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L’interpretazione marxista delle guerre di sistemazione nazionale nel Corno d’Africa (Il Partito Comunista, n. 37, 38 e 39 del 1977) |
Il Partito Comunista, n. 37 del 1977
Impero plurinazionale
Affronteremo in un successivo articolo la questione etiopica, per adesso prendiamo in considerazione un suo aspetto fondamentale: la questione nazionale. Le conclusioni che qui indichiamo costituiscono, fra l’altro, un primo elemento della dimostrazione che nel successivo articolo trarremo riguardo alla natura del regime militare etiopico.
Allo scopo di affrontare meglio il tema impostiamo un parallelo con la Russia del 1917, essa stessa alle soglie della rivoluzione borghese. La Russia si era formata non come uno Stato nazionale, ma multinazionale. Riprendiamo l’esposizione di Trotsky nella “Storia della Rivoluzione russa”: «A settanta milioni di “grandi russi”, che costituivano la massa fondamentale del Paese, si aggiunsero gradualmente novanta milioni di “allogeni” suddivisi nettamente in tre gruppi: gli occidentali, superiori ai grandi russi come cultura, e gli orientali ad un livello inferiore (…) Il gran numero di nazionalità prive di diritti e la gravità della loro situazione facevano sì che nella Russia zarista il problema nazionale acquistasse una forza esplosiva enorme». «Se negli Stati nazionalmente omogenei – prosegue Trotsky – la rivoluzione borghese sviluppava poderose tendenze centripete, sotto il segno di una lotta contro il particolarismo come in Francia, oppure contro il frazionamento nazionale come in Italia e in Germania, negli Stati eterogenei, come la Turchia, la Russia, l’Austria-Ungheria, la rivoluzione borghese in ritardo scatenava invece le forze centrifughe. Benché in termini meccanici questi processi sembrino contrapposti, la loro funzione storica è la stessa nella misura in cui in entrambi i casi si tratta di servirsi dell’unità nazionale come di un serbatoio economico essenziale: per questo bisognava realizzare l’unità della Germania e bisognava, invece, smembrare l’Austria e Ungheria».
Vediamo come si presenta la situazione in Etiopia. Questo Stato, come la Russia, si presenta come plurinazionale e, come in Russia la nazionalità grande russa, in Etiopia quella Amhara rappresenta il gruppo dominante. Tradizionalmente dedita all’uso delle armi, solo ad essa erano riservati i posti della gerarchia militare che dall’imperatore arrivava fino ai soldati semplici. Amhara sono inoltre i notabili, i capi delle polizie locali, i proprietari di terre. Essi hanno imposto alle popolazioni sottomesse, private degli stessi diritti, la loro religione cristiano-copta, mentre la loro lingua è divenuta e tuttora rimane la lingua di Stato.
Le altre principali popolazioni che compongono l’ex impero sono: le Tigrine, che risiedono al Nord e di cui fa parte la nazionalità eritrea, le popolazioni di origine Dancala disposte nella zona circostante Gibuti, i somali dell’Ogaden e infine i Galla. Sotto quest’ultima denominazione si raccolgono varie popolazioni nere di origine e tradizioni diverse dagli Amhara, legate ancora in parte alla struttura tribale, che occupano territori in gran parte sottomessi allo scettro imperiale solo nel secolo scorso (prima della sua opera di conquista il territorio sottomesso all’impero si riduceva a un quinto dell’attuale). In queste regioni i Galla rappresentano la massa dei contadini poveri e senza terra e dei servi sottomessi alla dominazione dei proprietari Amhara: è naturale quindi che qui le rivolte contadine contro il regime feudale si intreccino con il problema dell’oppressione nazionale.
Le popolazioni Dancale, tra le quali principalmente gli Afar, risiedono nelle pianure semi-desertiche antistanti l’altopiano. Tradizionalmente nomadi sono oggetto di una campagna di sedentarizzazione che solo dopo l’avvento del Derg ha preso seriamente avvio.
Esse godevano di una relativa autonomia politica e culturale sotto l’impero e il Derg sembra abbia concesso loro una certa autonomia regionale in seguito alla quale sarebbero cessate le attività del Fronte di Liberazione, rimanendo tuttavia la maggior parte degli uomini armati, il che d’altronde è una necessità per le popolazioni nomadi costrette a difendersi frequentemente dalle scorrerie dei banditi.
Le Regioni maggiormente coinvolte dalle lotte di liberazione sono, tuttavia, l’Ogaden e l’Eritrea. L’Ogaden è una vasta Regione a sud-est dell’Etiopia, estesa quasi quanto l’Italia, confinante con la Somalia. Anche qui i territori sono semi-desertici e le popolazioni che vi abitano nella maggioranza nomadi e dedite all’allevamento. Di origine somala e di religione musulmana, la loro attività gravita più su Mogadiscio che su Addis Abeba. Per definizione nemici delle frontiere, i gruppi nomadi continuano a vendere il bestiame e ad acquistare i beni più sui mercati somali che su quelli etiopici. Così la maggior parte dei giovani figli delle classi più ricche vanno a studiare a Mogadiscio, mentre durante le recenti carestie i nomadi andarono per la maggior parte a rifugiarsi nei campi di raccolta somali. Di più, migliaia e migliaia di abitanti della Repubblica somala, una elevata percentuale dei quadri del suo esercito e dell’apparato statale, provengono dall’Ogaden.
L’annessione dell’Ogaden all’Etiopia risale al 1887 quando Menelik, conquistata Harrar, vi penetrò e lo assoggettò. Successivamente questa regione fu reintegrata dal colonialismo italiano entro i confini somali, e dopo l’ultima guerra mondiale, passata sotto l’amministrazione inglese, fu presto ceduta al Negus, riportato sul trono, che la annesse nuovamente all’Etiopia. La Somalia, diventata indipendente dal 1960, ha sempre denunciato tale patto anglo-etiopico, definendolo “un accordo fra due potenze coloniali”, e da allora appoggia politicamente e militarmente il Fronte di Liberazione della Somalia Occidentale, che rivendica la libertà di separazione dell’Ogaden.
Dopo l’avvento al potere il Derg si è sempre rifiutato anche solo di mettere in discussione la questione territoriale dell’Ogaden, e ciò ha portato a un inasprimento del conflitto fino alla situazione attuale in cui la maggioranza del territorio, tranne alcune città, è nelle mani del Fronte. Poco importa qui stabilire la misura dell’“ingerenza straniera” – nel caso in questione la Somalia – problema che è al centro delle dispute fra gli Stati antagonisti, preoccupati di difendere la loro “onestà” di fronte alle organizzazioni che dovrebbero tutelare i “diritti internazionali”, diritti che da che mondo è mondo sono solo il risultato dei rapporti di forza e non dei principi astratti, che quindi sanciscono unicamente quella che è la legge imposta dagli Stati più forti, più armati e più potenti.
Veniamo ora all’Eritrea. Questo territorio, che si stende sulle rive del Mar Rosso a nord dell’Etiopia, è stato oggetto di numerose invasioni a cominciare dal 1500: è da allora che la sua storia e la sua tradizione si dividono da quella dell’Etiopia. Mentre infatti l’impero etiopico, preservandosi da ogni colonizzazione, ha mantenuto la sua struttura arcaica e feudale tramandandola fino ai nostri giorni, in Eritrea, vissuta sempre sotto il giogo dell’occupazione, l’economia mercantile e il capitalismo si sono impiantati con maggiore rapidità, sostituendosi, specie nella fascia costiera, alle vecchie strutture precapitalistiche. Oggi la nazione eritrea è, da un punto di vista capitalistico, più sviluppata dell’Etiopia, e la popolazione, di religione musulmana e di lingua tigrina, si ritiene, non a torto, a un livello culturale superiore agli etiopici.
L’Eritrea ha visto succedersi l’occupazione turca, quella egiziana, quella italiana dal 1869, infine quella inglese dal 1941: nel 1950 le Nazioni Unite unirono in federazione l’Eritrea e l’Etiopia. Sotto la federazione l’autonomia nazionale eritrea venne gradualmente soppressa, assieme alla sua Costituzione semi-democratica. Contro queste violazioni dell’autonomia, cui si aggiungeva in quella occasione la soppressione della bandiera nazionale, fu fatto nel 1958 un poderoso sciopero che si estese a tutto il Paese e che, dopo il quarto giorno, fu violentemente represso.
A questo punto, infrantesi le speranze dei nazionalisti eritrei di risolvere il problema dell’indipendenza per via pacifica, iniziava l’attività del Fronte di Liberazione Eritreo (FLE), che dopo pochi anni si dava alla lotta armata. Nel 1962 il Negus abrogò di forza la risoluzione federale e annesse l’Eritrea, dichiarandola 14ª provincia.
Non stiamo qui ad affrontare le cause che portarono alla formazione dell’altro fronte, il Fronte Popolare di Liberazione Eritreo (FPLE), sta di fatto che, a seguito del rifiuto del Derg di concedere il diritto alla separazione dell’Eritrea e alla volontà espressa di risolvere la questione con la forza, le due organizzazioni, collegate sul piano militare, intensificarono la loro azione, infliggendo pesanti sconfitte all’esercito etiopico ed estendendo i territori occupati fino alla quasi totalità del suolo eritreo. Da notarsi il fatto che nei territori occupati dal FPLE, l’organizzazione che si richiama e si basa più direttamente sulle masse contadine, è stata realizzata, in questo caso realmente, a differenza che in Etiopia, la riforma agraria.
La lezione di Lenin
Come si vede, l’Etiopia si presenta alle soglie della rivoluzione borghese. È uno Stato plurinazionale in cui è stabilito il predominio di una nazionalità su tutte le altre e in cui vasti territori, che nel caso dell’Eritrea sono sede di una vera e propria nazione, sono mantenuti con la forza sotto lo scettro imperiale. Appare anche chiaro come in questa situazione la rivoluzione borghese si sia rappresentata come un’esplosione di forze centrifughe tendenti allo smembramento dell’ex impero. Per riprendere l’esempio di Trotsky, siamo piuttosto nel caso dell’Austria Ungheria, della Turchia e della Russia che in quello della Francia o dell’Italia.
