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Prima e sommaria presentazione dei temi svolti alla riunione interfederale di Genova, il 4‑5 novembre 1961 Questioni di economia marxista (in Il Programma Comunista n. 21, 1961; n. 1 e 2, 1962) |
Il compagno che riferì su questo argomento ricordò il lavoro fin qui svolto e i temi i cui risultati figurano nei due fascicoli ciclostilati “Abaco dell’economia marxista”. Spiegò ancora una volta le ragioni per cui questa fondamentale pubblicazione, che vuole condensare in formule precise tutta la dottrina economica originale e integrale del marxismo, non ha potuto ancora essere completata soprattutto per quanto riguarda la parte finale del II e del III volume del “Capitale”, i cui materiali non poterono essere ordinati dallo stesso Marx ai fini della loro definitiva redazione. Dichiarò che a questo grave lavoro si richiede la partecipazione di tutti i compagni, perché non è lavoro per una persona sola e compendia l’attività di intere generazioni. Per conseguenza, nella riunione presente, anche qui utilizzando un rilevante lavoro predisposto da un compagno di Parigi, si tendeva solo a dare una serie di indicazioni meritevoli di sviluppo completo sulle questioni che nella trattazione successiva dovranno ricevere giusto ordinamento.
Tali questioni tendono a dare forma alla teoria marxista dello sciupìo capitalistico, e le soluzioni vanno cercate nelle opere di Marx, di Engels e di altri marxisti, soprattutto tenendo conto di quel metodo di lettura del Capitale, che abbiamo definito “metodo dei tre momenti”. Tali momenti non hanno potuto essere sistematicamente disposti in una classificazione dall’autore, proprio in quanto egli non era un trattatista accademico, ma un capo di Partito, e vanno ravvisati, si può dire, in tutte le pagine, più che in tutti i capitoli dell’opera massima.
Nel primo momento si tratta di definire la dinamica economica entro l’impresa capitalistica, dimostrando che, mentre questa socialmente rappresenta un benefizio produttivo, e quindi non appare come una tappa dello sciupio, tuttavia si fonda su una sottrazione di valore, di lavoro e di tempo, operata ai danni della classe proletaria.
Nel secondo momento si esce dai limiti dell’azienda e si considera il complesso della società capitalistica, con particolare riguardo agli effetti del meccanismo mercantile e monetario, e nuovi aspetti e nuovi gradi elevati dello sciupio sociale vanno messi in evidenza.
Nel terzo momento, Marx vede già presente la società comunista, di cui la storia non ha ancora dato esempio e, facendone un aperto confronto con la folle irrazionalità della società borghese, mette in evidenza il grado supremo dello sciupìo, per effetto del quale alla produzione umana sarebbe sufficiente, con un molto migliore effetto nei consumi e nei godimenti, un apporto minimo di lavoro e di tempo, pari probabilmente ad una bassa frazione di quello attuale.
Il relatore, nell’invitare tutti i compagni a studiare alcuni settori di tale ricerca, dette alcuni spunti per la critica svolta, con criteri quantitativi, delle paurose deficienze della società presente, specie nell’attuale suo processo di finale degenerazione: così, per il processo di concentrazione delle aziende che, pur essendo positivo e necessario, non si può fare senza una continua distruzione di lavoro vivo e di lavoro cristallizzato già nel capitale fisso. Altro aspetto dello sciupìo è appunto il ciclo di rinnovamento del capitale fisso, studiato a fondo da Carlo Marx, per il quale oggi si perviene a folli distruzioni degli effetti del lavoro umano mandando al macero a fini di speculativa produzione di plusvalore intere masse di beni che la produzione sociale avrebbe assai più razionalmente utilizzate.
Altro aspetto di questo genere è la pluralità e instabilità dei mezzi monetari che, attraverso le ondate di inflazione, distruggono quello che oggi è capitale, ma che si traduce in lavoro umano distrutto. Il sistema monetario conduce poi al fenomeno disfattista del sostegno da parte dello Stato, sempre più divenuto capitalista e banchiere, di una miriade di aziende di tutte le dimensioni che si sorreggono attraverso quel fenomeno di succhionismo che consiste nella domanda da parte di privati di concessioni e contributi statali. L’amministrazione di questo insensato meccanismo della società moderna e la sua registrazione in termini di moneta, di debito e di credito, mobilita la quasi totalità della odierna burocrazia che, vera mantenuta della società, è totalmente improduttiva, in modo che il suo consumo rappresenta una quota notevolissima dello sciupìo sociale.
Questo
sciupio si può dimostrare ben presente anche nell’economia russa, come
dimostrano le misure di repressione che colà si vanno adottando contro i
molteplici intrallazzi e saccheggi di danaro dello Stato, e quindi di lavoro del
proletariato produttore. Al culmine di questa ricerca dovrà poi stare il
confronto tra una società che finalmente, per la sola via storicamente
ammissibile, ossia la distruzione in tutti i Paesi dello Stato borghese, potrà
superare un giorno la necessità dell’azione bellica e le favolose spese per la
preparazione militare e per le stupide gare di prestigio fra Stati che sono poi
gare nel terrorizzare l’umanità, e tra le quali bisogna inserire il nefasto
indirizzo dato all’uso di tutte le risorse della scienza verso le esplosioni
nucleari e perfino nella grandiosa scenografia di quella che si chiama in modo
insensato “conquista del cosmo e dello spazio extraterrestre”.
Si legge nella
strada storica segnata dai programmi l’antitesi tra rivoluzionari proletari e servi assoldati del capitale
Parte III - Questioni di economia marxista
Il relatore sull’argomento della presentazione della dottrina economica del marxismo premise che, dato il carico di lavoro in questa riunione, ancora una volta si sarebbe segnato il passo in questo studio, che nei suoi risultati definitivi è da vario tempo ancora fermo ai due fascicoli dell’“Abaco dell’economia marxista”, che hanno data l’espressione in formole quantitative delle fondamentali dottrine del “Capitale” per l’intero Primo Libro e per la sola Prima sezione del Secondo.
Nelle precedenti riunioni si è varie volte riferito (come anche nei resoconti apparsi su queste pagine) delle sezioni successive del Secondo Libro fino alla teoria della accumulazione semplice e progressiva, ma i non pochi materiali arrecati abbisognano di un coordinamento definitivo di formole, schemi e quadri che sono stati varie volte mostrati alle riunioni ma non ancora pubblicati. Tale compito è ponderoso e richiede l’apporto collettivo degli sforzi di tutto il movimento. La principale difficoltà sta nel fatto che la materia del Secondo Libro, sulla circolazione del capitale (il tema da cui esce la condanna economico-storica del modo capitalista di produzione) non l’abbiamo che per tronconi, senza la sistematica pensata da Marx, e senza che Engels, per espressa sua dichiarazione, abbia voluto costruire una sistematica propria, ritenendo di non avere il diritto di sostituire opera propria alle pagine meravigliose ma solo “semilavorate” lasciate dalla penna del gigante Marx.
