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Dietro il dramma del Ruanda gli infami intrighi imperialisti (Il Partito Comunista, n. 224 e 225 del 1994) |
L’articolato e attrezzatissimo sistema dei mass media mondiale ubriaca teledipendenti e teledeficienti su disgrazie e calamità, adottando il sistema della diretta come fosse una partita di pallone e non per la vita. Dati, cifre, testimonianze, interviste, lacrime e cadaveri si susseguono per qualche settimana, e poi avanti alla ricerca di un nuovo scenario: il multietnico circo dell’informazione ha sempre le valigie pronte.
Così ultimamente è apparso, per poi finire in dissolvenza sui teleschermi di tutto il mondo, il dramma della Somalia e di tutto il Corno d’Africa, quello dell’Albania e quello della Bosnia. La prezzolata carovana dei telecronisti appena partita dal Ruanda è oggi, con le antenne paraboliche ben piazzate sulle spiagge, ad Haiti, in attesa di qualche colpo eccezionale, domani si sposterà dove la crisi capitalista ha prodotto le sue inevitabili catastrofi, compresa la peste nelle città indiane, dove per il momento conviene non avvicinarsi troppo.
Ora il Ruanda è lasciato al suo destino di miseria e violenza in una sorta di deriva controllata allo scopo di arginarne gli effetti devastanti soprattutto sui Paesi confinanti, dove si sono riversate enormi masse di profughi.
Per riuscire a capire e a inquadrare correttamente dal punto di vista materialistico la strisciante e prolungata guerra civile in Ruanda, che ci è stata raccontata come un retaggio tribale tra le etnie Hutu e Tutsi, occorre risalire brevemente nella storia delle migrazioni dei popoli alla ricerca di nuove terre da abitare e in quella dello sfruttamento coloniale europeo, con le relative conseguenze.
Circa cinque secoli fa tribù Tutsi, popolazioni di tipo nilotico dedite alla pastorizia nomade, partendo dagli altopiani etiopici si spostano verso sud alla ricerca di nuovi territori ove insediarsi con le loro mandrie e risiedervi, integrandosi e adattandosi secondo le regole dettate dal nuovo ambiente naturale.
Le cause e le modalità di queste migrazioni non sono note; solitamente si tratta, come ci ricordano i racconti biblici, di tribù pastorali nomadi, ma soprattutto delle successive e grandi ondate migratorie partite dall’India verso l’Europa.
La migrazione Tutsi si esaurisce, in una o più ondate, in una zona collinare propizia, ricca di riserve d’acqua, abitata da tribù Hutu dedite all’agricoltura stanziale. Questa, e quella agropastorale a carattere stagionale, rispetto all’esclusivo nomadismo pastorale, ancora oggi presente in alcune Regioni africane, rappresentano comunque un avanzamento della forma di produzione.
Le popolazioni nomadi, per l’organizzazione come società militari armate che si devono dare per affrontare un modo di vivere particolarmente pieno di insidie ed imprevisti, presentano generalmente spiccata attitudine alle attività guerriere, le quali si trovano invece in misura minore nelle popolazioni stanziali, chiamate alla difesa armata dei loro territori solo in occasione di incursioni straniere.
Nel tempo si è consolidata la convivenza tra i due gruppi etnici tramite frequenti matrimoni al punto che attualmente è difficile riconoscere a vista gli appartenenti alle due etnie.
Anche l’organizzazione sociale, che possiamo ricostruire dalle scarne descrizioni attualmente a disposizione, si è consolidata su una forma ibrida e di transizione dalla variante asiatica della forma secondaria di produzione, derivata verosimilmente, tramite le migrazioni, da antiche forme arcaiche, alla feudale a base etnica: le comunità agricole Hutu sono difese e protette dagli agili Tutsi. Nel tempo, inoltre, gruppi di Watussi, guerrieri per eccellenza, hanno ricoperto i vertici della scala sociale (vedi “L’Unità” del 21 maggio).