L’atteggiamento in Russia del governo borghese uscito dalla rivoluzione di Febbraio e dei partiti borghesi e piccolo borghesi sulla questione delle nazionalità costituì uno degli elementi a favore della Rivoluzione d’Ottobre. Infatti questo si dimostrò fin dagli inizi propenso a continuare la vecchia politica di strangolamento e di oppressione nazionale: reprimeva i moti nazionali, discioglieva le organizzazioni locali, giustificandosi con le “necessità del tempo di guerra”.
Su questo piano la borghesia faceva da primo violino e i partiti piccolo borghesi l’accompagnamento. «La democrazia conciliatrice non fece che tradurre le tradizioni della politica nazionale dello zarismo in termini di retorica emancipatrice: in quel momento, il problema era di “difendere la rivoluzione”» (Trotsky). Nella sua “Storia della rivoluzione russa” sono riportati più in dettaglio i fatti che caratterizzavano la politica imperialistica della borghesia e lo sciovinismo grande russo dei partiti conciliatori, ad esempio di fronte alla questione finlandese, a quella ucraina e in generale nei confronti di tutte le nazionalità oppresse nell’impero zarista.
Quale era di converso la posizione dei bolscevichi? Riprendiamo questa volta Lenin nelle “Tesi di Aprile”: «Nella questione nazionale il Partito proletario deve insistere soprattutto sulla proclamazione e sulla realizzazione immediata della piena libertà di separazione dalla Russia di tutte le nazioni e di tutte le nazionalità oppresse dallo zarismo, forzatamente unite o forzatamente mantenute nei confini dello Stato, cioè annesse. Tutte le dichiarazioni, i proclami e i manifesti sulla rinuncia all’annessione che non implicano la libertà effettiva alla separazione, si riducono a un borghese inganno del popolo, o a pii desideri piccolo borghesi. Il Partito proletario tende alla creazione di uno Stato quanto più possibile vasto, perché ciò è nell’interesse dei lavoratori; esso tende all’avvicinamento e poi alla fusione delle nazioni, ma vuole raggiungere questo scopo non con la violenza, ma esclusivamente con l’unione libera e fraterna delle masse degli operai e dei lavoratori di tutte le nazioni. Quanto più la Repubblica russa si organizzerà in Repubblica dei Soviet dei deputati operai e dei contadini; tanto più potente sarà la forza di attrazione che porterà volontariamente le masse lavoratrici di tutte le nazioni verso una tale Repubblica».
In un discorso pronunciato nel maggio 1917, Lenin riprende questo ultimo punto: «Se vi saranno una Repubblica ucraina e una Repubblica russa, la fiducia reciproca sarà più profonda e i legami fra questi due Paesi saranno più stretti. Se gli ucraini vedranno che da noi esiste una Repubblica dei Soviet, non si separeranno più, ma se noi avremo la Repubblica di Miljukov, gli ucraini si separeranno».
Come si vede il perno della questione è la politica rivoluzionaria. I bolscevichi tendevano a uno Stato il più possibile vasto, ma è attraverso la politica rivoluzionaria che riuscirono a far convergere spontaneamente e liberamente le varie nazionalità nell’orbita dello Stato sovietico. La borghesia non poteva seguire questa strada, in quanto incapace e ostile a portare avanti la rivoluzione e a realizzare le aspirazioni delle masse lavoratrici e contadine; tale politica non poteva che spingere queste masse verso il separatismo nazionale. Per questo non le rimaneva che la via imperialistica, la soluzione di forza, quella tradizionale degli Zar.
La stessa cosa si sta verificando in Etiopia. Il Derg, nella stessa misura in cui si rifiuta di portare avanti la riforma agraria, tenta di bloccare il processo rivoluzionario nelle campagne e scatena la più dura repressione contro il proletariato e la piccola borghesia nazional democratica (come vedremo nel successivo articolo), nella stessa misura in cui cioè si schiera di traverso contro la crescita della rivoluzione dal basso, in questa stessa misura applica la soluzione militare e imperialistica alla questione nazionale. Sono due facce di una stessa medaglia.
Il Partito proletario non è dunque per la separazione («uno Stato il più possibile vasto nell’interesse dei lavoratori»), ma per la libertà di separazione. Trotsky spiega come con la posizione assunta il Partito non si impegnava affatto a fare propaganda separatista, al contrario i bolscevichi in tutte le loro organizzazioni nazionali si impegnavano a propagandare la necessità dell’unione con la Russia rivoluzionaria.
La questione è affrontata da Lenin quando si trova a rispondere ai comunisti polacchi, che, ingaggiati nella battaglia contro i Partiti nazionalisti e sciovinisti della borghesia e della piccola borghesia nazionale, avevano respinto l’idea della separazione e rimproveravano ai bolscevichi, al contrario, di favorirla in Russia. Lenin risponde: «Ci si propone di diventare sciovinisti, pur di facilitare il compito dei socialdemocratici polacchi (…) Ma essi non vogliono capire che per rafforzare l’internazionalismo bisogna insistere in Russia sulla libertà di separazione per le nazioni oppresse, e in Polonia sulla libertà di unirsi. Noi russi dobbiamo sottolineare la libertà di separarsi, mentre in Polonia si deve insistere sulla libertà di unirsi».
Si vede qui che a noi non preme difendere un principio astratto, ma predisporre tutti quegli strumenti e favorire quelle situazioni che preparano il rafforzarsi del nostro fronte di classe, nel caso in questione si tratta della solidarietà internazionale dei lavoratori. A questo proposito Lenin cita l’esempio della Norvegia e della Svezia in cui dopo la separazione si è rafforzata la fiducia e l’unione delle rispettive classi lavoratrici.
In questo senso il nostro atteggiamento di fronte alla questione nazionale viene completato da un secondo aspetto, solo in apparenza in contraddizione col primo. Facciamo ancora parlare Trotsky: «Sul piano del Partito e delle organizzazioni operaie in genere il bolscevismo applicava criteri rigorosamente centralisti, lottando implacabilmente contro ogni contagio nazionalistico che potesse mettere gli operai gli uni contro gli altri o dividerli. Negando fermamente allo Stato borghese il diritto di imporre a una minoranza nazionale una cittadinanza coatta o anche una lingua ufficiale, il bolscevismo riteneva al tempo stesso suo sacro dovere fondere in un tutto unico, il più saldamente possibile, sulla base di una disciplina di classe volontaria, i lavoratori di diverse nazionalità. Un’organizzazione di classe non è il prototipo dello Stato futuro, è solo uno strumento per crearlo. Lo strumento deve essere adatto alla fabbricazione del prodotto, non deve identificarsi con esso. Solo un’organizzazione centralistica può assicurare il successo nella lotta rivoluzionaria anche quando si tratta di distruggere un’oppressione nazionale centralizzata».
Per le aree a capitalismo maturo, caratterizzate dall’unica prospettiva della rivoluzione univoca, la questione si pone certamente sotto un’angolatura diversa, anche se non si può liquidare il problema affermando che “le questioni nazionali non esistono”. Cercheremo di sviluppare il problema in articoli successivi, per adesso, dato che la cosa non interessa direttamente il tema, accontentiamoci di queste semplici conclusioni tratte dalla nostra “Struttura economica e sociale della Russia di oggi”.
«Siamo:
«a) in un regime e periodo feudale e peggio asiatico-dispotico? Diamo mano
completa ai movimenti di libertà nazionale (…);
«b) all’indomani della caduta del feudalesimo e in una repubblica diretta
dalla borghesia che non si decide a farla finita con la questione della guerra e
della terra? Bisogna imporle la liberazione delle nazionalità chiuse nello Stato
ex-feudale, che intendono separarsi (…);
«c) siamo, per andare oltre, non alla società socialista ma a una Repubblica
socialista, che fondi il potere sui Consigli degli Operai e Contadini? Ebbene
saremo coerenti, in attesa di forme sociali superiori e soprattutto della
rivoluzione internazionale, proclamando che i Soviet delle nazionalità saranno
liberi di decidere la loro separazione o meno dall’unico Stato».
In questo senso la politica del Derg sta a fianco di quella del governo borghese della Russia del 1917, tacciata dai bolscevichi come controrivoluzionaria nei confronti del proletariato e dei contadini russi, e imperialista nei confronti delle nazionalità.
Perché, se fosse veramente intenzionato a risolvere le aspirazioni delle masse lavoratrici e contadine in una rivoluzione democratica-radicale e conseguente, esso non fa appello alla solidarietà di queste masse con la rivoluzione, contro il separatismo delle altre classi nazionali? In Eritrea, ad esempio, vige un contrasto profondo fra le masse lavoratrici e contadine e la borghesia che si è espresso a suo tempo nella cruenta guerra intestina fra FLE e FPLE e che si manifesta tutt’oggi, se pur in forma latente, sopito dalla collaborazione nella guerra indipendentista. Non avrebbe potuto il Derg poggiare sull’FPLE, espressione più diretta delle masse proletarie e contadine eritree? Lo avrebbe potuto solo dimostrando una volontà autenticamente rivoluzionaria e concedendo la piena libertà di autodecisione all’Eritrea.
Lenin prevedeva anche la possibilità di una amministrazione plurinazionale e poli-lingue in uno Stato che consentisse la convivenza fra popoli e lingue senza predominio di alcuno. Lo Stato di tipo svizzero, oppure la federazione di repubbliche, come si realizzò nella Russia sovietica. Potevano essere possibili soluzioni di questo tipo in Etiopia solo se vi fosse stato un potere conseguentemente rivoluzionario ad Addis Abeba, che avesse trovato l’appoggio nelle masse delle diverse nazionalità incatenate nell’ex impero. La volontà di risolvere la questione con la forza denuncia invece la soluzione opposta.
Un altro aspetto ci interessa mettere in evidenza: la politica estera di ogni Stato trae origine nella situazione politica interna, e a sua volta riproduce su di essa effetti di larga portata.
Così l’ingresso degli Stati occidentali nel primo conflitto mondiale portò al disarmo della classe proletaria e alla capitolazione dei Partiti Socialisti della II Internazionale, che passarono armi e bagagli dalla parte delle rispettive borghesie nazionali, mentre i superstiti rivoluzionari rimanevano isolati e sottoposti alla più dura repressione da parte dei vari Stati. La stessa cosa si verificò in Russia all’inizio del conflitto, mentre dopo il Febbraio la prosecuzione della politica di guerra da parte del governo borghese, se da un lato era l’espressione degli interessi imperialistici della borghesia, dall’altro tendeva allo scopo di bloccare l’azione rivoluzionaria delle masse trascinandole sotto la bandiera delle “difesa della patria rivoluzionaria” agitata dai partiti piccolo borghesi e fieramente rigettata da Lenin nelle “Tesi di Aprile”. Sotto questa parola d’ordine il regime di Febbraio aggiornava la questione sociale a “tempi migliori” pretendendo di ibernare la rivoluzione.