Il compito sarà meno arduo per il Terzo Libro, che, studiando il processo di insieme, ha un tema più sociale-politico, che conduceva direttamente al programma del Partito quando la redazione ne venne spezzata sul tema: le classi; a grande sfruttamento di tutto l’opportunismo carognone successivo e anche recentissimo.
Poiché noi rifiutiamo nettamente ogni pretesa di aggiornatori del sistema, e non vogliamo inventare le parti rimaste nell’ombra per effetto delle forze agenti nella lotta storica, e riaffermiamo che il marxismo si formò in un tutto monolitico e definitivo proprio nell’epoca 1840-1870 in cui lavorò Marx (e così sarebbe stato anche se la persona Carlo Marx non fosse mai nata), la principale via per affrontare il problema che ci siamo posti, e che le necessità della annosa lotta contro i deformatori ci hanno posto, è di utilizzare le fonti del marxismo in Marx ed Engels soprattutto, ma anche altrove; e quindi la ricerca sui testi storici è il compito fondamentale.
Tale via non è da percorrere da un solo uomo e nemmeno da una sola generazione, essa esige la partecipazione di tutto il Partito da tutte le sue sedi e in tutti i suoi aggruppamenti delle varie lingue, tra le quali la più interessante è ovviamente quella tedesca, se pure oggi il movimento tedesco si presenta come il più sconquassato dalla crisi generale.
Anche in questo settore i compagni del gruppo parigino hanno fornito materiale ricco e preziosissimo che si è andato accumulando senza che ancora si sia potuto tutto utilizzare, e in questa non lunga esposizione attingeremo ad esso sia pure in modo non del tutto organico.
La teoria dello “sciupìo”
Nei precedenti inviti a tutti i compagni per il loro aiuto nella ricerca comune avevamo delineato non una teoria completa ma le vie per giungere a dare forma alla “teoria dello sciupìo” nel modo capitalista di produzione. Si tratta di un tema delicato in quanto ad esso si riconduce tutto il fondamento della analisi e del programma marxista. Una tale teoria è incomprensibile a quegli sprovveduti che vogliono vedere nell’opera di Marx la pura descrizione della economia capitalistica e al più la scoperta delle leggi che ne reggono la dinamica economica. Essa può essere riguardata come un aspetto di programma per il Partito rivoluzionario che noi rivendichiamo alle fiammeggianti pagine del Capitale. Infatti la forma capitalistica si può definire come dilapidatrice degli sforzi e delle energie dell’uomo e della società solo se si perviene a misurarne le perdite in confronto alla dinamica di una società non più capitalistica, data nella storia anche se non presente oggi in nessuna parte del mondo. Occorre dunque ammettere che i dati di una tale società del domani siano desumibili e deducibili non da schemi ideali o da costruzioni filosofiche astratte, ma dai dati della storia passata e di tutte le forme sociali analizzabili: quelle precapitalistiche, e la capitalista.
La misura dello sciupìo sarà quindi possibile anche se si ammetterà che il passaggio al capitalismo segnò (anzi fu reso inevitabile proprio da esso) un deciso miglioramento nella utilizzazione della attività umana in rapporto alle forme sociali che precedettero quella presente.
È chiaro che una critica basata sul richiamo ad una situazione futura che nessuno ancora ha osservata o rilevata incontrerà sempre la fiera derisione di quelli che sono soliti a dileggiare il dogmatismo o perfino la ricaduta nella utopia, di noi marxisti rivoluzionari.
In tutta questa nostra lunga ricerca noi abbiamo citato mille e mille passi in cui si vede che Marx fa sempre in modo esplicito il paragone tra le caratteristiche del processo capitalistico e quelle della produzione futura e società futura, dato preciso per il quale egli tiene il “comunismo” in atto, pur designandolo sotto diversi nomi e perifrasi. Ciò in tutte le opere, nei tre libri del Capitale, opera massima, e possiamo dire in ogni capitolo di essa, anche se per mostrarlo appieno il lavoro critico deve saper gettare ponti sicuri tra pagine anche lontanissime tra loro.
In questo abbozzo della teoria dello sciupìo noi chiedemmo e torniamo a chiedere ai compagni di utilizzare uno schema (la scienza si fa sempre riuscendo a costruire schemi, anche magari provvisori) che abbiamo dedotto dai capitoli del Secondo Libro, oggetto dello stadio presente della nostra ricerca.
Lo schema è quello dei “tre momenti” della critica rivoluzionaria. Il primo momento si limita ai rapporti che si stabiliscono entro i confini di una azienda produttiva unica, tra capitalista ed operai. La sua analisi è già tutta contenuta nelle formole dedotte dal Primo Libro, ma questo non si deve intendere nel senso erratissimo che tutto il Primo Libro non si preoccupi anche degli altri successivi due “momenti”: tutti e tre all’opposto erompono da ogni capitolo, e come sempre teniamo a dire da ogni pagina.
Se la misura dello sciupìo sociale fosse un concetto così angusto come quello della misura dello sfruttamento dei singoli operai da parte del singolo padrone, saremmo ridotti a volgarissimi immediatisti, che propongono di abolire il padrone lasciando stare il sistema mercantile, la moneta, l’azienda col suo dare e avere e anche il suo profitto, che andrebbe banalmente diviso tra gli operai. Proudhon per il primo pose il piede su questa via scivolosa, e se gli anni e i secoli contano qualcosa, può essere solo in questo: Proudhon al suo tempo fu un grande, chi oggi proudhonizza è una carogna.
Nel primo momento il grado di sciupìo non sarebbe nemmeno il tasso di profitto, ossia il rapporto del plusvalore a tutto il valore del prodotto; è infatti noto che una parte del plusvalore nella riproduzione progressiva va non a consumo del capitalista ma a nuovo investimento (e vi dovrebbe andare anche in una società senza capitalisti, vedi “Critica al programma di Gotha”). Allora il solo consumo dei capitalisti parassiti sarebbe misera cosa. Marx lo disse già: voi che vi fermate al primo momento programmate solo una generalizzazione della miseria.
In un passo delle Grundrisse (ed. tedesca pag. 347: capitolo del “bozzone” marxiano del 1858-59 che corrisponde al Secondo Libro sulla circolazione del Capitale, nostro tema; capitoletto sui limiti della produzione capitalista, le crisi, ecc.) Marx pone questi rapporti: 2/5 di materie prime, 1/5 di macchine, 1/5 di salari, 1/5 di sovraprodotto, di cui 1/10 per il consumo del capitalista, 1/10 per la nuova produzione. Colle nozioni del Capitale si ha: 3/5 di capitale costante, 1/5 di capitale variabile, 1/5 di plusvalore. Il tasso di plusvalore è 100 per 100, il grado di composizione organica del capitale è 3, come rapporto del capitale costante al variabile, che misura la produttività del lavoro. È noto che negli schemi della riproduzione semplice del Secondo Libro Marx pone sempre 100 per 100 come tasso di plusvalore, ma 4 come grado di composizione del capitale. Erano trascorsi 15 anni e più e la produttività era cresciuta: una sezione della ricerca di oggi che additiamo ai compagni chiamati in aiuto è questa; quale il grado odierno?