Mentre nel Paese delle Colline, parte dell’Africa dei Grandi Laghi, si consolidava senza particolari problemi di intolleranza etnica questo tipo di organizzazione produttiva e sociale, che per le favorevoli condizioni naturali e la lontananza dai centri sulla costa non necessitava di un avanzamento, altrove, e per la precisione a Berlino nel 1885, se ne modificava il destino.
La colonizzazione europea dell’Africa fino al 1870 si era limitata alle zone costiere e alle basi marittime e commerciali; l’assalto all’Africa, termine corretto per indicare le manovre per la spartizione del Continente nero, si stava svolgendo sotto l’influenza delle principali potenze europee del tempo.
Nel 1871 in Africa, mentre in Francia si era appena consumata nel sangue la gloriosa lotta della Comune di Parigi, il giornalista americano Stanley ritrova in un villaggio sulle sponde del lago Tanganika l’esploratore e missionario scozzese Livingstone, dato per disperso in uno dei suoi viaggi di ricognizione delle zone interne dell’Africa. Dietro il misero paravento della ricerca scientifica e della diffusione del messaggio evangelico si celavano malamente gli interessi delle potenze europee per impadronirsi di cospicue parti dell’immenso bacino delle materie prime, metalli, oro e pietre preziose necessarie all’ampliamento del processo di industrializzazione nel vecchio Continente.
Dall’esperienza maturata nei suoi viaggi e per la durezza dimostrata nei confronti delle popolazioni locali, Stanley si rivelò l’uomo adatto a una società mineraria di proprietà del re del Belgio, Leopoldo II, per la scoperta e la sottomissione di tutto il grande bacino del Congo che era subito apparso come un enorme giacimento minerario di diamanti, zinco, piombo, rame e argento.
La conquista dell’Africa appariva così facile e sicura che le potenze europee avanzaroano pretese sui territori ancora prima di averli occupati militarmente, creando così in Europa pericolose situazioni di conflitto di interessi.
Nella Conferenza per il Congo del 1884/85 voluta a Berlino da Bismark si riconobbe il Congo come proprietà privata del re Leopoldo II, che poi lo cedette allo Stato belga (quanta generosità visti i costi per l’occupazione militare), ma soprattutto si stabilì che un territorio africano, per essere riconosciuto come colonia di uno Stato europeo, doveva essere stabilmente occupato dando così inizio alla corsa per la spartizione dell’Africa.
L’Inghilterra ben presto impostò una politica che tendeva in tempi più brevi possibile a unire tutti i suoi domini africani in un’unica lunga e continua colonia “Dal Capo al Cairo”; mentre la Francia partendo da Algeri scendeva oltre l’Equatore verso l’Oceano Indiano. Le potenze minori si dovettero accontentare di occupare le parti rimanenti: il Portogallo fu presto dissuaso dalla pressione britannica ad unire l’Angola con il Mozambico attraverso la conquista di una parte dell’attuale Rhodesia e la Spagna alla fine si dovette accontentare delle isole Canarie e del Rio de Oro. Il Belgio poteva ben dirsi soddisfatto del bacino del Congo, l’Italia occupò l’Eritrea, poi la Somalia e per ultima la Libia, mentre la Germania con la Kolonialverein (Lega coloniale) e la Società per la Colonizzazione Tedesca, partendo dalla base di Dar es Salam, nell’attuale Tanzania, penetrava verso il centro del Continente in direzione dei giacimenti del Congo Belga così bloccando, con la soddisfazione di tutti, il progetto inglese in un unico dominio dal Capo al Cairo.
Completano le aspirazioni di Guglielmo II e del capitale tedesco, come terza potenza coloniale in Africa, il Togo, il Camerun, riconosciuti dagli inglesi in cambio della rinuncia alle pretese in Nigeria, e l’Africa del Sud Ovest, l’attuale Namibia, con i suoi ricchi giacimenti di diamanti. La penetrazione tedesca nell’Africa Orientale si esaurisce nell’attuale Ruanda e Burundi, ai confini del ricchissimo di materie prime Zaire, praticamente l’ex Congo Belga. Qui la Società per la Colonizzazione Tedesca conferma e utilizza per le sue organizzazioni coloniali locali le strutture e le gerarchie sociali esistenti fra le etnie al momento della conquista.