Nello stesso modo Mènghistu, agitando la bandiera dell’“unità dell’Etiopia”, mobilitando le masse contadine per questo prioritario obiettivo, intensificando l’azione militare sui vari fronti tende a bloccare il processo rivoluzionario all’interno del Paese. Il fallimento definitivo di questa politica sul piano militare non potrebbe non provocare, come provocò in Russia, la lunga serie di sconfitte subite dall’esercito e il fallimento dell’offensiva del giugno 1917, il rafforzarsi delle posizioni più radicali fra le masse e il crescere del movimento dal basso.
La questione nazionale in Etiopia andrebbe senza dubbio studiata più a fondo, per esempio si dovrebbero mettere in luce le diversità notevoli allorché si passi dall’Eritrea, nazione che rivendica l’indipendenza, alle popolazioni somale dell’Ogaden, nazionalità che rivendica la libertà di decidere sull’appartenenza allo Stato somalo, e infine alle popolazioni Galla che subiscono la supremazia della nazionalità Amhara. Per adesso però ci è sufficiente questo primo approccio per denunciare il carattere reazionario della politica del Derg.
La soluzione più radicale per il proletariato
Da tutto questo discendono le nostre posizioni sulla guerra in Eritrea e in Ogaden.
La politica conseguente di una rivoluzione radicale in Etiopia sarebbe stata quella di concedere la piena libertà di separazione alle regioni. In questo caso la situazione che avremmo auspicato sarebbe stata non la separazione, ma la federazione di repubbliche, soluzione che il Partito preferì per le nazioni del centro Africa in rivolta contro il colonialismo. Ma la situazione non si presenta in questi termini. La volontà del regime etiopico di mantenere integri i confini dell’ex impero ha sospinto le due nazionalità verso una guerra di liberazione nazionale. In questa situazione non possiamo che auspicare la sconfitta sul piano militare del Derg e lo smembramento dell’ex Etiopia. Questo per varie ragioni:
1) Le forze centrifughe che si manifestano in uno Stato plurinazionale, tenuto insieme con la forza da un regime assolutista, sono la naturale espressione della rivoluzione borghese e, di fronte alla borghesia nazionale che intende esercitare la stessa politica imperialistica, è un fatto progressivo la separazione delle diverse entità nazionali.
2) La formazione di Stati nazionali indipendenti, la liberazione dell’Eritrea dall’oppressione esterna, crea una condizione favorevole per lo sviluppo più largo e più libero del capitalismo, e quindi della lotta di classe.
3) Anche in senso politico la formazione di Stati indipendenti favorirà lo sviluppo della lotta di classe. Infatti il perdurare delle condizioni che producono la guerra di liberazione spingono le masse alla collaborazione con la borghesia contro l’imperialismo, e tendono, nelle condizioni di assoggettamento della coscienza proletaria all’indirizzo piccolo borghese, a sopire lo scontro sociale. L’indipendenza porrà invece le classi, in particolare il proletariato e i contadini poveri, di fronte ai rispettivi interessi, contrapposti a quelli della borghesia. Scadranno finalmente i motivi di convergenza fra i vari fronti, che torneranno a disporsi soltanto l’uno contro l’altro. Riceve nuova spinta il processo di spaccatura fra essi stessi, delineandosi i partiti che sono l’espressione più naturale della lotta di classe. Per noi questo scontro sociale non avrebbe dovuto mai sopirsi in nome del fronte nazionale per l’indipendenza e il proletariato e i contadini non avrebbero dovuto subordinare la loro lotta contro la borghesia nazionale ad alcun accordo militare, né tantomeno politico.
Riprenderemo in un successivo articolo la questione eritrea vista “dall’interno”, ritracciando le fasi di una vera guerra civile che si scatenò in Eritrea fra FLE e FPLE prima dell’avvento al governo del Derg in Etiopia. Dobbiamo però anticipare che si è subordinata la radicalità della riforma agraria all’accordo fra i fronti, realizzata in maniera moderata nelle zone occupate dal FPLE, non realizzata, anzi osteggiata in quelle dal FLE. Inoltre l’FPLE per addivenire a un accordo con l’FLE ha represso violentemente le sue frange estreme la cui tendenza probabilmente era a porre la indipendenza non fine a sé stessa, come per la borghesia, ma come un aspetto della questione sociale. In nome della tappa dell’indipendenza non deve essere rimandata la questione sociale.
Questo ci porta a prevedere fra l’altro che, dal punto di vista borghese, l’indipendenza si realizzerà non solo quando saranno stati cacciati gli etiopici, ma quando si saranno assicurate le condizioni per il soffocamento di ogni movimento dal basso. Perché altrimenti si esita a proclamare l’indipendenza nel momento in cui il 90% del Paese è riconquistato? E perché non si muove all’attacco decisivo nel momento in cui l’esercito etiopico è impegnato sul fronte dell’Ogaden? Tutta queste considerazioni, che saranno sviluppate nel successivo articolo, non ci impediscono già di auspicare la definitiva disfatta dell’impero etiopico in Eritrea e la formazione dello Stato indipendente.
4) La sottomissione imperialistica delle diverse nazionalità crea una grossa remora alle masse proletarie e contadine etiopiche nella loro lotta contro la borghesia nazionale, alla cui politica imperialistica si sentono legate. La definitiva sconfitta militare e lo smembramento dell’ex impero spazzerà via questa mentalità conservatrice e favorirà lo sviluppo di una rivoluzione “dal basso”. Inoltre la separazione nazionale fugherà il sentimento di odio profondo che le popolazioni sottomesse tradizionalmente nutrono nei confronti di quella etiopica. Tutto questo favorirà il rafforzamento e la solidarietà fra il popolo eritreo, quello somalo, e quello etiopico. In particolare l’affratellamento internazionale della classe lavoratrice.
Se, di fronte agli eventi che si verificarono nelle regioni del centro Africa, auspicammo la creazione di un forte Stato federale contro la soluzione “balcanizzatrice” dell’imperialismo, in questo caso, di fronte alla borghesia etiopica che tende a mantenere con la forza i confini ritagliati dall’imperialismo, siamo per la loro rimessa in discussione, per la separazione e l’indipendenza delle nazionalità, mentre le due soluzioni tendono allo sviluppo della situazione più favorevole al procedere della rivoluzione internazionale.
È probabile però che una soluzione radicale della questione non sarà possibile perché, se pure sul piano militare si può affermare, la tendenza della borghesia dei vari Stati contendenti, Etiopia, Somalia ed Eritrea, e dell’imperialismo in primis, sarà quella, al momento cruciale, di ovattare il conflitto rimettendo la contesa agli organismi internazionali, tipo l’Organizzazione dell’Unità Africana, e auspicando la risoluzione al tavolo delle trattative dove, al di là degli interessi dei singoli contendenti, primeggia l’imperativo categorico della conservazione in generale del sistema di sfruttamento e di oppressione imperialistica delle popolazioni di colore. Al tavolo delle trattative verranno sacrificati così gli interessi e delle nazionalità e delle masse lavoratrici e contadine, nel momento in cui verranno ritagliati nuovi artificiosi confini, attraverso i pateracchi fra i vari Stati nazionali e imperialistici e firmate le condizioni più favorevoli alla stabilità sociale della regione e dell’intero continente africano.
“L’Unità” per lo Status Quo
La soluzione della pace negoziata è quella che, in nome della “stabilità” e della “sicurezza”, caldeggiano i falsi comunisti nostrani, pur protendendo verso la soluzione più favorevole all’Etiopia, e quindi alla Russia. Non a caso la “pacificazione” viene auspicata allorché l’esercito etiopico sta subendo una sconfitta dopo l’altra.
Nell’articolo su L’Unità del 18 agosto sono enunciati tre punti: 1) ricerca della pace negoziata; 2) diritto di autodeterminazione, subordinato, si dice, alla capacità dei protagonisti di “far politica” (che tradotto in termini comprensibili significa forse “capacità delle borghesie nazionali di tenere a freno le tensioni sociali”); 3) esigenza, più volte espressa dall’OUA, di tener conto delle frontiere statali già stabilite nel continente.
Che cosa significa autodeterminazione se devono essere rispettati i confini già stabiliti? Se questa parola ha un senso non può che significare diritto alla separazione e sconvolgimento dei confini già stabiliti.
Nell’articolo del 31 luglio sempre lo stesso giornalaccio afferma, giustamente, che i confini nazionali in Africa sono quelli stabiliti dal colonialismo e dall’imperialismo, Etiopia compresa. Più oltre chiarisce il principio enunciato dall’OUA: «L’OUA (una specie di ONU del Continente nero) – Lenin definiva l’allora “Società delle Nazioni” un “covo di briganti imperialisti” – ha stabilito un principio: che i confini esistenti all’atto dell’accesso di ogni Paese all’indipendenza non debbano essere assolutamente toccati, e non perché non siano artificiosi, bensì proprio perché lo sono». Quale la ragione? Viene chiarita immediatamente: se si cominciassero a toccare i confini stabiliti tutta l’Africa sarebbe incendiata da conflitti. Queste parole si commentano da sé. Sarebbe poco dire che L’Unità sta difendendo l’imperialismo etiopico e russo, essa difende in generale il principio della stabilità imperialistica mondiale! Diciamo mondiale perché la questione riguarda anche i Paesi industrializzati. È L’Unità che lo dice: «[È necessaria la pacificazione fra le parti] tanto più che lo scontro fra Etiopia e Somalia avviene in un continente travagliato da altre rivalità e conflitti aperti e latenti che potrebbero pericolosamente incendiarsi e diffondersi minacciando la pace di tutti, anche la nostra». La cosa è più che chiara.
Noi comunisti invece siamo contro “la pace” di tutti, la “nostra” soprattutto, siamo per la guerra di classe. Ben vengano le guerre di sistemazione nazionale, si rimettano in discussione i confini africani se questo sconvolgerà la pace del continente e la “nostra”. Non siamo mai stati per la pace, che in questo regime significa stabilità del sistema di sfruttamento capitalistico e imperialistico. Anche alla guerra imperialistica non abbiamo mai opposto il fiore puzzolente della pace fra gli Stati, ma la guerra di classe.
