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Gruppo di rapporti alla riunione interfederale di Genova del 3‑4 novembre 1962 Il programma comunista quale folgorò a mezzo Ottocento traverso un secolo di rifiuto dell’infetta cultura borghese illumina ombre del passato annunzia morte alla viltà di oggi Questioni di economia marxista (in Il Programma Comunista n. 8 e 9, 1963) |
Nel precedente rapporto alla riunione interfederale di Milano del giugno scorso fu data una descrizione del “Quadro di Marx per la riproduzione semplice del capitale fisso e circolante”. In esso (si veda Programma Comunista n.20 del 2-11-1962) è posto in evidenza il saggio assoluto di plusvalore, p/v, che è assunto sempre uguale al 100%, e il saggio annuo di plusvalore, plusvalore nell’anno diviso capitale variabile anticipato nella prima rotazione, saggio che giunge, invece, anche al 1000%.
Il saggio annuo diverso, minore, nella II sezione – produzione dei beni di consumo – rispetto alla prima, è dato dalla minore velocità di rotazione del capitale della seconda sezione rispetto alla prima. Il saggio annuo, così è di tante volte maggiore quante sono le rotazioni annue del capitale. Si spiega così il processo più celere dell’industria che dell’agricoltura.
È messa in evidenza, altresì, la natura del capitale. Per gli economisti borghesi ed opportunisti anche (cfr. i russi in particolare) il capitale ha una provenienza arcana, da cui traggono il programma sociale e politico della collaborazione tra capitale e lavoro. In realtà tutto è lavoro, e la teoria gesuitica che il profitto sia il “premio” al capitale anticipato è chiaramente smentita da una attenta lettura del quadro di Marx. Infatti la ricostituzione, nel quadro decennale, del capitale fisso altro non è che accantonamento di una quota di lavoro sotto forma naturale, che nel meccanismo mercantile e monetario assume la forma di denaro. Risalendo alle origini storiche di questa ricostituzione non faremmo altro che ripercorrere a ritroso la storia dell’accumulazione del lavoro umano, che l’economista borghese considera soltanto come accumulazione del capitale che si perde nelle nebbie dei secoli passati. Il trucco e l’inganno sta nel fatto che la classe produttrice, il proletariato industriale e agricolo, viene privata del comando sul prodotto del suo lavoro; e questo fenomeno – appropriazione privata – dà la sensazione che il prodotto abbia una provenienza diversa da quella che in realtà ha.
Sembra che l’anticipazione sia stata di denaro, oro; ma né il denaro né l’oro possono trasformarsi in prodotti di varia materia e foggia. L’oro e il denaro sono la forma fenomenica, l’equivalente generale assunto dal lavoro estorto, cristallizzato in macchine, impianti e attrezzi.
Il comunismo è il ritorno alla società dei produttori dei mezzi di produzione e dei prodotti, di cui è stata privata. A un atto di forza, che ha privato una parte della società della proprietà dei mezzi di produzione e dei prodotti, dovrà rispondere un nuovo atto di forza per rientrarne in possesso. Ed è il compito della rivoluzione comunista.
I due processi dello sciupìo
Stabilito che tutto è lavoro, è altresì vero che il livello della produzione dipende dall’efficacia del lavoro, cioè dalla produttività del lavoro, dalla capacità che il lavoro ha di produrre in un tempo dato in condizioni date.
È indifferente a questo proposito considerare la produzione semplice o allargata delle merci, in quanto le leggi che presiedono alla produzione nel modo di produzione capitalistico agiscono indifferentemente sia nella prima che nella seconda. Cosicché lo “sciupìo” sarà non solo sciupìo di lavoro, e più precisamente di tempo di lavoro, e da un punto di vista quantitativo e da quello qualitativo cioè si realizzerà in primo luogo nella fase produttiva, ma anche, assumendo forma di capitale monetario nel meccanismo mercantile, nella fase di distribuzione. Quindi: sciupìo di tempo nella fase produttiva e sciupìo di tempo in quella di circolazione.
L’attuale periodo storico di esaltazione delle forze produttive ci immette nelle condizioni reali prospettate nel punto 2) del paragrafo IV del 15° capitolo della V sezione de Il Capitale (Ed. Rinascita – I Libro, 2° Vol. pagg 242 e segg.): “Intensità e forza produttiva del lavoro in aumento e contemporaneo abbreviamento della giornata lavorativa”.