Da prima guerra mondiale, in base al trattato di Versailles, i belgi sono poi succeduti ai tedeschi, mediante acquisto, nel controllo e nello sfruttamento del Ruanda-Urundi, poi separati nel 1962 nei due Stati indipendenti del Ruanda e del Burundi. Peggiorava la situazione preesistente, affidando gli incarichi polizieschi e amministrativi prevalentemente alla minoranza Tutsi relegando definitivamente la maggioranza Hutu nei livelli più bassi dell’organizzazione economica e sociale.
Per completare l’opera, poi, introdussero la certificazione dell’etnia di appartenenza o di discendenza sui documenti di identificazione perpetuando così queste divisioni etniche ed economiche. Al momento non è possibile conoscere quali e quanti accordi siano intercorsi tra i capi belgi e quelli Tutsi e quali garanzie essi abbiano dovuto fornire agli sfruttatori europei.
Troviamo una attenta descrizione della situazione dopo questa annessione nel Congo Belga durata fino all’indipendenza nel 1962 in “Le spine del Congo nella corona belga” in Il Programma Comunista n.16 del 1959: «La Société Générale de Belgique è, beninteso, il gruppo finanziario che si è finora assicurata la parte del leone. I suoi poteri sono illimitati: esso controlla l’amministrazione coloniale e tutte le imprese “private”, senza dimenticare l’insieme delle istituzioni civili, religiose, militari e politiche della colonia. Ma i suoi poteri non sono meno vasti in Belgio, dove la “vigilanza democratica” del Parlamento ubbidisce servilmente ai piani di politica coloniale dello Stato agente in nome della “comunità nazionale”.
«Il popolamento europeo del Congo belga e del Ruanda-Urundi è naturalmente subordinato all’onnipotente e anonima presenza del Capitale finanziario. All’ombra di questo “vitello d’oro”, gli europei – 108.000, di cui 85.000 belgi – godono di una priorità assoluta sui 12 milioni di indigeni del Congo più i 5 milioni del Ruanda-Urundi, confidato al Belgio in regime di amministrazione fiduciaria dall’ONU dopo la II guerra mondiale, come in regime di mandato dalla SDN nel 1922.
«Fatta eccezione per i notabili indigeni, mercenari degli europei, l’insieme delle popolazioni congolesi costituisce un’immensa riserva di manodopera alla mercé delle imprese statali, degli apparati di produzione industriale e agricola, e delle compagnie di commercio. Nessuna borghesia indigena vi si è formata, visto che i notabili non sono se non capi “fannulloni” viventi alle spalle delle loro tribù. La piccola borghesia commerciante autoctona è soffocata dalla concorrenza del commercio europeo, a sua volta assorbito nell’orbita delle grandi compagnie industriali. Da qualche anno, si è formato un contadiname indigeno organizzato in cooperative; ma questa esperienza non fa che ingrassare un “kulakismo” di cui beneficiano in modo esclusivo le missioni cattoliche che le tengono sotto controllo.
«L’allevamento è nelle mani o degli europei o dei signori feudali del Ruanda-Urundi, mentre solo una piccola percentuale ne è riservata alle tribù e al contadiname indigeno. Per il resto, tutte le forze produttive sono “salariate” in qualità di facchini, scaricatori, boys, donne di servizio, e proletari addetti nelle grandi imprese minerarie, industriali e commerciali».
Il primo duro scontro in epoca recente tra le due etnie, ormai stabilmente divise in gerarchie, avviene alla fine degli anni ’50 quando la maggioranza Hutu caccia dal Paese il gruppo dominante Tutsi, che si rifugia a nord in Uganda dove, nell’ex colonia britannica, divenuta per decenni rifugio dei perseguitati, si sono poi formati, in basi militari per l’addestramento, anche i quadri dirigenti dell’attuale Fronte Patriottico Rivoluzionario (FPR), composto da Tutsi e Hutu “moderati”.