L’Unità tenta un’altra giustificazione, che non fa che ribadire queste sporche posizioni. L’argomentazione è questa: tutti gli Stati africani hanno confini ritagliati dall’imperialismo, la maggior parte di questi non hanno un minimo di omogeneità nazionale; inoltre medesime nazionalità vivono in Stati differenti. Più che vero. Ma da questa constatazione non discende affatto che là dove la questione nazionale si pone, armi alla mano, si debba enunciare il principio astratto che più nazionalità possono anche convivere nel medesimo Stato o una medesima nazionalità esser divisa in più Stati differenti. Se la questione si pone, in quelle regioni ove le rivoluzioni nazional-democratiche sono tuttora all’ordine del giorno, armi alla mano, vuol dire che in quello Stato quelle nazionalità non possono convivere o che quella nazionalità non può vivere in due Stati distinti. Questa enunciazione da parte de L’Unità ha il senso di sostituire quel “possono” con “debbono”.
Vediamolo nel caso dell’Ogaden: «L’Ogaden, dicono i somali, è abitato da somali. È vero. Ma, come abbiamo visto, uno stesso popolo, una stessa etnia, parlante una stessa lingua, può vivere in due o più Stati africani». Più oltre: «Nel corso della seconda guerra mondiale, crollato l’impero coloniale italiano, l’Ogaden tornò all’Etiopia. Dicono i somali: i membri del Fronte di Liberazione dell’Ogaden sono per la Somalia fratelli di sangue, lingua, costumi e religione, abbiamo visto che è vero. Ma (…) l’Organizzazione per l’Unità Africana ha stabilito un principio» (segue la citazione prima riportata). Il cerchio così si richiude tornando alle posizioni di partenza: se si cominciassero a toccare i confini dell’Africa, addio pace.
Noi comunisti non siamo per metterci a tavolino e andare a ricercare, con il microscopio, in ogni Stato una “questione nazionale”, di cui non ci facciamo un feticcio. Semplicemente partiamo dalla considerazione opposta a quella de L’Unità.
Qual’è la soluzione più favorevole perché si infranga la pace imperialistica?
Qual’è la situazione più favorevole per il rafforzarsi dell’unione fra le classi
lavoratrici e per la maturazione dello scontro di classe? Queste soluzioni e
queste situazioni ci auspichiamo. Per questa ragione, fra l’altro, non siamo
disposti ad appoggiare qualsiasi movimento nazionale, qualsiasi sigla con la F (fronte)
e la L (liberazione) in testa.
“Ethiopia tikdem”: “Etiopia innanzitutto”. Questa è la parola d’ordine agitata fin dagli inizi della “rivoluzione” etiopica dalla fazione “dura” del Derg, quella del maggiore Mènghistu, che più caratterizza i rivolgimenti e la struttura del potere recentemente stabilitosi in Etiopia.
Il fatto che questi non presentino alcun carattere socialista è cosa che non staremo a lungo a dimostrare. Abbiamo sempre smentito la balla clamorosa che si potesse “edificare il socialismo” direttamente sulle rovine di un regime arcaico e feudale, anche per ciò che riguardava la Russia a dittatura proletaria. Abbiamo sì ammesso la possibilità di saltare la “tappa” capitalista in alcuni Paesi giunti alle soglie della rivoluzione borghese, ma solo in quanto il proletariato delle nazioni a capitalismo maturo avesse conquistato il potere e instaurato la sua dittatura di classe. Per questo in Etiopia non esiste oggi possibilità alcuna di economia socialista.
Anche la riforma agraria, con relativa nazionalizzazione della terra, che dovrebbe rappresentare il provvedimento più radicale (qualora fosse applicata, ma come vedremo non lo è stata) una misura che sta interamente nel campo della rivoluzione borghese e della trasformazione capitalistica dell’economia agraria. È Lenin che lo dice: «Nazionalizzazione della terra è misura borghese, equivale alla massima libertà della lotta di classe possibile e concepibile nella società capitalista e alla liberazione del godimento della terra da tutti gli accessori non borghesi».
Quanto al potere politico, attribuimmo carattere socialista all’Ottobre bolscevico ma non perché apriva l’epoca della “costruzione del socialismo” in Russia (secondo la borghese espressione di Stalin). Abbiamo definita proletaria e socialista non la società russa, uscita dal regime autocratico zarista, ma la dittatura dei Soviet che vi si esercitava, in quanto poggiata sul proletariato armato e saldamente e unicamente diretta dal Partito Comunista.
La dittatura del proletariato in Russia si poneva così ben al di là delle forme politiche caratteristiche delle rivoluzioni borghesi, anche delle più radicali, entrando nella sfera delle rivoluzioni socialiste, anzi venendone a costituire un anello fondamentale. Quindi solo in senso politico la rivoluzione d’Ottobre poneva “un piede” nel socialismo; in senso economico lo avrebbe posto solo se fosse venuta in soccorso la rivoluzione internazionale.
Dunque, da un lato il proletariato non detiene il potere in alcuna parte del mondo, né in questa fase storica si presenta all’attacco, ma subisce, alla scala internazionale, passivamente la dominazione capitalistica, dall’altro in Etiopia non esiste visibilmente la dittatura della classe proletaria. Anzi essa non è neanche organizzata in forma autonoma e indipendente, in partito politico.
Il potere politico è invece, come sappiamo, in mano a una oligarchia militare, rappresentante della borghesia nazionale, che non solo non poggia, e anzi si oppone alla crescita di genuine organizzazioni di classe dei proletari e dei contadini, ma, agitando il più bieco sciovinismo nazionalista, ha sin ora esercitata una feroce dittatura, da una parte, è vero, contro le classi spodestate del vecchio regime, dall’altra contro le masse contadine e semi proletarie delle campagne, contro gli strati radicali della piccola borghesia e il proletariato nelle città, contro le nazionalità oppresse, nei confronti delle quali continua ad applicare la stessa politica imperiale del Negus.
Oggi ci troviamo di fronte all’assunzione del potere da parte della frazione “dura” del Derg, quella di Mènghistu, che, eliminate le frazioni più moderate, proclama la “dittatura socialista”.
Le informazioni di cui disponiamo a riguardo degli ultimi avvenimenti all’interno dell’Etiopia sono molto scarse e provengono in gran parte dalle fonti ufficiali del regime. D’altronde pochi giornali hanno potuto mantenere i loro corrispondenti ad Addis Abeba. Uno di questi è quello de L’Unità, che sta visibilmente prendendo la parte degli etiopici nella guerra dell’Ogaden ed è tutta protesa a dimostrare il carattere radicale rivoluzionario del regime attuale.
Nelle sue corrispondenze, da una parte ci informa della rapidità con cui negli ultimi tempi si è proceduto allo smantellamento delle vecchie strutture economiche (si parla ad esempio della riforma agraria come di un dato di fatto già acquisito), dall’altra si dice dell’armamento delle masse (quali masse in realtà?), operazione che sarebbe condotta dall’alto dal regime militare con solenni cerimonie e con larga pubblicità. Oltre a questo si parla delle milizie contadine che sinora da varie fonti avevamo appreso che fossero state arruolate con la promessa di terre e di saccheggi, per scagliarle, armate e addestrate alla meno peggio, come carne da cannone contro la guerriglia di liberazione, mentre, a sentire L’Unità, si tratterebbe di elementi disciplinati e decisi a diffondere contro tutti i nemici la “loro” rivoluzione.
Non potendo confutare direttamente questo carattere di radicalità che Mènghistu avrebbe imposto alla rivoluzione e la trasformazione di questa “dall’alto al basso”, siamo andati a ripercorrere gli avvenimenti dal 1974 ad oggi ricavando fatti, talvolta tratti da notizie più o meno di parte e da informazioni frammentarie rintracciate fra le righe dei giornali, ma convergenti nel confermare il carattere della rivoluzione etiopica, e in particolare del regime militare che attualmente se ne dice il rappresentante.
Ne deriva la conclusione che la rivoluzione etiopica non è una radicale rivoluzione borghese e “dal basso”, ma una rivoluzione dall’alto. Il Derg è il legittimo portatore degli interessi della borghesia nazionale etiopica che, favorevole allo smantellamento del vecchio sistema feudale, intendeva però condurre l’operazione più lentamente, più gradualmente, meno risolutamente possibile, evitando di sviluppare l’azione rivoluzionaria, l’iniziativa e l’energia delle masse oppresse, anzi contrapponendovisi frontalmente.
Misure radicali, è vero, sono state enunciate (anche se certamente in gran parte sono rimaste sulla carta, nonostante L’Unità dia oggi già per realizzata la riforma agraria), ma ciò è dovuto unicamente alla necessità di tenere sotto controllo l’ambiente sociale in ebollizione, soprattutto nel momento in cui l’ex impero si sfaldava, i movimenti di liberazione intensificavano la loro azione e la volontà della borghesia nazionale rimaneva quella di mantenere integri i confini, con la forza allorché la lotta si trasformava in una vera guerra su due fronti.
In ogni modo l’enunciazione e l’assunzione di queste misure si è sempre accompagnata con la repressione più dura dei fermenti e dei movimenti che si sviluppavano, dal basso, nel proletariato, nella piccola borghesia nazional-democratica e nel contadiname. Il fatto che venga impedita la libertà di associazione e di sciopero per il proletariato appare la dimostrazione più evidente del carattere di una rivoluzione “dall’alto”. Ogni rivoluzione radical-borghese si è sempre caratterizzata dal poggiare sulle organizzazioni di massa delle classi rivoluzionarie; quella etiopica ha invece sin ora marciato poggiandosi unicamente sull’esercito. Inoltre ogni rivoluzione radical-borghese, facendo leva sulle organizzazioni di massa, distrugge per via rivoluzionaria l’apparato statale del vecchio regime, costruendo sulle rovine del vecchio il nuovo; in Etiopia il regime militare ha mantenuto invece in piedi il vecchio apparato amministrativo e poliziesco, anche se lentamente, sospinto dagli eventi, tenta di ristrutturarlo.
L’attuale potere della giunta militare si configura quindi come un movimento di una classe che solo limitatamente persegue scopi rivoluzionari, mentre nei confronti di tutte le classi subalterne mostra apertamente la sua faccia reazionaria.