Nei paragrafi precedenti al IV Marx mostra come il diverso combinarsi della forza produttiva, dell’intensità del lavoro e della giornata lavorativa non muti per nulla il modo di produzione capitalistico, neppure quando (paragrafo III) «eguali rimanendo la forza produttiva e l’intensità del lavoro» sia abbreviata la giornata lavorativa, e neppure quando (paragrafo I) «a forza produttiva del lavoro in aumento, il prezzo della forza lavoro potrebbe essere in caduta costante, mentre la massa dei mezzi di sussistenza dell’operaio potrebbe contemporaneamente e costantemente aumentare».
Perché, in questo ultimo caso, «il valore della forza lavoro scenderebbe costantemente e così si allargherebbe l’abisso fra le condizioni di vita dell’operaio e quelle del capitalista». Nel primo caso l’abbassarsi della giornata lavorativa segue o precede «la variazione della forza produttiva e dell’intensità del lavoro» per modo che si operi una compensazione tra lavoro necessario e pluslavoro. (Vedi sviluppi in Abaco dell’Economia Marxista, pp. 15-17).
Nel modo di produzione capitalistico il tempo di lavoro consta di tempo di lavoro necessario e di pluslavoro. Il tempo di lavoro necessario consiste nel tempo che occorre per la ricostituzione della forza lavoro, ed è per gli operai; il pluslavoro consiste invece nel tempo di lavoro per il capitalista, o più esattamente per il capitale. La tendenza è quindi di diminuire a zero il lavoro necessario e di estendere al massimo il pluslavoro. Naturalmente «Il limite minimo assoluto della giornata lavorativa è in genere formato da questa sua parte costitutiva necessaria ma contrattile» (corsivi del testo). Se tutta la giornata lavorativa si riducesse a quella parte, il pluslavoro scomparirebbe, il che è impossibile sotto il regime del capitale. «La eliminazione della forma di produzione capitalistica permette di limitare la giornata lavorativa al lavoro necessario» (corsivo del testo).
In primo luogo giova sottolineare come Marx non consideri affatto un mutamento sostanziale del modo di produzione capitalistico la diminuzione della durata della giornata lavorativa né l’aumentata capacità di consumo per la classe operaia in regime capitalistico. Qualsiasi conquista economica o di condizione di lavoro sotto il capitalismo viene piegata alle esigenze della conservazione del modo di produzione capitalistico stesso. La vera conquista sarebbe la trasformazione della giornata lavorativa in tempo di lavoro necessario, ma, ammonisce Marx, ciò è realizzabile solo dopo «l’eliminazione della forma di produzione capitalistica». Si deduce facilmente che questa sostanziale trasformazione sociale, vera e proprio inconfondibile caratteristica del comunismo, non si realizza con continue costanti parziali vittorie sul terreno economico, e tanto meno con riforme, come vorrebbero far credere gli opportunisti di oggi e di ieri, in uno con l’ordinovismo gramsciano e derivati, ma soltanto dopo “l’eliminazione” del capitalismo tout court; dopo cioè la distruzione di ogni forma di dominio del capitale, e soprattutto dopo la distruzione dello Stato capitalista.
Sciupìo nella produzione
L’assunto comunista non riposa su un fallace cambiamento di apparenze politiche,
con cui spacciare poi per comunista un banale cambio della guardia ai vertici
burocratici e parlamentari dello Stato. Marx caratterizza in modo inequivoco la
società comunista (a dispetto di quanti sostengono che il Maestro si sia
limitato a criticare e analizzare il capitalismo) partendo proprio dalle
caratteristiche del modo di produzione capitalistico. «Quanto più cresce la
forza produttiva del lavoro, tanto più può essere abbreviata la giornata
lavorativa, e quanto più può essere abbreviata la giornata lavorativa, tanto più
potrà crescere l’intensità del lavoro»: la produttività del lavoro, cioè, può
diminuire la durata della giornata lavorativa e può consentire un aumento
d’intensità del lavoro, a condizione, però, che la produttività del lavoro
cresca non con l’aumento dello spasimo lavorativo, ma con un radicale
cambiamento della forma produttiva. Marx elenca tre condizioni per realizzare
l’assunto comunista:
1) «risparmio nei mezzi di produzione»;
2) «esclusione di ogni lavoro senza utilità» sociale;
3) «obbligo generale del lavoro», ovvero distribuzione proporzionale del lavoro
»su tutti i membri della società capaci di lavorare».