Comunque, allo stato dei Grundrisse, quanto a consumo parassitario del capitalista il profitto è un decimo del capitale merci prodotto, un nono del capitale anticipato (C più V). Ne segue che chi si ferma al primo momento infraziendale non fa che fare salire di un decimo il tenore di vita medio; risultato che non vale certo una rivoluzione!
Cogliamo un punto interessante: quando Marx del 1858 dà un quinto per le macchine, rata alta del 20%, e un terzo di tutto il capitale costante, egli non comprende solo il logorio, ma anche l’ammortamento del capitale fisso, come noi abbiamo fatto di recente alle riunioni in un quadro non pubblicato in cui portiamo nella misura di C anche tutto il rinnovo del capitale fisso. Nel valutare questo sta tutto il problema, come mostreranno altre citazioni eloquenti, in quanto la tesi di Marx è che il capitale fisso, o lavoro morto, non genera di per sé valore né sopravalore, che viene tutto dal capitale variabile, parte del circolante. Crediamo avere noi colto la differenza fra il pensiero di Marx e la più parte dei pretesi discepoli. Infatti sarebbe assurdo che una macchina che costi 100 tra impianto e manutenzione nella sua vita utile, non getti fuori che 300 in tutto di materie trasformate!
Gli altri “momenti”
Ricordiamo di volo che il secondo momento è quello che considera tutto l’insieme delle aziende di produzione che formano una società capitalista pura, con il gioco dei mille effetti della concorrenza e delle relazioni tra esse, formando un bilancio sociale del capitalismo in cui lo sciupìo e il suo grado almeno si raddoppiano.
Nel terzo momento si paragona questa dinamica con quella di una società senza capitale privato, senza mercato, senza moneta e senza azienda, e si viene al confronto finale con la società comunista, mostrando che lo sciupìo si moltiplica ancora, nella società presente, almeno per due, giusto il nostro schema grezzo: due – quattro – otto, da cui nasce la prova che il lavoro nella società comunista può scendere da otto ore a due giornaliere – ciò, si intende, a grandissimi tratti.
A tal punto possiamo fare ricorso all’apporto francese.
Lo sciupìo diviene il “gaspillage”, di cui è data l’altra definizione: le perdite sul “prezzo sociale di produzione”. La definizione è di Marx e si impianta già su una considerazione di primo e secondo momento. Il prezzo di produzione è il “valore” (dunque siamo in capitalismo) epurato dagli alti e bassi di mercato concorrenziale. Esso è dunque: capitale costante più capitale variabile più profitto al tasso medio sociale di esso. Il prezzo di costo degli economisti borghesi è altra cosa (prix de revient) perché è dato da capitale costante più capitale variabile (sempre per ogni unità di merce prodotta) considerando, come è chiaro, il compenso per rinnovo del capitale fisso a fine del suo ciclo.
Prima di passare alla critica dello sciupìo capitalista bisogna segnalare l’aumento di forze produttive che ha realizzato il modo capitalista di produzione rispetto ai più antichi. In tal modo noi coglieremo da una parte le radici di tutte le teorie apologetiche del capitale, e dall’altra la misura dello sperpero, dello sciupìo, offerta dall’inaudito sviluppo di forze produttive che il capitalismo arreca.
Ciò ci permetterà di mostrare, da una parte, che i “comunisti” legati a Mosca fanno l’apologia di fatto del capitalismo, quando essi pretendono che nei Paesi capitalistici... non sovietici i lavoratori ricevano sempre meno prodotti, ciò che essi chiamano la pauperizzazione assoluta, poiché la realtà smentisce queste affermazioni da rivoluzionari da operetta.
Dall’altra parte, che il socialismo non ha nulla di comune col sistema americano di calcolo della produzione, secondo il quale, appena un prodotto richiede meno tempo per essere fabbricato di quello che ne richieda la sua manutenzione, lo si getta via piuttosto che tenerlo in funzione (vedremo nel seguito come il capitalismo, sistema di produzione, arrivi a questa alta produttività poiché si appropria di una grande massa di beni fisici gratuitamente, ciò che gli consente di arrivare alle contraddizioni assurde del tipo americano che abbiamo testé citato, mentre la verità è che esso giunge a tale risultato attraverso lo sperpero di materie fisiche di cui la società potrebbe giovarsi).
È in questo senso che Engels nell’Antidühring caratterizza la produzione socialista scrivendo: «La appropriazione sociale dei mezzi di produzione elimina non solo tutti gli intralci artificiali della odierna produzione, ma anche lo sciupìo e la effettiva distruzione di forze produttive e di prodotti, che attualmente sono i corollari inevitabili della produzione e raggiungono nelle crisi il loro parossismo».
Circa il primo punto della effettiva incrementazione iniziale delle forze di produzione dovuta al nascere del capitalismo, Marx fin dal 1844 la registrava in un momento in cui un tale svolto poteva essere senza difficoltà letto nelle statistiche, citando nei suoi “Manoscritti economico-filosofici” un autore che ha sempre ben considerato (Wilhelm Schulz, nel “Movimento della produzione”) nel passo seguente: «Non è che a mezzo della eliminazione dell’impiego di forza umana che è divenuto possibile fare, partendo da una libbra di cotone che costa tre scellini e otto pence, 350 fili di una totale lunghezza di 167 miglia inglesi, aventi un valore commerciale di 25 sterline».
Nello stesso testo Marx scrive: «In Inghilterra il prezzo dei prodotti di cotone è in media diminuito di 11/12 in 45 anni, e, secondo i calcoli di Marshall, oggi si fornisce esattamente tanti prodotti manufatturati per 1 scellino e 10 pence quanti nel 1814 per 16 scellini (ossia prezzo ridotto a circa un nono in trenta anni). Il miglior mercato dei prodotti industriali ha aumentato il consumo nello stesso tempo sul mercato interno e su quello estero; ne risulta che dopo la introduzione delle macchine in Gran Bretagna il numero degli operai del cotone non solo non è diminuito ma è passato da 40 mila ad un milione e mezzo. Oggi, in quel che concerne il guadagno sia degli imprenditori sia degli operai industriali, la inevitabile concorrenza tra i padroni delle industrie ha necessariamente aumentato il profitto di essi in rapporto alla quantità di prodotti che forniscono. Durante gli anni 1820-33 a Manchester, il profitto lordo del fabbricante è sceso da 4 scellini, circa, a 1 scellino e 9 pence per ogni pezza di cotone filato. Ma, per compensare tale perdita, è stato necessario aumentare in proporzione il volume della fabbricazione».