Il proletariato, in quanto è interessato allo sviluppo più largo, più rapido e più libero del capitalismo, perché questo rappresenterà la sua crescita come classe e l’avvicinarsi dello scontro frontale con il suo avversario diretto, la borghesia, intanto è interessato a che la rivoluzione crei le condizioni più favorevoli per il rafforzarsi e l’estendersi delle sue organizzazioni e delle sue lotte. Tutto questo si può verificare solo attraverso una rivoluzione radicale e conseguente, cosa che si rende possibile solo schierandosi anche contro la borghesia, con una rivoluzione dal basso, o, per dirla con Lenin, “veramente popolare”.
Questa è infatti la via dell’operazione chirurgica più rapida, la via che permette di sbarazzare rapidamente il campo dagli istituti e dalle classi incancrenite, dai pregiudizi immobilizzatori della vecchia società feudale.
Su questa via si risvegliano dal torpore millenario le masse contadine, mentre si delineano i moderni contrapposti interessi trascinando sull’arena politica le nuove classi. È su questo terreno che per il proletariato, rafforzatosi ed estesosi il suo raggio d’azione, si delinea più chiaramente lo scontro per la futura società socialista.
Al contrario una rivoluzione dall’alto, rallenta il processo di demolizione delle vecchie strutture e del vecchio regime politico, pone freno al libero sviluppo delle organizzazioni e delle lotte di classe e quindi rende più lento, difficile e faticoso il cammino della classe proletaria.
La borghesia alle strette
Per un approfondimento delle caratteristiche storiche, sociali ed economiche dell’Etiopia fino alla destituzione del Negus e all’avvento del Derg, rimandiamo ai due articoli apparsi sul nostro giornale nel maggio e nel giugno del 1975. Ci limiteremo qui ad accennare agli elementi fondamentali, soprattutto in relazione alla dimostrazione che vogliamo trarre della necessità, per la stessa borghesia etiopica, di smantellare quella incancrenita struttura che l’autocrazia feudale ha mantenuto e difeso fino ad oggi.
L’Etiopia è impero essenzialmente agricolo: l’89,9% della popolazione vive nelle campagne. L’economia agraria è estremamente arretrata, la produttività è bassissima e il suolo coltivabile, che pur presenta una notevole fertilità, in parte considerevole è inutilizzato o sottoutilizzato. Questa situazione fa sì che le campagne, anche per l’enorme difficoltà dei trasporti, sono in larga parte isolate dal circuito mercantile, mentre il Paese è appena autosufficiente per la sua alimentazione.
La struttura agraria è di tipo feudale come descritto nel nostro articolo del giugno 1975; la maggioranza delle terre sono in mano alla Chiesa, ai nobili e alla famiglia imperiale, cui i contadini devono rimettere il 75% del prodotto.
Nelle città si è sviluppato, in seguito alla colonizzazione italiana, un debole tessuto di produzione manifatturiera, il cui prodotto costituisce solo il 5% del prodotto nazionale lordo. Lo sviluppo industriale si trova di fronte al muro dell’arretratezza rurale che impedisce la nascita di un mercato nazionale, ed è questo che induce la borghesia etiopica a porsi il problema di spezzare i vincoli che incatenano l’agricoltura all’arretratezza. Occorre che le aziende agricole diventino finalmente produttive, che i contadini possano vendere e comprare, e per questo urge smantellare l’incancrenita struttura della feudalità, contrapponendosi all’aristocrazia, alla Corona e alla Chiesa. Occorre inoltre che le merci inizino a circolare, quindi necessità di abolire le barriere doganali, il regime di esclusività sui mercati e tutti i vincoli che impediscono gli investimenti e la circolazione dei capitali; è necessario costruire strade, ponti, ferrovie. Il 95% degli etiopici sono inoltre analfabeti. Come può l’industria moderna svilupparsi in queste condizioni?
Queste necessità sono riconosciute universalmente e qualsiasi studio sull’economia etiopica regolarmente si conclude con il richiamo alla necessità di una profonda riforma dell’agricoltura e del commercio. Gli stessi aiuti finanziari che la Svezia concesse a suo tempo erano subordinati a un atto di buona volontà del governo in questa direzione.
Il regime imperiale è invece stato del tutto incapace, anzi ostile a prendere qualsiasi provvedimento: l’apparato politico amministrativo, specie nelle sue rappresentanze regionali, era ed è tuttora strettamente coinvolto negli interessi dei proprietari aristocratici e si oppone strenuamente ad ogni minima modifica dello status quo.
Ogni piano di sviluppo si scontrava così contro una serie di ostacoli, di leggi e di restrizioni. Un timido tentativo di ridurre l’imponibile del contadino dal 75 al 50% fu bocciato dal Senato, mentre l’imposizione di una tassa, nel 1967, sulla proprietà fondiaria, non ha avuto pratica applicazione. È così che contro le incancrenite strutture dello Stato imperiale fallivano volta volta i tentativi da parte della borghesia di orientare l’assolutismo verso le sue necessità.
Nel 1973-74 una tremenda carestia inasprisce ulteriormente la situazione. Si parla di circa 100.000 morti, la produzione di cereali si dimezza come pure i capi di bestiame (l’allevamento costituisce il principale settore dell’economia agraria). Tutto questo senza che il governo prenda alcun provvedimento. Nelle città è la crisi economica e l’inflazione, Addis Abeba diviene la città più cara del continente.
Questo terribile flagello viene taciuto e tenuto nascosto dal regime imperiale nel tentativo di ravvivare ancora di fronte al mondo compiaciuto l’immagine celestiale del divino Sovrano. Ma la situazione ha passato ogni limite e a questo punto la borghesia non può rinunciare a imporsi con un atto di forza.
Un altro problema spinge fortemente innanzi la borghesia etiopica: l’esercito ribolle di focolai di rivolta, specie fra i quadri inferiori e la truppa, ed è possibile che in queste condizioni non riesca a tenere a freno i movimenti autonomisti delle varie nazionalità che un po’ dovunque, ma soprattutto nell’Eritrea e nell’Ogaden, si sono dati alla guerriglia (ed è proprio in queste due regioni che i fermenti nell’esercito etiopico si fanno più sentire).
Inoltre nelle città il clima comincia a divenire teso e si segnalano malumori fra gli studenti e gli operai. È vero che questi moti rimangono a un livello spontaneo e non esiste nessuna organizzazione politica orientata in senso rivoluzionario capace di organizzarli né, tanto meno, di porre in modo serio un’ipoteca sul potere. Ma la borghesia non può lasciar correre, né farsi prendere di sorpresa. Una possibile rivoluzione dal basso deve essere da parte sua prevenuta con largo anticipo.
È questo clima di instabilità che spinge la borghesia a compiere un passo che forse, nonostante tutto, non avrebbe altrimenti mai fatto. Essa non ha un partito e l’unico suo punto di forza organizzato è nell’esercito in cui, accanto alla vecchia guardia fedele al regime, si è sviluppata una maggioranza di ufficiali inferiori favorevoli a un cambiamento istituzionale.
Nei primi del 1974, in seguito a rivolte nell’esercito in Eritrea e nello Ogaden, si costituisce un Comitato di Coordinamento, composto dai rappresentanti delle principali unità, che impone il suo controllo all’imperatore, il quale è costretto a cambiare governo, rimpastandolo con rappresentanti della aristocrazia liberale e a promettere riforme costituzionali. Probabilmente, per quanto riguarda la borghesia, la “Rivoluzione” si poteva arrestare a questo punto. Ma le forze sociali non si comandano a bacchetta e una reazione si è innescata.
Nelle città si manifestano fermenti e scoppiano agitazioni. Il 7 marzo la
Confederazione dei Lavoratori Etiopici indice uno sciopero generale. Le
rivendicazioni sono:
1) istituzione di un salario minimo;
2) disposizioni per la sicurezza del lavoro;
3) riforma agraria;
4) nazionalizzazione dell’industria e del commercio;
5) diritto di sciopero e di associazione.
È il programma operaio nella rivoluzione borghese, dove, a fianco delle radicali riforme che si iscrivono in questo quadro, si pone già con evidenza la questione di classe contro la borghesia e la necessità dell’organizzazione autonoma e indipendente del proletariato.
Il governo, che è ormai sotto il controllo dell’esercito, reagisce con violente repressioni sugli operai in sciopero.
Il 12 settembre il Derg si impossessa direttamente del potere, depone Hailé Selassié, nominando suo figlio, che sta trascorrendo le vacanze in Europa, “monarca costituzionale”. La presidenza del governo è affidata ad Aman Andom, vecchio generale dell’esercito imperiale.
L’atto successivo è subito quello di sopprimere il diritto di sciopero. Gli operai tentano di reagire, ma la repressione si scatena su di loro, lo sciopero generale di risposta fallisce e viene revocato. È sulla sconfitta di questo slancio generoso del proletariato che prende avvio la cosiddetta “rivoluzione” etiopica.
Il 16 settembre scendono nelle piazze di Addis Abeba 2.000 studenti che reclamano la costituzione di un governo civile. È vero che hanno rappresentato e rappresentano in Etiopia l’elemento più acceso del movimento piccolo borghese, ma è certo che il proletariato dovrebbe, qualora fosse capace di esprimersi in modo indipendente, mantenere la più grande diffidenza nei loro confronti, pur stabilendo con essi e con il movimento piccolo borghese nazional-democratico in genere il collegamento nell’azione contro l’assolutismo, l’aristocrazia e contro la stessa borghesia che si schiera contro la rivoluzione dal basso.
Fin dal 1848 (vedi “Rivoluzione e controrivoluzione in Germania” di Marx) i comunisti denunciarono l’infingardaggine della piccola borghesia radicale che, se in un primo momento è pronta, riempiendosi la bocca di altisonanti frasi rivoluzionarie, ad accompagnare o addirittura a mettersi alla testa delle masse proletarie nell’insurrezione contro la borghesia e la feudalità, nel momento cruciale della lotta esita, indietreggia, rinuncia, e tradisce il movimento, abbandonando il proletariato, che si ritrova da solo a lottare contro la reazione borghese e assolutista.
