Partito Comunista Internazionale  


La verità dietro il mito del Vietminh

(Il Programma Comunista, 1971, N.17-18-19)


I -

La pubblicazione dell’ormai famoso dossier McNamara ha suscitato un’ondata di stupore, di sdegno, di proteste nell’”opinione pubblica”.

La stampa “democratica” lo ha accolto con soddisfazione come prova decisiva dei crimini per i quali il governo americano è stato da tempo messo sotto accusa dal “movimento per la pace” e dal “tribunale dei diritti dell’uomo”.

Ecco un sommario elenco dei “crimini” americani secondo l’ Opposizione democratica; 1) I “primi a cominciare”, cioè gli “aggressori” furono gli USA; 2) Da parte della RDV, non ci fu nessuna invasione e nemmeno invito all’insurrezione; 3) Furono gli Usa a violare gli accordi di Ginevra del 1954; 4) Con la loro bestiale condotta di guerra gli USA hanno mille volte superato i nazisti per ferocia e larghezza dei mezzi impiegati nel terrorismo e nello sterminio organizzato delle popolazioni; 5) Il rispetto che gli USA hanno dei trattati fa onore ai nazisti; gli USA hanno violato tutti i trattati internazionali, i “diritti dell’uomo”, il diritto alla autodecisione dei popoli, ecc.; 6) Col loro intervento militare, infine, gli USA avrebbero agito contro la volontà del popolo americano, contro la volontà del parlamento americano; hanno quindi calpestato le loro stesse leggi, hanno negato i loto principi di democrazia, libertà, ecc.

Ma come ha potuto,il governo USA andare contro tutto e contro tutti: il suo popolo, i suoi principi, i suoi organi legislativi? La sua azione ha violato mille “diritti”, ma ha rispettato in pieno quel che conta, il diritto del più forte.

Di fronte a una tale dimostrazione di brutalità e di cinismo, come appaiono insulsi e sterili lo stupore e i piagnistei dei candidi pacifisti piccolo-borghesi, che contro la forza impugnano un “diritto” e vorrebbero opporre alle armi dei pezzi di carta! Lo Stato USA, come tutti gli Stati borghesi, non difende né una ideologia né una carta costituzionale, ma una rete di interessi; può quindi, all’occorrenza, calpestare le sue stesse leggi.

Da una parte, una squallida corrente di opinione, che si definisce genericamente “pacifista” e sostiene di lottare a fianco dei vietnamiti indicando nella guerra e nella violenza la causa di tutti i mali e nella pace la soluzione di tutto: dall’altra, lotta vera con bombardamenti e massacri.

Ma gli eroici combattenti vietnamiti, che lottano quasi ininterrottamente da più di 25 anni, sono soli: soli contro l’imperialismo americano; soli contro il “movimento pacifista”, che contribuisce a confondere le idee del proletariato occidentale e ad avallare la tesi che i vietnamiti “ce la possono fare da soli” e che la solidarietà con la loro lotta deve avvenire in forme democratiche e non violente; soli contro i loro stessi capi legati a doppio filo alla politica di Mosca e Pechino, che hanno sempre cercato di contenere il movimento entro limiti borghesi-nazionali e (come dimostreremo) non solo di non urtare gli interessi della classe dei proprietari terrieri, ma di accordarsi con essa, fottendo sistematicamente proletari e contadini poveri.

È un fatto che dà la misura del baratro in cui il proletariato occidentale è sprofondato da oltre 50 anni senza muovere un dito davanti allo sterminio organizzato di migliaia e migliaia di vietnamiti. Questo è il punto, e mentre tutti esaltano ipocritamente la lotta e le vittorie militari dei vietcong, non possiamo nascondere che i proletari e i contadini poveri vietnamiti sono e resteranno senza speranza, finché il proletariato occidentale non si sarà liberato della cappa di piombo dell’opportunismo che ne frantuma e ne divide le lotte mantenendole su un terreno legalitario e pacifico.

Aiuta forse i combattenti vietnamiti chi si limita ad esaltarne le battaglie, senza trarre dagli avvenimenti trascorsi le necessarie lezioni, per quanto dolorose siano? Stanno forse dalla parte degli eroici combattenti vietnamiti coloro secondo i quali gli avvenimenti del Vietnam proverebbero che «un popolo piccolo e debole è in grado da solo di sconfiggere l’imperialismo»?

Che cosa dimostrano 25 anni di guerra, prima contro i giapponesi, poi contro i francesi, oggi (da ben undici anni) contro gli americani?

Nel 1946, dopo la cacciata dei giapponesi, un accordo con la Francia apre la strada all’ingresso delle truppe francesi nel Nord e prelude a una nuova guerra. Nel 1954, dopo la grande vittoria di Diem Bien Phu, si arriva agli accordi di Ginevra, in base ai quali i francesi evitano la completa distruzione del loro corpo di spedizione, i vietnamiti devono ritirare le loro forze sopra il 17° parallelo, e il paese viene diviso in due gettando le premesse per una nuova guerra. Oggi, dopo altri brillanti successi militari come l’offensiva del Tét nel 1968 e le recenti vittorie in Cambogia e ne Laos, ci avviciniamo forse a un nuovo accordo, o meglio, una nuova fregatura.

I vietnamiti hanno dimostrato un grande valore sul campo di battaglia; ma, mentre tutti intonano inni alla pace, ci si prepara nuovamente a batterli al tavolo delle trattative. La tesi suddetta è quindi smentita clamorosamente.

Un’altra tesi che generalmente tutti avallano e che contribuisce a confondere le idee del proletariato occidentale pretende che nel Vietnam vi sia un “popolo” oppresso che combatte unito contro l’aggressore straniero. Secondo questa concezione, che gli attuali dirigenti vietnamiti hanno sempre sostenuto, la lotta di classe avrebbe subìto una battuta d’arresto e, di fronte all’obiettivo “prioritario” della lotta contro l’aggressore, tutta la nazione si sarebbe unita come un uomo solo. Un breve esame dei fatti che si sono succeduti dal 1930 ad oggi servirà a dimostrare la falsità anche di questa tesi e a smascherare l’attitudine dei dirigenti vietnamiti che hanno sempre sacrificato gli interessi vitali del proletariato e dei contadini poveri sull’altare della “pace” e della “unità nazionale”.




1930-1940: LE INSURREZIONI

Il Partito Comunista Indocinese si formò nel 1930, quando già in Europa la rivoluzione era stata sconfitta e la Terza Internazionale e lo Stato Sovietico erano degenerati sotto i colpi della controrivoluzione staliniana. Tuttavia esisteva nel suo interno un’ala sinistra su posizioni tendenzialmente classiste (conosciuta sotto il nome generico di “trotskista”) che fu alla testa delle rivolte operaie e contadine e che si oppose sempre al compromesso con la borghesia nazionale.

Lo testimonia il fatto che solo nel 1941 (dopo che i migliori compagni erano stati eliminati nelle rivolte e nelle repressioni) la politica del blocco nazionale con la classe dei proprietari fondiari (il che significa automaticamente rinuncia alla riforma agraria) si impose definitivamente. Secondo quanto afferma lo stalinista Jean Chesneaux, autore di una Storia del Vietnam di cui ci serviamo, «la parola nei testi comunisti dal 1930 al 1940 “patria” (...) in pratica non appare mai». L’autore, che è una vera carogna, lamenta il fatto che «i movimenti popolari a direzione comunista, dal Nghe An alle insurrezioni del 1940, si erano accontentati (!) fino ad allora di issare la bandiera rossa con la falce e martello del comunismo internazionale». Anche il generale Giap, nel suo scritto Guerra del popolo, esercito del Popolo, ricorda che «fu necessario attendere il periodo 1939-41 perché la lotta contro l’imperialismo per la liberazione nazionale fosse concepita come fondamentale».

All’atto della sua costituzione, il programma del partito comprendeva infatti: Rovesciamento dell’imperialismo francese, del feudalesimo e della borghesia reazionaria – Formazione di un governo di operai, contadini e soldati – Confisca delle banche e delle altre imprese imperialistiche – Confisca di tutte le proprietà degli imperialisti e dei borghesi reazionari vietnamiti e loro distribuzione ai contadini poveri – Introduzione della giornata lavorativa di otto ore.

