accumulazione potenziata dal monopolio del mercato». L’Olanda, secondo le citate parole di Marx, è stata la prima a sviluppare in pieno il sistema coloniale. In questo periodo, cioè nel periodo manifatturiero, il sistema coloniale si fonda sul saccheggio, l’asservimento, la rapina e l’assassinio, come scrive Marx e come dimostreremo sinteticamente per quanto riguarda l’attuale Indonesia.

In seguito, nell’epoca della grande industria, il sistema coloniale si “perfezionerà”, ed oggi, nell’epoca dell’imperialismo, viene dichiarato “superato”, o, per usare il gergo dei sicofanti del capitale, “razionalizzato”. Scopo di questo nostro studio è, oltre tutto, dimostrare con l’esempio specifico dell’Indonesia che i “perfezionamenti” e i “superamenti” del sistema coloniale sono perfezionamenti e superamenti nella ferocia e nell’infamia.

Costretta a procurarsi le spezie non più a Lisbona, ma direttamente, la borghesia commerciale e manifatturiera olandese fonda la prima Compagnia Olandese per il commercio con le Indie Orientali: la Compagnia Van Verne, che intraprende il 2 aprile 1595 la prima spedizione, toccando Bantam e Bali, e la cui flotta sfugge alla caccia degli ispano-portoghesi ritornando trionfalmente in patria. Si ha quindi un susseguirsi di spedizioni olandesi, che toccano Sumatra, Giava, Madura, il nord del Borneo: Van Neck giunge nelle Molucche, agenzie commerciali sorgono nelle isole di Banda. In Olanda, di conseguenza, fioriscono nuove compagnie private: ad Amsterdam si forma la Nuova Compagnia, che si fonde con la Compagnia Van Verne; Balthazar de Moucheron crea una compagnia in Zelanda (1597): sorge la compagnia di Middelburg (1598); Isaac Le Maire fonda ad Amsterdam la Compagnia del Brabante. Gli Stati di Olanda preconizzano una compagnia unica «per la conservazione dei commerci», e infine, per opera precipua di Oldenbarnevelt, si perviene ad una fusione: il 20 marzo 1602, nasce la Compagnia Generale delle Indie Orientali. Essa ottiene il monopolio del commercio, non solo, ma anche il diritto di organizzare il sistema coloniale nell’arcipelago indonesiano.

Secondo il citato Bruhat la Compagnia Generale ha il diritto «di fare contratti nelle Indie con gli abitanti naturali del paese in nome dello Stato, e di mantenere truppe e ufficiali per l’amministrazione della giustizia» che «presteranno giuramento di fedeltà allo Stato e alla Compagnia per quanto riguarda il commercio». Il capitale iniziale della Compagnia, 6.440.200 fiorini, è fornito dalle 6 Camere di Commercio delle Province Unite; un legame federativo unisce le Camere nell’Assemblea dei Diciassette, così proporzionalmente costituita: Amsterdam (8), Zelanda (4), Mosa (2), Olanda del Nord (2), mentre il diciassettesimo rappresentante dell’Assemblea è designato a turno dalla Zelanda, dalla Mosa, e dall’Olanda del Nord. Lo Stato è divenuto chiaramente il comitato d’affari della borghesia commerciale e manifatturiera: gli Stati Generali nominano i direttori della Compagnia sulla base di una lista proposta dalle Camere; gli impiegati della Compagnia devono giurare fedeltà allo Stato; i comandanti delle flotte di ritorno dalle Indie devono consegnare un rapporto scritto allo Stato. Infine, dietro approvazione degli Stati Generali, i Diciassette decidono di affidare la direzione generale dei banchi di sconto, dei forti, dei territori, delle forze militari e navali della Compagnia, a un governatore generale: il primo di essi è Pierre Both (1610-14).

Le solide basi del primo sistema coloniale dell’era capitalistica sono gettate. Coronamento esteriore del nuovo edifizio, la fondazione nel 1619 di Batavia, oggi Jakarta, capitale della Compagnia. La borghesia commerciale e manifatturiera olandese ha dunque d’ora innanzi via libera al suo sviluppo: ha conquistato lo Stato, riducendolo ad un proprio comitato d’affari; ha organizzato il sistema coloniale, mediante il quale può trasferire il “tesoro” delle Indie Orientali in patria per trasformarlo in capitale, e potenziare la propria accumulazione riversando i suoi prodotti nelle colonie grazie al monopolio del mercato.

La sua ascesa e la sua potenza si leggono chiaramente nella seguente tabella, tratta dal Bruhat:

Dividendi degli azionisti della 3ª “Compagnia Generale”
1605 1606 1607 1608 1609 1610 1629 1642
17% 75% 40% 20% 25% 50% 22% 50%

 

 

Come scrive Marx, il sistema coloniale, il dio straniero, si era ormai salito sull’altare e abbattuto tutti insieme i vecchi idoli d’Europa proclamando che fare plusvalore era il fine ultimo e unico dell’umanità. Vediamo ora come i pii calvinisti colonizzatori delle Indie Orientali mettessero in pratica la loro specifica missione, secondo la quale produrre del plusvalore era il fine ultimo e unico dell’umanità.

Vediamo le caratteristiche peculiari del sistema coloniale inaugurato nelle Indie Orientali dalla Compagnia. Da una parte, la politica di annessione violenta prosegue con ferocia senza pari: si hanno in questo periodo le terribili e lunghe guerre giavanesi, il cui scopo era di imporre al territorio corrispondente all’ex sultanato di Mataran il monopolio della Compagnia, conclusesi soltanto nel 1684, e le guerre per Celebes (1660-70) contro il sultano di Makassar. Dall’altra parte, continua ad essere praticata la politica degli accordi con i poteri locali sopravvissuti. Ora però i cosiddetti “accordi” si riducono al monopolio puro e semplice della Compagnia, fatto che genera le continue guerre cui abbiamo accennato, e che porta ad una progressiva annessione.

Le caratteristiche del “sistema economico” inaugurato dalla Compagnia sono quanto mai illuminanti a questo proposito. Si riducono a quanto segue: la Compagnia ha il diritto esclusivo di comprare i prodotti. Esempio: nel 1734 la Compagnia impone al sultano di Mataran la coltura del pepe, ma impone allo stesso tempo la distruzione della coltura del caffè entro sei mesi; alla fine del secolo, al contrario, essendo saliti i prezzi del caffè, la sua coltura viene di nuovo imposta nella stessa regione. Altro esempio: nelle Molucche la Compagnia ordina la distruzione delle piantagioni di chiodi di garofano, generando le rivolte delle popolazioni ad Ambòina (oggi Ambon) (1648) e a Ternate (1650) le quali riescono a vincere le guarnigioni olandesi: il risultato è la più atroce repressione delle popolazioni locali, la distruzione delle piantagioni, mentre gli abitanti vengono schiavizzati e trasportati da un’isola all’altra.

In tutto questo periodo le rivolte si susseguono. A Jepara un banco di sconto è assalito e distrutto. Nelle isole Banda la raccolta delle spezie suscita rivolte: nelle isole Keli Lontor, Pulau Run, Rozengain la popolazione maschile viene sterminata, e le donne e i bambini sono ridotti in schiavitù. La stessa Batavia, capitale della Compagnia, viene insozzata dal sangue scorso abbondantemente in quella specie di notte di San Bartolomeo verificatasi nel 1740, che vide il massacro dei cinesi (per lo più artigiani e piccoli commercianti): questi, unitisi ai cinesi residenti fuori di Batavia, insorsero, riuscendo ad occupare le città di Kartasura e di Rembang: due anni furono necessari alla Compagnia per domare la ribellione.

Sintetizzando le caratteristiche di questa prima fase del sistema coloniale olandese, corrispondente al periodo della manifattura e dell’accumulazione originaria del capitale, Marx scrive, nel citato capitolo 24 del Primo Libro del Capitale (rifacendosi fra l’altro a un’opera di Thomas Stamford Raffles, governatore inglese di Giava nel 1811, all’epoca della guerra commerciale fra Francia e Inghilterra: Java and its dependencies, Londra, 1817): «La storia dell’amministrazione coloniale olandese – e l’Olanda è stata la nazione capitalistica modello del secolo XVII – mostra un quadro insuperabile di tradimenti, corruzioni, assassinii e infamie».

Più caratteristico di tutto è il suo sistema del furto di uomini a Celebes per farne schiavi a Giava. I cacciatori di uomini venivano addestrati a questo scopo. Il cacciatore, l’interprete e il venditore erano i principali agenti di questo traffico, e principi indigeni i primi venditori. La gioventù rubata era nascosta nelle prigioni segrete di Celebes finchè non fosse cresciuta per essere spedita sulle navi negriere. Una relazione ufficiale dice: «Questa sola città di Makassar è piena di prigioni segrete, una più orrenda dell’altra, stipate di sciagurati, vittime della cupidigia e della tirannide, legati in catene, strappati con la violenza alle loro famiglie. Per impadronirsi della Malacca gli olandesi corruppero il governatore portoghese, che nel 1641 li fece entrare nella città; ed essi corsero subito da lui e l’assassinarono per “risparmiare” le 21.875 sterline, prezzo del tradimento, Dove gli olandesi mettevano piede, seguivano le devastazioni e lo spopolamento. Banyuwangi, provincia di Giava, contava nel 1750 più di ottantamila abitanti, nel 1811 ne aveva soltanto ottomila. Ecco il doux commerce!».

Le infamie del sistema coloniale nelle Indie Orientali, in questa sua prima fase corrispondente all’epoca della manifattura, non suscitano però alcuna critica in Olanda. Scrive sempre Marx: « Con lo sviluppo della produzione capitalistica durante il periodo della manifattura la pubblica opinione europea aveva perduto l’ultimo resto di pudore e di coscienza morale. Le nazioni cominciarono a vantarsi cinicamente di ogni infamia che fosse un mezzo per accumulare capitale».