Sempre nel suo scritto giovanile Marx mostra che la ricchezza è aumentata favolosamente, nei Paesi conquistati al regime borghese; «supponendo che il lavoro di un operaio apporti in media 400 franchi all’anno al capitalista, e che tale somma basti a un adulto per vivere di una vita grossolana, ogni proprietario di 2000 franchi di rendita, di affitto di terreni o di case, forza dunque indirettamente 5 uomini a lavorare per lui; dunque i 300 milioni di lista civile di Luigi Filippo valgono il lavoro di 750 mila operai». Può sembrare un ragionamento semplicistico ma si ricordi che Luigi Filippo era il re borghese e costituzionale e si noti il concetto base che in democrazia l’uso della violenza vige come nel despotismo: il danaro “passa” pacificamente, ma in realtà la violenza è la stessa, solo più sordida che per il brigante da strada maestra. Tanto in una società democratica e mercantile, insegna Marx da 120 anni!
Nel Capitale Marx mostrerà poi che questo aumento favoloso di ricchezze, che fa impallidire la tradizione dei signorotti feudali, proviene dalla cresciuta produttività del lavoro dovuta al macchinismo.
Un passaggio dei Grundrisse servirà a mostrare come Marx fa ad ogni tratto un aperto confronto tra una società scambista e il comunismo. Ciò definisce il nostro metodo storico e mostra che con esso dobbiamo affrontare il problema del calcolo delle perdite. Le leggi di ogni forma di produzione sono originalmente diverse, e lo sviluppo storico della società mostra che ogni nuova forma potrà vantare un “rendimento” superiore alle antiche. Perciò noi prendiamo il nostro sistema di riferimento, il nostro termine di paragone, non nel passato ma nel futuro, in quanto la soluzione del problema sociale non va chiesta al passato come nelle false alternative del genere di quella che ha dato il nome al movimento amarxista di “Socialisme et Barbarie”.
Il passo sta nel capitolo che tratta delle false spese nella circolazione del capitale; argomento proprio del Libro Secondo, Sezione Seconda, già da noi ripetutamente delibato.
Marx deride le “robinsonate” di John Stuart Mill: «Immaginiamo due lavoratori che fanno scambio dei loro prodotti: un pescatore e un cacciatore. Il tempo che entrambi perdono nella operazione di scambio non crea né selvaggina, né pesce, ma si deduce dal tempo durante il quale tutti e due creano valore, l’uno pescando, l’altro cacciando, in cui il loro tempo di lavoro si oggettiva in un valore di uso. Se il pescatore volesse ricuperare tale perdita di fronte al cacciatore, col solo mezzo di pretendere da lui più caccia dandogli meno pesce, è chiaro che il cacciatore sarebbe autorizzato a fare lo stesso. Se essi incaricassero un terzo C di occuparsi dello scambio dei prodotti di A e B non avrebbero altro mezzo che cedere a C una parte dei loro due prodotti, e non avrebbero nulla guadagnato, salvo che sostituire una perdita con altra perdita più o meno pari. Ma all’opposto, se essi lavorassero in proprietà comune, non si darebbe luogo ad alcun scambio, perché consumerebbero nella Comunità. Le spese di scambio dunque sparirebbero (nel comunismo, o messeri di Mosca!) sebbene in un tale caso resti la divisione del lavoro, ma non tale come quella che sullo scambio è fondata. È dunque a torto che Stuart Mill considera le spese di circolazione come il prezzo necessario della divisione del lavoro. Esse sono unicamente le spese della divisione del lavoro quando è legata alla proprietà privata e non alla proprietà comune».
Il dibattito secolare è sempre vivo; è quello banalissimo sugli specialisti, questi superparassiti del mondo 1931! [sic]Se io a piacere caccio o pesco prenderò due pesci o due uccelli al giorno, ma se caccio solo o pesco soltanto, vi saranno almeno tre pesci e tre uccelli al giorno, e vi sarà con questo benefizio della specializzazione professionale un premio del 50% che potrà pagare il sevizio commerciale (!!!).
Tanto facile e banale quanto di “senso comune”! Ma noi tendiamo a fornire una formola di calcolo economico che conduca a misurare come la moderna specializzazione costi alla società cara ed amara (basterebbe contare le famigerate tredicesime di queste ferie) contro le rovine di un andazzo poltrone e intrallazzatore del generale lavoro umano. Gli esperti, incontrollati nel mistero del loro settore, sbafano forte e girano a vuoto causando in serie disastri distruttivi di forze produttive in atto o in potenza.
I popoli commercianti, dice Marx in altro passo della stessa opera, come i Fenici, i Normanni, i Longobardi, condussero altri popoli più stabili ad esaltare la produzione, in tempi di gran lunga precapitalistici. Questo sarebbe “l’effetto civilizzatore del commercio”.
Ma l’opposto avviene nel sistema capitalistico.
Engels e la società comunista
La critica di Marx sulla funzione della circolazione nella economia presente è di una profondità estrema e coinvolge questioni di economia, di storia e di programma politico nelle quali si intreccia tutto il nostro sistema di Partito e la nostra soluzione originale dialettica e grandiosa degli “eterni enigmi” della filosofia di tutti i tempi che col marxismo sono venuti a soluzione.
La nostra scuola ha il compito di esprimere in una formolazione i rapporti di grandezze economiche in cui si assomma questa geniale conquista raggiunta nella storia della umanità circa un secolo addietro, ma ancora ben lontana dall’essere entrata nella coscienza sociale, e meno che mai nella scienza “ufficiale”, che per quel secolo non ha fatto altro che decadere ed indietreggiare. Mentre ripetiamo di non dare ancora oggi questa presentazione sistematica, ricordiamo che il rapporto tra le sfere della produzione e della circolazione (o della distribuzione) è posto su piani diversissimi nella economia di Marx e in quella dei borghesi: per loro il tema è la produzione la distribuzione e il consumo delle merci, e la economia è la scienza dello scambio, assunto come categoria economica eterna nella storia della società; per noi si tratta di uno studio parallelo della presente transitoria economia capitalista, una delle economie storiche di scambio – ed allora con Marx classico parliamo di produzione e circolazione del capitale, e ancora meglio del plusvalore, o valorizzazione dinamica del capitale stesso – e del suo confronto con la economia comunista – che in modo rivoluzionario si pone fuori dalle categorie di capitale, di plusvalore, di valore e di scambio.