Nel 1930 (sotto il dominio francese) il Vietnam è sì un paese prevalentemente agricolo, ma comprende anche un proletariato abbastanza numeroso e concentrato (le miniere e le piantagioni di gomma occupavano da sole circa 230.000 operai). Gli operai entrano in scena con rivendicazioni proprie con una ondata di scioperi nel 1928-29. Nel 1930, in seguito ai crolli dei prezzi del riso e ai cattivi raccolti, si svolgono grandi agitazioni contadine, alla testa delle quali stanno i militanti del partito comunista, Il movimento esplode in forme violente; in molte zone si assaltano locali pubblici, si bruciano registri e archivi, si cacciano i proprietari e si lancia la parola d’ordine della distribuzione delle terre. Nel 1931, nella regione di Nghe si forma il potere sovietico. I soviet confiscano la terra dei latifondisti e la distribuiscono ai contadini poveri, vengono istituiti tribunali popolari, nei villaggi il potere viene affidato a comitati di contadini poveri. Ma questo magnifico esempio di lotta rivoluzionaria viene affogato nel sangue alcuni mesi dopo. Anche nella regione dello zucchero si verifica una insurrezione subito repressa.

Altri centri di insurrezione sono le grandi risaie del Sud, che impiegano un gran numero di salariati, e le grandi piantagioni dell’Annam e della Cocincina, dove tra il 1930 e il 1932 si svolgono dappertutto rivolte sanguinose degli operai contro le riduzioni di salario e i licenziamenti. Contemporaneamente nelle città riprendono le agitazioni operaie per l’aumento del salario e contro la disoccupazione.

Per avere un’idea della violenza delle lotte e dell’alto grado di combattività rivoluzionaria raggiunto dagli operai e dai contadini, basti pensare che solo nel 1930 le autorità filo-francesi eseguono 30 esecuzioni sommarie durante le manifestazioni del 1° maggio, 40 per l’anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, 115 per l’anniversario della Comune di Canton. Inutile dire che in queste repressioni sono eliminati i migliori compagni. Comincia allora a prendere il sopravvento la frazione stalinista del partito, fautrice di una alleanza con la borghesia nazionale, di cui il tanto osannato Ho Chi Minh è uno dei maggiori esponenti. Tuttavia, l’opposizione “trotskista” è ancora forte, soprattutto nella Cocincina dove si raccoglie attorno al giornale La Lutte.

La definitiva rottura tra l’opposizione “trotskista” e l’ala staliniana avviene solo nel 1937-38, quando quest’ultima proclama la priorità della lotta contro i “fascisti giapponesi” rispetto alla lotta contro la classe dei proprietari fondiari, e l’unità non solo con questi ultimi, ma anche con i colonialisti francesi.

Nel 1939, Ho Chi Minh, in un rapporto all’Internazionale Comunista scrive: «1) In questo momento il Partito (...) deve evitare di mirare troppo in alto con le sue rivendicazioni (...) per non cader nelle trappole dei fascisti giapponesi. Deve limitarsi a rivendicare i diritti democratici: libertà di stampa, ecc. 2) In vista di questi obiettivi il Partito deve sforzarsi di creare un vasto fronte nazionale democratico, che comprenda non solo indocinesi, ma anche i progressisti francesi, non solo le classi lavoratrici, ma anche la borghesia nazionale. 3) Nei confronti della borghesia nazionale, il Partito deve mostrarsi abile ed elastico. Deve fare del suo meglio per convertirla alla causa del fronte. 4) Nei confronti dei trotskisti nessuna alleanza e nessuna concessione. Bisogna con tutti i mezzi smascherare questi agenti del fascismo, bisogna annientarli sul piano politico».

Si noti il livore con cui questo rettile si scaglia contro compagni da sempre alla testa delle lotte e decimati dalle repressioni; e, all’opposto, il tono remissivo nei confronti della borghesia nazionale. Giunge fino a sostenere al punto 6 del rapporto: «Il Partito non deve imporre la sua direzione al fronte», o, in altre parole, deve lasciare la direzione del fronte alla borghesia (da Scritti, lettere, discorsi del presidente Ho Chi Minh, ed. Feltrinelli).




1940-1946: IL FRONTE POPOLARE

Nel 1940, dopo la sconfitta francese in Europa, inizia nel Vietnam la penetrazione giapponese. In giugno i giapponesi ottengono dalle autorità coloniali francesi varie concessioni (ad es., il diritto di servirsi di tre aeroporti e di mantenervi un contingente di truppe, il controllo di una ferrovia, ecc.).

Nello stesso anno scoppia una serie di sommosse armate dirette contro sia i giapponesi sia i francesi. La rivolta assume proporzioni molto vaste, tanto che giapponesi e francesi uniti nelle repressioni compiono vere operazioni militari con impiego anche dell’aviazione. La repressione è durissima, e decima i quadri più combattivi e radicali del Partito. Infine l’amministrazione francese, messa a mal partito, apre ancor più le porte alla penetrazione dei giapponesi, che restano nel Vietnam sino alla fine della guerra.

È il fallimento di questa insurrezione che apre la strada al definitivo slittamento del Partito Comunista Indocinese su posizioni borghesi nazionali, e alla vittoria della corrente capeggiata da Ho Chi Minh. Questa linea è infatti sancita solo nel maggio 1941 nella VIII sessione del Comitato Centrale: nella stessa occasione viene fondato il Vietminh (fronte dell’indipendenza del Vietnam).

Ci sono voluti 10 anni, per far ingoiare ai proletari e ai contadini vietnamiti la linea del fronte popolare!

Nel programma del Vietminh è proclamata la lotta per la “rivoluzione nazionale e democratica”, “la lotta contro il governo francese di Vichy e contro il Giappone”, “l’alleanza del popolo vietnamita con le democrazie che combatterono il fascismo: Cina, Stati Uniti, Unione Sovietica”, il suffragio universale, le libertà democratiche, la giornata di otto ore.

Poco tempo dopo la fondazione del Vietminh, il bravo Ho, in una lettera dall’estero, fa appello alla resistenza nazionale: «Notabili, ricchi, soldati, operai, contadini, intellettuali, funzionari, commercianti, giovani donne, voi tutti che siete pieni di patriottismo! In questo momento, la liberazione nazionale e la cosa più importante. Uniamoci!».

Cosa significa unione con i notabili, i ricchi, i funzionari se non rinuncia alla riforma agraria? Infatti il programma agrario del Vietminh prevede la spartizione solo delle terre dei colonialisti e dei proprietari “traditori” (della patria). Lo stesso Ho Chi Minh, più tardi, rievocando gli avvenimenti di questo periodo, dirà: «Si evitava di lanciare la parola d’ordine “confisca e distribuzione delle terre dei proprietari fondiari ai contadini”, per ottenere l’appoggio dei proprietari terrieri al fronte nazionale» (op. cit, da un rapporto tenuto nel 1951).

A sua volta, il generale Giap così definisce la nuova politica agraria: «Sospendere provvisoriamente la parola d’ordine della riforma agraria, sostituendola con quella della diminuzione dei tassi d’affitto e di interesse e della confisca delle terre appartenenti agli imperialisti e ai traditori, da distribuirsi ai contadini» (op. cit.). Ma i contadini poveri, schiacciati dalle tasse e dall’usura, non insorgono certo per conquistare la libertà di stampa o il suffragio universale, bensì per cacciare i latifondisti dalle loro terre, o quanto meno per ottenere un miglioramento delle condizioni di vita. È quindi chiaro che i contadini poveri e la borghesia nazionale, essenzialmente terriera, non potrebbero mai marciare assieme per obiettivi comuni, e che la parola d’ordine della “unione nazionale” copre solo il completo asservimento agli interessi borghesi.

D’altra parte, forse che la borghesia terriera locale si regge su una forza propria? No! Si appoggia di volta in volta ai giapponesi, ai francesi, ai cinesi del Kuomintang, agli americani, a seconda delle circostanze. È chiaro quindi che la “liberazione nazionale” non potrebbe avvenire se non contro la borghesia indigena, legata mani e piedi all’imperialismo.

Tra il 1941 e il 1945 il Vietminh partecipa alla lotta antigiapponese a fianco degli alleati, e in questo periodo, secondo quanto rivela il rapporto Mc Namara, gli USA inviano presso il Vietminh una missione militare. Per caratterizzare meglio la figura del tanto osannato Ho Chi Minh sarà utile ricordare che nel 1942 collabora ed è finanziato dal Kuomintang cinese, il quale, appoggiandosi a una parte della borghesia, cerca di penetrare nel Vietnam. Solo alla fine della guerra, il 13 agosto 1945, poco dopo Hiroshima, il Vietminh lancia un appello all’insurrezione generale: i giapponesi sono ormai dovunque in ritirata e il 2 settembre è proclamata la indipendenza della Repubblica Democratica del Vietnam.