Poniamo come epigrafe, alla fine di questa nostra analisi della prima fase del sistema coloniale olandese nelle Indie Orientali, e insieme come conclusione che ne sintetizzi il significato storico, le parole con cui Marx chiude il Paragrafo 64, “Genesi del capitalista industriale”, del Capitolo 24 del I Libro del Capitale: «Tantae molis erat il parto delle “eterne leggi di natura” del modo di produzione capitalistico, il portare a termine il processo di separazione fra lavoratori e condizioni di lavoro, il trasformare a un polo i mezzi sociali di produzione e di sussistenza in capitale, e il trasformare al polo opposto la massa del popolo in operai salariati, in “liberi poveri che lavorano”, questa opera d’arte della storia moderna. Se il denaro, come dice l’Augier, “viene al mondo con una voglia di sangue in faccia”, il capitale viene al mondo grondante sangue e sporcizia dalla testa ai piedi, da ogni poro».


4) Seconda fase del sistema coloniale olandese: L’intermezzo “giacobino” e l’era della grande industria

La guerra commerciale fra le nazioni europee con l’orbe terracqueo come teatro, che secondo le parole di Marx segue a ruota i momenti fondamentali dell’accumulazione originaria e che si apre con la secessione dei Paesi Bassi dalla Spagna, assume, sempre secondo le citate parole di Marx, proporzioni gigantesche nella guerra antigiacobina dell’Inghilterra.

Prima di occuparci di essa e delle sue conseguenze sull’evoluzione del sistema coloniale olandese nella fase di transizione dalla manifattura alla grande industria, riteniamo interessante accennare a un episodio marginale della guerra commerciale permanente che accompagna la genesi del capitale: la guerra fra Olanda e Inghilterra (1780-84) che portò all’occupazione di Penang (George Town) da parte degli inglesi. È interessante, perché si innesta alla guerra d’indipendenza americana. Accanto agli eserciti di Washington e di Horatio Gates scendono in campo contro l’Inghilterra non solo la Francia (1778), non solo la Spagna l’anno successivo, ma anche l’Olanda (1780). Scopo dell’intervento antinglese era da parte di Spagna e Olanda un ridimensionamento dell’impero coloniale inglese: con la pace di Versailles (3 settembre 1783), infatti, non solo le tredici colonie americane videro riconosciuta la propria indipendenza, ma l’Inghilterra dovette cedere alla Francia il Senegal e parecchie isole delle Antille, e la Spagna ottenne la Florida e Minorca; quanto all’Olanda, essa cedette alla Inghilterra Penang, come abbiamo ricordato.

Tali le origini “anticoloniali” degli Stati Uniti d’America, i quali riuscirono a strappare l’indipendenza all’Inghilterra solo grazie a un episodio della guerra commerciale fra nazioni europee per la spartizione del bottino coloniale. Il colonialismo è la serra in cui è sbocciato il capitalismo, né il capitalismo americano costituisce un’eccezione: sorto approfittando di un episodio della guerra commerciale di Spagna Francia Olanda contro l’Inghilterra, sviluppatosi attraverso il massacro delle popolazioni aborigene e la semicolonizzazione dell’America del Sud, oggi, nell’epoca in cui il capitalismo ha raggiunto la fase imperialista, esso estende il suo potere in Africa, in Asia, in America Latina, superando in ferocia e in infamia i peggiori metodi impiegati dai sistemi coloniali del passato. Le sue mani rapaci si stendono oggi anche sull’Indonesia, come vedremo alla fine di questo studio. E, dopo tutto ciò, i falsi “comunisti” del Cremlino e i quaccheri di tutto il mondo hanno l’impudenza di fingere di piangere sulle sorti della “democrazia” americana compromessa nella guerra del Vietnam!

Dopo questa, che non è una digressione ma una anticipazione, si tratta ora di vedere quali furono le ripercussioni della guerra antigiacobina dell’Inghilterra sull’evoluzione del sistema coloniale olandese. La Repubblica Batava, sorta in seguito alla Rivoluzione francese, sigla nel 1795 un trattato di alleanza con la Francia, mentre da Londra Guglielmo V di Orange-Nassau  invita i governatori della Compagnia ad accogliere come amici gli inglesi. Gli amministratori coloniali da parte loro decidono di rimanere fedeli al nuovo governo. Il 1° maggio 1796 la vecchia Compagnia muore, e si forma un Comitato per gli Affari Orientali. In realtà, né la borghesia olandese né gli amministratori della defunta Compagnia avevano nulla da temere dal nuovo governo della Repubblica Batava. Basti citare, a questo proposito, due passi di una Dichiarazione del nuovo governo del 27 aprile 1799, intorno alla questione dell’abolizione della schiavitù: «Non è necessario applicare i principi di libertà e di uguaglianza nei possedimenti delle Indie fino a quando esse si troveranno nel necessario stato di soggezione (...) Non sarà possibile abolire la schiavitù fino a quando un ordine più elevato di generale civiltà permetta il miglioramento della sorte degli schiavi con la cooperazione di tutte le nazioni europee che hanno domini oltremare» (Jean Bruhat).

In tutti questi anni, naturalmente, la guerra antigiacobina dell’Inghilterra, espressione gigantesca della guerra commerciale delle nazioni europee per la spartizione del bottino coloniale, prosegue, e nelle Indie Orientali si esprime in una guerra permanente fra inglesi e franco-olandesi. Dal 1808 al 1810 i francesi sono padroni delle Indie Orientali; l’8 agosto 1811 Batavia è occupata dagli inglesi, e la sorte delle colonie olandesi cade nelle mani di quel sir Thomas Stamford Raffles ricordato da Marx. Nel 1814 l’Inghilterra restituisce all’Olanda le sue colonie: Raffles si oppone al “tradimento” e resiste: il 29 gennaio 1819, su un’isola “comperata” dal sultano di Johor, fonda Singapore, scalo obbligato del commercio attraverso lo stretto di Malacca. Infine, in seguito al trattato di Londra del 17 marzo 1821, gli inglesi conservano Singapore e le Indie Orientali rimangono agli olandesi.

Ricordata così la cronaca della guerra commerciale antigiacobina dell’Inghilterra nelle sue ripercussioni sull’arcipelago indonesiano, è indispensabile soffermarci sul periodo in cui l’Indonesia venne occupata dai francesi (1808-10), perchè segna il passaggio dalla prima fase del sistema coloniale corrispondente al periodo della manifattura, caratterizzato dal saccheggio, l’asservimento, la rapina e l’assassinio, alla seconda fase, corrispondente all’epoca della grande industria, nella quale il saccheggio, l’asservimento e la rapina si “perfezionano“, si sistematizzano, divengono legali, e legalizzandosi superano se stessi nella ferocia e nell’infamia. È molto interessante il fatto che il “perfezionamento” del sistema coloniale olandese avvenga nel periodo della occupazione francese, e sia il risultato dell’opera del “giacobino” Daendels, “pellegrino della libertà“ rifugiatosi dall’Olanda in Francia durante gli anni turbinosi della Rivoluzione, ritornato in Olanda con il costituirsi della Repubblica Batava, e divenuto infine governatore d’Indonesia dal 1808 al 1810, anni nei quali poté mettere in pratica “gli stessi principi”: molto interessante, perché caratterizza fin dall’inizio, bollandolo con un marchio d’infamia, l’“anticolonialismo” della piccola borghesia francese. Questa, del resto, dal 1808 in poi ha potuto illustrare attraverso ben altre prove e, per così dire, in grande, dall’Indocina al Madagascar all’Algeria, nel corso di un secolo e mezzo, gli “eterni principi” sui quali si fonda il suo anticolonialismo.

Durante il governatorato di Daendels, il processo che porta alla perdita di ogni autonomia dei principi indigeni continua. Caratteristiche sono le innovazioni introdotte nel campo delle colture di esportazione. Abbiamo visto come all’epoca del monopolio della Compagnia tutto si riducesse al fatto che questa aveva il diritto esclusivo di fissare la natura e l’estensione delle piantagioni, e di comperarne i prodotti. Daendels perfeziona il vecchio sistema, lo legalizza, e lo rende più feroce. Si stabilisce cioè per legge che ogni villaggio deve piantare, ad esempio, un determinato numero di piante di caffè: dopo 5 anni, i 2/5 del raccolto vanno gratuitamente allo Stato, mentre la parte restante è comperata monopolisticamente dallo Stato a prezzi correnti. Anche il sistema schiavistico-feudale del lavoro forzato, praticato illegalmente all’epoca del dominio della Compagnia, viene da Daendels legalizzato con l’introduzione del sistema delle corvées. A questo proposito scrive: «Il solo mezzo di percepire tasse dai contadini è il sistema della corvée» (Jean Bruhat).

Il periodo della dominazione francese segna anche l’inizio della colonizzazione privata, attraverso la vendita di grandi estensioni di terreno a ovest e ad est di Batavia, con libertà totale da parte dei proprietari di sfruttare i contadini. Scrive sempre Daendels: «La protezione dei lavoratori non serve che a incoraggiarli nella loro naturale pigrizia, mentre scoraggerebbe i piantatori occidentali». Certo, non era facile convincere i contadini delle Indie Orientali, legati al sistema della comunità di villaggio, e quindi non ancora separati dalle condizioni naturali del loro lavoro, cioè dai mezzi di produzione e di sussistenza, non ancora resi “liberi” secondo gli “eterni principi”, a vendere “liberamente”, in seguito a “libero” contratto, la propria forza-lavoro come una merce, al fine di produrre plusvalore nelle piantagioni.