Da “Zagaglie congolesi contro schede belghe” (Il Programma Comunista n.21 del 1959: «Anche le lotte tribali scoppiate alcune settimane fa a Luluabourg, (oggi Kananga) nella provincia di Kasai, e quelle tuttora in corso nel vicino Ruanda Urundi, escono ormai dal quadro tradizionale degli scontri fra gruppi etnici diversi e s’inquadrano sempre più nel processo di risveglio politico e sociale del Continente negro. Si osservi che nel Ruanda Urundi (territorio in “amministrazione fiduciaria” belga ai confini orientali del Congo), l’amministrazione coloniale ripete il gioco di presentare i fatti di sangue recenti come una pura e semplice vampata di odi fra tribù e di rispondere ad essi con la promessa di una precipitosa consultazione elettorale: ma la prima tesi è smentita dal fatto che gli “odi ancestrali” si sovrappongono a un conflitto d’ordine sociale ben preciso, essendo i Watussi – come scrive l’ “Economist”, non certo sospetto di tendenze rivoluzionarie – “per tradizione i signori feudali supremi dei contadini Bahutu”, come sempre alleati del grosso capitale bianco, e avendo essi “rivolto le loro zagaglie contro l’organizzazione popolare e riformatrice” di questi ultimi, e il programma elettorale è studiato apposta come valvola di scappamento al preoccupante malumore delle popolazioni più “arretrate”».
Sostenuti anche dalle precedenti descrizioni e dalla consolidata abitudine di contrapporre ovunque i gruppi tribali in rigide gerarchie, possiamo dedurre che le motivazioni economiche delle povere comunità rurali Hutu contro i più ricchi feudali Tutsi avessero un peso ben determinato in queste rivolte rispetto gli “antichi odi tribali”.
La successione delle grandi ecatombi a colpi di machete, gli esodi in massa e le azioni punitive a scopo di vendetta che poi si sono sovrapposte è impressionante: 1959, 1963, 1965, 1973, 1991, 1992, 1993, 1994!
Nella formazione degli Stati nazionali africani a indipendenza controllata, Francia e Inghilterra hanno sempre manovrato più o meno loscamente dietro le quinte e il democraticissimo governo di Parigi mantiene attualmente nella repubblica Centroafricana la sua più importante base militare strategica in tutto il Continente, da cui è sempre pronta a intervenire con i suoi addestratissimi legionari per mantenere il ruolo di gendarme europeo in Africa, potendo quindi sostenere con il suo apparato militare le proprie società finanziarie.
Dalla risposta del “Ministro per la Cooperazione francese” (il nome del dicastero è bello ma ben diverso dall’operato) ai relatori sul bilancio 1994 all’Assemblea Nazionale (“Le Monde Diplomatique” / “Il Manifesto” giugno 1994) si legge che la Francia è presente per aiuti militari diretti in 25 Paesi africani con una spesa annua per equipaggiamenti di 57 miliardi di lire (forse un errore di traduzione: lire o franchi?), 792 “assistenti tecnici” e militari nel Continente, e forma nelle accademie militari in Francia 1.330 ufficiali l’anno, la maggior parte dei quali è rivolta alla formazione e al comando di battaglioni di pronto intervento e di gendarmeria. Inoltre finanzia e dirige le scuole interstatali di fanteria a Thiès (Senegal) e di trasmissioni a Bouaké (Costa d’Avorio); il 20% dei fondi della Missione Militare di Cooperazione (Mmc) è dedicato alla formazione, dell’altro 80% non è dato sapere; ma aggiungiamo noi però che la Francia in Mauritania addestra un esercito sotto il controllo dei Mauri e dei Berberi che semina il terrore tra le minoranze negre liberate dalla schiavitù solo nel luglio 1980 ma che vivono tutt’ora in una condizione di totale sottomissione!
