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ETIOPIA Premesse storiche della rivoluzione democratica La riforma agraria (Il Partito Comunista, n. 9-10 del 1975) |
Costituito da un agglomerato di nazionalità, dominate per secoli da una razza di fierissimi guerrieri, l’Etiopia è l’unico Stato Africano che sia riuscito a mantenersi indipendente anche di fronte al colonialismo europeo. Le potenze occidentali hanno dovuto trattare con rispetto questo antichissimo Stato, e qualcuna, battendoci il capo, ci ha rimesso le corna. Ma se la forza militare e la posizione geografica hanno consentito all’Etiopia di evitare per molto tempo gli orrori della colonizzazione, d’altra parte hanno anche fatto sì che la barbarie del feudalesimo si tramandasse fino ai nostri giorni, frenando le forze produttive e impedendo la formazione di una vera borghesia imprenditoriale e di un forte proletariato urbano.
La sua posizione geografica è il motivo determinante dell’isolamento in cui questa regione si è trovata per secoli, e della sua particolare storia. Le montagne dell’Etiopia si elevano con ripidissime pareti fino a duemila, tremila metri; sulla sommità di queste formidabili fortezze naturali si stende l’altipiano che è la zona più fertile e più popolata. Proprio nel centro di questo altipiano si trovano le sorgenti di grandi fiumi come il Nilo Azzurro, il Giuba, l’Uebi Scebeli, l’Omo, ecc.
Nel corso dei secoli, parecchie popolazioni si sono contese il dominio di questa fertilissima regione; d’altra parte era relativamente facile per gli abitanti difendersi e assoggettare le popolazioni sottostanti più primitive. Fino all’invasione italiana del 1936, nessuno era mai riuscito alla conquista completa (ciò non va certo “a maggior gloria delle armi italiane”, ma è una vittoria della tecnica moderna contro un modo di produzione superato). Persiani, Arabi, Turchi, hanno in epoche successive minacciato la regione, ma sono riusciti al massimo a spingersi ai piedi dell’altipiano, mai a conquistarlo. Infatti la religione musulmana si è diffusa in Eritrea e nel bassopiano, mentre le popolazioni dell’interno hanno sempre conservato la religione cristiano-copta.
I primi europei a visitare l’Etiopia, furono i navigatori portoghesi. Le notizie che essi riportarono su questo leggendario impero, “baluardo della cristianità in Africa”, fecero sì che si stabilissero tenui relazioni diplomatiche tra il papato e l’imperatore d’Etiopia, le quali però non ebbero alcun effetto.
L’introduzione del cristianesimo in Etiopia risale al 320 d.c.; coincide con un accentramento dell’autorità imperiale; fu infatti lo stesso imperatore Ezana che, dopo aver sottomesso tutta la regione alla sua autorità, favorì l’introduzione della nuova religione, la quale si prestava bene allo scopo perché sanciva e giustificava l’autorità imperiale, proclamando che questa derivava da Dio.
La fine dell’isolamento dell’Etiopia si ha con la penetrazione degli Stati capitalistici europei nel Mar Rosso, il cui inizio è segnato dall’apertura del canale di Suez e dallo stabilirsi degli inglesi ad Aden. Le potenze imperialistiche si gettano come avvoltoi alla conquista dell’Africa e del Medio Oriente. Anche la borghesia italiana, fresca fresca dall’aver raggiunto, nel modo che sappiamo, la sua indipendenza nazionale, vuole partecipare al banchetto; ma è arrivata in ritardo e deve rosicchiare l’osso più duro; tanto duro che nel morderlo si romperà i denti.