Un tale risultato, una tale «opera d’arte della storia moderna», aveva richiesto per potersi realizzare in Europa ben tre secoli di saccheggio, di asservimento, di rapina, di assassinio nelle Indie Orientali e nelle colonie. Perché ora potesse essere imposto alle popolazioni dell’arcipelago indonesiano si rendeva necessaria l’applicazione legale degli stessi metodi feroci che avevano contraddistinto l’accumulazione originaria del capitale in Europa, ad esempio, in Inghilterra.

Scrive Marx nel Capitolo conclusivo del Capitale intitolato “La teoria moderna della colonizzazione”: «Nell’Europa occidentale, patria dell’economia politica, il processo dell’accumulazione originaria è più o meno compiuto. Quivi il regime capitalistico o si è assoggettata tutta la produzione nazionale, o, dove le condizioni economiche sono ancora meno sviluppate, controlla per lo meno indirettamente gli strati della società che continuano a vegetare in decadenza accanto ad esso e che fanno parte del modo di produzione antiquato (...)

«Nelle colonie le cose vanno altrimenti. Quivi il regime capitalistico s’imbatte dappertutto nell’ostacolo costituito dal produttore che come proprietario delle proprie condizioni di lavoro arricchisce col proprio lavoro sé stesso e non il capitalista. La contraddizione fra questi due sistemi economici diametralmente opposti si attua qui praticamente nella loro lotta. Dove il capitalista ha alle spalle la potenza della madrepatria, cerca con la forza di far piazza pulita del modo di produzione e di appropriazione fondato sul proprio lavoro. Quello stesso interesse che nella madre patria induce quel sicofante del capitale che è l’economista politico a dichiarare in teoria che il modo di produzione capitalistico spinge l’economista “to make a clean breast of it” o proclamare ad alta voce l’antitesi dei due modi produzione. A questo scopo egli dimostra come lo sviluppo della forza produttiva sociale del lavoro, la cooperazione, la divisione del lavoro, l’impiego delle macchine in grande, ecc., sono impossibili senza l’espropriazione dei lavoratori e senza la corrispondente trasformazione dei loro mezzi di produzione in capitale. E nell’interesse della cosiddetta ricchezza nazionale l’economista cerca mezzi artificiali per produrre la povertà popolare (...) Come il sistema protezionistico alle origini tendeva alla fabbricazione di capitalisti nella madrepatria, così la teoria della colonizzazione del Wakefield, che per un certo tempo l’Inghilterra ha cercato di mettere in atto per legge, si pone come scopo la fabbricazione di salariati nelle colonie. Egli chiama ciò “systematic colonization”.

«Dunque, finchè il lavoratore può accumulare per sé stesso – e lo può finchè rimane proprietario dei suoi mezzi di produzione – sono impossibili l’accumulazione capitalistica e il modo di produzione capitalistico (...) Poiché nelle colonie non esiste ancora, o esiste solo sporadicamente, o solo in un ambito troppo limitato, il distacco fra il lavoratore e le condizioni di lavoro e la radice di questo, il suolo, e non esiste ancora neppure la separazione dell’agricoltura dall’industria, la distruzione dell’industria domestica rurale, da dove dovrebbe venire, allora, il mercato interno per il capitale? (...)

«Da una parte il vecchio mondo getta in continuazione nelle colonie capitale voglioso di sfruttamento; dall’altra la riproduzione regolare dell’operaio salariato come operaio salariato s’imbatte in ostacoli notevoli e in parte insuperabili (...) Non c’è da meravigliarsi che il Wakefield si lamenti della mancanza del rapporto di dipendenza e del senso di dipendenza negli operai salariati delle colonie. Il suo discepolo Merivale dice che (...) in paesi di vecchia civiltà l’operaio, benché libero, dipende per legge di natura dal capitalista, nelle colonie questa dipendenza deve essere creata con mezzi artificiali».

Le colonie di cui parla Marx nella pagina citata del Capitale sono, come chiarisce nella nota, «terra vergine che viene colonizzata da liberi immigrati»; si tratta della nuova frontiera che si apriva agli immigrati europei negli Stati Uniti d’America intorno al 1840.

Qui il modo di produzione e di appropriazione fondato sul proprio lavoro, caratteristico del libero colono americano, si opponeva all’instaurazione del modo di produzione capitalistico, fondato sull’espropriazione dei lavoratori e sulla trasformazione dei loro mezzi di produzione in capitale. Nell’arcipelago indonesiano, l’ostacolo che il capitale trova nella propria diffusione è lo stesso: il produttore che come proprietario delle proprie condizioni di lavoro arricchisce col proprio lavoro sé stesso e non il capitalista. Soltanto, tale ostacolo assume nelle Indie Orientali la forma della comunità di villaggio, sopravvivenza del modo asiatico di produzione. In tale forma è anche peculiare l’unione dell’agricoltura con l’industria domestica all’interno della comunità di villaggio, come nell’azienda del libero colono americano, e il primo obiettivo del capitale è anche qui la separazione dell’agricoltura dall’industria, la distruzione dell’industria domestica rurale, per la creazione del mercato interno.

La “systematic colonization” corrispondente al periodo della grande industria persegue dunque il risultato di fabbricare salariati nelle colonie, di creare con mezzi artificiali la riproduzione regolare dell’operaio salariato come operaio salariato. Citiamo ancora una volta le parole di Marx: «La contraddizione fra questi due sistemi economici diametralmente opposti si attua qui praticamente nella loro lotta». Tale lotta, nel corso della quale i capitalisti olandesi, sorretti alle spalle dalla potenza della madrepatria, fecero con la forza piazza pulita del modo di produzione e di appropriazione fondata sul proprio lavoro, ha nelle Indie Orientali il suo preludio con il sistema delle corvées inaugurato dal “giacobino” Daendels, e raggiunge il culmine negli anni dal 1825 al 1870 con il sistema Van den Bosch, di cui ora ci occuperemo.


5) Il sistema Van den Bosch

Due fatti storici di rilevante importanza segnano l’inizio del sistema Van den Bosch nelle Indie Orientali, che definiamo anticipatamente come sistema della organizzazione schiavistico-feudale delle colture coloniali di esportazione al fine di pervenire all’espropriazione violenta dei contadini e alla fabbricazione artificiale di salariati: essi sono la grande insurrezione di Dipa Negara nel 1825, e la rivoluzione belga del 1830.

Con la ferocissima repressione della rivolta capeggiata da Dipa Negara, principe di Yogyakarta, e protrattasi per cinque anni, dal 1825 al 1830, che costò alle truppe coloniali 15.000 morti e 200.000 vittime fra la popolazione, la "systematic colonization” caratteristica del periodo della grande industria sancì il principio dell’annessione violenta e della distruzione di ogni autonomia locale: in questo modo, la fase capitalistica caratteristica del periodo della grande industria precorre direttamente, per i metodi impiegati nelle colonie, la successiva fase imperialista, e la fase attuale che i sicofanti del capitale chiamano della “decolonizzazione” e che noi, marxisti rivoluzionari, definiamo fase della ripartizione imperialistica del mondo succeduta alla seconda guerra mondiale.

Altre feroci repressioni, che rivestono lo stesso significato della guerra contro Dipa Negara, si susseguiranno per tutto l’Ottocento fino all’inizio del nostro secolo: così la distruzione del sultanato di Atjeh, a nord di Sumatra, che controllava le vie commerciali, realizzato attraverso un accordo anglo-olandese in base al quale l’Olanda riconosceva il dominio inglese su Malacca e Singapore e l’Inghilterra dava mano libera all’Olanda nell’occupazione del nord di Sumatra; distruzione portata a termine nel corso di una guerra protrattasi dal 1871 al 1908; così i massacri di Bali avvenuti nel 1906, ecc.

L’altro fatto storico che inaugura e accompagna l’instaurazione del sistema Van den Bosch nelle Indie Orientali è rappresentato, come dicevamo, dalla rivoluzione belga del 1830, che gli storici accademici definiscono rivoluzione “liberale”: “libertà” per il capitale nella madrepatria, “libertà” della corvée nelle colonie, tale il significato della rivoluzione “liberale” del 1830.

Marx, nel capitolo VIII del Primo Libro del Capitale, "La giornata lavorativa”, Paragrafo 2°, “La voracità di pluslavoro. Fabbricante e boiardo”), stabilendo un confronto «fra la voracità di pluslavoro nei principati danubiani con la stessa voracità nelle fabbriche inglesi» dopo aver ricordato che nelle province rumene «il modo di produzione originario era fondato sulla proprietà comune», scrive: «Nel corso del tempo dignitari militari ed ecclesiastici usurparono tanto la proprietà comune che i servizi che per essa si solevano fare (...) Così si svilupparono contemporaneamente anche rapporti di servitù, ma di fatto e non di diritto, finché la Russia liberatrice del mondo elevò la servitù della gleba a legge, con il pretesto di abolirla. Il codice della corvée, proclamato dal generale russo Pavel Dmitrievič Kiselëv nel 1831, era stato dettato, naturalmente, dagli stessi boiardi. Così la Russia, con un colpo solo, conquistò i magnati dei principati danubiani e i battimani dei cretini liberali di tutta Europa».

Allo stesso modo, la rivoluzione belga del 1830, che in seguito all’intesa liberale franco-inglese portò alla separazione del Belgio dall’Olanda e all’abdicazione dell’“autocratico” Guglielmo I, accompagnò nelle Indie orientali il fiorire del sistema Van den Bosch e la legalizzazione della corvée in una misura ben superiore a quella codificata nel codice della corvée del generale Kiselëv: il tutto, naturalmente, fra i battimani dei cretini liberali di tutta Europa.