Il Ruanda è uno Stato artificiale tipico prodotto della decolonizzazione, che nella maggior parte dei casi ha separato con frontiere arbitrarie i circa 700 milioni di africani, appartenenti a più di un migliaio di differenti etnie, in 52 Stati che in realtà sono altrettanti contenitori di miseria, di continui scontri interni e di fughe in massa per fame e terrore.
Complessivamente si stima che in tutto il Continente ci siano 20 milioni di profughi. La grave carestia che grava sul Corno d’Africa potrebbe causare altri 20 milioni di morti in tutta l’Africa Orientale. Tutte le tragedie del Continente si contano su questi ordini di grandezza. Nel suo ultimo rapporto sull’aggiustamento in Africa, la Banca mondiale calcola che ci vorranno, al ritmo attuale, 40 anni prima che gli Stati poveri della Regione sub sahariana ritrovino il livello di reddito pro capite della metà degli anni ’70 (“Le Monde Diplomatique” / “Il Manifesto” settembre 1994).
Geograficamente il Ruanda è uno Stato poco più grande della Sicilia ma è molto più popolato con 7,5 milioni di abitanti (contro i 5 siciliani) e ha un PNL per abitante di 290 dollari ovvero 1/80 di quello degli USA. Questo è un valore certamente basso ma comunque decisamente migliore di quello degli Stati confinanti: Tanzania (120), Uganda (170), Burundi (208) e Zaire (220). In questi altopiani sovraffollati la densità è di 290 ab/Kmq, la maggiore fra tutti i Paesi africani. Il 44% del territorio ruandese è di tipo arativo e di colture arboree, i prati e i pascoli permanenti coprono il 18%, mentre le foreste e i boschi il 21% e il restante 17% è incolto e improduttivo, ovvero valori complessivamente discreti.
L’agricoltura è povera (patate, manioca, sorgo e fagioli) e le sue risorse minerarie sono modeste: solo per l’estrazione del tungsteno entra negli ultimi posti nelle statistiche mondiali per una quota parte di 1/320 della produzione mondiale. Piccole quantità di oro e di stagno completano le ricchezze del Paese.
Nonostante questo il controllo francese nella zona, con il beneplacito dell’ONU, si è rafforzato approfittando dell’attuale debolezza e crisi belga e si evidenzia con precisione una politica di ingerenza attiva nei deboli e poveri Stati africani come una modificata forma di invasione coloniale prevalentemente economica.
L’imperialismo francese, al pari degli altri, che in questo periodo di crisi capitalistica generale godono comunque di una relativa vitalità, non cessa mai di operare in funzione di una politica economica di rapina e man bassa e a poco prezzo sfruttando ed esasperando le divergenze fra i vari gruppi sociali allo scopo di estendere la “zona di influenza del Franco francese”, come anche nel caso, oltre quelli già citati, della Guinea Equatoriale, dove l’appoggio diretto ai clan dominanti è quanto mai vergognoso.
L’ultimo massacro con relativo esodo in Ruanda non nasce dalla risposta esasperata di un fatto isolato o dalla concatenazione di vendette e ritorsioni ma appare evidente che si tratta di un’operazione attentamente preparata e organizzata.
In passato le autorità francesi, rapidamente sostituitesi a quelle del Belgio, che comunque avevano limitato al minimo indispensabile l’armamento locale, avevano appoggiato il governo composto dalla maggioranza “francofona” Hutu, suscitanto il timore della minoranza “anglofona” Tutsi di vedere peggiorare la loro situazione dopo l’arrivo dei francesi.