Per sottomettere l’Etiopia, le potenze occidentali cercarono di far leva su una perenne situazione di instabilità politica, cioè sulle lotte intestine dovute al fatto che il potere statale dell’imperatore non era solido e accentrato. L’Etiopia era infatti divisa in grandi province, a capo di ognuna delle quali stava un governatore ereditario: il Negus (re). Ogni Negus aveva sotto di sé vari Ras; ogni Ras comandava vari Deggiacc. L’imperatore era chiamato Negus Neghesti (re dei re). La sua autorità gli derivava dal fatto di essere il capo militare e religioso della nazione, e soprattutto dal fatto di essere il feudatario più forte. Ogni Negus, ogni Ras, ecc. svolgeva nella zona affidatagli le funzioni statali per conto dell’Imperatore, padrone assoluto della terra; riscuoteva le imposte, giudicava, organizzava e comandava i soldati. Ognuno di essi aveva perciò un piccolo esercito, più o meno consistente a seconda della ricchezza della Regione (cioè a seconda del numero di abitanti che un dato territorio poteva mantenere). La nazione dominante, gli Amhara, era esclusivamente dedita all’uso delle armi, e solo ad essa erano riservati i posti di questa complessa gerarchia militare che dall’Imperatore arrivava fino ai soldati semplici.
Il peso di tutta questa impalcatura sociale, gravava unicamente sulle spalle di chi coltivava la terra: le popolazioni sottomesse e gli schiavi catturati nelle guerre o nelle razzie.
Teoricamente ogni nomina di un governatore era esclusivo attributo dell’Imperatore, ma in pratica, un Ras destituito si difendeva con le armi perché la perdita del posto nella gerarchia militare significava la perdita di tutti i mezzi di sostentamento per sé e per la propria famiglia. Infatti tutti i capi militari vivevano delle tasse che riuscivano a riscuotere nella zona assegnat: ad ogni livello della gerarchia un capo destituito poteva passare improvvisamente dalla agiatezza alla miseria. Alla morte di un Imperatore si verificava quasi sempre un rivolgimento politico; infatti, se un Negus si sentiva abbastanza forte, si proclamava Imperatore; gli altri si schieravano dalla parte dell’uno o dell’altro pretendente; la cosa veniva decisa sul campo di battaglia, e naturalmente, seguiva un rivolgimento di tutta la gerarchia. Le potenze occidentali cercavano perciò di sfruttare a proprio vantaggio le rivalità tra i vari capi, e di indebolire l’unità dell’Impero.
Al Congresso di Berlino del 1885 è decisa la spartizione dell’Africa. Nello stesso anno gli italiani iniziano l’occupazione dell’Eritrea. Cercano di favorire le aspirazioni al trono del Negus Menelik, re della Choa, fornendogli armi e assistenza tecnica. Ma nel 1887 arriva la prima doccia fredda per le ambizioni imperialistiche della borghesia italiana: il Negus Neghesti Giovanni invia contro gli italiani un suo Ras il quale a Dogali distrugge un intero battaglione italiano.
Nel 1889 l’Imperatore Giovanni muore in battaglia, e Menelik II, il Negus più potente, si proclama imperatore. Lo stesso anno Italia ed Etiopia concludono il famoso trattato di Uccialli; un trattato di “amicizia perpetua” che doveva sancire il protettorato dell’Italia sull’Etiopia. Per avere un’idea della rapacità e della cialtroneria della borghesia italiana, basti pensare che l’articolo 17 di questo trattato, nel testo italiano dice che l’imperatore acconsente a farsi rappresentare dall’Italia nei suoi rapporti con gli altri Stati (il che è come dire rinunciare alla propria indipendenza), mentre nel testo in amarico si dice che l’imperatore può servirsi dell’Italia, ecc. Un volgare trucco che dette luogo a una serie di polemiche e di cui l’imperialismo italiano si serve come pretesto per intervenire con la forza.
Nel 1893, dopo che Menelik aveva denunciato il trattato di Uccialli, le truppe italiane occupano il Tigrè. La tronfia propaganda della borghesia italiana presenta questa impresa come una “nobile missione civilizzatrice”. Ma ha fatto male i conti: nel 1896 ad Adua (capoluogo del Tigrè) il corpo di spedizione italiano, forte di 20 mila uomini, viene quasi totalmente distrutto dalle armate di Menelik. Questa vittoria ha molta risonanza ad ammonimento per le altre potenze coloniali, inducendole a frenare i loro appetiti.