Vediamo ora quali novità caratterizzano il sistema Van den Bosch nei confronti del sistema del suo predecessore il “giacobino” Daendels. Durante il governatorato di quest’ultimo si era stabilito che ogni villaggio doveva versare i 2/5 del raccolto allo Stato: una specie di rendita in natura. Con il sistema Van den Bosch, ogni villaggio doveva abbandonare 1/5 delle sue terre allo Stato, e ogni uomo adulto fornire su di esse 1/5 del suo lavoro (dai 60 ai 70 giorni di corvée all’anno): i prodotti così ottenuti, prodotti di esportazione, passavano alla Compagnia di Commercio che li rivendeva ad Amsterdam e a Rotterdam. Dunque espropriazione dei contadini e iniziale distruzione della proprietà comune di villaggio (1/5 delle terre passano allo Stato), e legalizzazione della corvée.

Ma questa era solo la facciata legale del sistema Van den Bosch. In questo periodo, infatti, compaiono dei “contractors” (società olandesi e cinesi) che si impadroniscono di un’altra parte delle terre appartenenti alla comunità di villaggio e costringono a lavorare su di esse i contadini. Da un quinto delle terre appropriate dal Governo e dai piantatori privati, si passa a un terzo, poi alla metà: i giorni di corvée imposti al contadino erano legalmente 60-70 all’anno, ma divengono 90, e addirittura 240. A ciò si aggiungono altre corvées: trasporto dei prodotti nei magazzini, costruzione di strade, di porti, di fortificazioni: risultato, altissima mortalità. I contadini non dispongono ormai che di un giorno o due liberi per settimana, e malgrado ciò si continua a prelevare su di loro l’imposta fondiaria! Il sistema amministrativo di questo periodo corrisponde alle misure economiche volte all’estirpazione della proprietà comune e alla fabbricazione artificiale di salariati di cui abbiamo parlato.

Tutto il territorio viene diviso in province: in ognuna di esse un residente europeo, coadiuvato da un residente aggiunto, da un segretario e da un controllore, svolge la funzione di imporre il sistema delle colture obbligatorie e delle corvées. Ogni provincia ha un reggente indigeno, a cui è affidato il ruolo di intermediario fra il governo e la popolazione. Ogni reggenza è divisa in distretti che dipendono da un altro capo indigeno (il wedono). L’unità di base rimane il villaggio comunitario (dessa): il suo capo viene eletto dalla popolazione, ma è necessaria la ratifica del governo di Batavia. Il periodo compreso fra il 1824 e il 1870, cioè fra il trattato di Londra, che segnò la restituzione delle Indie Orientali all’Olanda, e la legge agraria di cui fra poco ci occuperemo, vede dunque la distruzione della comunità di villaggio, la soppressione della proprietà comune del suolo e dell’unione dell’agricoltura con l’industria domestica, l’introduzione violenta della proprietà privata e la separazione violenta del lavoratore dalle condizioni del proprio lavoro. Abbiamo visto quali metodi furono necessari per raggiungere tali risultati.

Assolta la sua funzione, il sistema Van den Bosch quindi doveva essere abbandonato. Alla fine di questo periodo “l’opinione pubblica” olandese incomincia a criticare il sistema in atto nelle Indie Orientali. Ora che il sistema delle corvées aveva raggiunto il suo scopo – fabbricare salariati con la forza – la piccola borghesia poteva divenire anticolonialista, accontentandosi per il momento di chiedere l’abbandono dei metodi più incivili nelle colonie fin quando ormai non servivano più. Il 1° gennaio 1860 viene ufficialmente abrogata la schiavitù. Il sistema delle colture imposte dallo Stato è via via abolito nella seguente progressione: 1863: garofano e noce moscata; 1865: indaco, tè, cannella; 1866: tabacco; 1878-91: zucchero; 1918: caffè.

Per quanto riguarda i riflessi del sistema Van den Bosch sulla economia indonesiana, è evidente che l’imposizione delle colture obbligatorie per l’esportazione, e la distruzione dell’economia basata sulle comunità di villaggio, non potevano non influire negativamente sull’alimentazione della popolazione. Anche se non possiamo fornire delle cifre sulla produzione di derrate alimentari in questo periodo, possiamo ricordare che dal 1844 al 1860 vi furono carestie nella regione di Cheribon e nel centro di Giava.

Nel campo delle colture coloniali si verifica in questi anni una stagnazione delle colture tradizionali come il pepe e la cannella; uno sviluppo continuo della produzione del caffè e della canna da zucchero; l’ascesa delle piantagioni di indaco che raggiungono il terzo posto tra il 1840 e il 1863; lo sviluppo della coltura del tabacco; l’introduzione della coltura del tè. Il caffè, la canna da zucchero, l’indaco occupano rispettivamente il primo, il secondo e il terzo posto nell’economia coloniale indonesiana di questo periodo. Fra il 1830 e il 1840 Amsterdam diviene il principale mercato del caffè e della canna da zucchero.

Per fornire un’idea dell’incidenza delle singole colture sui profitti ricavati in questo periodo, riportiamo alcune cifre date dal Bruhat. Negli anni 1830-77, su un guadagno coloniale di 600.000.000 di fiorini, il caffè ha una incidenza che tocca i 4/5: negli anni 1840-64 il caffè fornisce un utile di 374.180.000 fiorini, lo zucchero di 60.743.000, l’indaco di 32.815.000. La dipendenza dei profitti coloniali dalle oscillazioni dei prezzi sul mercato mondiale si riflette nelle cifre seguenti: nei soli quattro anni 1860-64 i guadagni realizzati su caffè, zucchero, indaco, tè, tabacco, raggiungono 160.620.000 fiorini, di cui 126.158.000 solo sul caffè; nel 1848 lo Stato olandese vende un picul (60 kg) di caffè a 13,30 fiorini, con un profitto di 3,71 fiorini, mentre nel 1858 il picul di caffè è venduto a 81 fiorini e il profitto raggiunge i 27,75 fiorini. In conclusione, il sistema Van den Bosch, che corrisponde alla fase della grande industria per il capitalismo europeo, segna la distruzione della proprietà comune del suolo nelle Indie Orientali e crea le condizioni per la diffusione in esse del modo capitalistico di produzione.


6) Prime conclusioni dello studio sulla Indonesia e la genesi del capitalismo

È stato necessario ricordare sommariamente le vicende feroci e infami che hanno reso possibile l’introduzione della “civiltà” capitalistica in Indonesia, non certo perché siano nostra intenzione esercitazioni accademiche sulla storia di questo paese, ma per opporre ancora una volta alle utopie interessate della piccola borghesia intorno al “progresso” e alla “civiltà”, la concezione marxista seconda cui la successione delle forme di produzione è accompagnata da grandi crisi rivoluzionarie e la violenza è la levatrice di ogni vecchia società gravida di una nuova. E, come la “civiltà” capitalistica non rappresenta per i comunisti il definitivo punto di arrivo della società umana, ma al contrario l’ultima formazione economica antagonistica (la più antagonistica e contraddittoria nei confronti di quelle che l’hanno preceduta), così la sua introduzione violenta nelle colonie non ha nulla a che vedere con le armonie sociali pacifiste progressiste e democratiche proprie dell’“anticolonialismo” piccolo-borghese. Nel secolo XX, del resto, la parola anticolonialismo è uscita di moda, per essere sostituita dall’altra: antimperialismo.

Come infatti il colonialismo classico è stato la serra calda che ha reso possibile lo sbocciare del capitalismo in Europa, così la diffusione del modo capitalistico di produzione nelle vecchie colonie è stato il risultato della trasformazione del capitalismo europeo in imperialismo, e della conseguente esportazione di capitale finanziario in luogo della semplice esportazione di merci. Un tale processo, di cui si tratta ora di seguire sommariamente le fasi e le conseguenze in Indonesia, distrugge definitivamente le illusioni piccolo-borghesi di una possibile evoluzione pacifica del capitalismo. Esso non porta ad un superamento del vecchio colonialismo, ma ad una sua intensificazione.

L’introduzione del capitalismo nelle colonie non avviene fuori del tempo e dello spazio, come torna comodo pensare ai sicofanti dell’opportunismo piccolo-borghese, ma in una precisa fase storica, nel quadro dei rapporti imperialistici che dominano il mercato mondiale. Da tali rapporti le vecchie colonie non possono uscire in virtù di nessuna decolonizzazione, come gli ultimi cinquanta anni di storia hanno dimostrato, ma soltanto in seguito alla distruzione rivoluzionaria del capitalismo nelle metropoli e nelle colonie. L’Indonesia ne è un esempio tipico e tragico, come vedremo.