Il precedente intervento militare francese in Ruanda, nel novembre 1990, previsto solamente per alcune settimane per garantire la sicurezza e l’evacuazione degli europei di Kigali, dopo una prima offensiva del FPR (Tutsi più Hutu moderati), era durato più di tre anni. Il corpo di spedizione aveva raggiunto in breve tempo le 600 unità, ovvero in numero nettamente superiore agli stranieri da proteggere. Un gruppo di assistenti militari e istruttori (Dami) aveva preso in carico l’addestramento della gendarmeria e dell’esercito ruandese, che in breve tempo passa da 5.000 a 40.000 uomini mentre i legionari francesi sempre più frequentemente intervenivano direttamente negli scontri armati allo scopo di salvare il regime del generale-presidente Hutu Habyarimana.
Nel 1993 il ministro per la cooperazione ha stanziato un credito a sostegno delle forze armate ruandesi di 12 milioni di franchi; sei missioni temporanee di addestramento della gendarmeria sono state effettuate sul posto; una quarantina di ufficiali ruandesi hanno frequentato le “grandes ècoles” militari francesi. Inoltre la vendita di armi egiziane all’esercito ruandese, per un valore di 6 milioni di dollari, è stata garantita dal Crédit Lyonnais, mentre armi per altri 5,9 milioni di dollari arrivarono dal Sudafrica in violazione a tutti gli embarghi.
Su richiesta dei “ribelli del FPR” e in base agli accordi dell’aprile 1993 di Arusha (Tanzania), che mette fine a tre anni di guerra tra forze governative e Fronte e pone le basi per la divisione pacifica dei poteri, un contingente ONU di militari belgi sostituisce i francesi, ma dopo l’uccisione di dieci caschi blu il Belgio ritira il suo contingente e il Ruanda, dopo i massacri seguiti all’abbattimento dell’aereo presidenziale ruandese, viene abbandonato a sé stesso provocando quest’ultima tragedia.
Tutto lascia credere che l’ala oltranzista e reazionaria del regime del presidente Habyarimana (ideatore della pulizia etnica contro i Tutsi e sostenitore delle famigerate bande paramilitari Hutu dei Kigingi), contraria a qualsivoglia accordo con il FPR, abbia tentato la carta della offensiva finale contro i Tutsi.
Il 6 aprile 1994 l’aereo presidenziale è stato abbattuto in fase di atterraggio da razzi lanciati dal campo della guardia presidenziale e pochi istanti dopo è entrato in azione un piano messo a punto da lungo tempo. Tutti i membri dell’opposizione centrista moderata sono stati massacrati, a partire dal primo ministro, la signora Agathe Uwilingiyimana e i dieci caschi blu belgi che la scortavano. I miliziani erano in possesso di liste preparate da tempo, i membri della guardia presidenziale erano accompagnati da civili ai quali già da dicembre erano state distribuite armi ed erano stati addestrati militarmente. Il loro arruolamento è stato fatto con la promessa di denaro, bestiame e le terre dei vicini scacciati; gli stessi argomenti sono stati presentati ai contadini Hutu i quali in media hanno a disposizione 0,7 ettari di terra per nutrire famiglie di 8 o 10 persone al minimo.
Dopo la partenza dei caschi blu e dei pochi europei e altri stranieri, compreso l’evacuazione di un intero orfanotrofio da parte dei fanti francesi, i massacri dei Tutsi sono continuati a porte chiuse sotto gli occhi delle forze degli osservatori ONU, le quali “non avevano il mandato per difendere le vittime” (“Le Monde Diplomatique”).
La progressiva avanzata delle forze del FPR – che comunque inizia a considerare la vecchia proposta di dividere sia il Ruanda sia il vicino Burundi, che vive le stesse tensioni e relativi massacri, in zone etnicamente omogenee – ha provocato, dopo la caduta della capitale ruandese, il repentino e grande esodo verso i Paesi confinanti, soprattutto nello Zaire, per la paura delle ritorsioni dei vincitori, i quali invece mandavano messaggi per il ritorno in patria e la concordia.