Fedeli alla asserzione che il sistema è come blocco dato dalla metà del secolo XIX; e per darne sempre maggiore prova, vogliamo rifarci a una magistrale impostazione programmatica data da Federico Engels nei tre discorsi che tenne ad Elberfeld nel febbraio del 1845, quando già la sua collaborazione con Marx era totale (gliene scrisse il 22 febbraio). In quel tempo l’analisi critica della produzione capitalistica non era ancora organicamente formulata, e su questa strada le ricerche di Engels (che aveva vissuto nella industriale Manchester tra il 1842 e il 1844) economicamente precedevano Marx, colla sua giovanile formazione filosofica, anche se Engels adulto ebbe poi ad attribuire tutto a Marx il merito della scoperta delle leggi scientifiche del capitalismo. Ciò prova solo come questi due grandissimi uomini precorsero la fine dell’individualismo intellettuale, che, un secolo dopo, oggi ancora ci appesta, ma che sparirà nella vergogna. E prova come Engels stesso disse che la scoperta era matura, e il nome di chi doveva farla non importava, sebbene Mehring, come storico, dica di dover registrare quello che era stato, e non quello che avrebbe potuto essere.
Nei tempi successivi si girò in un immenso equivoco; che la discussione aperta sul comunismo come “proposta” (tale è apertamente nei tre discorsi di Elberfeld), ossia come aperto programma di Partito, sia stata più modernamente messa da parte quasi come quasi come manifestazione di “utopismo” e vi si sia sostituita un’arida scienza descrittiva e passiva.
A smentita di questa visione tipo “Seconda Internazionale”, contro cui sorgerà poi la possanza di Lenin maestro e condottiero, ma che purtroppo nel più recente tempo ha ripreso il turpe sopravvento nel più velenoso opportunismo di oggi, noi conduciamo la nostra lotta per una ulteriore “restaurazione” dell’unica ed indivisibile dottrina rivoluzionaria, e affermiamo la nostra tesi: non è possibile descrivere, spiegare e comprendere la dinamica del capitalismo, senza ricorrere ad ogni passo della ricerca alla sua confrontazione col tracciato ben definito della società comunista, che uscirà dalla sua morte.
Citazione da Engels
«Siccome (nella società presente) ciascuno produce e consuma per suo proprio conto, senza preoccuparsi molto della produzione e del consumo altrui, occorre che necessariamente insorga molto presto uno squilibrio stridente tra la produzione e il consumo (…) Egli (il fabbricante) è quanto i suoi concorrenti ignorante a questo riguardo. Tutti fabbricano all’infinito e alla cieca e si tranquillizzano pensando che anche gli altri devono fare lo stesso (…) Noi abbiamo visto quali erano le conseguenze di questo errore fondamentale (ossia la anarchia marxista della produzione); se noi vogliamo eliminare questi effetti terribili noi dobbiamo abbattere l’errore fondamentale: questa è proprio la intenzione del comunismo.
«Nella società comunista, dove gli interessi degli uni non sono più opposti a quelli degli altri, ma associati, sparisce la concorrenza. Come facilmente si intende, non si tratterà più della rovina di alcune classi, di classi tutte intiere. Così come sparirà il modo privato di acquistare i beni, sparirà il fine particolare dell’individuo di arricchirsi per proprio conto nella produzione e nella distribuzione dei beni necessari alla vita, così come spariranno da sé stesse le crisi generali del commercio (è chiaro che qui Engels passa da una critica dello sciupìo di primo momento, già contenuta nella ingenua condanna morale dell’arricchimento del padrone sul lavoro degli operai, a una critica del secondo momento, ossia dello sciupìo nell’insieme in una società mercantile privatista). Come si conosce ciò di cui un individuo ha bisogno nelle media, così è facile calcolare di quanto un dato numero di individui ha bisogno, e siccome allora la produzione non sarà più tra le mani di pochi privati acquirenti, ma tra le mani della Comunità e dei suoi amministratori, sarà molto agevole regolare la produzione secondo i bisogni. Nella società comunista dunque sarà cosa facile conoscere così bene la produzione quanto il consumo.
«Noi vediamo dunque come i mali essenziali dello stato sociale presente scompariranno nella organizzazione comunista. Ma se noi tuttavia entriamo in maggiori dettagli di una tale organizzazione non si fermeranno a questo, ma andranno fino ad eliminare una quantità di altri mali, di cui non menzionerò oggi che solo i principali. L’ordine attuale della società è certo dal punto di vista economico il più irrazionale e il meno pratico che possa concepirsi. L’antagonismo degli interessi fa sì che una gran quantità di forze di lavoro sia utilizzata in un modo da cui la società non trae vantaggio alcuno, che una quantità di capitali è perduta inutilmente, senza potersi riprodurre».
In testi molto posteriori Marx descriverà questo stesso sciupìo sociale come una distruzione di capitali, intendendo quindi che nel sistema capitalistico la distruzione di ogni capitale vale uno sperpero di forze produttive, e quindi di lavoro umano presente o passato utile alla società; ma commette errore enorme chi ne deduce che la forma capitale delle forze produttive non debba essere del tutto scomparsa nella società socialista.
Dopo avere svolta la critica della irrazionalità clamorosa della spesa trasporti in ogni economia ove ciascuna azienda decide da sola quanto produrre e dove spedire i prodotti al consumo, con pure regole di tornaconto (che sono in pieno vigore come oramai si ammette anche in Russia 1962), Engels così prosegue:
«In una società sensatamente organizzata, non sarà più questione di una tale complicazione dei trasporti. Per tenerci al nostro esempio (il commercio mondiale del cotone dell’epoca) è altrettanto facile sapere la quantità di cotone o di prodotti cotonieri di cui una colonia ha bisogno, quanto è facile a una amministrazione centrale di stabilire la quantità di cui tutte le località o i Comuni di una nazione hanno bisogno. Basta che una tale statistica sia stata organizzata una prima volta, cosa ben facile a realizzare in uno o due anni, perché la media del consumo annuale non si modifichi più che in funzione dell’aumento di popolazione; è dunque facile determinare in un tempo dato la quantità di tutti i differenti prodotti di cui il popolo ha bisogno, e si prescriverà tutta questa grande quantità direttamente alle fonti di produzione; quindi la si ritirerà direttamente senza bisogno di speculatori e senza che vi siano più lunghe soste in deposito, e lunghi trasbordi, di quanto esiga strettamente la natura stessa delle comunicazioni.
«Mentre gli intermediari effettuano oggi con danno di tutti un intricato lavoro che, nella migliore delle ipotesi, è superfluo, e cionondimeno arreca loro dei mezzi di sussistenza da consumare, anzi nel più gran numero di casi delle enormi ricchezze, in pura perdita sociale, nell’organizzazione comunista tutti questi elementi saranno liberati in vista di una attività utile, e potranno assolvere un compito nel quale si mostreranno membri reali della società umana, e non più meramente apparenti ed ipocriti, partecipando così alla attività utile generale».
Il memorabile testo sviluppa quindi il concetto fondamentale che, superando la opposizione di ciascun interesse individuale contro ciascun altro e contro tutti gli altri, cade la sovrastruttura del contrasto tra membri della società come vero “bellum omnium contra omnes” (la guerra di tutti contro tutti) e la ragione di tutto il complicatissimo e costosissimo, oltre che corruttore e perpetuatore della psicosi criminaloide generale, apparato poliziesco e giudiziario. Si rendono dunque superflue tutte o quasi le attuali gerarchie e burocrazie amministrative e giuridiche (e politiche). «Già oggi – questo è sempre vero dopo un secolo – diminuiscono i delitti passionali in rapporto a quelli di calcolo, di interesse; diminuiscono i delitti contro le persone e aumentano quelli contro la proprietà».