Tali le tesi è la previsione dell’Internazionale Comunista degli anni gloriosi 1919-20, tesi che è compito del nostro Partito riprendere con una intera fase storica di ritardo, traendo tutte le lezioni dalla disfatta e dalla controrivoluzione che imperversano da ben quarant’anni. Le lezioni della controrivoluzione si riassumono in un risultato che è al tempo stesso il patrimonio della lotta della Sinistra Comunista in seno alla Terza Internazionale, patrimonio che deve essere trasmesso alle nuove generazioni rivoluzionarie: fine dei blocchi politici, dei compromessi nel fronte unico fra proletariato e piccola borghesia nelle metropoli e nelle colonie. Il seguito di questo nostro studio sul movimento rivoluzionario e controrivoluzionario in Indonesia contribuirà a ribadire ancora una volta questo prezioso insegnamento che il Partito Comunista Internazionale ha saputo trarre dalla controrivoluzione al fine di utilizzarlo nella rivoluzione di domani.


a) La definizione di Lenin dell’imperialismo

Lenin ricollega la sua analisi della fase imperialista del capitalismo strettamente al Capitale di Marx. Sulla base delle previsioni marxiste intorno alla crescente concentrazione e centralizzazione del capitale, sulla base dell’analisi marxista intorno alla scissione fra guadagno d’imprenditore e interesse, e alla conseguente autonomizzazione del capitale produttivo d’interesse nella forma del credito, autonomizzazione a cui si accompagnano tutti i fenomeni di parassitismo economico e di imputridimento sociale che diverranno evidenti negli anni immediatamente successivi, Lenin enuncia nel 1915 i cinque principali contrassegni della fase imperialista: «1) la concentrazione della produzione e del capitale, che ha raggiunto un grado talmente alto di sviluppo da creare i monopoli con funzione decisiva nella vita economica; 2) la fusione del capitale bancario col capitale industriale e il formarsi, sulla base di questo “capitale finanziario”, di un’oligarchia finanziaria; 3) la grande importanza acquistata dall’esportazione di capitale in confronto con l’esportazione di merci; 4) il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti, che si ripartiscono il mondo; 5) la compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche».

Il significato generale, teorico e politico, dell’opera di Lenin sull’imperialismo è già stato ricostruito su queste pagine, ristabilendolo nella sua purezza, anzitutto di fronte alle spudorate falsificazioni staliniste e post staliniste, ed inquadrandolo nel compito politico che al nostro Partito cui spetta la denuncia delle manifestazioni macroscopiche dell’imperialismo attuale e la lotta contro le interpretazioni mistificanti che di esse la piccola borghesia mondiale offre al proletariato. Il nostro studio sull’evoluzione politica e sociale dell’Indonesia rientra in questo lavoro politico collettivo di Partito.

Nell’opera citata, Lenin colloca l’Olanda, nel periodo fra la fine dell’800 e gli inizi del 900, nella categoria degli Stati rentiers (Rentnerstaat): «Sartorius von Waltershausen nel suo libro su “II sistema economico del collocamento di capitali all’estero” considera l’Olanda come tipo di “Stato rentiers“».

Dunque agli inizi del secolo l’Olanda entra economicamente e socialmente nella fase imperialista, e il movimento politico e sociale indonesiano sarà da noi considerato da questo punto di vista. Sempre nella sua opera sull’imperialismo, Lenin fornisce un quadro dei «possedimenti coloniali delle grandi potenze, in milioni di chilometri quadrati e in milioni di abitanti», da cui risulta che le sei grandi potenze insieme (Inghilterra, Russia, Francia, Germania, Stati Uniti, Giappone) hanno nel 1914 un dominio coloniale che si estende su 65 milioni di chilometri quadrati e che comprende 523,4 milioni di abitanti, mentre i possedimenti coloniali degli altri Stati (Belgio, Olanda, ecc.) si estendono su 99 milioni di chilometri quadrati e comprendono 45.3 milioni di abitanti. Lenin commenta tali cifre: «Accanto ai possedimenti coloniali delle grandi potenze noi abbiamo messo le piccole colonie degli Stati minori, le quali formano l’oggetto più prossimo, per così dire, di una possibile e verosimile nuova “spartizione” delle colonie. Per la maggior parte questi Stati minori conservano le loro colonie soltanto grazie all’esistenza fra i grandi Stati di antagonismi e di attriti, che impediscono un accordo per la divisione del bottino».

Noi considereremo dunque dal punto di vista enunciato da Lenin le vicende politiche e sociali dell’Indonesia nel nostro secolo, dall’adattamento del dominio olandese alla nuova fase imperialista passando per l’intermezzo dell’occupazione giapponese e giungendo fino all’attuale periodo di sedicente indipendenza politica (in linguaggio marxista, di ripartizione politica del mondo fra le grandi potenze imperialiste seguita alla seconda guerra mondiale). Noi considereremo in Indonesia l’evoluzione di una piccola colonia di uno Stato minore, che forma l’oggetto di una possibile e verosimile nuova spartizione.

Uno dei fattori oggettivi preponderanti dell’influenza dell’imperialismo sull’economia indonesiana, è costituito, come vedremo, dalla scoperta del petrolio nelle Indie Olandesi, e dimostreremo come esso contribuisca all’affermarsi di quello che Lenin definisce quarto principale contrassegno dell’imperialismo: «il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti, che si ripartiscono il mondo».

Infine, dimostreremo come tutta la storia politica dell’Indonesia in questo secolo, e in particolare nei suoi recentissimi e attuali sviluppi, che hanno gettato in una confusione ipocrita i sicofanti dell’opportunismo mondiale di marca russa e di marca cinese, trova la sua spiegazione alla luce del terzo contrassegno dell’imperialismo enunciato da Lenin: «la grande importanza acquistata dall’esportazione di capitale in confronto con l’esportazione di merci». L’esportazione di merci, nella fase imperialista del capitalismo, segue l’esportazione di capitale, accumulato in quelle metropoli imperialiste che oggi hanno nome Washington e Mosca, e questo capitale finanziario, esteriorizzazione massima dei rapporti capitalistici di produzione, espressione suprema della potenza dell’imperialismo mondiale, ripartisce il mondo in sfere d’influenza a suo piacimento, tirando e spezzando i fili di quelle marionette miserabili, sue proprie creature, il cui solo compito è stato finora quello di aggiogare il proletariato dei paesi coloniali e semicoloniali al carro del capitale: marionette che hanno nome Sukarno, Ben Bella, Nkrumah.

Contro di esse, contro i loro successori, contro gli “antimperialisti” piccoli borghesi di tutto il mondo, filorussi e filocinesi, dovrà levarsi in armi il proletariato supersfruttato delle colonie e semicolonie subordinando la sua lotta e la sua definitiva emancipazione sociale alla rivoluzione comunista del proletariato delle metropoli imperialiste. Per il raggiungimento di questo risultato politico di portata mondiale, che solo può liberare le contraddizioni esplosive dell’imperialismo mondiale portandole alla loro necessaria soluzione, lotta il PARTITO COMUNISTA INTERNAZIONALE.


b) La legge agraria del 1870 - Definitiva distruzione della proprietà comune di villaggio

La legge agraria del 1870 presenta i seguenti caratteri essenziali.

1) Gli indigeni possono conservare legalmente le terre comunitarie, esse non possono essere vendute a non indigeni, ma affittate a non indigeni per un periodo di tempo massimo di 20 anni (periodo che corrisponde alla produzione della canna da zucchero, e favorisce quindi i piantatori di zucchero).

2) Le terre incolte divengono proprietà del governo. Ma la nozione di terra incolta è molto vaga dato il sistema del debbio (terra bruciata) per impiantare colture coloniali. Tali terre statali “incolte” possono essere date in affitto enfiteutico a olandesi, a società commerciali olandesi come indonesiane.

Si verifica un indebitamento dei contadini, e l’esodo di essi verso le piantagioni.

Al termine di questo processo, nel 1932, l’83% delle terre sono divenute, almeno a Giava, proprietà privata.

L’indebitamento del piccolo contadino privato sviluppatosi in seguito alla legge agraria, dipende dal fatto che esso lavora in gran parte per l’esportazione, e che l’oscillazione dei prezzi delle materie prime sul mercato mondiale lo colpisce assai più duramente dei grandi piantatori. Si verifica dunque, a partire della legge del 1870, un processo che vede l’aumento dei contadini senza terra, l’indebitamento del piccolo contadino per pagare le tasse e acquistare i beni di consumo indispensabili, e dunque la dipendenza del piccolo contadino dall’usuraio (che in Indonesia diviene il capo villaggio, il mercante cinese e olandese).

La modificazione nella struttura dei prodotti di esportazione, la distruzione della proprietà comune e l’introduzione della produzione capitalistica nell’agricoltura, facilitata dalla legge agraria del 1870, è accelerata dalla crisi del 1885 provocata dalle malattie che distruggono i raccolti di tè e caffè. (Caffè: esportazioni nel 1880, 59.888.000 fiorini, nel 1885, 29.708.000  fiorini; prezzo del caffè: 1877, 60 fiorini al picul, 1883, 35 fiorini; prezzo dello zucchero 1877, 19 fiorini, 1883, 13,5 fiorini, 1884, 9 fiorini). Per quanto riguarda i prodotti coloniali di esportazione, l’evoluzione si manifesta nelle cifre seguenti: nel 1870 il caffè e lo zucchero rappresentano il 75% del valore totale delle esportazioni, nel 1900 il 40%. Nel 1877 è introdotta la coltivazione dell’hevea (pianta del caucciù) e della palma da olio; dopo la prima guerra mondiale l’Indonesia diviene il secondo produttore mondiale di caucciù, e nel 1929 ne fornisce una produzione di 384.000 tonnellate su una produzione mondiale di 1.017.000 tonnellate. Nel 1938 la superficie dedicata alla produzione di palma da olio (elaeis) copre 84.000 ha.

La distruzione della proprietà comune, la dipendenza del contadino dall’usuraio, la formazione di masse di contadini senza terra, l’introduzione di nuove colture coloniali in rapporto alle esigenze del mercato mondiale nella fase imperialista (esempio precipuo il caucciù), si accompagnano alla formazione di grandi piantagioni capitalistiche che impiegano il lavoro di salariati. Ad esempio solo a Sumatra la Deli Maatschappij, creata nel 1869 per le piantagioni di tabacco, occupa nel 1920 più di 35.000 operai su ben 830 piantagioni.