A questo punto il Derg fa un altro piccolo passo. Il fatto è che la borghesia aveva supposto e sperato in un processo lento, graduale, indolore e si ritrova invece, e si ritroverà sempre più, a fare i conti con quelle forze che, ancora assopite sotto il manto dell’impero millenario, una volta infranta l’atavica istituzione, prorompono potentemente in superficie, seppure allo stato spontaneo, disorganizzato e incosciente. Per questo il Derg si trova a intraprendere la via di una “escalation” in cui prevale una linea di condotta sempre più decisa, che, sotto la proclamazione di uno sfrenato nazionalismo, accompagna la repressione sul proletariato, sui contadini, sulla piccola borghesia nazional-democratica e sulle nazionalità, a misure che, soprattutto sulla carta, ma in parte anche in pratica, agiscono contro la prepotenza economica e il potere politico delle classi spodestate, e sulla stessa borghesia che non è disposta a disciplinarsi a questo percorso. In questo senso il potere militare tenderà ad elevarsi al di sopra degli interessi contingenti e particolari delle stesse classi che rappresenta.
Il 20 settembre viene annunciato che i dignitari del vecchio regime saranno processati.
Il 1° novembre esce una dichiarazione, ancora molto generica, sui propositi del Derg. Viene in questa occasione, e per la prima volta, pronunciata la parola d’ordine di “Ethiopia tikdem” che rappresenterà la bandiera della fazione “dura” del Derg.
Il 23 novembre Aman Andom, accusato di moderatismo, è destituito e giustiziato assieme ad altri rappresentanti del Derg. La fazione Mènghistu esce più allo scoperto, e impone il successore nella persona di Tafari Banti. Essa è favorevole a un forte regime militare, contraria alla democratizzazione, mentre per la questione delle nazionalità, soprattutto per la questione eritrea, propugna la soluzione militare.
Il 21 dicembre viene pubblicata la “Dichiarazione del socialismo”, in cui rimane la genericità sui provvedimenti, mentre non compare un accenno preciso alla riforma agraria: non a caso tale documento viene approvato dai rappresentanti della Chiesa Copta. Si dice, fra l’altro, che «socialismo etiopico vuol dire uguaglianza, diritto di ognuno di dirigere il proprio destino, diritto di lavorare e di guadagnare». È l’enunciazione del programma borghese.
Ma in concreto quali sono i provvedimenti e con quale decisione e con quale rapidità il Derg intende battere questa strada, a parte l’emblematico processo ai vecchi dignitari ? Al momento non è stato fatto niente. Il documento contiene anche il proposito che l’Etiopia rimanga unita. È questa la risposta ai movimenti di liberazione eritrei. All’indomani violenti scontri esplodono ad Asmara; il 27 settembre i fronti annunciano che passeranno dalla via della guerriglia a quella della guerra aperta. È una questione che abbiamo trattato nello scorso articolo dedicato alla questione nazionale, ricordiamo che il Derg ha perseguito fino ad oggi nei confronti delle nazionalità e in particolare dell’Eritrea la stessa politica imperiale del Negus.
Questa politica ha due aspetti: da una parte la borghesia non è disposta a rinunciare all’unità dell’ex impero e intende mantenere il controllo militare sulle regioni occupate più o meno recentemente dalle armate imperiali; dall’altra la guerra sul fronte eritreo e dell’Ogaden contribuisce a rimandare la questione sociale all’interno e a bloccare il processo rivoluzionario, specialmente nelle campagne.
La guerra che si accende sul fronte eritreo non può essere sostenuta senza che si assumano decise misure per impedire il sabotaggio delle vecchie classi possidenti e assicurare la piena disponibilità delle risorse produttive; inoltre senza che si rinsaldi il fronte interno attraverso l’adesione al regime delle classi subalterne, cui va presentato il miraggio di riforme radicali.
Colpisce la sequenza dei fatti: si alternano le gravi notizie sul fronte dell’Eritrea ai provvedimenti che il Derg è sospinto a prendere. Dopo la dichiarazione di guerra sui fronti eritrei del 27 dicembre, il 1° gennaio 1975 è annunciata la nazionalizzazione delle banche, delle assicurazioni, degli istituti finanziari. Il 28 gennaio si verifica una offensiva militare dei movimenti di liberazione in Eritrea. Il 2 febbraio il Derg nazionalizza la maggior parte delle principali industrie (da notare che gran parte di queste erano di proprietà straniera o della famiglia reale). Il 5 febbraio esplode la guerriglia ad Asmara, migliaia di persone riparano nelle campagne. Altri focolai di ribellione si accendono in altre province. Il 7 febbraio viene pubblicata la “Dichiarazione della politica economica dell’Etiopia socialista” dove è definito il programma di nazionalizzazione delle grosse imprese e delle infrastrutture. Il 3 marzo è proclamata la riforma agraria, che nelle sue enunciazioni si presenta certamente come una riforma radicale.
Nel nostro giornale scrivemmo allora: «La borghesia etiopica non ha certamente
intenzione di mantenere le sue promesse. Vuole solo sollevare i contadini
quel tanto che basta per salvare l’unità dell’ex impero, per poi ingannarli, come
a loro volta hanno fatto tutte le borghesie del mondo» (P.C. giugno 1975).
Conviene qui aprire una parentesi e considerare un po’ più a fondo la situazione nelle campagne, anticipando subito quelli che sono stati poi gli effetti pratici della riforma.
La questione agraria
Si diceva tempo fa che il Derg, ricacciando indietro il movimento piccolo borghese e proletario delle città, si sia voluto invece rivolgere al cuore “duro” della nazione, al contadiname. Vedremo invece che il Derg si è appoggiato e tenta di far perno sull’arretratezza e sullo spirito conservatore delle campagne, soffocando i primi fermenti della rivoluzione agraria.
Fino al momento dell’ascesa del Derg non esistono fermenti orientati in senso rivoluzionario nel mondo rurale, così come non esiste un movimento del contadiname con un programma di spartizione delle terre, né partiti delle classi urbane che vi si richiamino o che pretendano di rappresentarlo. Si parla di periodiche rivolte in alcuni distretti, dove si intrecciano questioni sociali, nazionali e tribali; oltretutto dobbiamo ricordare che le ribellioni locali all’autorità centrale sono state spesso nella storia etiopica espressioni degli interessi dei vari signorotti feudali.
Inoltre le campagne sono totalmente scollegate dalle città. Ciò è dovuto alla mancanza di sviluppo economico che limita il flusso dei proletari verso i centri urbani, e inoltre alla limitatezza degli scambi commerciali propria dell’economia di semi-sussistenza. Tutto questo impedisce che le notizie e le idee circolino, che l’eco dei sommovimenti sociali si riverberi nelle lontane province. È possibile che la notizia della deposizione dell’imperatore sia pervenuta nei distretti più lontani con mesi e mesi di ritardo.
In Russia, per questo i bolscevichi attribuirono una grande importanza alla guerra che portava all’arruolamento dei contadini, li strappava dal loro orizzonte limitato e li affiancava agli operai più evoluti, perché in tal modo iniziavano a circolare e a diffondersi le idee rivoluzionarie, mentre si stabiliva il collegamento più stretto con il proletariato urbano.
Da questa situazione, gli avvenimenti del 1974 non hanno avuto nessun riflesso immediato nelle campagne e la stessa riforma agraria è piovuta dall’alto.
In Russia il movimento contadino ritardò rispetto all’insurrezione proletaria che portò alla rivoluzione di febbraio, ma alla fine di agosto la rivoluzione agraria si levava potentemente, premessa fondamentale della rivoluzione di Ottobre. Alla proclamazione della riforma agraria il contadiname era organizzato e armato e in gran parte delle regioni aveva già cacciato i nobili, bruciati i loro castelli, confiscate le terre e gli strumenti di produzione. Il proclama bolscevico, in questa situazione, non era altro che l’espressione conseguente della realtà che esisteva già nella gran parte delle campagne russe.
In Etiopia la riforma si configura invece come una dichiarazione di buone intenzioni.
Ma vediamo in particolare alcuni aspetti della legge rimandando anche all’articolo citato precedentemente, in cui la legge viene esaminata più in generale.
Sappiamo che in Etiopia esiste una grande quantità di terra fertile inutilizzata, è chiaro quindi che il problema per il contadino non è solo quello dell’usufrutto libero della terra, ma dei mezzi per coltivarla. La legge stabilisce a questo proposito che il contadino trattenga gli attrezzi e una coppia di buoi del proprietario, purché versi entro tre anni in ragionevole indennizzo. Inoltre si stabilisce che il principio per cui, fino a che tutte le terre non saranno distribuite, l’affittuario diviene proprietario della terra da lui coltivata, non vale nel caso di proprietari residenti che abbiano affittato la terra “dividendola equamente” (espressione che per le sue genericità non vuole dire niente), che “il governo proteggerà i suoi diritti con tutti i mezzi necessari”. È chiaro che, se pur la legge presenta degli aspetti radicali, in questi due punti tende a proteggere la borghesia agraria e il contadino ricco.
Vediamo ora, per quel che ci risulta, in quale misura è stata applicata. Anzitutto quale è la forza che il Derg avrebbe messo a disposizione dei contadini per attuarla? Il potere locale, amministrativo e poliziesco è saldamente nelle mani dei proprietari e il Derg non ha fatto niente per smantellarlo; oltretutto i proprietari hanno organizzato bande armate per difendere le loro terre. Ha forse il Derg inviato l’esercito a disperdere i nobili, le loro bande e le loro polizie? Mai e poi mai: l’esercito è impegnato a difendere i sacri confini dell’impero.
Dicemmo, sempre nell’articolo citato: «quali garanzie possono avere i contadini che la riforma sarà veramente attuata? Una sola, armarsi e riunirsi in organizzazioni autonome». Vediamo come è che il Derg avrebbe favorito questo processo.
Non abbiamo che informazioni frammentarie e solo in parte “ufficiali” riportate dai vari giornali; una di queste consiste nel racconto di un giovane studente partecipante alla “Zemetcha” (campagna di alfabetizzazione delle masse rurali avviata i primi del 1975 in cui più di 40.000 fra studenti e insegnanti sono stati inviati nelle campagne). Inviato ad Enango, un villaggio del Wollega, insieme ai suoi compagni aveva immediatamente cercato di riunire i contadini perché esprimessero i loro problemi. Nel marzo del 1975 esce la riforma agraria, sulla carta le misure sono radicali, ma chi le applicherà, si chiedono gli studenti ? Per intanto i Balabats (i proprietari di terre) senza scomporsi fanno mostra dei loro fucili e assicurano che, rivoluzione o no, nessuno toccherà la loro terra.