Il governo allora formato è veramente un governo di “unità nazionale”, così come piace ad Ho; la borghesia terriera, che fino ad allora si era appoggiata ai giapponesi, aderisce in pieno alla RDV – basti ricordare che del governo fanno parte, tra gli altri, Hung Huy, membro della famiglia imperiale nel Tonchino e il mandarino Phan Ke Toai, ex delegato imperiale nel Tonchino, mentre lo stesso Bao Dai, già capo del governo filo-giapponese, è nominato “consigliere supremo” del governo di Ho Chi Minh. Nel citato rapporto del 1951, Ho Chi Minh, rievocando questi avvenimenti, esalterà il fatto che alcuni membri del Comitato Centrale, sebbene avrebbero dovuto far parte del governo provvisorio, «se ne ritirarono di spontanea volontà a favore di patrioti che non erano membri del Vietminh» (cioè a favore di borghesi ex collaboratori dei giapponesi). A completare l’unità nazionale viene l’adesione della chiesa; nel novembre 1945 i quattro vescovi cattolici del Vietnam, in una comune lettera pastorale, invitano i fedeli a sostenere il nuovo regime; uno sarà poi eletto all’assemblea nazionale.

Ma perché la borghesia terriera si appoggia così fiduciosamente alla RDV? Qual’è il prezzo dell’”unità nazionale”?

L’insurrezione antigiapponese ha messo in moto i contadini, che in quell’anno sono pure affamati a causa di una nuova carestia. Qualsiasi movimento contadino fa tremare i latifondisti. Essi sanno che le loro terre sono in pericolo, mentre non ci sono più né francesi né giapponesi a difenderle. Che cosa possono fare se non aderire al governo della RDV che, in nome della patria, tutela i loro interessi?

In varie province, come nel Quang Ngai e nel Nord Annam, i contadini, sullo slancio della vittoria antigiapponese, hanno cominciato a spartirsi le terre dei latifondisti. Il governo della RDV si preoccupa subito di impedire l’estendersi del movimento; una circolare del 21 novembre dichiara: «Le risaie e i terreni di coltivazione non verranno spartiti come false voci hanno annunziato» (Jean Chesneaux, op.cit.). Inoltre, l’11 novembre 1945, il Partito Comunista Indocinese si scioglie. Ecco cos’è costata l’unità con la borghesia nazionale: rinuncia alla riforma agraria e scioglimento del partito!

Nel 1945, l’80% della popolazione è costituita da contadini; di questi, il 61,5%, non ha terre in proprio. La ripartizione della terra nel Nord Vietnam nel 1945 è la seguente:

  superficie
(ha)
% della
superf.
totale
Coloni (giapponesi o francesi) 15.952,05 1.0
Chiesa (missioni) 23.928,07 1.5
Terre comunali o semicomunali 389.801,25 25.0
Proprietari terrieri 390.825,22 24.5
Contadini ricchi 113.259,55 7.1
Contadini medi 462.609,45 29.0
Contadini poveri 169.520,50 10.0
Salariati agricoli 17.547,25 1.1
Altri lavoratori 12.761,64 0.8

Le terre comunali che, come si vede molto estese, sono spesso usurpate dai latifondisti e i contadini ne rivendicano la spartizione. Questi, che costituiscono la gran parte della popolazione, il governo della RDV deve in qualche modo rabbonirli. Si prendono perciò alcuni provvedimenti per migliorarne le condizioni di vita: riduzione delle rendite del 25% (a vantaggio della massa dei piccoli affittuari), riduzione del tasso del credito, confisca e divisione delle terre comunali e dei coloni francesi e giapponesi.

Questi provvedimenti però rimangono sulla carta: la loro esecuzione è affidata agli apparati amministrativi locali, dove predomina l’influenza dei proprietari fondiari. Nel dicembre 1953, Phan Van Dong denuncerà il fatto che solo il 5% delle terre appartenenti ai proprietari fondiari e coloni è stato colpito dalla riduzione della rendita; solo poco più della metà delle terre comunali è stata spartita, e circa il 10% delle terre appartiene a coloni e a missioni.

Ma la carestia incombe ancora e si teme una sollevazione dei contadini; la RDV deve assolutamente aumentare la produzione agricola, ma la presenza di grandi latifondi e lo strapotere della grande proprietà terriera (che vuol dire alti canoni d’affitto, usura, scarso sfruttamento di vaste superfici, ecc.) lo vieta. D’altra parte, una ripartizione della terra comporterebbe una guerra aperta contro la borghesia terriera, cosa che Ho e compagni si guardano ben dal volere. Il 15 novembre viene costituito il “Comitato Centrale della produzione agricola intensiva e rapida”; si lancia una specie di “battaglia del grano” o, meglio, del riso. Nelle città è dissodata anche la più piccola porzione di terreno (giardini, campi da gioco, ecc.)

Intanto anche il proletariato, dopo 5 anni di stasi, si rimette i moto. Il governo della RDV è costretto a proclamare le libertà sindacali e la giornata di 8 ore e a riconoscere ufficialmente la festa del lavoro. Il 1° maggio 1946 si svolgono imponenti manifestazioni con migliaia e migliaia di partecipanti. Durante l’estate scoppiano scioperi in tutto il paese. Basti un esempio a riprova della magnifica combattività dei proletari vietnamiti: in giugno, 5.000 minatori delle miniere di Hon Gay scioperano contro un licenziamento e in luglio ottengono la riassunzione del compagno.




1946-1954: LA GUERRA CONTRO I FRANCESI – DIEM BIEN PHU – GINEVRA

Nei piani di spartizione del mondo tra le grandi potenze non è tuttavia previsto uno Stato vietnamita indipendente. Nell’inverno 1944-45 la Repubblica Francese (“uscita dalla resistenza”), in vista del suo ritorno nel Vietnam aveva già costituito il Corpo di Spedizione Francese per l’Estremo Oriente. Negli accordi di Potsdam si decide di inviare truppe cinesi a nord del 16° parallelo e truppe inglesi e francesi a sud. Questa decisione viene spiegata ufficialmente come “misura tecnica”» per disarmare le truppe giapponesi ancora presenti nella zona.

Dopo una serie di sanguinosi incidenti tra le truppe di occupazione e la popolazione, nel marzo del 1946 si giunge alla stipulazione di un accordo tra la RDV e la Francia. In base ad esso la Francia riconosce formalmente la RDV come Stato indipendente, ma le truppe francesi possono stabilirsi nel Nord in sostituzione delle truppe del Kuomintang. Di ritorno dai negoziati, Ho Chi Minh, in un proclama al popolo, presenta questi accordi come una vittoria e invita ad essere «cortesi con i militari francesi, concilianti nei confronti dei cittadini francesi», ad assumere nell’azione «forme politiche democratiche» e ad «unirsi strettamente senza distinzione di partito, di classe, di religione» (Ho Chi Minh, op.cit.). Ma la sostanza degli accordi è ben spiegata dal generale Giap: «Il problema del corpo di spedizione francese era allora se avrebbe potuto tornare con facilità nel Nord Vietnam. La cosa non si presentava possibile poiché al Nord le nostre forze erano più forti che al Sud». E come riescono i francesi a introdurre le loro truppe nel nord? Appunto, grazie ai negoziati.

Una volta sistematisi, i francesi riprendono con crescente brutalità le repressioni, i massacri, i saccheggi: il bombardamento del porto di Haiphong provoca circa 6.000 morti (si ricordi che, in questo periodo, il PCF fa parte del governo francese “uscito dalla resistenza”). Il governo della RDV, di fronte a questi ordinati massacri, si limita a lanciare appelli al governo francese chiedendo un mutamento di politica per evitare la guerra. È solo il 20 dicembre, quando ormai la resistenza si è spontaneamente estesa a tutto il paese, che il governo chiama alla insurrezione generale, continuando però ad invitare il governo di Parigi a riprendere i negoziati!

In questo momento, secondo quanto afferma il generale Giap, «le nostre truppe, dopo aver sostenuto per un certo periodo combattimenti di logoramento e temporeggiamento, effettuarono un ripiegamento strategico dalle città alle campagne». È adottata la strategia della cosiddetta “resistenza di lunga durata” che non è che la strategia della guerra di contadini. A questa strategia si manifestano opposizioni: Giap ricorda la «tendenza soggettivista dei fautori di una decisione rapida che si manifestò, agli inizi della guerra di resistenza, nel rifiuto opposto in diverse regioni ad evacuare le truppe per preservarne il potenziale, e che si sarebbe manifestata ancora nel progetto di controffensiva generale formulato nel 1950» (op.cit.). L’esercito vietnamita, quasi intatto, si riorganizza in piccole formazioni. Secondo Jean Chesneaux, vengono perfino sciolte alcune grosse unità per riorganizzarle in piccole bande guerrigliere. Lo stesso autore afferma che, a causa della grande difficoltà di comunicazioni, è «impossibile mantenere una vera e propria centralizzazione; diviene necessario attenersi a direttive di massima, e lasciare largo margine di iniziativa alle autorità regionali e locali. A tal fine si divide il paese in quattordici zone militari dotate di ampia autonomia».