Nel rapporto inviato al Secondo Congresso dell’Internazionale Comunista, il delegato indonesiano Maring (pseudonimo del famoso Sneevliet) accenna ai caratteri da noi ricordati della colonizzazione in Indonesia, in particolare all’imposizione della monocoltura attraverso l’affitto forzato della terra da parte degli zuccherieri, alla distruzione della comunità di villaggio, e all’aggiogamento dell’aristocrazia al carro dei colonizzatori. Interessanti sono le informazioni che fornisce sulla situazione economica a Giava, in specie per quanto riguarda la condizione dei contadini. Secondo il Maring, su una popolazione di 50.000.000 di indigeni, 1 milione di cinesi, e circa 150.090 europei, i contadini sarebbero stati 24 milioni e i “proletari e intellettuali“ (intesi questi come gli indigeni che conoscono l’olandese e possono quindi svolgere compiti tecnici e organizzativi) 3-4 milioni.

Nelle piantagioni l’orario di lavoro era sempre superiore alle 10 ore giornaliere; il salario maschile di 0,35 fiorini al giorno e quello femminile di 0,20 (per i ferrovieri 20 fiorini al mese). Il reddito medio annuo di una famiglia contadina che era nel 1878 di 110 fiorini circa, scese nel 1904 a 80 e non era ancora risalito al livello originario nel 1920. Le imposte gravavano per un 24%, sul reddito medio. Le cifre fornite da Maring confermano i caratteri essenziali dell’evoluzione dell’economia contadina in Indonesia a partire dalla legge agraria del 1870. Tale evoluzione, strettamente collegata all’affermarsi della fase imperialista, si riflette anche sulle modificazioni dell’emigrazione olandese in Indonesia. Nel 1853 risiedevano a Giava 17.285 europei, e 4.832 nelle altre isole dell’arcipelago, quasi tutti funzionari: nel 1900 il numero degli europei passa a 62.477 a Giava, e a 13.556 nelle isole, e la maggior parte di essi sono piantatori e commercianti. Accanto ad essi si affacciano i capitalisti finanziari.  Alexandre von Arx, in L’évolution politique en Indonésie de 1900 à 1942 (Fribourg, 1949), così parodizza la sottomissione dell’economia indonesiana da parte dell’imperialismo: «Se nel 1870 era l’interesse dei piantatori a dominare la politica del governo, dopo il 1885 fu quella dei finanzieri e dei capitalisti» (Bruhat).

Il nostro modesto schizzo economico dell’evoluzione dell’agricoltura indonesiana a partire dal 1870, e delle influenze determinanti che su di essa ebbe l’affermarsi della fase imperialista nelle metropoli capitaliste, non può essere meglio completato che dalla citazione delle prime due Tesi sulla questione agraria approvate al Congresso dei popoli dell’Oriente (Baku, 1920):

«1) La classe contadina dei paesi d’oriente è l’unica classe produttiva. Il suo lavoro nutre i grossi proprietari, la borghesia, e la burocrazia. Schiacciata dal peso delle vestigia del feudalesimo, la servitù, le decime, le imposte, essa è immersa in una miseria intollerabile, in preda alla fame cronica, oberata di debiti, asservita ai proprietari fondiari, ai funzionari e agli usurai. La oppressione e lo sfruttamento dei contadini d’oriente da parte dello Stato, del capitale straniero e dei proprietari fondiari raggiungono proporzioni tali che il contadino è nell’impossibilità non solo di evolvere, ma di condurre un’esistenza semplicemente umana, ridotto com’è alla condizione di bestia da soma.

«2) Le cause dell’oppressione e dello sfruttamento dei contadini sono: a) il mantenimento dei costumi feudali che mettono il contadino in rapporti di dipendenza personale ed economica dai proprietari fondiari; b) l’accaparramento delle terre da parte dei proprietari, che permette loro, data l’insufficienza di terre libere, di assoggettare il contadino e di trasformarlo, malgrado una libertà giuridica, in un vero servo; c) L’accaparramento delle terre da parte del potere (centrale o locale) e la concessione in affitto di vaste terre demaniali alle classi privilegiate e ai capitalisti, che creano a vantaggio di questi ultimi un monopolio del possesso della terra e costringono i contadini a puri affittuari e miserabili giornalieri; d) l’onere schiacciante delle imposte e il modo arbitrario di prelevarle mediante organi burocratici irresponsabili, rappresentanti un potere dispotico; e) l’assenza di sicurezza individuale, l’anarchia e il banditismo sistematico praticato da tribù nomadi semiselvagge, sostenute dal potere nelle loro violenze contro i contadini; f) da tutte queste condizioni deriva la spaventosa miseria dei contadini. La loro assoluta indigenza li obbliga di indebitarsi, il che li mette completamente alla mercè degli usurai; i frutti del loro lavoro bastano appena a pagare gli interessi dei debiti verso le banche, i proprietari, i contadini ricchi, gli usurai; g) la mancanza assoluta di attrezzi agricoli, danaro, macchine, bestie da soma, sementi, ecc, (conseguenza della rovina del contadino) impedisce loro di organizzare la propria economia agricola anche nel caso che possiedano delle terre o ne dispongano».

Vedremo quale funzione rivoluzionaria assegnasse ai contadini supersfruttati d’oriente l’Internazionale Comunista, nel quadro unitario della strategia mondiale della lotta per l’instaurazione della dittatura internazionale del proletariato e della repubblica universale dei Soviet. Vedremo quale funzione fosse attribuita in questa lotta mondiale al proletariato sviluppato delle metropoli imperialiste e al proletariato embrionale delle colonie e semicolonie. Vedremo attraverso quali informazioni e quali errori la lotta per l’emancipazione sociale dei popoli d’oriente, e nel caso specifico dei contadini indonesiani, andò incontro alla più catastrofica delle sconfitte. Vedremo infine come tale lotta non potrà che riprendere nel prossimo futuro, poiché le condizioni oggettive che la rendono necessaria sono più che mai presenti a mezzo secolo di distanza.

Prima di svolgere sommariamente tutte questo insieme di questioni è ancora indispensabile fornire qualche cenno sull’introduzione del capitale finanziario nell’economia indonesiana, e sull’influenza che su di essa ebbero le associazioni monopolistiche internazionali.


c) L’accaparramento del petrolio indonesiano da parte dei trust

In seguito alla scoperta di giacimenti di petrolio a Sumatra (Langkat e Atjeh), Giava (Rembang e Semarang) e nelle Molucche (Ceram) è fondata nel 1883 la “N. V. Koninklijke Nederlandsche Maatschappij, tot exploitatie van Petroleum”, che diventerà in seguito la Royal Dutch. Nel 1910 si realizza una fusione fra la Royal Dutch e la Shell Transport and Trading Company con la conseguente creazione della Royal Dutch Shell. A questa fusione di capitale finanziario anglo-olandese viene dietro una fusione supplementare del capitale anglo-olandese con quello americano, per lo sfruttamento comune del petrolio indonesiano.

Lenin, nell’Imperialismo, così descrive questa lotta per la spartizione del mondo: «Naturalmente la divisione del mondo tra due potenti trust non esclude che possa avvenire una nuova spartizione, non appena sia mutata la correlazione delle forze in conseguenza dell’ineguaglianza di sviluppo per effetto di guerre, di crac, ecc. Un esempio di simile nuova spartizione e delle lotte che essa provoca è offerto dall’industria del petrolio».

«Il mercato mondiale del petrolio sostanzialmente è ancor oggi ripartito tra due grandi gruppi finanziari: la Standard Oil Co. americana, di Rockefeller, e i padroni del petrolio russo di Baku, Rothschild e Nobel. Questi due gruppi stanno tra di loro in intimi rapporti, ma da alcuni anni sono minacciati nelle loro posizioni di monopolio da cinque avversari: 1) l’esaurimento delle sorgenti petrolifere d’America; 2) la concorrenza della ditta Mantascev di Baku; 3) la scoperta di nuove sorgenti di petrolio in Austria e 4) in Romania; 5) le sorgenti petrolifere transoceaniche specialmente nelle colonie olandesi (le ricchissime ditte Samuel e Shell, legate anche al capitale inglese). Questi tre ultimi gruppi di imprese sono legati alle grandi banche tedesche ed alla testa sta la più grande, la Deutsche Bank (...) S’iniziò una lotta, chiamata nella letteratura economica lotta per “la spartizione del mondo”. Da un lato il “trust petrolifero” di Rockefeller, per impadronirsi di tutto, fondò nella stessa Olanda una “società figlia”, andò comperando le sorgenti di petrolio nelle Indie Olandesi, allo scopo di colpire a morte il suo principale avversario, il trust anglo-olandese Shell. Dall’altro lato la Deutsche Bank e le altre grandi banche di Berlino cercarono di assicurarsi la Romania e di unirla, contro Rockefeller, con la Russia. Rockefeller disponeva di un capitale molto cospicuo e di una splendida organizzazione per i trasporti e per la consegna di petrolio ai consumatori. La lotta quindi doveva terminare e terminò (1907) con la completa sconfitta della Deutsche Bank» (Lenin).

All’inizio del secolo l’economia indonesiana si trova dunque completamente sottomessa alle leggi del mercato mondiale capitalistico nella fase imperialista, e diviene l’oggetto della lotta per la spartizione del mondo fra i trust e le grandi potenze imperialiste.

Formalmente fino al 1945 l’Indonesia rimarrà una colonia olandese. In realtà si trova nella condizione di quelle «piccole colonie degli Stati minori» di cui parla Lenin, «le quali formano l’oggetto più prossimo, per così dire, di una possibile e verosimile nuova “spartizione” delle colonie». La lotta per la spartizione dell’Indonesia ha visto scendere in campo, dagli inizi del secolo ad oggi, tre grandi potenze: l’imperialismo anglo-olandese, l’imperialismo giapponese, l’imperialismo americano. Tutta la storia politica dell’Indonesia nel nostro secolo è la storia della lotta per la sua spartizione fra queste tre potenze imperialiste: l’ascesa al potere e la caduta di Sukarno ne sono un semplice episodio.