Le assemblee dei contadini si moltiplicano, all’inizio dell’estate i contadini riescono a disarmare i Balabats, requisiscono di autorità le macchine, i mulini e alcune case (si vede qui che una principale preoccupazione dei contadini è quella di appropriarsi degli strumenti di produzione). Quando la polizia interviene a favore dei Balabats i contadini, insieme agli studenti, arrestano i sei poliziotti di stanza nel villaggio, convocano la popolazione, decretano il coprifuoco, fanno chiudere l’ufficio telefonico, e organizzano pattuglie armate per assicurare l’ordine. Il quartier generale della polizia, informato del fatto, minaccia allora rappresaglie terribili. I contadini devono deporre le armi. Nei giorni successivi il Derg, inquietato da questa “agitazione gauchista” che si manifesta nello stesso momento in numerosi altri villaggi del Sud, invia un suo rappresentante. Costui condanna senza mezzi termini l’azione degli “estremisti” e mette in guardia i contadini contro questi “falsi rivoluzionari che fanno il gioco della reazione”. Gli studenti prendono la parola e accusano il Derg di “tradire la rivoluzione”. A questo punto sono costretti a scappare, riparando oltre i confini o rientrano clandestinamente ad Addis Abeba.
Le Monde assicura che su 40.000 studenti i tre quarti hanno vissuto esperienze di questo tipo. Notizie da altri giornali e dalla stessa L’Unità sembrano confermarlo. Nella seconda metà del 1975 uno studente viene fucilato ad Addis Abeba per aver guidato un assalto di contadini nel Gamu Gofa, si racconta di saccheggi e di uccisioni. Si dice che nel Kaffa la polizia, schierata dalla parte dei proprietari, ha sparato sui contadini. Si dice infine che 5 studenti sono stati bruciati vivi dai sostenitori dei proprietari.
Nei primi di maggio del 1976 viene decretata la fine della Zemetcha, d’altronde la maggior parte di studenti e insegnanti sono fuggiti dalle campagne e più della metà, si dice, si trova già clandestinamente ad Addis Abeba. “Le Monde” indica le cause del fallimento: l’ostilità dei capi tradizionali, l’inazione e il mancato appoggio del regime, la completa assenza di una linea di condotta da seguire.
Gli episodi testé riportati non costituiscono che i primi germi di una rivoluzione agraria, che però sembrano perdersi in un marasma di movimenti, di agitazioni e di ribellioni, spesso a sfondo nazionale, ma che assumono in molti casi un carattere apertamente controrivoluzionario. Si parla spesso di minoranze etniche in rivolta sotto la guida di ex funzionari imperiali, di agitazioni e di attività di guerriglia fomentate e organizzate dai proprietari, mentre l’opposizione di destra, la Unione Democratica Etiope (EDU), partito legato all’alta borghesia e alla aristocrazia, rafforza le sue posizioni, specie nelle zone rurali del Paese. Questa la situazione prima dell’avvento di Mènghistu.
Oggi L’Unità vorrebbe far credere che la riforma agraria è un dato di fatto acquisito, ma in che modo si sarebbe realizzata? Forse attraverso le milizie contadine?
Già nella primavera del 1976 il Derg si è dato ad organizzare milizie contadine. Per quello che ci consta l’operazione si svolge tramite le associazioni locali legate al Derg, che rastrellano i contadini con la forza e con la promessa di saccheggi e di terre per scagliarli contro le armate di liberazione, soprattutto in Eritrea e nell’Ogaden. Questa operazione si accompagna all’agitazione di uno sfrenato nazionalismo e viene pubblicizzata a gran voce. Si parla di diverse migliaia di contadini, ma abbiamo molti dubbi sull’efficienza di queste truppe perché male armate (si pubblicano foto di contadini armati di soli bastoni) e male equipaggiate con un inquadramento militare che, a quanto si dice, lascia molto a desiderare. Non a caso la famosa “marcia rossa” dei contadini in Eritrea si è dissolta come una bolla di sapone ed è apparsa più come una trovata propagandistica che come un effettivo tentativo di sfondare il fronte dalle armate di liberazione. Anche oggi nell’Ogaden è l’esercito regolare che agisce mentre le milizie contadine, di cui tanto si parla, sono scarsamente impiegate e, nel caso in cui lo siano, vengono gettate allo sbaraglio come carne da cannone.
In qualunque modo vengano impiegate le milizie e comunque si sia svolto il loro arruolamento e armamento, sta però di fatto che questa operazione non è rivolta contro i proprietari fondiari, per abbattere definitivamente il loro potere e per confiscare le loro terre, ma per salvare l’unità della nazione, o meglio dell’ex impero. Questo non viene smentito nemmeno da L’Unità.
Ora prendiamo per buona l’affermazione che le milizie contadine siano composte da elementi disciplinati, coscienti e decisi a portare a fondo la rivoluzione. Ci spieghino allora come si sarebbe potuta realizzare la riforma agraria se da una parte i proprietari sono protetti dalle loro bande armate e dall’apparato poliziesco e amministrativo locale, mentre gli elementi migliori e più rivoluzionari del contadiname vengono arruolati e spediti al fronte, e l’esercito, che dovrebbe essere il principale punto di forza della rivoluzione, è completamente impegnato sui fronti di guerra.
A mettere in dubbio l’affermazione che la riforma agraria sia ormai un fatto sono le stesse dichiarazioni di esponenti del Derg risalenti al luglio scorso, dove si denunciano “ritardi” o dove si dice che «la riforma dove è stata fatta ha funzionato realmente», ma dove è stata fatta, questo non si dice.
È la stessa “Rinascita” che, in un articolo del maggio 1977, denunciando la difficile situazione dell’agricoltura etiopica con un raccolto del 20% inferiore all’anno precedente, parla di «Stato caotico delle campagne dove la riforma agraria, calata dall’alto ha incontrato molta opposizione, o quanto meno impreparazione».
Nell’articolo del 26 agosto, dove si vuol far credere che i contadini hanno ormai la terra e la riforma è stata realizzata, si dice: «Il fatto è che l’Etiopia in rivoluzione si trova oggi di fronte a tutte le sequele del sommovimento rivoluzionario che, con un colpo di spugna fin troppo egualitario (bello questo invito alla moderazione) (…) ha tolto la terra agli agrari e ai feudatari e alla chiesa-Copta e l’ha data ai contadini senza terra». È chiaro che quando si parla di “colpo di spugna” si confonde l’enunciazione della riforma con la sua applicazione pratica, ma una cosa è proclamare che verrà tolta la terra agli agrari, altra che poi questo sia veramente fatto.
Tutte queste considerazioni spingono a non dar credito alla corrispondenza de L’Unità e a supporre invece che a tutt’oggi la riforma sia stata realizzata in misura minima e che, nella situazione caotica delle campagne, gli agrari conservino ancora le loro posizioni di forza. Inoltre il nazionalismo agitato dal Derg e l’arruolamento delle milizie contadine sulla base della politica imperiale di assoggettamento delle nazionalità e delle nazioni, tende a non favorire, ma a ritardare lo sviluppo del movimento contadino.
Ci sembra dunque di poter concludere che nelle campagne non siamo che ai primi minimi fermenti di una rivoluzione agraria, mentre il contadino tuttora non solo non riconosce l’alleato proletario nelle città, ma continua a subire passivamente l’autorità dal vecchio regime, e del nuovo potere militare. Il Derg, da parte sua, che si è appoggiato sulla passività del contadiname contro il movimento delle città e per sviluppare la sua politica imperiale, intende sì affrontare la questione agraria, ma con un processo di trasformazione lento e indolore, cercando in ogni momento di impedire che qualsiasi movimento dal basso possa infrangere il quadro stabilito.
Nel settembre 1975 si hanno nuove agitazioni proletarie ad Addis Abeba. Si riunisce dal 21 al 24 il Congresso della Confederazione dei Lavoratori Etiopi (CELU) dove viene approvata una richiesta al Derg: libertà democratiche (libertà di organizzazione politica e di sciopero) entro la fine di ottobre, in caso contrario viene minacciato lo sciopero generale. Il senso che il proletariato può dare alla rivendicazione democratica, nella fase rivoluzionaria di passaggio dal regime feudale assolutista al regime borghese, è proprio questo: libertà di organizzazione politica e di sciopero, che significa libero sviluppo dell’iniziativa autonoma di classe. Il marxismo intende, nel regime uscito dall’assolutismo, la democrazia come un terreno favorevole allo sviluppo della contrapposizione e della lotta di classe, giammai come una realizzazione degli astratti principi di libertà e di uguaglianza, perché, in questo senso, la democrazia rappresenta solo la sublimazione della libertà borghese di sfruttare la classe operaia e quindi configura la società dominata dal capitale e dalla oppressione esercitata sul proletariato.
All’indomani della formulazione di questa rivendicazione un sindacalista che fa propaganda presso i lavoratori dell’aeroporto, viene fermato, si ha una sparatoria con 7 morti e 19 feriti. Le agitazioni si estendono e molti sindacalisti, accusati di spirito reazionario corporativo e piccolo borghese, sono arrestati. Il 30 settembre viene proclamato lo stato di emergenza e vietato qualsiasi sciopero e manifestazione non autorizzata. Tali provvedimenti non sanno più aboliti.
Successivamente il CELU è messo fuori legge e proseguirà la sua attività clandestinamente, mentre il Derg vi contrappone una propria organizzazione sindacale.
Nel frattempo nelle città è sorto e si è rafforzato il Partito Rivoluzionario del Popolo Etiopico (PRPE). Poco ci è dato sapere di questo partito, tranne che si dichiara “marxista leninista”, che accusa di controrivoluzionario e di fascista il Derg, reclama un governo popolare e che agisce attraverso l’impiego del terrorismo e dell’assassinio politico. Esso proviene dalla moderata organizzazione studentesca dell’ESU che, con l’avvento del Derg, si divise in una frazione favorevole e in una contraria ai militari. Questo partito ha larga influenza nell’Università e forti legami nei sindacati operai, mentre non ha nessuna influenza nelle campagne, a parte i collegamenti con alcuni gruppi armati che agiscono al Nord. In definitiva sembra rappresentare il partito della piccola borghesia radicale.
Contro il PRPE e il CELU si scatena l’azione repressiva del Derg, che prenderà vigore dopo il colpo di mano di Mènghistu nel febbraio 1977.
Prima di arrivare a questi fatti più recenti, tratteggiamo brevemente la situazione così come si viene a sviluppare nel 1976.