È una condotta di guerra che appare perlomeno rinunciataria, e tutti questi fatti sembrerebbero indicare che si sia deliberatamente voluto lasciare il proletariato cittadino alla mercé dei francesi. È certo comunque che solo gli operai rimangono a difendere le città. Ad Hanoi un reggimento di proletari resiste per ben due mesi prima di cedere. Le truppe francesi schiacciano così il movimento proletario riaccesosi nell’estate del 1946.

Il governo della RDV si è ritirato nelle campagne. A questo punto, di fronte alle necessità della guerra, il problema della riforma agraria assume un’importanza decisiva. Si può forse sostenere la guerra senza l’appoggio dei contadini? Si può combattere senza soldati? Il generale Giap, capo dell’esercito, ha già dovuto scontrarsi con questa realtà: «Mobilitare e organizzare tutto il popolo significava mobilitare e organizzare le masse contadine, e il problema della terra assumeva un’importanza decisiva. Quindi, alla luce di una analisi esauriente, la guerra di liberazione del popolo vietnamita si presenta nella sua essenza come una rivoluzione nazionale democratica popolare armata, i cui due obbiettivi fondamentali ed essenziali consistono nel rovesciamento dell’imperialismo e della classe dei proprietari fondiari feudali (...) L’accrescimento delle forze di resistenza era quindi intimamente connesso con la risoluzione del problema agrario» (op.cit.). Ora che si ha bisogno di carne da cannone, si sostiene la necessità della riforma agraria, mentre prima, in nome dell’unità nazionale, si era sempre difesa la proprietà terriera.

Ma lo stesso Giap, passata la guerra, rinnegherà queste posizioni: «La società allora esistente nel Vietnam – 1946 – era caratterizzata da due contraddizioni fondamentali, l’una tra l’imperialismo e l’intera nazione, l’altra fra la classe dei proprietari fondiari e il popolo, essenzialmente i contadini. Di queste due contraddizioni, la prima doveva essere considerata come essenziale. La rivoluzione vietnamita era una rivoluzione nazionale democratica popolare con due obiettivi fondamentali: l’uno antimperialista, l’altro antifeudale. Il primo (...) si presentava come essenziale» (op.cit.).

Per raggiungere questi scopi, nel 1950 sono ridotti i tassi d’interesse; sono distribuite gratuitamente le terre incolte e se ne garantisce la proprietà entro due anni a condizione che vengano coltivate; viene inoltre disciplinato il contratto d’affitto vietando il subaffitto della terra e statuendo che il contratto debba durare almeno tre anni; si cerca di incrementare la cooperazione invitando i contadini a formare “brigate di scambio del lavoro” ecc. Il nuovo codice civile stabilisce che «la proprietà viene rispettata, ma (...) è vietato ai proprietari lasciare le terre incolte».

Nello steso anno i vietnamiti passano all’offensiva e infliggono una serie di sconfitte ai francesi. Sempre nel 1950 il governo RDV, che prima, come rivela il rapporto Mc Namara, aveva ripetutamente ma invano chiesto l’aiuto degli USA contro i francesi, si orienta verso il blocco sovietico: la URSS e la Repubblica Popolare Cinese riconoscono ufficialmente la RDV. Nel 1951, è fondato il “Partito dei lavoratori del Vietnam”, chiaramente filo-sovietico, che, secondo l’espressione di Ho Chi Minh, «adotta il marxismo-leninismo», il che sta a significare non certo un ritorno alla lotta per il comunismo, ma l’ingresso della RDV nel blocco sovietico.

Dall’altra parte, gli USA sostengono attivamente i francesi. Secondo le cifre riportate da Giap, l’aiuto americano, che nel 50-51 copriva il 15% delle spese di guerra, passa al 35% nel 52, al 45% nel 53, per raggiungere l’80% nel 54. In definitiva i francesi combattono per conto dell’imperialismo yankee. Come afferma giustamente Giap, si trattava di una guerra «sostenuta dal dollaro americano e dal sangue francese».

La situazione interna nelle campagne sotto il controllo della RDV è però ancora critica: i provvedimenti surricordati, volti a ottenere un incremento della produzione e l’appoggio della massa dei contadini, sono rimasti senza effetto, tanto che nel 1951 il governo lamenta gli scarsi risultati conseguiti nei villaggi.

Secondo le cifre riportate da Phan Van Dong, nel 1952, su 3.000.000 ettari appartenenti ai proprietari fondiari e ai coloni, solo 156.000 (il 5%) sono stati soggetti alla riduzione delle rendite e solo 2850.000 (l’8%) sono stati distribuiti.

Sempre secondo Phan Van Dong, nel dicembre 1953, la ripartizione della terra è la seguente:
- Terre appartenenti ai proprietari fondiari: 50%
- Terre comunali (di fatto accaparrate dai proprietari fondiari): 10%
- Terre occupate dai rimanenti 9/10: della popolazione contadina (di cui più della metà totalmente priva di terra): 30%
- Terre appartenenti ai coloni e alla chiesa: 10%

Di fronte alla necessità di aumentare la produzione e concludere la guerra, il governo deve affrontare seriamente il problema. Dopo aver pubblicamente denunciato lo stato di miseria delle masse contadine e il fatto che le forze feudali continuano, «dietro una cortina di bambù», ad esercitare il loro potere; dopo aver attaccato i «proprietari fondiari reazionari» che in molti casi collaborano col nemico, nell’aprile del ‘53 viene emanato il decreto agrario. Per il tipo di provvedimenti adottati non differisce molto da quelli del ’45 e ‘49 (riduzione delle rendite, dell’interesse, spartizione delle terre dei coloni, ecc.). Tuttavia, questa volta la sua esecuzione non è più affidata, come allora, all’apparato amministrativo locale, dove predomina l’influenza dei proprietari fondiari, ma alle unioni contadine e ai comitati agricoli, cioè agli stessi contadini organizzati.

Nel 1953, Ho Chi Minh spiega che cosa si propone il governo con la sua riforma: «Promuovendo la riforma agraria, influiremo sui contadini nostri compatrioti che vivono oltre le linee nemiche, li incoraggeremo a lottare con più vigore per la loro libertà e a sostenere con più ardore il governo democratico della resistenza. Nello stesso tempo provocheremo la disgregazione delle formazioni aggiunte del esercito fantoccio, la cui maggioranza è composta dai contadini che vivono nella zona occupata».

Nel varare la riforma, tuttavia, si proclama che deve realizzarsi “a tappe”, e per la sua esecuzione sono indicati criteri applicativi diversi a seconda delle zone: «La politica agraria – continua Ho Chi Minh – sarà applicata alle zone di guerriglia e alle zone provvisoriamente occupate, quando queste saranno liberate. Nei luoghi dove la mobilitazione delle masse per una rigorosa riduzione dei tassi d’affitto non è ancora stata organizzata, bisognerà assolutamente passare per questa prima tappa, prima di impegnarsi nella riforma agraria. Dove la mobilitazione delle masse non è ancora stata decisa dal governo, è assolutamente vietato alle autorità locali promuoverla di loro iniziativa».

Inoltre si dà la direttiva di applicare misure differenziate a seconda della posizione politica dei latifondisti: «Dobbiamo, realizzando la riforma agraria, fare una distinzione tra i proprietari fondiari a seconda della loro posizione politica. In altri termini bisogna applicare tutto un ventaglio di misure: confisca, requisizione senza indennizzo, acquisto d’autorità, invece di generalizzare la confisca o la requisizione» (op. cit).

Il governo, con la solita doppiezza, mentre da una parte cerca di illudere i contadini per indurli a combattere, dall’altra non ha nessuna intenzione di rompere con la borghesia terriera. Phan Van Dong afferma: «Non verranno pregiudicati gli interessi dei proprietari fondiari, di coloro che non si sono compromessi con il nemico, e soprattutto delle personalità democratiche e dei proprietari resistenti» (da J. Chesneaux, op.cit). Secondo J. Chesneaux, «ai coloni francesi le terre sono puramente e semplicemente confiscate e così gli altri beni. Invece, le terre e i beni dei “proprietari fondiari traditori, reazionari e dei notabili che si sono macchiati di crudeltà” vengono confiscati soltanto ”in proporzione alle colpe commesse”. Quanto alle “personalità democratiche”, queste vengono indennizzate delle loro terre, dei loro capitali e strumenti agricoli, mentre invece gli altri beni sono lasciati. I provvedimenti adottati nei riguardi dei proprietari fondiari “attendisti” residenti in zona occupata dipenderanno dal loro atteggiamento politico nei riguardi della resistenza».