Il contatto con le potenze imperialistiche aveva introdotto anche in questo millenario impero le meraviglie della tecnica moderna. Le armi da fuoco furono naturalmente il prodotto che i vari Ras e Negus apprezzavano di più, perché ne compresero immediatamente l’utilità. Ma poi, tra il 1887 e i primi del ‘900, arrivarono anche le poste, il telefono, il telegrafo, la prima banca, la prima ferrovia, le prime automobili. L’antica struttura sociale rimaneva ancora in piedi, ma cominciavano a penetrare i primi germi che avrebbero provocato la sua distruzione. La minaccia di nemici esterni potenti e agguerriti esigeva inoltre la centralizzazione dello Stato sotto un comando unico, cioè la fine delle lotte tra i vari signorotti feudali, e la loro sottomissione all’autorità centrale.
L’opera di centralizzazione dello Stato, iniziata sotto Menelik II, venne continuata da Ras Tafari che nel 1917, dopo un periodo di lotte intestine seguìto alla morte di Menelik, aveva assunto il titolo di Reggente. Nel 1923 (epoca di ingresso dell’Etiopia alla Società delle Nazioni) Ras Tafari emanava un editto in cui condannava a morte chiunque comprasse o vendesse schiavi; nel 1924 decretava che tutti i bambini dovessero nascere liberi. Per molto tempo però questi editti rimasero lettera morta, perché buona parte della produzione era ancora basata sulla schiavitù e la sua abolizione richiedeva una trasformazione economica e sociale.
Ras Tafari dedicò inoltre una particolare cura alla formazione di un esercito attrezzato e inquadrato all’europea; a questo scopo si avvalse di istruttori stranieri, e spedì a studiare nelle accademie militari occidentali i primi giovani dell’aristocrazia. Questa politica di riforme, naturalmente, non piaceva ai grandi feudatari, ma non avevano la forza di opporsi all’esercito di Ras Tafari.
Quest’ultimo, nel 1928, si fece proclamare Negus, e nel 1930 venne fastosamente incoronato imperatore, assumendo il nome di Hailé Selassié (benedetto dalla Trinità). Tutta l’opera di Hailé Selassié fu sempre rivolta a minare l’autorità dei grandi feudatari e a rafforzare il potere centrale. Uno dei mezzi che usava era tenere i feudatari presso la sua corte, mentre intanto minava la loro autorità nelle provincie, facendole governare da suoi emissari diretti (proprio come Luigi XIV in Francia).
Ma il colpo più grosso i feudatari lo ebbero nel 1931, quando Hailé Selassié promulgò la prima Costituzione, emanata, dice il testo «senza che alcuno ce ne facesse richiesta, per Nostra volontà».
E si capisce che nessuno gliel’aveva chiesta! Non vi si parla dei capi e della loro funzione, ma si stabilisce che il titolo di Negus Neghesti non devesse uscire che «dalla discendenza di Hailé Selassié I, stirpe venuta succedendosi da Menelik I nato da Salomone re di Gerusalemme e dalla regina di Etiopia denominata regina di Saba». Un intero capitolo era dedicato alle attribuzioni del Negus Neghesti, il quale doveva detenere «tutt’intero in sua mano il potere supremo».
La Costituzione prevedeva inoltre la formazione di due Camere di Consiglio per la definizione delle leggi e per l’indirizzo legislativo, ambedue nominate dall’Imperatore. Inoltre, per la prima volta, era istituito un bilancio statale. La circolazione monetaria rimase tuttavia per molto tempo irrisoria; le rendite venivano pagate soprattutto in natura. Nella lingua amarica non esiste la parola “moneta”, ma si usa la parola “argento” o una parola derivata dall’arabo (vedi E. Giurco: “Ordinamento politico dell’Impero Etiopico”). Ciò ha naturalmente scandalizzato gli alfieri della “civiltà” borghese.