Questa è l’antitesi dialettica alla tesi capitalistica, in cui si realizza lo sperpero di lavoro. Per intenderci facciamo questa esemplificazione.
Stando alle statistiche del 1959 la popolazione presente in Italia è stata di 50,7 milioni, di cui 17,2 adibiti al lavoro nei quattro settori, industria, commercio, agricoltura e servizi, esclusi gli imprenditori, i militari e i professionisti. Ora la popolazione attiva, compresa tra i 15 anni e i 65, era di 33,5 milioni. Ciò significa che quasi la metà della popolazione attiva è esclusa dall’attività lavorativa, sorvolando per ora sulla distinzione tra attività produttive e non produttive. Per lo stesso periodo il prodotto lordo è stato di 16.830 miliardi di lire, che diviso per i 17,2 milioni di addetti al lavoro danno un prodotto lordo a testa di 978.000 lire. Facendo la sola considerazione dell’“obbligo generale del lavoro”, per produrre i 16.830 miliardi anziché da parte dei 17,2 milioni di addetti, da parte di 33,5, il prodotto pro-capite sarebbe stato di 500.000 lire, della metà circa; vale a dire che lo sforzo prodotto sarebbe stato di circa la metà. Ammettendo che la giornata lavorativa consti di 8 ore, ne sarebbero bastate soltanto 4 per avere la stessa massa di prodotti. E questo soltanto estendendo l’“obbligo generale del lavoro” “su tutti i membri della società capaci di lavorare”.
Se si considera poi che, per esempio, su 19.577.280 addetti in condizione professionale nel 1951, 4.450.534 erano adibiti ad attività non di “utilità sociale”, come impiegati, commercianti, rappresentanti, etc. – e solo dal punto di vista quantitativo – allora la giornata lavorativa per i 33,5 milioni di atti al lavoro cadrebbe da 4 ore a 3 ore e scenderebbe a 2 se si dovessero prendere in seria considerazione all’interno della produzione quelle produzioni antisociali, come il tabacco, l’alcool, gran parte di acciaio e cemento, utilizzati improduttivamente, etc. Per differenza, allora, 3/4 del tempo disponibile degli uomini validi e in condizione di lavorare è tutto sciupato nel modo di produzione capitalistico, con le conseguenze di facile constatazione sulla salute stessa degli uomini e sull’integrità stessa della specie.
Abbiamo visto che la tendenza nel modo di produzione capitalistico è di comprimere al massimo il tempo di lavoro necessario e di allungare al massimo il pluslavoro. Generalizzando, allora, quanto abbiamo esemplificato, si avrebbero queste formule: t = tempo di lavoro totale giornaliero = n (tempo di lavoro necessario) + e (tempo di pluslavoro); ove si ponga e uguale a zero, seguirebbe t = n, ossia la giornata lavorativa si ridurrebbe al tempo di lavoro necessario. In cifre numeriche, se la giornata è di 8 ore, sia n = 2 ore il lavoro necessario, ed e = 6 ore il sopralavoro, si ricaverà che le e = 6 ore sono socialmente sciupate, dal punto di vista della produzione semplice. Se, poniamo, basta che la produzione aumenti del 10% per soddisfare lo incremento demografico e il fondo sociale di riserva e di accumulazione, il tempo di lavoro necessario crescerà da 2 ore a 2 ore e 12 minuti al giorno, evitando lo sperpero sempre di ben 5 ore e 48 minuti al giorno.
È chiaro che tutto il discorso è stato fatto per dimostrare lo “sciupìo” delle forze produttive sotto il capitalismo, ragionando poi nel dimostrare l’opposto comportarsi della società comunista, con mentalità ed abitudine borghesi. In effetti, una volta eliminato il pluslavoro, tutta la vita della specie umana consterà di tempo di lavoro necessario, e più precisamente la vita stessa sarà veramente necessaria alla società per sé stessa, quando produce mezzi materiali, quando pensa, mangia e dorme. Queste funzioni nel modo di produzione capitalistico vengono esplicate dai produttori soltanto per il capitale e per la sua perpetuazione e conservazione, sia quelle produttive che quelle biologiche e intellettuali.