Come si vede, il governo di Ho Chi Minh non ha certo l’intenzione di spingere fino in fondo la riforma agraria; lo scopo primo di questi provvedimenti è di utilizzare lo slancio dei contadini nella guerra antifrancese; ma per far questo li si deve illudere almeno fino alla conclusione delle operazioni militari. Lo scopo è pienamente raggiunto, come spiega il generale Giap: «La riforma agraria non fu certamente esente da errori, che tuttavia, verificatisi essenzialmente dopo il ristabilimento della pace, non ebbero alcuna influenza sulla guerra di resistenza» (op. cit.).

Dopo la riforma, lo stesso comando francese ammette di non trovarsi più di fronte agli stessi avversari. La grande vittoria di Diem Bien Phu, del 1954, con l’annientamento del corpo di spedizione francese, è in buona parte il frutto di questa riforma agraria eseguita a metà: infatti, come è noto, la vittoria ottenuta dai vietnamiti sul campo di battaglia si trasformerà in sconfitta al tavolo delle trattative.

Gli accordi di Ginevra del luglio 1954 stabiliscono una divisione “provvisoria” del paese lungo il 17° parallelo. Le forze rispettive debbono essere ritirate a nord e a sud di questa linea di demarcazione, e le parti si impegnano a indire elezioni generali entro il 1956. All’indomani della vittoria di Diem Bien Phu le forze francesi sono praticamente annientate; eppure il governo della RDV non vuole approfittare della situazione.

Secondo quanto dichiara Chaliand Gérard (op, cit.), «nell’ora del maggior trionfo del Vietnam, la vittoria di Diem Bien Phu (conseguita proprio il giorno prima dell’apertura a Ginevra delle trattative di pace), Phan Van Dong, ministro degli esteri della RDV, assunse un atteggiamento modesto quanto magnanimo nei confronti dei francesi, sottolineando il desiderio del suo governo di intrattenere, nonostante tutto quello che era successo, relazioni amichevoli con la Francia». Ingenuità? Amore per la pace? No! Impotenza e completo asservimento alle decisioni dei grandi colossi imperialisti. Al tavolo dei negoziati, non pesa la bravura militare; pesano i dollari.

Gli accordi di Ginevra, alla cui violazione tutti fanno risalire la causa della successiva guerra, ne contengono già le premesse. Con essi non solo si interrompe il conflitto in una fase di schiacciante superiorità vietnamita, ma si stabilisce che le truppe francesi si concentrino al Nord per poi ritirarsi oltre il 17° parallelo, e che le truppe vietnamite facciano altrettanto a Sud. Così i francesi possono recuperare le loro divisioni accerchiate nel delta del Fiume Rosso e assicurarsi il ritiro dal Sud di 100.000 uomini dell’esercito vietnamita, lasciando i contadini del Sud, che hanno appena iniziato a spartirsi le terre, praticamente indifesi e in balia di feroci repressioni.


II -

BILANCIO DELLA RIFORMA AGRARIA

La riforma agraria lanciata nel 1953 per far fronte alle necessità di guerra e di aumento della produzione deve inevitabilmente scatenare la lotta di classe nelle campagne.

Malgrado le speranze del governo, che indica un ventaglio di misure differenziate a seconda della posizione politica dei latifondisti, l’azione dei contadini poveri si esercita in maniera incontrollata. Essi non seguono “criteri politici”, ma “criteri economici”, e colpiscono indistintamente i proprietari terrieri, quali che siano le loro idee, e anche i contadini ricchi. Se il governo spera di contenere il movimento entro i ristretti limiti delle sue necessità, militari ed economiche, esso sfugge di mano agli organi della RDV e si spinge molto più in là dei confini in cui si vuole imprigionare.

Nel 1956 (passata la guerra coi francesi) il governo della RDV deve perciò far marcia indietro, iniziando quella che fu definita l’”orgia dell’auto-critica”. Sono passati in rassegna i principali “errori” commessi nel corso della riforma. Soprattutto si denunciano le “tendenze estremistiche” manifestatesi e il gran numero di “vittime innocenti”.

Lo studioso vietnamita Lê Châu, autore di una analisi delle strutture economiche del Vietnam, così riassume quegli “errori”: «cattiva classificazione dei proprietari e delle differenti categorie di contadini, dei nemici e degli amici (...) Non applicazione del trattamento di favore riservato ai proprietari [resistenti] rispetto agli altri proprietari (...) attacco alla libertà religiosa». E aggiunge: «Gli errori della riforma agraria hanno avuto una influenza nefasta sulla politica del fronte nazionale unito. Questa influenza si è tradotta in una situazione estremamente tesa nelle campagne (...) Il sostegno delle masse sembra incrinato da queste prove» (Lê Châu, Il Vietnam socialista).

Per quanto riguarda le terre appartenenti alla chiesa, che nel 1953 costituiscono ancora il 10% del totale, all’inizio della riforma si ordina ai funzionari di attenersi alle decisioni delle assemblee contadine nei villaggi e di astenersi nel modo più assoluto dare ordini imperativi (era pericoloso, in quel momento, urtare i contadini). Nel 1955, il governo, ansioso di assicurarsi l’appoggio delle varie chiese, emana un decreto volto alla «Protezione della libertà religiosa», in cui si dice: «Vescovi, curati, bonzi, pastori, dignitari religiosi, che hanno delle terre di proprietà personale da affittare, proprietari terrieri, non sono classificati come proprietari terrieri (...) Per assicurare l’esercizio del culto da parte della popolazione e per aiutare i religiosi, il governo si adopera con sollecitudine ad alleggerire le imposte agricole sulle terre e risaie lasciate in usufrutto a chiese, pagode, santuari» (riportato da Lê Châu).

A partire dal 1956, il governo intraprende una serie di misure di «correzione degli errori» commessi durante la riforma. A questo scopo, la X sessione del Comitato centrale del partito decide fra l’altro: «di rettificare la classificazione dei contadini e indennizzare le vittime innocenti»; «i comitati di riforma agraria (...) non hanno più diritto alla direzione, ma divengono organismi di studio (...) I tribunali popolari speciali sono soppressi; le libertà religiose e quelle della comunità nazionale devono essere rispettate».

Nel 1958, il funzionario Truong Chinh, in un rapporto al congresso del fronte nazionale, descrive alcuni risultati di questa campagna di “correzione”; «In 3.501 villaggi abbiamo fatto dei passi affinché i beneficiari della riforma agraria consentano a indennizzare le vittime innocenti. I risultati ottenuti sono valutati a circa la metà del valore delle terre espropriate. Il bestiame è stato indennizzato nella misura del 38,5%, il 64% dei beni immobili sono stati restituiti (...) Le comunità religiose, alle quali erano state lasciate terre in misura insufficiente, si sono viste attribuire nuove terre» (citato da Lê Châu).

Secondo le cifre riportate da Lê Châu, nel Nord, con la riforma, sono stati distribuiti 810.000 ettari di terra, 107.000 animali da tiro, a 2.200.000 famiglie composte di 9.000.000 persone (72% della popolazione rurale).

Dotazione media di terra per bocca
da sfamare - Prima e dopo la riforma
  Prima
mq.
Dopo
mq.
Proprietario fondiario 6.779 825
Contadino ricco 2.116 2.159
Contadino medio 999 1.565
Contadino povero 343 1.372
Salariato - 1.421

Questi dati sono sicuramente poco attendibili; inoltre la determinazione della superficie di terra per bocca da sfamare è un dato molto dubbio, di scarso significato e di difficile determinazione. È certo però che la proprietà fondiaria latifondista ha subito un duro colpo: il che, naturalmente, non significa che si siano eliminate le disparità sociali nelle campagne.

L’abolizione del peso della proprietà terriera assenteista è la premessa indispensabile per lo sviluppo delle forze produttive. Lo Stato vietnamita, come tutti gli Stati del “terzo mondo”, trovandosi di fronte al mercato mondiale privo di un’industria di base, deve trarre dalla terra tutte le risorse, e per di più con mezzi rudimentali. Solo producendo un’eccedenza di prodotti agricoli ed esportando i prodotti delle miniere, si possono acquistare sul mercato mondiale i macchinari e tutto il necessario per costituirsi un’industria nazionale. Lo sviluppo dell’economia impone quindi un gigantesco sforzo produttivo nelle campagne, ma questo deve inevitabilmente portare al rafforzamento della classe dei contadini ricchi.