Fino al 1931 ed oltre l’unica moneta circolante era il “Tallero di Maria Teresa” (coniato a Vienna) e i “sali” (piccoli parallelepipedi di sale). Questa moneta non era ancora “capitale” ma solo mezzo di scambio; basti pensare che i talleri d’argento erano usati dagli orafi etiopici come materia prima per fabbricare i loro monili. Sempre nel 1931, la Banca di Abissinia, che era nata nel 1905 e funzionava con capitale europeo, fu nazionalizzata con indennizzo e divenne la Banca Nazionale di Etiopia.
La breve parentesi dell’occupazione italiana (1936-41) accelera la trasformazione economica e sociale, nascono le prime industrie, si sviluppano le vie di comunicazione e i commerci. La schiavitù è abolita, ma la struttura sociale nelle campagne, i diritti dei nobili sulla terra, rimane in piedi.
Alla fine della guerra gli inglesi non occupano l’Etiopia, nonostante ne avessero per così dire il “diritto di guerra” trattandosi di una ex colonia italiana. Hailé Selassié riprende il suo posto. Non mancano proteste da parte della borghesia italiana: nel 1946 De Gasperi sostiene, con verginale candore, che l’impresa italiana in Etiopia è stata una missione civilizzatrice e chiede che la “tutela” della ex colonia sia almeno in parte affidata all’Italia.
Nel 1952, in seguito ad un accordo con gli inglesi, l’Eritrea si unisce federativamente all’Etiopia. Nel 1962, l’Eritrea perde ogni sua autonomia e diviene una semplice provincia dell’Impero. È a partire da questa data che nasce e si sviluppa il movimento indipendentista eritreo.
Lo sviluppo economico non ha formato una forte borghesia imprenditoriale; però ha originato una piccola borghesia radicale, gli intellettuali, gli studenti, gli ufficiali dell’esercito sono fautori della introduzione dei moderni rapporti di produzione. Nel 1960 un tentativo di rivolta degli ufficiali della guardia imperiale viene soffocato nel sangue.
Solo nel settembre 1974, l’Etiopia è approdata alla rivoluzione borghese.
Il Derg (Comitato Militare Rivoluzionario) rappresentante le esigenze borghesi, ha però proceduto in maniera contraddittoria. Ha abbattuto e imprigionato Hailé Selassié, ma solo sette mesi dopo ha proclamato la Repubblica. Ha arrestato i notabili dell’ex Impero, ma anche i capi dei sindacati, e ha sparato sugli operai e sui contadini. Non ha concesso l’autonomia alle nazionalità oppresse da secoli, non ha proclamato la riforma agraria se non quando si è trovato con l’acqua alla gola. Insomma ha agito in maniera rivoluzionaria di fronte all’assolutismo, e in maniere reazionaria di fronte agli operai e ai contadini.
La riforma agraria
In lingua amarica la terra si indica con la parola “resti”, che significa: “proprietà collettiva derivante da conquista”. La stirpe che ha diritto di uso sulla terra, viene invece indicata con la parola “restegnà” che significa: “stirpe proprietaria discendente dai conquistatori”. Nel significato di queste due parole è racchiuso tutto il sistema sociale nelle campagne etiopiche, che si è tramandato fino ai nostri giorni. Fino al secondo dopoguerra non è esistita, o è esistita solo in misura irrilevante, la proprietà di tipo capitalistico.
Il suolo della maggior parte dell’Etiopia è caratterizzato da grande fertilità naturale e da grande varietà di clima. L’alta fertilità naturale è testimoniata ad esempio dal fatto che questa regione è una delle più ricche di bestiame di tutta l’Africa. Questo viene allevato per lo più allo stato brado, cioè si nutre dei prodotti spontanei del suolo.