L’uomo sarà liberato dal tempo di lavoro per il capitale, che recupererà per sé stesso.
Sciupìo nella circolazione
La maggior dilapidazione di forze produttive si effettua nel periodo di produzione, come abbiamo già constatato. Ma, dato il meccanismo mercantile e la forma monetaria che assume l’economia produttiva, un successivo sperpero di energie di tempo di lavoro si effettua anche durante la rotazione del capitale.
Marx nel I volume del 2° Libro (ed. “Rinascita” a pag. 282) stabilisce che «la massa del capitale produttivo costantemente in funzione è determinata dal rapporto tra il tempo di circolazione e il tempo di rotazione». Per cui, sia Tp il tempo di lavoro o tempo di produzione (tempo che trascorre dall’inizio della lavorazione aziendale fino alla realizzazione del primo blocco di prodotti completi atti all’impiego); Tc il tempo di circolazione (o tempo ulteriore che passa per inviare quei prodotti al mercato e rientrare nel loro valore commerciale); T il tempo complessivo o di rotazione, che trascorre tra la iniziale anticipazione e il primo recupero (si confronti al riguardo il testé citato quadro di Marx): avremo T = Tp + Tc.
Poiché in corrispondenza a questi tempi, espressi in giorni o settimane, si ha una proporzionale anticipazione di capitale, chiameremo quelli corrispondentemente erogati Kp o capitale attivo (di produzione vera e propria), Kc o capitale passivo (di circolazione o collocamento commerciale), e il capitale totale necessariamente anticipato sarà K = Kp + Kc.
Chiameremo quindi indice o grado di sciupìo (derivante dalla circolazione del capitale e dalla struttura mercantile della economia) il rapporto:
Tc | = | Tc Tp+Tc |
= | Tc T |
= | Kc Kp+Kc |
= | Kc K |
Quindi il grado di sciupìo derivato dal fatto della rotazione è dato dal rapporto tra il tempo di circolazione e il tempo di rotazione ovvero tra il capitale passivo e il capitale totale anticipato.
Tale indice di sciupìo varia col tempo di lavoro e col tempo di circolazione, e secondo che l’uno o l’altro di essi sia maggiore si hanno (nel testo di Marx) tre casi: tempo di lavoro maggiore del tempo di circolazione, tempo di lavoro uguale al tempo di circolazione, tempo di lavoro minore del tempo di circolazione. L’indice varia in modo che è tanto più grande quanto più grande è il tempo di circolazione rispetto a quello di lavoro.
Lo sciupìo in Marx
I lettori ci permetteranno di soprassedere per un tempo alla questione ora tratteggiata di quell’indice dello sciupìo che deriva dalla necessità, propria della economia capitalista, di tenere immobilizzato un ulteriore capitale per attendere, oltre al tempo di produzione – inevitabile fisicamente perché ciò che non è prodotto finito non è nemmeno prodotto consumabile – al tempo successivo di circolazione che occorre perché il prodotto ritorni come capitale danaro investibile in mezzi di produzione e salari. Questa dimostrazione di Marx è una parte notevole di quella che mette la dilapidazione di forze produttive in conto della forma monetaria e soltanto di questa, mentre in una forma non monetaria (società comunista) questo e molti altri settori che sono “componenti” dello sciupìo totale non sarebbero presenti. La difficoltà sta nell’avere dovuto mettere in termini monetari e commerciali un calcolo che è di confronto tra una economia di mercato e di moneta con una puramente fisica o naturale, come quella che Marx vede succedere alla rivoluzione comunista, compiendo ancora una volta il passo audace e geniale tra quella che pare una analisi disinteressata della economia presente e quello che è il programma del suo rovesciamento, violento, storico e politico.
Questo passaggio, trovato nelle carte di Marx in un fiume di fascicoli macchinosi, provocò una nota di Engels che da decenni ci tiene perplessi e che sta tra parentesi quadre alla fine del IV paragrafo del cap. XV del Secondo Tomo (attenti, Tomo, non Volume!) del Capitale.