Chi può accumulare delle eccedenze produttive? Non certo il contadino povero, ma solo chi possieda la terra migliore, il bestiame da tiro, gli attrezzi agricoli. Data la gestione individuale del suolo, si deve quindi passare attraverso la concentrazione della terra, del bestiame, degli strumenti agricoli nelle mani di uno strato di contadini ricchi, il che produce all’opposto l’ulteriore impoverimento e la proletarizzazione dei contadini più poveri. Il fenomeno è definito “kulakismo vietnamita”, per analogia con quanto si era verificato in Russia.

L’azione dei contadini poveri, nel corso della riforma si dirige perciò non solo contro i latifondisti, gli sfruttatori di ieri, ma anche contro i contadini ricchi, gli sfruttatori futuri. Le condizioni dei contadini poveri si aggravano in modo tale che nella regione di Nghe An, nel 1956, scoppia una rivolta duramente repressa dall’esercito della RDV (il Nghe An è la stessa ragione dove, nel 1930, si erano costituiti i soviet).




LA "COLLETTIVIZZAZIONE AGRARIA"

Per dare impulso alla produzione il governo nordvietnamita cerca inoltre di concentrare i mezzi di produzione agricoli attraverso la forma cooperativa. Le forme di cooperazione sono tre: Brigate di aiuto reciproco, Cooperative semisocialiste, Cooperative socialiste.

Le Brigate di aiuto reciproco, o brigate di scambio del lavoro, si basano su una pratica tradizionale (diffusa anche in Cina), cioè l’aiuto reciproco che i contadini si prestano durante i periodi di maggior lavoro. In questa forma, i mezzi di produzione rimangono di proprietà individuale; è il lavoro che viene messo in comune; alla fine della giornata viene calcolato il lavoro fornito da ciascuno secondo un sistema di punti.

Nelle Cooperative semisocialiste, o cooperative di forma inferiore, i contadini consegnano i loro principali mezzi di produzione, come quote, alla gestione collettiva. Ognuno però resta proprietario della terra, del bestiame e degli attrezzi, che affitta alla cooperativa. Il prodotto, detratta una quota di accumulazione per i fondi sociali, le spese di esercizio, i reimpieghi, e l’affitto dei mezzi di produzione, viene distribuito ai soci in proporzione al lavoro fornito da ciascuno. La distribuzione del reddito in questo tipo di cooperativa, è molto difficile a effettuarsi: i contadini affideranno le loro terre e i loro strumenti alla gestione collettiva solo a condizione di ricavarne un utile almeno pari a quello ricavabile dalla libera affittanza. Per questa ragione (secondo quanto rivela Lê Châu), la cooperativa paga per l’affitto della terra una quota piuttosto alta, circa il 25-30% della produzione lorda totale. L’affitto del bestiame e degli attrezzi è invece calcolato in base ai prezzi correnti del mercato locale.

In questo tipo di cooperative, la produzione lorda totale si ripartisce in media nelle seguenti parti: 28% affitto della terra, del bestiame e degli strumenti; 5% fondi sociali di accumulazione; 6% spese d’esercizio (materie prime acquistate, tasse, ecc.); 1% prodotti reimpiegati in azienda; 60% remunerazione del lavoro.

I soci non vengono remunerati solo in quanto prestatori di lavoro, ma anche in quanto proprietari di terra e di capitale d’esercizio; niente altro potrebbe indurli a consegnare i loro beni alla gestione collettiva. Naturalmente all’interno delle cooperative, persistono notevoli disuguaglianze tra coloro che posseggono il terreno migliore e bestiame più numeroso e coloro che ricavano i loro proventi più dal lavoro che dall’affitto dei loro beni.

Le Cooperative socialiste, o cooperative di forma superiore, corrispondono ai kolchoz sovietici. Il reddito globale viene distribuito tra i membri secondo il principio “a ciascuno secondo il proprio lavoro”. Restano di proprietà individuale piccoli appezzamenti, che però non devono superare il 5% della superficie media per ogni abitante nel comune.

Nel 1959 le cooperative “socialiste” rappresentavano appena il 2,4% delle unità produttive agricole, mentre le cooperative “semisocialiste” coprivano il 43,01% delle unità produttive. La superficie di terra collettivizzata nelle due forme rappresentava il 37% del totale.

La collettivizzazione agricola non dà i risultati sperati. I contadini ricchi non hanno interesse ad aderire alle cooperative “socialiste”, dove la ripartizione del reddito si fa in base al lavoro fornito, e nemmeno a quelle “semisocialiste”, quando dalla libera affittanza si ricavavano canoni d’affitto più alti di quelli pagati dalla cooperativa.

Inoltre possono trarre vantaggio dalla rovina dei contadini più poveri, sia sfruttandoli come salariati, sia acquistandone la terra e il capitale di scorta a prezzi irrisori.




IL "SOCIALISMO" NORDVIETNAMITA

Dopo gli accordi di Ginevra, la debole industria nordvietnamita ha perduto l’85% della sua capacità produttiva.

Nelle grandi città, la permanenza del corpo di spedizione francese aveva dato impulso a numerose attività: il loro ritiro provoca immediatamente un’alta disoccupazione. Si ha inoltre un vertiginoso aumento dei prezzi; per esempio la carne di maiale sul mercato libero nel 1957 costa 4,5 ND al chilo quando il salario mensile di un operaio è di 30 ND.

Data l’inesistenza di una classe di imprenditori borghesi l’industrializzazione può avvenire in un solo modo: nella forma di capitalismo di Stato. Perciò il Nord Vietnam si proclama “Stato socialista”: nel 1958, una risoluzione del Comitato Centrale del Partito del Lavoro “decreta”: «Il Nord Vietnam è entrato nella fase di transizione verso il socialismo» e «deve assicurare la sua marcia verso il socialismo su due basi solide: una industria socialista e un’agricoltura organizzata in cooperative» (citato da Lê Châu).

Cooperazione in agricoltura e monopolio dello Stato nell’industria e nel commercio estero, questo è il socialismo per i dirigenti nordvietnamiti, come per tutti gli affiliati al blocco russo o cinese.

Il “socialismo” che contrabbandano è stabilito per decreto, un socialismo in cui continuano a imperversare le categorie del salario, del profitto e del mercato.

Un piccolo paese come il Nord Vietnam, può forse sottrarsi alle leggi del mercato mondiale? Certamente no. Anche nella Russia rivoluzionaria del 1920 continuava a sussistere il lavoro salariato e una notevole parte dei prodotti era destinata al mercato. Era chiaro che, in quel paese economicamente arretrato, non si poteva passare di colpo alla eliminazione dei rapporti di produzione capitalistici; si doveva procedere ad una graduale trasformazione dell’economia. Ma ciò avveniva in Russia sotto la ferrea direzione del partito proletario. Il partito bolscevico (e Lenin prima di tutti) non si sognò mai di dichiarare socialisti i rapporti di produzione vigenti allora; anzi affermò a più riprese che lo sviluppo della industria statizzata e la creazione di aziende cooperative in agricoltura non erano il socialismo e non dovevano essere chiamati tali. La carognata dei dirigenti della RDV non sta nell’essere soggetti alle ferree leggi dell’economia, ma nel dichiarare socialisti rapporti di produzione capitalistici in una economia ancora dominata dalla piccola produzione, e nell’appiccicare l’etichetta “socialista” a uno Stato che conosce solo i bisogni di accumulazione del capitale.

Il governo della RDV vara nel 1958 un piano triennale che prevede un aumento della produzione agricola del 12,7%. Nel 1960 la produzione agricola è invece diminuita del 10% rispetto al 1959. Questo fatto, naturalmente, si ripercuote su tutti gli altri settori produttivi, con realizzazioni molto inferiori al previsto. Per l’agricoltura il piano è un fallimento, come si vede dalla seguente tabella (presa da Lê Châu, op. cit).