Nel corso dei secoli varie popolazioni si sono contese il dominio di questa “terra promessa”. Gli amhara sono risultati vincitori e hanno imposto il loro dominio su tutta la Regione. Questa razza guerriera che considerava il lavoro produttivo una occupazione indegna, era suddivisa in una complessa gerarchia militare con a capo l’imperatore.
Solo l’imperatore era il padrone assoluto della terra. Egli delegava i suoi diritti ai vari gradi della gerarchia militare, i quali avevano il privilegio di esigere dai contadini quante più tasse potevano; tasse che naturalmente venivano pagate in natura o in lavoro. In cambio, questi capi militari, dovevano a loro volta pagare un tributo all’imperatore e svolgevano nella zona loro affidata funzioni amministrative e militari.
Le cariche di Negus, Ras, o Deggiacc potevano essere revocate dall’imperatore in qualsiasi momento, ma nel corso del tempo divennero ereditarie, cioè non uscivano da una stessa famiglia.
La nobiltà locale era costituita dai Gultegnà, che rivestivano funzioni simili ai nostrani baroni medioevali. Il loro feudo era chiamato “gulti” e derivava da una concessione del Negus Neghesti, per cui la famiglia dei Gultegnà poteva trattenere un decimo del tributo riscosso nella zona, far coltivare a proprio esclusivo vantaggio un decimo del terreno del feudo, confiscare le terre di chi non pagava le tasse; nel caso di divisione dei terreni, aggiudicarsi come tassa un decimo delle terre.
Mentre nel caso dei Ras o Negus non si può parlare di proprietà ereditaria, ma di grado militare ereditario, qui siamo di fronte alla formazione di una proprietà, ma non è ancora la proprietà di tipo individuale, perché è tutta la famiglia che gode i benefici del Gulti.
Fino all’occupazione italiana (1936) nessuno poteva avere dei diritti sulla terra all’infuori degli appartenenti alla razza amhara; nessun straniero, nessuna impresa occidentale poteva perciò acquistare liberamente un terreno. Era consentito vendere il proprio diritto di uso sulla terra, ma in tal caso, si doveva versare come tassa la metà del prezzo al rappresentante locale dell’imperatore.
Si può dire che la legge etiopica non ammetteva l’acquisto ma solo la conquista. Infatti gli studiosi occidentali, che nell’esaminare l’organizzazione politica dell’Etiopia si sono affaccendati a ricercare quali erano le “fonti del diritto”, hanno dovuto concludere, inorriditi, che questo derivava solo dalla forza. Già da più di un secolo il marxismo avev affermato che la forza è la fonte, l’origine di ogni diritto e di ogni privilegio, soprattutto laddove i codici sono più raffinati. Aggiungiamo che una simile “scoperta” fu uno degli argomenti per giustificare la conquista italiana.
Il peso di tutta l’impalcatura sociale gravava sugli schiavi (prigionieri di guerra e loro discendenti) e sulle popolazioni sottomesse (Galla, Uollo, Dancali, Somali, ecc.) dedite all’agricoltura e alla pastorizia.
La schiavitù, nonostante gli sforzi più o meno convinti fatti da Menelik II e da Hailé Selassié per abolirla, rimase in piedi fino alla occupazione italiana. Le razzie e le vendite di schiavi costituivano la occupazione principale di molti Ras: il Fatha Negasti (Libro dei Re) afferma che «la legge di guerra e la vittoria fanno i vinti schiavi dei vincitori». Il lavoro degli schiavi aveva inoltre una importanza considerevole in molte regioni.
L’occupazione italiana abolì la schiavitù, costruì strade, dette impulso alle città, installò le prime manifatture; ma i privilegi di cui godeva la nobiltà locale nelle campagne non furono aboliti e si tramandarono fino ai nostri giorni.
Le forze produttive erano compresse sotto un dispotismo secolare, e il loro sviluppo non poteva verificarsi senza la violenta rottura dei rapporti sociali. Perciò, accanto al sorgere delle prime industrie e delle prime aziende agricole moderne, è rimasto fino ad oggi in piedi un sistema di privilegi feudali che grava sulle spalle del contadino e frena lo sviluppo delle forze produttive. Ancora nel 1966 solo il 10% del territorio è coltivato; il 7% è destinato a bosco; il 57% a prati e pascoli e ben il 26% è incolto.