Si ha una estensione dell’attività dei fronti di liberazione; due movimenti si evidenziano particolarmente: quello eritreo e quello della Somalia occidentale (Ogaden).
Particolarmente in Eritrea la situazione diviene disastrosa per l’esercito etiopico: i rovesci si succedono l’uno dopo l’altro, nonostante l’aperto terrorismo esercitato sulla popolazione civile con una serie di massacri, di incursioni e di devastazioni. Si parla di numerose diserzioni nell’esercito, spesso di interi reparti che si arrendono senza ingaggiare battaglia; si dice anche che alcuni soldati e ufficiali passino a ingrossare le file delle armate di liberazione. Il territorio è ormai per il 90% in mano ai guerriglieri, resistono le guarnigioni delle principali città che, evacuata la popolazione, si sono trasformate in fortezze assediate.
Si estendono durante l’anno anche le attività del PRPE e dell’EDU. Ad Addis Abeba si succedono scontri e attentati. Il Derg, che via via si epura degli elementi più moderati e indecisi, colpisce indiscriminatamente a destra e a sinistra.
Ai primi del febbraio del 1977 si ha l’ultima epurazione, la più radicale. Nove elementi del Derg sono uccisi, tra questi è il presidente Tafari Banti, accusato di moderatismo e di inclinazioni verso il PRPE. È la fazione “dura” del Derg, quella di Mènghistu, che esce finalmente allo scoperto. Essa proclama che il problema principale della rivoluzione è al momento quello di sgominare i nemici che la insidiano e che vengono indicati nel PRPE, nell’EDU e nel Fronte di Liberazione Eritreo.
Contro il PRP e il CELU, organizzati nelle città, ha inizio una furibonda lotta armata; si parla di centinaia di fedeli al regime assassinati, mentre migliaia di elementi vicini a quelle due organizzazioni sono massacrati, imprigionati e giustiziati.
È del tutto naturale, anzi necessario e indispensabile che una rivoluzione si esprima tramite la dittatura e il terrore. Il problema è, per noi, se il Derg la esercita realmente in nome della rivoluzione e contro chi e a quali scopi intende pervenire. Ripetiamo la tesi esposta in partenza: il Derg, legittimo rappresentante della borghesia nazionale, è schierato contro la reazione feudale da un lato, ma contro la rivoluzione dal basso dall’altro.
Con l’ascesa di Mènghistu si leva con i toni più roboanti una fraseologia rivoluzionaria, si parla di “dittatura del proletariato” di “terrore rosso contro quello bianco”, si inscenano adunate oceaniche allo sventolio di bandiere rosse, accompagnando a tutta questa messa in scena l’agitazione di uno sfrenato nazionalismo, il richiamo pressante al patriottismo, alle sacre tradizioni nazionali.
Contemporaneamente Mènghistu attacca l’imperialismo americano, disponendosi con armi e bagagli sotto la protezione della Russia. Presto verrà ricevuto a Mosca e salutato come “compagno” dai dirigenti sovietici.
Non stiamo a ripercorrere qui le vicende della guerra in Eritrea e dell’Ogaden, che ha avuto inizio in luglio, né a considerare la linea politica del Derg nei confronti delle nazionalità di cui abbiamo trattato nella prima parte del rapporto, cerchiamo piuttosto di delineare, più che di descrivere sulla base di notizie accertate che non possediamo, le possibili conseguenze della guerra nella situazione interna della Etiopia.
Già in quella parte del lavoro accennammo al fatto che una situazione di guerra all’esterno può, in certe circostanze, rappresentare un elemento determinante nel tentativo di tacitare il fronte all’interno. Senza dubbio il richiamo alla difesa dei sacri confini in pericolo ha fatto presa sulle masse etiopiche, che ancora, con tutta probabilità, sentono i loro destini legati alla politica imperiale del regime. Lo stesso atteggiamento tentennante del PRP sulla questione delle nazionalità ne è testimone. È proprio per spazzare via questo spirito conservatore, che divide le classi lavoratrici etiopiche da quelle delle altre nazionalità, che auspichiamo una sconfitta militare del Derg sui fronti dell’Eritrea e dell’Ogaden.
In questa situazione, in cui l’atmosfera da legge marziale viene tanto più giustificata dalla situazione di guerra, l’attività del PRP sembra notevolmente diminuita se non addirittura ridotta a zero. Certamente le sanguinose repressioni di cui si ha notizia fino a luglio possono essere state determinanti nella soppressione fisica di questo movimento.
Nelle corrispondenze più recenti di cui disponiamo si parla sempre più della organizzazione dei Kebelé, comitati di quartiere nelle città, come ossature della nuova struttura statale e in via di formazione. È certo che in questa situazione di guerra il governo militare ha sempre più bisogno di assicurarsi il pieno controllo sull’apparato di Stato. Il fatto è che tuttora l’organizzazione della polizia, della magistratura, dell’amministrazione statale sono rimaste quelle del vecchio regime; spesso vi si annidano i focolai della opposizione di destra, sabotando apertamente le decisioni del Derg e comunque, nella maggior parte dei casi, non sono pronte a recepirne la direzione. È certo invece che di fronte al rafforzarsi e all’estendersi delle opposizioni di destra e di sinistra la giunta militare deve acquistare la capacità di controllo su tutte le forme e le organizzazioni sociali. Per questo non basta l’esercito, la borghesia ha bisogno del suo Stato. Ma questo non può sorgere dal nulla. È sulla base dell’organizzazione e della mobilitazione sociale a fianco del Derg che esso può ricostituire il suo apparato, sostituendo nuove forme a quelle tramandate dal vecchio regime.
In questo senso vediamo la costituzione dei comitati di quartiere, così come dei comitati contadini filo-governativi, organismi creati dall’alto sulla base della mobilitazione di alcuni ceti sociali a fianco del governo (strati della piccola borghesia e del proletariato nelle città, contadini ricchi e piccoli proprietari nelle campagne), con compiti di amministrazione pubblica e di polizia. Non a caso sono proprio i dirigenti dei Kebelé, i principali fautori della repressione, che sono stati oggetto di numerosi attentati da parte del PRP. Inoltre va messo in evidenza che, mentre si costituiscono e si istituzionalizzano i comitati di quartiere, le organizzazioni operaie, al di fuori di quelle ufficiali del regime, sono state messe fuori legge e viene loro negato il diritto di sciopero e di manifestazione. Questo per quanto riguarda la tanto declamata da L’Unità “distribuzione delle armi al popolo”, quando si trattava dell’armamento dei Kebelé.
Un’altra questione che dobbiamo prendere in esame è quella dei sordidi provvedimenti economici che ulteriormente sarebbero sbandierati come esemplari. Varie corrispondenze parlano di una riforma fondiaria urbana che avrebbe abolito la proprietà privata degli immobili, tranne una casa a testa, e avrebbe dimezzato gli affitti, da pagarsi, a seconda dei casi, allo Stato o ai comitati di quartiere.
Si parla inoltre di ulteriori passi nel processo di nazionalizzazione e della istituzione di un salario minimo. Anche se queste notizie andrebbero comprovate, è possibile che nella situazione di guerra vi sia stata una accelerazione del processo di trasformazione economica. Il regime militare infatti non può in questo momento rinunciare ad assicurarsi il controllo delle risorse e delle disponibilità del Paese, né consentire il sabotaggio economico, né permettere che a causa della cecità delle classi possidenti si alimentino i fermenti sociali di opposizione dal basso.
Prime conclusioni
In questa trattazione, che non pretende di essere completa né di avere esaurito l’argomento, abbiamo voluto esaminare la situazione attuale in Etiopia. Abbiamo messo in particolare evidenza questi punti:
1) La borghesia si è mossa sospinta dalla disastrosa situazione economica e da un clima di instabilità sociale. Ma non esisteva un movimento rivoluzionario dal basso.
2) Una volta però inceppato il meccanismo del sistema autocratico, sono esplose tutte le contraddizioni del vecchio regime. Il Derg, incapace di dare una sistemazione graduale e pacifica alle diverse questioni, è stato costretto a intraprendere la via di una escalation in cui alle sue epurazioni interne accompagnava un atteggiamento in apparenza contraddittorio. Da un lato sono stati proclamati provvedimenti drastici e radicali, dall’altro si è scatenata la più dura repressione della rivoluzione dal basso, che, sia pure in forma primitiva, incosciente e contraddittoria, tendeva a prorompere. Nelle città il Derg ha dato vita ad una violenta repressione contro il proletariato, cui è impedita la libertà di azione e di organizzazione, e contro la piccola borghesia nazional-democratica. Nelle campagne, in cui abbiamo riscontrato l’arretratezza del movimento contadino e solo i primi germi della rivoluzione agraria, il Derg ha proclamato la riforma, ma non ha fornito ai contadini la forza per realizzarla; in gran parte essa è rimasta quindi sulla carta. Esso ha invece arruolato i contadini, scatenando una campagna nazionalista, per scagliarli carne da cannone contro gli eserciti di liberazione dell’Eritrea e dell’Ogaden.
3) Nei confronti infine delle nazionalità che rivendicano il diritto di separazione, il Derg ha applicato la stessa politica imperiale che fu del Negus. Questa politica è d’altronde il risvolto della sua politica estera.
Da tutto questo deriva la nostra conclusione che la giunta militare etiopica è espressione della borghesia. Se questa riuscirà ad assestare il suo potere la cosa non tornerà a favore delle masse proletarie e contadine. Noi siamo, come sempre affermato, per la soluzione della rivoluzione dal basso, radicale e conseguente, anche se il proletariato, che ne dovrebbe costituire la punta più avanzata e risoluta, è debole e soprattutto sprovvisto della sua testa, il partito politico.
I fermenti che oggi agitano alcuni Paesi africani potrebbero in un domani forse prossimo favorire questa eventualità anche in tutta l’Africa. Certo è e sarà determinante il ruolo che assumerà il proletariato dei Paesi industrializzati di Europa e di America. Continuerà, influenzato dalla politica, nazionalistica e filo-borghese dei vari partiti attuali ad appoggiare l’imperialismo, oppure, ritrovato il suo partito, risorgerà nella sua rivoluzione univoca porgendo il suo braccio possente alle popolazioni di colore in lotta contro l’imperialismo e contro le classi possidenti dei loro Paesi?
Noi, soli, stiamo lavorando per questa soluzione.