Anche in questo periodo di sganciamento dal Ruanda, sia prima sia dopo la vittoria del FPR, il ruolo della Francia, sotto l’egida di Mitterand figlio, consigliere per gli affari africani e responsabile per la questione ruandese dal 1990, è stato degno della sua tradizione colonialista. Il Fronte ha quindi più volte minacciato di considerare i francesi alla stregua di nemici invasori nel caso fossero stati trovati nelle zone sotto il loro controllo.
Circa la “Missione umanitaria Turchese”, affidata esclusivamente alle truppe francesi su esplicita e insistente richiesta di Parigi, c’è l’accusa del FPR che: «l’invio di legionari e marines avrebbe il principale scopo di cancellare le tracce compromettenti, di “tirar fuori” quei francesi coinvolti nell’assistenza ai soldati e ai miliziani massacratori Hutu o di salvare i responsabili del genocidio. Cercando al tempo stesso di rubare la vittoria ai combattenti dell’FPR. Sono accuse riprese da Amnesty International, che ha chiesto a Parigi di favorire un’inchiesta sull’eventuale presenza di istruttori militari francesi accanto ai miliziani e agli “squadroni della morte”» (“Le Monde Diplomatique”).
Il dispositivo militare francese in Africa dal 1960 ha funzionato più o meno in questa maniera 18 volte, includendo nel conto il Ruanda dal 1990 al 1993, e dal giugno all’agosto scorso per l’operazione Turchese. Questa rete è composta da 7 basi permanenti che poggiano su 8 accordi di difesa e 25 accordi di cooperazione tecnica: il gendarme d’Africa ha sempre dato prova di ottime qualità operative.
Sulle disgrazie del Ruanda oltre ai vampiri europei si sta accanendo anche l’avidità dei governi degli Stati confinanti, Zaire in testa, seguito dall’Uganda, che approfittano della situazione per aumentare la loro influenza e chiedere quindi più finanziamenti.
Per le popolazioni delle province zairesi invase da 2 milioni di profughi il disastro è stato totale: campi, orti, bestiame distrutti e la soldataglia zairese e ruandese fuggita moltiplica le estorsioni. Ma il dramma delle popolazioni attorno al lago Kivu significa però buoni affari per altri: l’esercito zairese ha immediatamente riutilizzato per sé o rivenduto la quasi totalità delle armi requisite ai militari ruandesi, inoltre i soldati zairesi che collaborano alla distribuzione degli aiuti si ritagliano anche con la forza una fetta personale, mentre le autorità locali esigono un diritto di atterraggio di 6.000 dollari per ogni aereo di aiuti in arrivo.
Il presidente Mobutu ha addirittura interrotto le sue vacanze alle isole Mauritius per ricevere il nuovo presidente ruandese Bizimungu, che gli chiedeva di disarmare i 20.000 militari rifugiati nello Zaire e la sua neutralità, necessari per avviare la ricostruzione ruandese. Ricordiamo che nel 1990 Mobutu inviò la divisione speciale della guardia presidenziale contro il FPR e subì una sconfitta con pesanti perdite da parte del generale ruandese Kagame, considerato il migliore stratega africano, formatosi sia nell’accademia militare di Fort Leavenworth negli USA, sia al comando della guerriglia ugandese.
Intanto i membri del governo ad interim ruandese, dopo la sconfitta militare, indicati dal rapporto ONU come corresponsabili dei massacri, sono ben ospitati nelle migliori località zairesi: certamente il maresciallo Mobutu presenterà una nota spese adeguata.
Tutto l’insieme della situazione, nonostante che la tragedia ruandese sia scomparsa dall’onore delle cronache, ci rivela che questa è solo una parte dell’intero dramma africano che si presenta quotidianamente in tutto il Continente “Dal Capo al Cairo”. Questo sangue sarà vendicato «il giorno in cui gli operai delle ex metropoli coloniali distruggeranno i templi costruiti col sudore degli sfruttati di tutti i Paesi, e ora difesi da preti e santoni dietro lo sconcio sipario di una moralità retrospettiva, dietro un velo di lacrime da coccodrilli» (“Sangue nero”, Il Programma Comunista, n.6 del 1960).