Eppure l’agricoltura fornisce il 64% del prodotto nazionale lordo. Il patrimonio zootecnico è uno dei più ricchi di tutta l’Africa: nel 1969-70 c’erano 26 milioni di capi bovini, 12.700 mila ovini, 1.400 mila cavalli, 1.400 mila muli, 3.900 mila asini (Annuario statistico ONU 1971).
Le vie di comunicazione sono scarsissime; nel 1965 esistono solo 6.300 km di strade e circa 1.000 di ferrovia, 24.000 autovetture, 8.900 veicoli industriali, appena 54 uffici postali, 28.000 telefoni. Tutto ciò in un Paese di 26 milioni di abitanti, grande quasi quattro volte l’Italia.
Un altro dato che mostra la scarsissima industrializzazione è quello relativo alla produzione di energia elettrica, nel 1969 appena 341.000 kw, contro ad esempio quella dell’Egitto, che non è certo un Paese industrializzato, di oltre 4 milioni di kw. A ciò si deve aggiungere che il territorio montagnoso e ricco di grandi fiumi offrirebbe grandi possibilità di produzione di energia idroelettrica.
Le poche industrie minerarie o di trasformazione dei prodotti agricoli, sono quasi tutte in mano a stranieri, soprattutto italiani. Gli operai sono meno di 400 mila.
Non è mai stato fatto un censimento della terra e della popolazione, ma secondo le ultime stime, pare che prima della riforma decretata il 4 marzo 1975, la ripartizione della terra fosse la seguente: il 24% ai signorotti feudali; su queste terre lavorava il 60% della popolazione, cioè circa 15 milioni di abitanti. Essi dovevano pagare un canone pari al 75% o più dei prodotti. Alcune di queste proprietà raggiungevano estensioni enormi (600/800 mila ettari).
Il 16% apparteneva alla famiglia dell’imperatore (le terre più fertili). Il 60% era coltivato in forma comunitaria da circa 7 milioni di contadini.
Fino ad oggi non si è formata una vera borghesia imprenditoriale e, come è avvenuto in molti Paesi arretrati, (Egitto, Algeria, Libia, ecc.) è l’esercito, unica forza organizzata, che costituisce il “partito della borghesia”, che cioè si assume il compito di abbattere il feudalesimo e di attuare la trasformazione economica in senso capitalistico.
Il Derg è perciò il legittimo rappresentante della borghesia nazionale etiopica. È una borghesia giovane, appena nata, ma che già presenta una faccia reazionaria. Il Derg ha abbattuto la monarchia assoluta, ma appena si è trovato di fronte gli operai in sciopero ha risposto con il piombo alle loro richieste. Lo stesso ha fatto nei confronti dei contadini, e solo le necessità di guerra, solo il diffondersi del separatismo tra le varie popolazioni, solo il timore di perdere l’Eritrea, unico sbocco a mare, lo ha spinto, più in là delle sue intenzioni, a proclamare la riforma agraria.
Il Derg dispone di un esercito di poche decine di migliaia di uomini, assolutamente insufficiente a controllare un Paese così esteso e con così scarse comunicazioni.
Le spinte secessionistiche, negli ultimi tempi si sono moltiplicate. Le popolazioni che per secoli sono state sottomesse agli amhara rivendicano l’autonomia.
Resta una sola alternativa: mobilitare i contadini e scagliarli contro i secessionisti. Ma che interesse avrebbero i contadini a difendere un regime che non ha fatto niente per loro? Ecco la ragione per cui il Derg si è deciso a proclamare una riforma agraria dalla formulazione così radicale.