Lo scioglimento di questo apparente contrasto verrà a suo luogo.
Per ora al fine di chiarire la questione torneremo indietro, e di un intero Tomo, ossia fino al cap. XV del Primo Tomo, che anche abbiamo nelle pagine che precedono già citato ed impiegato.
Questa parte è stata già presentata in modo definitivo nel nostro ABACO della economia marxista, e quindi negli “Elementi della economia marxista” pubblicati su “Prometeo” (serie originale) e su “Programme Communiste” di Marsiglia.
Nell’Abaco si consultino le pagine 15 e 17 del Primo Capitolo, che svolge la materia del Primo Tomo. Teniamo fermi gli indici e le definizioni di grandezze, e i simboli, adottati nella detta esposizione. Il titolo che abbiamo dato è “Ripartizione del valore prodotto tra capitalista e salariato” mentre il titolo del testo è: “Variazioni del rapporto di grandezza fra il plusvalore e il prezzo della forza di lavoro”. In tutta questa trattazione si fa astrazione dal capitale costante, che nel suo valore riappare tal quale nel prodotto, e si considerano le altre due parti del capitale-prodotto e capitale-merce (espressione che non è identica a quella di “valore prodotto”) ossia il capitale salari e il plusvalore. Forse oggi dovrebbe essere meno difficile rendere chiari questi termini base della economia di Marx dato che anche i nostri peggiori nemici non solo parlano di valore aggiunto dal lavoro come “prodotto netto” ma lo fanno nello studio del capitale aziendale e del capitale sociale (per loro nazionale, anche se parlano… russo). Ossia è chiaro per tutti che tutto il valore aggiunto, o se volete “creato” nasce da lavoro anche se poi si deve andare a vedere se è divenuto reddito consumabile o plusvalore portato a nuovo capitale, problema dai nostri posto da un secolo nei suoi termini.
Ora vedremo perché ci siamo permessi di riferire i tre casi di Marx (i primi tre dei quattro) in ordine diverso: il terzo, il secondo, il primo.
Il Programma Comunista n. 9, 1963
Lo sciupìo in Marx
Una serie di contrattempi del tutto indipendenti dalla nostra volontà ci ha impedito nel numero precedente di pubblicare il testo integrale del paragrafo sullo sciupìo in Marx, basato sul famoso cap. XV del Primo Tomo del Capitale di Marx, in cui sono studiate le “variazioni di grandezza del prezzo della forza-lavoro e del plusvalore” in quattro casi tipici. Perché la comprensione di questo punto importantissimo sia facilitata, ripetiamo qui la parte dell’ultimo paragrafetto del rapporto pubblicato nel n. 8 del “Programma”, indi proseguiamo. Nella nostra trattazione, i primi tre esempi dati da Marx sono presentati in ordine inverso: quindi il terzo, il secondo e il primo; e ne spieghiamo la ragione.
Marx esamina la variazione di tre grandezze: la durata (in ore) della giornata di lavoro, quella della intensità del lavoro, e quella della produttività del lavoro. Ora nell’ordine da noi adottato il primo e il secondo caso (ore di lavoro e intensità del lavoro) si possono studiare quantitativamente, come abbiamo fatto nell’Abaco dell’Economia Marxista, anche per una azienda, un’impresa isolata, se pure, con misure generalizzate, divengono, o sono diventate storicamente, o possano diventare nell’avvenire un problema sociale, per “tutte le aziende private”, passando da quello che abbiamo detto momento marxista, al secondo momento. Quando invece varia la produttività generale del lavoro (per cause tecnologiche, scientifiche e così via) siamo in pieno secondo momento, e il prezioso testo cui ricorriamo ci apre con slanci luminosi la strada al terzo momento, ossia alla teoria della economia comunista, alla soluzione storica della turpe “equazione dello sciupìo” che è la Rivoluzione.
I tre casi di Marx, Capitolo XV del classico Primo Tomo, uscito nella classicità della stesura dalle sue mani in una forma insuperabile, badano a farci impostare, scrivere, mettere giù la equazione dello sciupìo, che sta in tutte le lettere nelle pagine di lui che sono la piattaforma originale ed invariante della dottrina di classe del proletariato moderno.