Un secolo e più trascorso da queste linee, si può aggiungere che a dismisura crescono poi i delitti mascherati, tollerati e impuniti contro la economia sociale nelle sue forme grossolane e statali, quelli che per brevità indichiamo col nome espressivo di intrallazzi, gradevole esercizio essenziale dei membri notabili della società modernissima, anche quale si è sviluppata in Russia...
Patria e famiglia, capisaldi dello sciupìo sociale
Engels qui svolge il confronto suggestivo dell’enorme risparmio di forze produttive che arrecherà la fine del militarismo. Egli è come sempre ben lontano dai piagnistei pacifisti di stile piccolo borghese. «Nel caso di una guerra, che non potrebbe sorgere che contro nazioni anticomuniste, il membro della nostra società avrebbe da difendere una “vera” patria, un “vero” focolare (…) e l’entusiasmo sarebbe ancora maggiore di quello delle armate rivoluzionarie del 1792-1799 che tuttavia non lottavano che per una illusione, un fantoccio di patria». Invecchiate queste parole? O puzzolenti quelle di oggi che ricadono nel più lurido feticcio nazionale in regime capitalista?
L’essenziale di questo punto è che: «le innumerevoli forze produttive oggi sottratte ai popoli civili dagli eserciti permanenti saranno in tal modo, in una società comunista, restituite al lavoro». Il volume di prodotti risparmiati ponendo al lavoro gli oziosi soldati, e quello delle materie belliche consumate, costituiscono un quantum calcolabile in rapporto a quello di tutta la produzione: basterebbe confrontare anche storicamente le cifre di bilanci militari statali dei grandi Paesi con quelle della totale attività economica degli stessi (prodotto lordo nazionale). Ecco un settore di ricerca per i nostri relatori.
Engels passa poi alla odierna “economia domestica”. Egli scrive: «Se noi consideriamo la Casa, il Santo dei Santi del ricco (e oramai, noi aggiungiamo, di ogni filisteo da ceto medio, colcosizzato a dovere dall’incafonimento cui collaborano stampa, radio, televisione) non è un folle sciupìo di forze lavoro quello di occupare tanta gente a servire uno solo e a poltrire? A che serve in realtà quel gran numero di servitori, di cuoche, di lacchè, di valletti, di cocchieri, di domestici, di giardinieri, ecc.? Essi non fanno che lavori che hanno la loro origine nell’isolamento di ogni uomo tra le sue quattro mura». Oggi è ovvia la banale obiezione che la società borghese si sarebbe liberata dal parassitismo esoso di questo personale di servizio, anzi il medio cafoname sarebbe ridotto a piangerci sopra, quando dopo i lauti pranzi lava all’americana insieme agli ospiti le stoviglie, passando in cucina. Ma in effetti le funzioni servili nel magma sociale, se hanno in un certo senso cambiata la etichetta umiliante, non hanno certo migliorata la loro utilità, e le forme che hanno preso non sono né più utili, né meno ignobili nella sostanza.
A questo punto il nostro maestro Engels ritiene di aver già dimostrato che «nella nostra organizzazione razionalizzata il tempo individuale di lavoro oggi vigente può già e subito essere ridotto della metà, col solo utilizzare le forze di lavoro che oggi non lo sono affatto o lo sono male». Siamo nel 1845, ricordiamolo.
Ma Engels ritiene che non siamo ancora al punto più importante, e passa a quello della distruzione del focolare domestico familiare. Si tratta della associazione sostituita all’individuo non solo nella vita della produzione, ma in quella del consumo, anche per ora solo dei consumi materiali.
Il discorso di Elberfeld non si rivolgeva a militanti e nemmeno a soli operai. Non lo dimentichiamo nel considerare l’audacia di quelle previsioni.
Engels si richiama qui alle proposte del contemporaneo “socialista inglese Robert Owen”. Un utopista, diciamo oggi, senza nulla togliere della stima che Marx ebbe per lui. Ma se non ci diffondiamo sulle idee schematiche che Owen prese ad attuare a New Lanark nelle sue fabbriche comuniste, che Engels descrive per essere intelligibile a quel tempo remoto, come il palazzo quadrato di 1.650 piedi di lato (circa 500 metri) e contenente un grande giardino, capace di ospitare da due a tremila persone (che forse ben decifrato è un progetto più valido di molta della ultimissima ipocrita urbanistica, specie tipo Ina-Casa italiana che in quasi 25 ettari ammasserebbe più di 10 mila persone!), la parte critica del passo è del tutto decisiva.
120 anni fa era visione avvenirista il riscaldamento centrale. Pensate che proprio nella tradizionalista Inghilterra ancora nel 1962 si vituperano i progetti che rinunziano al caminetto a legna in ogni camera da letto del grasso borghese (e tanto più ipocrita se meno grasso)! Il geniale Owen calcolò tutte queste economie immediatamente realizzabili. Quello che Engels dimostra coi minuti conti di Owen è l’enorme volume dello sciupìo di forze e tempi di lavoro che comporta la sminuzzatura della umanità nelle cellule familiari molecolari, i cui effetti economici sono tuttavia meno deleteri di quelli sociali e politici, in quanto è lì il vero limite che tarpa le ali alla nascita dell’uomo sociale nuovo, incapace di rendersi solidale al suo simile sotto il pretesto idiota che ha amore per sé stesso e per il suo minimo cerchio familiare, pretesto che ogni giorno si riduce di più a menzogna esosa.
Sotto le codine e retoriche lodi a questo tipo di società per famiglie, oramai fradicio da millenni, si nasconde una delle più turpi schiavitù, quella delle casalinghe, o donne di casa, da cui escono per vie parimenti degenerative e contro natura le nazioni ricche di stile americano e quelle più povere in cui le donne della classe lavoratrice reggono due fardelli sulle loro misere spalle di sesso, detto “debole” dalla ipocrisia dei benpensanti.
Con Owen, Engels deride lo sciupìo del tempo perso a fare le stesse provviste in duemila parcelle dal panettiere e dal beccaio. Ma il moderno uomo cretinizzato da due secoli di capitalismo crede, convinto sulla fede dello schermo televisivo o cinematografico, che il girare botteghe sia il supremo piacere della umana vita! E le redente donne russe gelano in file bestiali!
Noi vogliamo ridurre la società ad una caserma! Vecchia obiezione dell’anticomunismo convenzionale. Ma dianzi non era proprio alla caserma che avevamo profetizzata la stessa fine che al domicilio privato?