La riforma, decretata il 4
marzo 1975, prevede infatti (“l’Unità” e “Le Monde” del 5 marzo):
1) che tutte le terre passino senza indennizzo in
proprietà dello Stato;
2) che i diritti feudali dei nobili e della Chiesa
siano aboliti;
3) l’annullamento di tutti i debiti dei contadini;
4) la
distribuzione della terra a chi la lavora in lotti non superiori a 10 ha, oppure
in forma cooperativa alle comunità di villaggio;
5) la proibizione
dell’impiego di braccianti;
6) la proibizione della compra-vendita di terre.
Nessuno potrà più possedere terre a titolo privato;
7) che il provvedimento
sia dichiarato valido per tutte le Regioni (quindi anche per l’Eritrea).
Si tratta di una riforma decretata per necessità di guerra. Non è un fatto nuovo; in molti casi la borghesia, avendo avuto bisogno dei contadini, li ha illusi con la prospettiva della riforma agraria; sempre però alla fine li ha truffati. Nella migliore delle ipotesi i contadini, liberati dal giogo del feudatario, sono passati sotto quello dell’usuraio, del mercante, del contadino ricco.
La terra non basta! Occorrono il bestiame, gli utensili, le macchine, e di questo, almeno per quanto se ne sa, la riforma decretata dal Derg non parla. Segno evidente che la borghesia etiopica non ha affatto intenzione di mettere in pratica le sue affermazioni.
Per comprendere meglio basta ricordare i provvedimenti che furono attuati dalla
Russia rivoluzionaria. Nel Decreto sulla terra varato dai Soviety in Russia
nell’ottobre 1917, si afferma:
«1. I diritti dei proprietari non contadini
sono aboliti immediatamente senza alcuno riscatto.
«2. Le loro terre, e
quelle dello Stato, dei Conventi e delle città, sono messe con tutti gli
strumenti di lavoro, il bestiame, e le costruzioni, a disposizione dei Comitati
terrieri e dei Consigli dei delegati contadini riuniti in ogni Distretto, fino
alla riunione dell’Assemblea Costituente».
Nella Legge sulla terra varata
nel settembre 1918, si afferma:
«2. La terra trapassa in uso all’intera
popolazione lavoratrice, senza alcun compenso, aperto o segreto, ai precedenti
proprietari.
«3.Il diritto di uso della terra appartiene a coloro che
la coltivano col proprio lavoro (…)
«6. Tutto il bestiame, le scorte e
gli annessi dell’azienda agricola appartenenti a privati o a Enti non lavoratori
passano, senza indennità agli organi appositi istituti nei distretti, nelle
provincie, regioni e Società federali, i quali ne disporranno secondo la loro
qualità.
«7. Tutte le costruzioni riguardanti l’azienda, così come tutte
le pertinenze agricole, passano pure senza indennità a disposizione degli organi
indicati nell’articolo 6 (...)
«18. Il commercio delle macchine
agrarie e delle sementi è monopolizzato dal potere degli organi dei Soviet».
Anche nella riforma proclamata dal Derg si stabilisce il principio rivoluzionario che la terra appartiene a tutto il popolo e viene data in uso a chi la lavora, ma anche questo non basta: ogni affermazione di principio è destinata a rimanere un cumulo di parole, se non si mette in pratica.
Infatti l’attuazione della riforma presenta grandi difficoltà, di natura tecnica, ma soprattutto l’ostacolo da superare è la resistenza dei proprietari fondiari. Questi, non appena si è saputo della proclamazione della riforma, si sono dati alla macchia con le loro bande armate e difenderanno con la forza i loro privilegi.
I contadini poveri etiopici devono perciò difendersi contro due nemici: da una parte contro la borghesia che, dopo averli utilizzati, quando non avrà più bisogno di loro, li abbandonerà a sé stessi. Dall’altra contro i proprietari fondiari che non vogliono abbandonare i loro privilegi.
Quali garanzie possono avere i contadini che la riforma sarà veramente attuata? Una sola, armarsi e riunirsi in organizzazioni autonome.