Nella fase imperialista del capitalismo l’esportazione di merci segue l’esportazione del capitale finanziario. La seguente tabella del commercio estero indonesiano dal 1909 al 1939 fornisce un’idea della lotta fra l’imperialismo anglo-olandese, americano, giapponese per la spartizione dell’Indonesia. (Fonte - Bruhat, op. cit., p. 78).

PERCENTUALE DELLE IMPORTAZIONI INDONESIANE DA:
anni 1909 1913 1918 1920 1929 1932 1935 1938 1939
Olanda 32,5 36 3 24 20 16 13 22 21
Stati Uniti 1,8 2 14 15 13 7 8 13 14
Giappone 1,2 2 21 11 11 21 30 15 18
PERCENTUALE DELLE ESPORTAZIONI INDONESIANE VERSO:
Olanda 26,3 34 1 16 16 19 22 20 15
Stati Uniti 3,3 2 18 13 12 12 15 15 21
Giappone 4,3 5 12 6 3 4 5 3 3

Come si vede dalla tabella nel 1913 l’Olanda rappresenta il 36% delle importazioni e il 34% delle esportazioni indonesiane, e Stati Uniti e Giappone rispettivamente solo il 2%, e il 2% e il 5%. Nel 1918, alla fine della prima guerra imperialista per la spartizione del mondo, la posizione dell’Olanda è caduta al 3% delle importazioni e all’1% delle esportazioni, pur rimanendo formalmente l’Indonesia una colonia dell’Olanda, mentre le due nuove potenze imperialiste, Stati Uniti e Giappone, rappresentano nelle importazioni ed esportazioni indonesiane rispettivamente il 14% e il 18%, e il 21% e il 12%.

E fin dal 1922 nelle Tesi del Quarto Congresso sulla Questione d’Oriente l’Internazionale Comunista poteva prevedere lo scatenarsi di un nuovo conflitto imperialistico che avrebbe avuto come causa la lotta fra Stati Uniti e Giappone per una nuova spartizione dell’Asia.

Anni Villaggi
con proprietà
esclusivamente
privata collet-
tiva
1882 5605 13548
1892 8240 11136
1902 6711 7885
1907 6889 7288
1912 7500 6043
1917 7526 4739
1922 8016 3005

L’Indonesia all’inizio del secolo diviene l’arena in cui si affrontano i capitali finanziari anglo-olandese, americano, e giapponese, e la sua economia è completamente sottomessa alle leggi del mercato mondiale capitalistico nella fase imperialista.

Per quanto riguarda l’agricoltura la distruzione delle comunità di villaggio in seguito alla legge agraria del 1870 si accompagna all’introduzione delle colture dell’hevea (caucciù) e dell’elaeis (palma da olio), alla formazione delle grandi piantagioni in cui sono impiegati salariati, e all’assoggettamento della massa dei piccoli contadini da parte degli usurai. Riportiamo alcune cifre, tratte dall’articolo di Samin, Der Aufstand auf Java und Sumatra, pubblicato in Die Kommunistische Internationale, n. 13 del 1927, che riguardano da un lato la distruzione della proprietà comune, dall’altro l’incidenza delle piccole aziende contadine nella produzione di prodotti agricoli di esportazione.

In tutto il periodo considerato dal Samin, dal 1882 al 1922, i villaggi con proprietà mista rimangono intorno alla cifra di 10.000, mentre il numero totale di essi è diminuito a causa della concentrazione di più villaggi in uno solo. Queste cifre forniscono una idea del processo di espropriazione dei contadini e di formazione di una enorme massa di contadini poveri.

Anni Esportazioni
di prodotti
agricoli
in milioni
di fiorini
Percentuale
dei prodotti
di indigeni
(piccole
aziende
contadine)
  Da Giava
1918 231 15,7%
1921 516 12,6%
1922 400 10,3%
1923 651 11,8%
1924 695 12,0%
  Dalle altre isole
1918 70 44%
1921 113 47%
1922 121 49%
1923 166 42%
1924 205 41%

Le cifre di questa seconda tabella dimostrano: 1) l’enorme sviluppo della produzione agricola per l’esportazione (da 231 milioni di fiorini nel 1918 a Giava a 695 milioni nel 1924, e nelle altre isole da 70 a 205), dunque l’assoggettamento completo dell’agricoltura indonesiana alle esigenze del mercato mondiale nella fase imperialista; 2) l’incidenza delle piccole aziende contadine sulla produzione di prodotti agricoli per l’esportazione è nettamente minoritaria e in costante diminuzione (dal 15,7% a Giava nel 1918 al 12% nel 1924, e dal 44% al 41% negli stessi anni nelle altre isole); ciò implica il predominio delle grandi piantagioni e l’immiserimento dei contadini; 3) l’introduzione dell’agricoltura capitalistica (piantagioni) è molto più avanzata a Giava che nelle altre isole.

A questo punto possiamo avere un quadro sufficientemente esatto delle due classi fondamentali della società indonesiana negli anni immediatamente seguenti la prima guerra mondiale. Il contadiname povero e sfruttato costituisce l’enorme maggioranza (Maring, come abbiamo visto, nel citato rapporto al Secondo Congresso del Comintern fornisce la cifra di 24 milioni di contadini a Giava su 50 milioni di indigeni). Non possediamo cifre per quanto riguarda il numero dei salariati agricoli nelle piantagioni, evidentemente compresi nei 3-4 milioni di operai di cui parla sempre Maring per quanto riguarda Giava. Il proletariato industriale è abbastanza concentrato, anche se poco numeroso, e si trova dislocato in zuccherifici, miniere di stagno, pozzi di petrolio e raffinerie, mezzi di trasporto (postini ferrovieri e tranvieri), gas ed elettricità. Possediamo le seguenti cifre sull’occupazione operaia, che si riferiscono al 1938: 1.830.000 operai, di cui 120.000 occupati in fabbriche grandi, 840.000 in fabbriche medie, 670.000 in industrie a domicilio. Il numero degli artigiani, sempre al 1938, si aggira intorno ai 3-4 milioni. Si tratta ora di vedere come la lotta delle due classi fondamentali della società indonesiana, il contadiname povero e il proletariato, negli anni dal 1908 al 1927, si è riflessa sul piano politico, sul processo di formazione dei partiti politici in Indonesia, e in particolare del Partito Comunista d’Indonesia.


d) Il movimento politico e sociale in Indonesia dal 1908 al 1920

Il sistema politico vigente in Indonesia agli inizi del secolo è molto semplice, e corrisponde più o meno alle amministrazioni coloniali dell’epoca. La sovranità è esercitata dal re e dal parlamento olandese, in cui siede un deputato indonesiano, e viene delegata a un governatore generale, assistito da un Gran Consiglio per le Indie.

A partire dal 1908 si sviluppano in Indonesia i primi movimenti politici nazionalisti. Nel seguirne la formazione, ci riferiremo al citato rapporto di Maring al secondo Congresso del Comintern e all’opera citata del Bruhat. Il 20 maggio 1908 è fondato a Batavia un movimento indipendentistico giavanese costituito da studenti, il Budi Utomo. Questo movimento, fra l’altro, sostiene l’adozione del malese come lingua nazionale unica per tutta l’Indonesia. Tale rivendicazione viene propugnata dalla rivista mensile Pudjangga Baru (Il nuovo scrittore), fondata nel 1913.

Il 28 ottobre 1928 il Congresso della Gioventù Indonesiana accoglierà il malese come unica lingua nazionale. Facciamo a questo punto due osservazioni. L’esistenza in Indonesia di una lingua dominante parlata dal popolo, il malese, e di una religione dominante, l’islamismo, costituisce fin dall’inizio un fattore favorevole alla conquista dell’indipendenza nazionale, fattore che non esiste ad esempio in India, nemmeno oggi. L’India contemporanea si trova ancora di fronte il problema irrisolto dell’unità linguistica e dell’unità religiosa. È superfluo aggiungere che l’assenza di divisioni linguistiche e religiose favorisce anche l’unificazione del proletariato nella lotta rivoluzionaria. Il movimento del Budi Utomo rappresenta la matrice del Partito Nazionale Indonesiano, fondato nel 1927 dai Sukarno e dagli Hatta dopo la disfatta del movimento rivoluzionario mondiale diretto dall’Internazionale Comunista in Asia (Cina e Indonesia) e in Europa.

La base sociale del nazionalismo del Budi Utomo, e più tardi del Partito Nazionale Indonesiano, non è rappresentata da una inesistente borghesia nazionale, democratica progressista e anti-imperialista, come sostennero Stalin e Bucharin nel 1926 a proposito della Cina e come sostengono ancor più spudoratamente oggi filorussi e filocinesi, ma da una intelligenza piccolo borghese, vile, codarda e pronta ad ogni compromesso con l’imperialismo. Ritorneremo in seguito su questa questione, che si ripresenta in forme diverse in tutti i movimenti rivoluzionari sviluppatisi nelle colonie nella prima metà del secolo.

Nel 1911, secondo il citato rapporto di Maring, lo scrittore Ernest François Eugène Douwes-Dekker fonda il Partito Indonesiano, esteso a tutto il paese, che respinge la lotta di classe e cerca appoggi nella socialdemocrazia olandese: viene messo fuori legge nel 1913, i suoi organizzatori sono prima internati, poi ottengono il permesso di trasferirsi in Olanda; tornano nel 1918 ma l’organizzazione nel frattempo si è sfasciata.