Previsioni e realizzazioni
del Piano Triennale nell’agricoltura
Produzione annua
per abitante
1957 Previ-
sioni
per il
1960
Realiz-
zazioni
nel
1960
% in
rapporto
alle
previsioni
Kg di paddy (risone) 271 500 227 -55,6%
Kg di alimenti basi 285,7 600 315 -47,5%
Superficie irrigate
(milioni di ha)
dalle reti collettive
1,52 2,100 1,990 -5,0%
Allevamento:
Bovini (milioni di capi) 2,14 2,730 2,295 -19,0%
Maiali (milioni di capi) 2,95 5,530 3,750 -32,5%

Il cosiddetto “aiuto dei paesi fratelli socialisti” (URSS & C.) non è certo migliore dell’”aiuto” che forniscono gli USA ai paesi da essi controllati. Il Nord Vietnam è costretto ad importare sempre più macchine e prodotti dell’industria pesante e ad esportare prodotti delle industrie minerarie, dell’agricoltura, dell’artigianato, dell’industria leggera (tessili, scarpe, ecc).

La roduzione di acciaio, che nel 1939 era di 130.000 tonnellate, nel 1964 arriva appena a 50.000. L’estrazione di carbone passa invece da 2.615.000 tonnellate nel 1939 a 641.000 nel ’55 e a 3.200.000 nel 1964. La percentuale di mezzi di produzione sul totale delle importazioni è del 20% nel 1939, del 44,7% nel 1955, dell’85,3% nel 1959, del 91,1% nel 1960. Nel 1959 rispetto al 1957 l’esportazione dei prodotti di estrazione mineraria è aumentata del 25%, quella dei prodotti forestali del 731%, quella dei prodotti agricoli del 99%.

IIn queste condizioni, è ridicolo parlare di indipendenza nazionale della RDV, e tanto meno di socialismo!


III -


LA LOTTA NEL SUD: IL FNL

Il Sud Vietnam era, ed è ancora oggi, la regione di massima concentrazione della proprietà terriera. Dopo il lancio della riforma agraria, durante la guerra antifrancese, i contadini avevano scacciato i latifondisti e occupate le loro terre. Dopo gli accordi di Ginevra le forze del Vietminh devono ritirarsi dal sud e lasciare campo libero al ritorno dei latifondisti e alle sanguinose repressioni che li accompagnarono.

Il governo Diem, creato dagli USA, inizia subito la restaurazione della grande proprietà fondiaria. I contadini devono abbandonare le terre che avevano occupato dopo il lancio della riforma agraria (circa 2.000.000 di ettari), e questo risultato è ottenuto attraverso una serie di sanguinose spedizioni nelle campagne.

Nel 1956 Diem vieta ai villaggi di eleggersi propri rappresentanti secondo la tradizione dei comuni, e nomina dei capi villaggio governativi (gli Ac On). I governo fantoccio istituisce inoltre dei tribunali speciali viaggianti, che seminano il terrore nelle campagne.

L’operazione di restaurazione dei latifondisti dà buoni risultati; basti pensare che nel 1957, l’1% dei proprietari dispone del 44% della superficie coltivata a riso, mentre nel 1934 11% dei proprietari ne disponeva il 35,8%.

Il movimento di guerriglia, con cui i contadini tendono a difendersi dalle repressioni, inizia spontaneamente, molto prima della formazione del Fronte Nazionale di Liberazione; secondo quanto scrive Jean Chesneaux (op.cit), «per cinque anni, dal 1954 al 1959, i contadini dei villaggi del Sud subirono senza reagire le perquisizioni, le rappresaglie, gli atti di terrorismo della polizia e dell’esercito di Diem. Tutto ciò veniva chiamato a Saigon la “caccia alle streghe”, vale a dire la persecuzione contro i vecchi membri della resistenza e contro tutti i sospettati di avere con essi rapporti più o meno stretti».

Da parte della RDV non c’è nessun appoggio né materiale né propagandistico all’insurrezione; anzi, i dirigenti vietminh che ancora si trovano nel Sud sostengono che si deve evitare ogni ricorso alla violenza, per non essere accusati di violazione degli accordi di Ginevra. Uno degli esponenti del Fronte, Quyet Thang, dichiara a Proposito di questo periodo: «Furono date direttive rigorosissime in vista di un. strettissimo rispetto di Ginevra: (in nessun caso andammo al di là della lotta politica legale (...) Ciò ci costò dure perdite, i nostri migliori compagni. E ci occorse un intero anno per spiegare e convincere tutti che era la linea giusta» (citato da Lê Châu).

La stampa opportunista tende generalmente a sottolineare questa posizione del governo nordvietnamita, e la riporta volentieri a dimostrazione della sua “buona volontà di pace” e della aggressività degli americani. La posizione tenuta dalla RDV dimostra invece che essa, in linea con le decisioni delle grandi potenze, ha ormai accettato come definitiva la spartizione del paese in due. Del resto, la “volontà di pace” non costituisce certo un merito quando si ha a che fare con un avversario più forte.

Il FNL, formato nel 1960, è una continuazione della politica del Vietminh; esso inquadra e dirige un movimento di lotta armata con un programma che rimane al disotto dei limiti a cui si possono spingere le stesse rivendicazioni borghesi. Questo, naturalmente, non toglie nulla al valore e all’eroismo dei vietcong, ma la violenza della lotta contrasta con la timidezza delle rivendicazioni.

Il Fronte, allo stesso modo del vecchio Vietminh, agita il fantasma dell’unità nazionale: «La forza che garantisce l’adempimento del compito di combattere contro l’aggressione americana e di salvare il nostro paese è la grande unione nazionale. Il Fronte nazionale di liberazione del Vietnam meridionale sostiene costantemente la unità di tutti i ceti e classi sociali». Esso mira al rovesciamento del governo fantoccio, alla proclamazione di libere elezioni, e alla creazione di «un governo democratico di unione nazionale che includa le personalità più rappresentative dei vari ceti sociali».

Non è tipico della borghesia affermare di voler esercitare il potere in nome di tutti le classi sociali? I rivoluzionari non hanno mai nascosto di rappresentare gli interessi di una sola classe e di voler prendere il potere in nome di una sola classe!

Sul piano economico il Fronte proclama, da una parte la confisca delle proprietà degli americani «e dei loro agenti crudeli» e la necessità di «garantire agli operai e agli impiegati il diritto di partecipate alla gestione delle imprese»; dall’altra, la volontà di «proteggere il diritto di proprietà dei cittadini sui mezzi di produzione».

Riguardo al problema della riforma agraria dichiara di voler attuare la parola d’ordine «la terra a chi la lavora». Le misure che vengono indicate sono però, come sempre, ambigue: «Confiscare le terre degli imperialisti americani, e degli agrari crudeli e impenitenti (?) loro servi, e distribuirle ai contadini senza o con poca terra (...) Lo Stato tratterà l’acquisto delle terre dei proprietari fondiari che ne posseggono oltre un certo limite variabile a seconda della situazione. Le terre appartenenti ai “proprietari assenteisti” saranno affidate ai contadini (...) A questo proposito saranno prese misure adeguate in un secondo momento tenendo presente l’atteggiamento politico di ogni proprietario fondiario». «Infine, bisogna incoraggiare i proprietari di culture agricole industriali e di frutteti a gestirli. Rispettare i diritti legittimi sulla proprietà della terra della chiesa, del clero buddista e della Santa Sede caodaista».

Nei confronti dei lavoratori il FNL dichiara di voler attuare la giornata di otto ore e anche, con uno spiccato senso dell’umorismo, di voler «creare le condizioni per il riposo e il divertimento». Ma la parte seria è questa: «creare un sistema di salari e di incentivi per l’aumento della produttività».

Ecco l’atteggiamento del Fronte nei confronti delle lotte operaie: «comporre le controversie tra imprenditori e lavoratori mediante trattative fra le due parti con l’azione di mediazione del governo nazionale democratico». Parole che ascoltiamo dai ministri di ogni Stato borghese: – Perché ricorrere agli scioperi? – I contrasti tra lavoro e capitale saranno risolti mediante una pacifica trattativa, con la mediazione dello Stato... del capitale.

Il Fronte non afferma esplicitamente di avere accettato come definitiva la spartizione del paese in Nord e Sud; però, proclamando di voler costituire un «Vietnam meridionale indipendente», mostra di non volere la riunificazione del paese (a conferma di ciò sta la formazione di un Governo Rivoluzionario Provvisorio, avvenuta nel 1969): « La riunificazione del Vietnam sarà realizzata a poco a poco e con mezzi pacifici, sulla base di negoziati tra le due zone, senza che nessuna delle due parti eserciti pressioni sull’altra e senza interferenze straniere» (Programma del 1965, riportato da Lê Châu).

Bisogna notare infine che in questo programma non si trova mai la parola “socialismo” (sebbene oggi sia divenuto un termine così innocuo).