Lenin, in un discorso pronunciato nel maggio 1917 al Primo Congresso Panrusso dei deputati contadini, afferma:
«Io ed i miei compagni di Partito, in nome del quale ho l’onore di parlare, conosciamo due strade che conducono alla difesa degli interessi del salariato agricolo e dei contadini più poveri e le raccomandiamo all’attenzione dei Soviet contadini. La prima è l’organizzazione dei salariati agricoli e dei contadini più poveri. Noi consigliamo e vogliamo che, in ogni villaggio, in ogni Volost, in ogni distretto e in ogni provincia ogni comitato di contadini comprenda una frazione o un gruppo speciale dei salariati e dei contadini più poveri. Questi debbono dirsi: “che cosa faremo noi domani quando la terra diventerà proprietà della nazione tutta, poiché questo accadrà certamente in quanto il popolo lo vuole? Come dobbiamo agire noi che non abbiamo né bestiame, né utensili? Dove li prenderemo per poter lavorare la terra? Come fare perché la terra diventata proprietà nazionale non cada nelle mani di quelli soltanto che possiedono ciò che ci manca? Se la terra cade unicamente tra le loro mani, che cosa ci guadagneremo? Ed è per questo che abbiamo fatto la grande rivoluzione (...)
«Per uscire da questo capitalismo, perché la terra, divenuta proprietà nazionale, passi realmente agli strati di coloro che la lavorano, non c’è che un mezzo, quello dell’organizzazione dei salariati agricoli, i quali saranno guidati dalla loro esperienza, dalle loro osservazioni, dalla loro diffidenza verso ciò che loro dicono gli sfruttatori del popolo, anche quando ostentano insegne rosse e si danno alla democrazia rivoluzionaria. Solo la loro organizzazione sociale e la loro esperienza varranno qui. E il compito non sarà facile. Noi non promettiamo i fiumi di latte dalle rive di marmellata. No. I grandi proprietari saranno oppressi, poiché il popolo lo vuole, ma il capitalismo persisterà. È molto più difficile abolirlo. Per arrivarci bisogna scegliere un’altra strada, la strada dell’organizzazione separata dei contadini poveri. Ecco quello che il nostro Partito mette in prima linea. Solo questa strada permetterà il trapasso difficile, graduale, ma reale, della terra, nelle mani dei lavoratori (…)
«La seconda raccomandazione del nostro Partito è questa. Bisogna organizzare al più presto le più grandi proprietà (ce ne sono trentamila in Russia) in aziende modello in cui lavoreranno in comune operai agricoli esperti ed agronomi sapienti, valendosi del bestiame, degli utensili, ecc.»
Notiamo che dal momento in cui questa riforma è stata varata tutti i giornali (compresi quelli dei partiti opportunisti), prima così solleciti a fornire notizie persino sulla salute dell’ex imperatore, hanno steso una cortina di silenzio sui fatti dell’Etiopia. Certo è scomodo per la borghesia occidentale, che non è stata capace nemmeno di nazionalizzare la terra, constatare che proprio da una nazione così arretrata vengono dei provvedimenti dalla formulazione tanto radicale. La constatazione è ancora più scomoda per i falsi partiti comunisti, che tutti i giorni si inginocchiano davanti all’immagine della proprietà e piangono al capezzale dell’economia nazionale.
La borghesia etiopica non ha certamente l’intenzione di mantenere le sue promesse. Essa vuole solo sollevare i contadini quel tanto che basta per salvare l’unità dell’ex impero, per poi ingannarli come a loro volta hanno fatto tutte le borghesie del mondo. Ma le forze sociali non si possono comandare a bacchetta e, in determinate situazioni, anche le parole, anche le affermazioni di principio possono costituire il detonatore che fa scoppiare la bomba di contraddizioni sociali. Queste sono latenti non solo in Etiopia, ma nel Sudan, nel Congo, nel Sud Africa, nella Rhodesia e in tutta l’Africa. Noi ci auguriamo sia presto incendiata dal fuoco della lotta di classe.