Utopismo è il contrapporre alla società odierna un modello di società futura pensato e dipinto a freddo. Buon marxismo è condurre l’analisi della economia capitalistica, come uscita dalla storia, ossia nella sua nascita per il potenziamento delle forze produttive umane, e oggi nella sua corruzione verso un dilapidamento sempre più folle, fino alla certezza delle forme che prenderà, distruggendola, la società nuova.
Altra luce dal pensiero di Engels
Lo svolgimento che nei Grundrisse dà Carlo Marx del processo di circolazione, e che parte dalla già citata robinsonata sul cacciatore e il pescatore, conduce al risultato che tutto il tempo dei commercianti ed intermediari fa parte della quota sciupìo da addebitare alla forma capitalistica di produzione.
Oggi la produzione è basata sullo scambio e per questo ai capitalisti fabbricanti che ne sono i beneficiari l’opera dei commercianti è indispensabile. In una economia non capitalista questa falsa spesa è eliminata e sparisce, tra tutte le altre, quella divisione di lavoro che oggi corre tra capitalisti della produzione e del commercio, essendo la verità che non fanno lavoro né gli uni né gli altri, anche se si può dire che entrambe le schiere dedichino il loro tempo, l’una nella produzione l’altra nella distribuzione, a pompare per profitto proprio il lavoro altrui.
Marx dice tra l’altro: «Il tempo di circolazione – nella misura in cui occupa il tempo del capitalista – ci interessa a grado non maggiore di quello che egli spende colla sua piccola amica. Se dal punto di vista economico “il tempo è danaro”, tale tempo per il capitalista è unicamente quello del lavoro degli altri, che certamente è il danaro del capitalista, nel più giusto senso del termine (…) Sarebbe una estrema confusione quella di porre il tempo che il capitalista dedica alla circolazione come un tempo che genera valore o peggio che genera un aumento di valore. Il Capitale in quanto tale non ha altro tempo di lavoro all’infuori del tempo della sua produzione».
E non si tratta di questo nel processo globale che noi abbiamo da considerare. Differentemente si potrebbe solo immaginare che il capitalista potesse farsi compensare il tempo durante il quale egli non guadagna danaro (da altrui lavoro) agendo come salariato di un altro capitalista presso il quale egli perderebbe quel tempo. In tal modo quel tempo farebbe parte anche delle spese di produzione (dell’altro capitalista). Da questo punto di vista, il tempo che un capitalista perde o utilizza come capitalista è in qualunque caso del tempo perso, tempo piazzato a fondo perduto. Il preteso tempo di lavoro del capitalista, a differenza del tempo di lavoro dell’operaio, che deve costituire la base della sua entrata come salario sui generis, sarà analizzato altrove”.
In questo punto, trattato quasi con le stesse parole nel Secondo Tomo del Capitale, Marx si riporta ad un tema del Terzo Tomo: ossia la risposta all’argomento che il padrone di una fabbrica può avervi funzioni di tecnico, di ingegnere, se ha una tale preparazione. In questo caso adoperando il suo tempo di lavoratore, sia pure intellettuale (l’esempio potrebbe valere anche per un lavoro manuale), egli evita di pagare lo stipendio di un direttore, e in questo caso il valore del suo tempo di lavoro passa nel prodotto. Al solito Marx, riferendosi al programma della società e della forma non più capitalista, mostra che la funzione sociale del capitalista, come avente diritto su tempo di lavoro di altri, e non suo proprio, può essere abolita e dovrà esserlo con vantaggio sociale (fenomeno già attuale ai tempi di Marx, dello scadimento del capitalista a semplice funzionario, a parte il tema delicato di quello che la società debba dare ai suoi funzionari).
Torniamo al tema delle vere e false spese di circolazione. Il passo così seguita: «È molto frequente il classificare tra le spese pure e semplici di circolazione, il trasporto, ecc., nella misura in cui è legato al commercio». In quanto il commercio porta un prodotto sul mercato, esso gli dà una figura nuova (indispensabile nella società mercantile). Il trasporto certo non modifica che la posizione geografica. Ma qui non ci interessa la modalità del cambiamento di forma. Certo il trasporto commerciale dà oggi al prodotto un diverso e nuovo valore di uso – e ciò vale fino al bottegaio di dettaglio, che pesa, misura, incarta, e dà in tal modo al prodotto una nuova forma per il consumo – e questo nuovo valore di uso costa del tempo di lavoro (quello del bottegaio o del commesso di negozio) e genera quindi un tanto di altro valore di scambio. (Notiamo che oggi molta parte di questo lavoro si fa alla partenza nella sfera della produzione, dosando e confezionando parti di prodotto che vanno tal quale nelle mani dell’acquirente; tutte forme utili per captare la sua libertà di scelta). Ma Marx qui conclude che «trasportare sul mercato fa parte dello stesso processo di produzione (dunque è una spesa di produzione e non una falsa spesa di circolazione). Il prodotto non diviene merce (esigenza vitale nella economia capitalista presente) se non circola, e non circola se non quando si trova sul mercato».
Questo ed altri passi di Marx sulle spese di circolazione (notiamo sempre che nel Secondo Libro si tratta della circolazione del capitale e non della semplice circolazione dei prodotti e merci) convergono al confronto di Engels in Elberfeld circa l’enorme sciupìo di trasporti che fa il sistema capitalista rispetto a quello comunista. La media distanza geografica tra la sede di produzione e quella di consumo di un bene di uso è uno sforzo fisico reale che dovrà anche allora esser fatto; ma in un piano razionale, e fuori dalla gara speculativa di concorrenza e caccia a prezzo più alto, il totale delle lunghezze di trasporto per unità di merce eviterà di essere molte e molte volte maggiore del necessario.
È questo un elemento essenziale di sciupìo, che viene subito dopo quello della produzione di merci in eccesso sul consumo e gettate via (caffè brasiliano gettato in mare o bruciato nelle locomotive).
Sono tutti sciupìi definibili “da assenza di piano di produzione-consumo”.
Secondo Marx, come secondo Engels, la società comunista sopprime ogni falsa circolazione e serba solo quella dovuta alla natura delle cose e non allo scambio (ossia alla appropriazione privata e non sociale dei beni).
Sopprimendo tale circolazione assurda il comunismo sopprime la divisione del lavoro tra fabbricanti e mercanti, e la funzione autonoma del commerciante, fenomeno caratteristico del capitalismo.
«Al posto del governo sulle persone subentra l’amministrazione delle cose e la organizzazione del processo di produzione» (AntiDühring). «In effetti la esistenza delle classi è sorta dalla divisione del lavoro, e la divisione sociale del lavoro nella sua forma attuale sparirà completamente» (Engels, I fondamenti del Comunismo, prima stesura mandata a Marx per il Manifesto). Nello stesso scritto si legge anche: «L’educazione potrà far passare rapidamente i giovani attraverso tutto il sistema di produzione e li metterà in grado di passare a turno da una branca della produzione ad un’altra, secondo che i bisogni della società quanto le loro inclinazioni ve li spingeranno».