Nel 1959 il regime Diem organizza le cosiddette “agrovilles”, campi di concentramento in cui i contadini erano raggruppati e tenuti sotto stretta sorveglianza poliziesca. Nel 1962 americani e fantocci tentano di attuare il “piano Staley-Taylor”, secondo il quale tutta la popolazione rurale del Sud Vietnam doveva essere concentrata in migliaia di campi di concentramento. Questo piano finisce in un completo insuccesso.

I guerriglieri riportano alcune brillanti vittorie militari nel 1963 (ad Ap Bac) e nel 1964 (a Binh Gia), mentre l’esercito fantoccio è decimato dalle diserzioni.

Le condizioni di vita dei proletari del Sud sono veramente da fame; basti pensare che nel 1962 negli uffici di collocamento era iscritto il 40% della popolazione lavoratrice. L’invasione di merci USA, i famosi “aiuti”, hanno in breve liquidato la debole industria locale. Nel settore tessile, uno dei più importanti, l’80 % degli addetti è stato licenziato.

Nell’autunno del 1963 Diem, ormai compromesso, viene assassinato dalla CIA. Per tutto il 1964 si succedono colpi e contraccolpi di Stato tra le varie bande di funzionari.

Nel 1965 iniziano i bombardamenti e l’intervento massiccio degli USA. I bombardamenti non hanno solo obiettivi militari ma anche scopo terroristico: ad esempio sono usate bombe speciali (esplodenti a mitraglia) studiate non tanto per distruggere fabbricati, ponti, ecc., quanto per fare il maggior numero di vittime e terrorizzare al massimo la popolazione.

I fatti più recenti sono conosciuti: nel 1968, il Fronte ottenne una brillantissima vittoria, la cosiddetta offensiva del Tèt; nel suo corso, secondo le cifre fornite dal FNL, sono messi fuori combattimento 380.000 soldati nemici, 4.400 aerei e elicotteri, 4.560 mezzi blindati, 700 cannoni, 500 unità navali, 500 depositi di materiale bellico.

Nel maggio 1970 gli USA lanciano una offensiva in Thailandia e Cambogia, ma ben presto fallisce, e il Fronte, nel suo contrattacco, distrugge l’intera aviazione cambogiana. L’offensiva nel Laos, lanciata nel febbraio 1971, sta subendo la stessa sorte.

In questa guerra, gli americani fanno uso dei loro enormi mezzi finanziari con una crudeltà e un cinismo mai visti; ogni giorno si ha notizia di massacri di abitanti di interi villaggi, distruzione di foreste, torture inflitte ai prigionieri. Gli ex giudici di Norimberga hanno imparato alla perfezione dai nazisti, loro ex imputati, la tecnica dello sterminio, e la applicano con mezzi cento volte superiori.

Ma se i mezzi di distruzione dell’esercito americano sono di una potenza formidabile, il morale dei soldati è sotto zero: le truppe sono tenute insieme solo dal terrore e dalla forza del denaro. Nessun elemento psicologico induce il soldato americano a combattere: – La “difesa della Patria e del popolo americano”? Ma dove? A migliaia di chilometri di distanza dal proprio paese e contro un nemico debole e male armato? – La “difesa del Mondo Occidentale e dei valori di democrazia e libertà”? Ma come? Con la tortura? Con il massacro della popolazione civile? La propaganda del governo USA può sostenere tutto quello che vuole, ma i tentativi di verniciare di nobili ideali questa guerra di quattrini appaiono sempre più ridicoli.

Il 45% dei militari americani nel Vietnam fa uso di droga (solo nel 1970, 11.000 soldati americani sono stati arrestati per uso di droga). Spesso i soldati si rifiutano di partire per operazioni belliche; vi sono casi di aperte ribellioni, con sparatorie e uccisioni di ufficiali. Il colonnello dei marines, Robert Heinl, in un articolo su Armed Forces Journal, scrive: «Ciò che resta del nostro esercito nel Vietnam è in uno stato vicino al crollo; delle unità evitano il combattimento o lo rifiutano, assassinano ufficiali e sottufficiali e, quando non sono inclini all’ammutinamento, sono vittime della droga e dello scoraggiamento» (citato L’Unità del 7 luglio 1971). Nel 1970 vi sono stati 35 casi di insubordinazione ufficialmente riconosciuti (ma molti altri non sono stati resi noti).

Gli ufficiali più odiati si vedono porre sul capo taglie da 50 a 1.000 dollari. Nel 1969, sulla testa del colonnello Weldon Honeycutt, che aveva ordinato sanguinosi attacchi suicidi, pendeva una taglia di 10.000 dollari. Secondo il colonnello Heinl, nell’esercito operano 14 organizzazioni “pacifiste”; fra le truppe USA sono distribuiti ben 140 giornali clandestini; uno di essi lanciò questa parola d’ordine: «Non disertate. Andate nel Vietnam e uccidete il vostro comandante». Nel solo 1970, vi sono state tra gli americani 65.000 diserzioni.


* * *


La guerra del Vietnam è divenuta il prototipo delle lotte antimperialiste: non è un caso isolato, e se ne ricavano preziosi insegnamenti di carattere generale.

Da molti decenni, praticamente, gli unici moti di ribellione dallo sfruttamento che assumono forme di violenza armata sono quelli che si verificano nel cosiddetto Terzo mondo.

Quali ne sono le ragioni? Il proletariato dei paesi occidentali ha forse definitivamente ripudiato la violenza armata? È questa una conferma della teoria “terzomondista” della “campagna che assedia la città”? I terzomondisti si limitano a constatare un dato di fatto: che cioè il proletariato occidentale, da molti anni, non esce dalle lotte legali. Ma, invece di spiegarne i motivi, accettano questo stato di cose come definitivo, e ne traggono la conclusione che il proletariato occidentale è ormai “imborghesito” e che l’avanguardia della rivoluzione mondiale non è più nelle città di occidente bensì nelle lotte antimperialiste che si svolgono nei paesi sottosviluppati, nella “campagna”.

Che Guevara, nella prefazione al libro di Giap Guerra del popolo, esercito del popolo, affermava: «Quest’opera (...) pone questioni di interesse generale per il mondo in lotta per la propria liberazione. Si possono riassumere così: la fattibilità della lotta armata in condizioni particolari che abbiano annullato i metodi pacifici della lotta di liberazione». Guevara ammetteva quindi la possibilità di una “via pacifica” mentre prospettava la lotta armata in “particolari condizioni” in cui quella non fosse possibile.

In effetti, da oltre 50 anni il proletariato occidentale batte la via pacifica. Quali sono i risultati?

Oggi, per effetto della crisi di regime dell’economia capitalistica, le condizioni di vita della classe operaia d’occidente peggiorano sempre più e la disoccupazione cresce in tutto il mondo. Il permanere del proletariato occidentale sui binari della lotta pacifica e legale ha permesso all’imperialismo internazionale di stroncare ogni movimento di ribellione delle masse sfruttate del “terzo mondo”. La lotta del Vietnam dimostra come la possibilità di vittoria di ogni lotta antimperialista sia indissolubilmente legata all’atteggiamento del proletariato dei paesi industrializzati. Finché il proletariato occidentale rimarrà sulla “via pacifica” in cui cercano di trattenerlo le organizzazioni opportuniste legate a Mosca e Pechino, nessuna di queste lotte avrà speranza di successo.

L’opportunismo tuttavia svolge la sua azione non solo in occidente, ma anche nel terzo mondo, dove cerca di legare il proletariato alle rivendicazioni della borghesia nazionale e di impedire che esso si formi una organizzazione autonoma separata dalle altre classi.

Oggi, nonostante l’avanzare della crisi economica, il proletariato occidentale dà ancora solo qualche timido segno di vita e l’imperialismo mantiene le sue posizioni in tutto il mondo. Se ne deve forse trarre la conclusione che l’imperialismo è invincibile e che l’armata degli Stati Uniti, la più potente e numerosa che si sia mai vista, riuscirà sempre a mantenere l’attuale ordinamento sociale? No certo. Chi pilota gli aerei americani? Chi guida i carri armati? Chi fa funzionare i cannoni? Che paura faranno le bombe quando i piloti rossi si rifiuteranno di partire? Che paura farà la possente flotta USA quando i marinai rossi butteranno in mare i loro ufficiali? In quale direzione spareranno le armi dell’esercito USA, quando il risorto Partito Internazionale della classe operaia eserciterà su di esso la sua influenza?

La lotta contro l’imperialismo si combatte prima di tutto qui, in occidente, non con manifestazioni e canzoni di protesta, ma con la lotta contro l’opportunismo e con la ricostituzione del partito mondiale della classe operaia.