Nel 1911-1912 sorge nel centro di Giava, e si estende presto nell’est dell’isola, il Sarekat Islam (Unione dell’Islam), sotto la guida del giovane intellettuale Oemar Said Tjokroaminoto. Il giudizio che di tale movimento dà Maring nel suo rapporto al secondo Congresso del Comintern è contraddittorio: tace su punti essenziali che ne caratterizzano la natura sociale, con il fine evidente di giustificare la tattica di noyautage e di fronte unico avanti lettera praticata verso di esso dall’Associazione Socialdemocratica Indonesiana, di cui Maring faceva parte. Maring definisce il Sarekat Islam come "un partito di massa con seguito operaio e contadino", e lo paragona addirittura, senza poterne evidentemente fornire alcuna ragione chiara, ai cartisti inglesi. Maring non dice però ciò che arriva ad ammettere persino uno storico “progressista” come il Bruhat, e cioè che il Sarekat Islam riuniva commercianti giavanesi di Batik, e che il suo fine era la protezione dell’industria e del commercio giavanesi contro la concorrenza europea e cinese. Il fatto che il Sarekat Islam ricorresse nella sua agitazione a mezzi violenti, e che trascinasse dietro di sè masse di operai e di contadini non organizzati, non giustifica il giudizio che di esso fornisce Maring, e ancor meno la tattica del noyautage nei suoi confronti.

Secondo il resoconto di Maring, il Sarekat Islam è ammesso dal governo solo come organizzazione locale, e lo stesso governo riesce ad infiltrarvi dei suoi agenti, come il dottor Rinkes, che vi crea un’ala destra che lancia la parola d’ordine “niente azioni di massa: le masse non sono mature”. Nel 1916 questa ala destra appoggia la politica governativa di rafforzamento della difesa nazionale. Se la solita distinzione fra ala destra e ala sinistra (poi invocata per giustificare la partecipazione dei comunisti cinesi al Kuomintang) può servire a Maring per sostenere la tattica del fronte unico e del noyautage, quanto egli stesso ammette, cioè l’appoggio del Sarekat Islam (sia pure della sua “ala destra”) alla guerra imperialista è sufficiente a togliere a questo movimento la caratteristica di movimento nazionalista rivoluzionario, nel senso in cui questa definizione viene usata dalle Tesi nazionali e coloniali approvate dal secondo Congresso dell’Internazionale Comunista.

Nel 1914, sotto l’influenza di socialisti olandesi e in particolare di H.J.F. Sneevliet (Maring) si costituisce l’Associazione Socialdemocratica Indonesiana in cui le tendenze di sinistra prevalgono su quelle fabiane della destra. Durante la guerra l’Associazione lotta contro il militarismo coloniale e si attira le simpatie, secondo il Maring, del Sarekat Islam, nel quale promuove la formazione di un’ala sinistra. Nel 1915 l’Associazione pubblica il bimensile “Libera parola” e nel 1916 il mensile malese “Voce del popolo”. Nel 1917 l’ala riformista lascia l’Associazione e si costituisce in sezione indonesiana del Partito Operaio Olandese. Il malcontento dell’enorme massa di contadini poveri e del poco numeroso ma concentrato e super sfruttato proletariato, acuito dalla guerra imperialista, preoccupa l’amministrazione coloniale, che tenta di prevenirlo e di imbrigliarlo con la istituzione del Volksraad (Consiglio del Popolo) avvenuta il 16 dicembre 1916, e la cui prima riunione si tiene il 18 maggio 1918. Consultivo fino al 1927, esso ottiene in seguito un certo potere legislativo che può tradursi nei fatti soltanto dietro accordo fra Volksraad e Governatore.

Nel suo sistema elettorale, per essere elettori occorre avere 25 anni, saper leggere e scrivere, pagare l’imposta su di un reddito di almeno 300 fiorini all’anno. Dall’articolo citato di Samin risulta che, secondo statistiche ufficiali, il reddito pro-capite a Giava era nel 1924 di 42,86 fiorini all’anno. Bruhat scrive che nel 1936, ad esempio, nella provincia di Giava vi furono 709 elettori in tutto, di cui 178 olandesi, 453 indigeni, 78 stranieri, e che nel Volksraad gli indonesiani avevano un rappresentante ogni 2.250.000 abitanti, i cinesi uno su 200.000, gli olandesi uno su 10.000. A ragione gli indigeni battezzarono il Consiglio del Popolo “Consiglio delle cimici bianche”. Ciò non impedì tuttavia al Sarekat Islam di partecipare alle elezioni del Consiglio delle cimici bianche e di farvi eleggere nel 1918 “due membri di destra”, come li definisce Maring. Il noyautage praticato dall’Associazione Socialdemocratica Indonesiana nel Sarekat Islam, che Maring difende, e la costituzione in esso di un’ala sinistra, non impediscono al Sarekat Islam di appoggiare la guerra imperialista, e di partecipare alle elezioni del Consiglio delle cimici bianche, naturalmente sotto l’impulso della sua “ala destra”.

Da chi sia rappresentata questa ala destra non si riesce mai a capire bene. Maring dice che, mentre il fondatore del Sarekat Islam Tjokroaminoto fa di esso un movimento di massa con seguito operaio e contadino, solo il dottor Rinkes, agente del governo, vi avrebbe creato un’ala destra». Tutto ciò è smentito da un semplice fatto: nel 1923 il Sarekat Islam si scisse in un’ala sinistra e in un’ala destra, che ne conservò il nome, e il rappresentante dell’ala destra fu proprio Tjokroaminoto. Evidentemente è la stessa identica storia che si ripeterà nel 1924-27 in Cina, quando i comunisti furono obbligati da Mosca a entrare nel Kuomintang, per favorirvi la formazione di un’ala sinistra, e quando tutte le “ali sinistre” del Kuomintang finirono per affogare nel sangue la rivoluzione proletaria in Cina e nell’Asia intera. Per noi rimane dunque stabilito che un partito il quale ha partecipato alle elezioni del Volksraad, sia pure tramite la sua “ala destra”, non può essere considerato un partito nazionalista-rivoluzionario, nel significato che viene dato a questa definizione dalle Tesi nazionali e coloniali del secondo Congresso del Comintern.

A questo proposito ricordiamo che un autentico partito nazionalista-rivoluzionario, l’Etoile Nord-Africaine algerina, rifiutò nel 1934 di accettare il Progetto Blum-Viollette che accordava il diritto di voto per le elezioni parlamentari francesi a circa 20.000 algerini, e ciò in una situazione storica ben più sfavorevole e controrivoluzionaria che nel 1918. Che dire di un partito “nazionalista” che, come il Sarekat Islam, partecipa nel 1918 alle elezioni del Consiglio delle cimici bianche? E come è possibile che in un simile partito, secondo quanto riferisce Maring nel citato rapporto al secondo Congresso del Comintern, entrassero nel 1918, addirittura nella sua direzione, diversi “socialisti rivoluzionari giavanesi”? Quanto all’Associazione Socialdemocratica Indonesiana, essa boicotta le elezioni al Volksraad, partecipando solo alle elezioni amministrative locali.

L’istituzione del Consiglio del Popolo non può naturalmente impedire l’entrata nella lotta del proletariato e dei contadini poveri. Nel 1917-18 avvengono violente manifestazioni contadine, e il Sarekat Islam e i socialisti promuovono azioni di massa comuni contro il governo. I socialisti prendono l’iniziativa della costituzione dei sindacati e conquistano quello dei ferrovieri (8.000 nel 1918), sotto l’impulso dei quali sorge nel 1919 una centrale sindacale che nel 1920 conta da 15.000 a 20.000 iscritti, per lo più ferrovieri e zuccherieri. Nel marzo 1917, alla notizia della prima rivoluzione in Russia, Sneevliet è arrestato ma poco dopo prosciolto; Baars e Brandsteder svolgono una intensa propaganda fra i marinai e i soldati. Sui primi del 1918 si riunisce il primo congresso socialista, il cui programma afferma che l’indipendenza nazionale è realizzabile solo mediante azioni di massa dirette dai socialisti e collegate al movimento rivoluzionario mondiale. Alla fine del ’18 Sneevliet è espulso, i giavanesi Darsono e Semaun arrestati, Brandsteder espulso nella primavera del 1919 mentre 13 membri di un consiglio dei soldati subiscono lunghe pene detentive. Quanto al Sarekat Islam, esso dirige nel 1919 una agitazione per lo sviluppo della coltivazione del riso, contro quella della canna da zucchero.

Il movimento rivoluzionario in Indonesia intorno agli anni venti presenta dunque delle caratteristiche originali, nei confronti degli altri paesi dell’Asia e della stessa Cina. Anzitutto, in Indonesia sorge fin dal 1914 un Partito Socialista di sinistra che mantiene un atteggiamento di opposizione di fronte alla guerra, appoggia la rivoluzione d’Ottobre e subito dopo la fine della guerra è in grado di formare e dirigere i sindacati. Il 23 maggio 1920 assume ufficialmente il nome di Partito Comunista d’Indonesia aderendo all’Internazionale Comunista.

Ma questo stesso Partito pratica la tattica del noyautage e del fronte unico avanti lettera nei confronti di un movimento come il Sarekat Islam, un movimento che difende gli interessi particolaristici dei commercianti indigeni, che appoggia la guerra imperialista, che accetta i compromessi più vergognosi con l’amministrazione coloniale, e che fa propria l’ideologia del panislamismo.

Non fu dunque un caso se Sneevliet poté tenere a battesimo la tattica disastrosa della collaborazione dei comunisti col Kuomintang in Cina, tattica che rinnegava le Tesi nazionali e coloniali del secondo Congresso dell’Internazionale Comunista e che avrebbe portato a una sconfitta catastrofica la rivoluzione proletaria in Cina e nell’Asia intera.