In questa frase fondamentale e classica la coincidenza tra le inclinazioni individuali (le famose vocazioni) e l’interesse sociale è completa, e da allora abbiamo la “produzione dell’uomo per l’uomo” concetto geniale dei giovanili manoscritti filosofico-economici di Marx.
Questo antico canone del marxismo originale mostra che non abbiamo nulla aggiunto o scoperto o sognato, quando abbiamo presentato come massimo traguardo del programma comunista la fine delle “specializzazioni”, delle “professioni” chiuse, e delle ancora più ignobili “carriere” dell’oggi nefando.
Fine supremo di questi settori chiusi e ciechi non è che il procaccio di un consumo inutile e passivo, frodato alla società e all’umanità.
Alcuni appunti per il lavoro
Nel rapporto di cui riferiamo furono indicati vari punti che offrono temi per il computo e la valutazione del grado di sciupìo.
Chiuderemo questa esposizione rammentandoli al fine che possano più organicamente essere elaborati come contributo da più parti alle successive riunioni e trattazioni.
Un aspetto essenziale e da nessuno contestato né deprecato dello sviluppo del moderno industrialismo è la concentrazione delle aziende. La unità di produzione va assumendo dimensioni sempre più grandi, sia che la consideriamo per numero di lavoratori addetti, per quantità di materie trattate e di prodotti erogati, per valore di merci lanciate sul mercato o di capitale di impresa. Questo fenomeno non avviene con un piano razionale ma traverso la lotta della concorrenza e la distruzione delle strutture delle aziende modeste che divengono “passive”, rovinano e si chiudono. In tutto ciò vi ha una distruzione di ricchezza, di capitali, di forze di lavoro che restano inutilizzate. Una misura di questa perdita, sia pure in parte compensata dalla cresciuta produttività del lavoro nelle unità più grandi, può essere cercata nelle statistiche dei “fallimenti”, ad ognuno dei quali corrispondono perdite non solo della impresa crollata ma delle altre che vi avevano relazione, di merci prodotte, di impianti abbandonati a deperire, di personale disoccupato, e così via.
Questo fenomeno si esaspera quando avviene per ondate inverse, ossia quando le grandi aziende per ragioni diverse di crisi economica o per misure di politica statale si bloccano a loro volta e si sminuzzano in aziende minori. La crisi cronica della produzione agraria si spiega con queste oscillazioni e malintese riforme che incrociano il processo utile delle concentrazioni con uno contraddittorio di parcellazione della terra e dei mezzi di produzione agricoli, voluto da governi borghesi, e peggio da partiti traditori del proletariato. La bassa resa dell’agricoltura in Russia e il suo sfasamento con l’incremento dell’industria si spiega di massima con considerazioni di tal genere (colcos ricchi e poveri, campicelli familiari, ecc.).
Una causa di distruzione di valori reali, di forze di lavoro e loro effetti positivi, risiede nelle oscillazioni della moneta, e nelle grandi inflazioni che seguono le guerre. Esse comportano la rovina di innumeri unità economiche di minime e medie dimensioni, e nel complesso di alte rate dell’economia dei Paesi interessati. Se ne potrebbe seguire il corso quantitativo nei fenomeni che hanno accompagnato i due grandi conflitti mondiali di questo secolo.
Tutto il moderno insulso gioco dell’intervento del potere politico nei fatti economici, stoltamente vantato molte volte come un successo del “socialismo”, rappresenta uno sperpero enorme di forze produttive utili, con la salvezza di unità produttive e peggio speculative che sarebbe meglio cadessero, mediante risorse che si fanno ricadere sulla comunità sociale, il che vuol dire sulle classi sfruttate. In questo stolto gioco tra la cosiddetta iniziativa privata sempre succhionistica, e i sussidi, le sovvenzioni, i contributi messi a carico del “pubblico” danaro, un fenomeno che è caratteristico della nostra epoca di insensato ed irresponsabile “gaspillage”: la “domanda”, con cui si aprono il novantanove per cento delle occhiute organizzazioni di attività economica. Il comunismo si potrebbe originalmente definire come la società in cui nessuno dei suoi membri avrà da fare domanda, sia per avere soldi o favori o concessioni, che per posti di impiego o di carriera, per promozioni, benefizi e simili cose equivoche, e premi a chi destramente consuma senza produrre.
Una simile ricerca ha l’obiettivo di stabilire quanto siano socialmente passivi i “ceti medi” composti di masse che vivono di questo miraggio deteriore e distruttivo del benessere generale. Le cifre economiche saggiamente studiate mostreranno che questa massa amorfa è più pesante del fardello della società che le “cento famiglie” fantomatiche dei ricconi o i non meno leggendari vertici dei “monopoli”, in cui l’opportunismo modernissimo stoltamente o in mala fede vorrebbe far ravvisare tutto il male del sistema capitalistico a danno della società di produttori mentre corteggia perfino il medio industriale, più sozzo di Shylock! Pochi sfruttatori al posto di innumerevoli e pidocchiosi parassiti (ferocemente esosi verso i ceti sottoposti) sono stati sempre dal vero marxismo rivoluzionario considerati una condizione preferibile, tanto sul terreno della misura dello sciupìo sociale, quanto su quello della visione storica del procedere della rivoluzione comunista.
A questo problema si riduce quello della pletora burocratica e dello Stato, costosissima piovra composta di milioni di lavoratori improduttivi, veri sfruttatori sociali. La burocrazia deve essere numerosa quando le unità funzionali economiche sono piccole o numerosissime e le loro innumeri partite di monetario dare ed avere e le loro dilaganti pratiche e domande di benefizi o anche di tassazione fiscale ingombrano migliaia di chilometri quadri di inutile carta. Quando il comunismo andrà oltre le forme dello scambio e della moneta si estinguerà lo Stato, non solo nel senso, che lo giustifica, di organo di forza di classe, ma soprattutto come gerarchia di imbrattacarte. Considerata tutta la società economica come oggi, a guisa di paragone grossolano, una sola azienda, sarà una sola la cifra da dovere fermare sulla carta, quando oggi sono diecine di milioni. Allora tutte le attività saranno direttamente produttive; e fin d’ora è facile di cacciare tutti gli stipendi degli imbrattacarte nel calcolo del baratro immane del passivo sociale.
Abbiamo così tracciata una elencazione sia pure informe di tutte le componenti dello sciupìo capitalista e della distruzione delle sane forze produttive umane, ponendo il nostro programma agli antipodi di quello demente che assegna al proletariato il compito di concorrere coi suoi nemici nella direzione insensata della moltiplicazione delle masse dei prodotti per bisogni falsi, maledetti e disumani, sistema che ha il solo senso di esasperare la produzione del plusvalore, ossia della schiavitù ed alienazione dell’uomo da sé stesso, che vivrà quanto il capitale, il mercato e la moneta.