Primo caso (terzo in Marx)
Se variano nel loro numero le ore di lavoro a pari produttività ed intensità, il caso più semplice è che il salario non cambi. Tutta questa trattazione, come premette l’impeccabile autore, è stabilita nella ipotesi che i prezzi siano coincidenti con i valori. Questo vuol dire che il salario non varia sia se considerato nominale (in moneta) sia come salario reale. Il nostro facile calcoletto dell’Abaco mostra che allora al variare della giornata di lavoro varierà una sola cosa: (il prodotto totale ed) il plusvalore. Se si lavora tutti più tempo si produrrà una massa maggiore di merci, e se sono fermi prezzi e salari quello che crescerà a dismisura sarà il plusvalore, che nelle mani dei capitalisti darà luogo a riproduzione allargata, a nuovi investimenti. Non solo cresce il plusvalore e profitto di imprese ma ne cresce anche il saggio, come già storicamente è successo (Inghilterra del primo Ottocento). La ipotesi che si vada da 8 a 12 ore porta il plusvalore da un terzo ad otto quindicesimi del prodotto netto (il salario resti dei due terzi) ma il suo saggio da un terzo a ben otto decimi [sic].
Da questo primo caso (che è il terzo di Marx) segue una banale conclusione di primo momento, ovvero alla scala aziendale: se il datore di lavoro riesce ad ottenere dai suoi operai una maggiore quantità di ore di lavoro, e resta lo stesso salario, lo sfruttamento sarà intensificato, una grande massa di profitto sarà a disposizione del capitalista, e se anche questo non aumenterà il suo consumo (l’astinenza degli economisti classici), vi sarà una grande accumulazione di ulteriore capitale investibile, per quanto ora riguarda l’unica azienda considerata.
Se avvenisse l’opposto, ossia se la giornata di lavoro in quella azienda fosse ridotta senza abbassare i salari, i lavoratori avranno un vantaggio e il datore di lavoro o dovrà diminuire il suo consumo personale o rinunziare ad ogni possibilità di ingrandire la fabbrica.
Ma attraverso la comparsa della resistenza operaia e del movimento socialista ben presto la questione diviene di secondo momento, ossia la rivendicazione che abbrevia la giornata di lavoro diviene una conquista sociale e una norma di legge.
In tempi precedenti si era verificato il contrario, ossia l’aumento delle ore di lavoro. Ciò è avvenuto all’inizio del tempo capitalista. Il nostro testo lo ricorda, come abbiamo accennato, per il periodo inglese dal 1799 al 1815. Si ebbe la grandiosa accumulazione del giovane capitalismo inglese, vincitore di Napoleone. Nota 15 (nell’edizione Kautsky, nell’edizione Dietz è nota 16), dai celebri Essays (saggi) anonimi: «Una tra le principali cause dello accrescimento del capitale durante la guerra proveniva dagli sforzi più intensi e forse anche dalle maggiori privazioni della classe lavoratrice… Un maggior numero di donne e di ragazzi erano costretti dalla necessità a darsi a lavori penosi, e per la stessa ragione gli operai maschi erano obbligati a consacrare maggior parte del loro tempo all’aumento della produzione». La seguente nota 14 è tratta da Malthus, il quale rileva un ancora maggiore «merito patriottico» del proletariato inglese quando cita il ribasso del salario reale che fu dovuto al grave rincaro del grano. Malthus tuttavia da buon feudalista non è tanto negriero quanto il borghese Ricardo, e nota che è contro la sopravvivenza della umanità crescere le ore di lavoro e diminuire il pane sia pure «promuovendo l’incremento del capitale». Ricardo e i suoi, nota Marx, sorvolano alla grande impresa di aver prolungata nel tempo di “distress” (angoscia) nazionale la giornata di lavoro, e la trattano in dottrina come una costante “naturale”.
Vogliamo noi indicare un periodo storico di giovane capitalismo che può essere paragonato al primo Ottocento inglese: ed è quello dei primi piani quinquennali russi (merito non contestato al grande Stalin!). L’alto sforzo di lavoro e il basso compenso degli operai permisero gli altissimi livelli del saggio dell’accumulazione, e condussero ad una ricompensa in forma di riconoscimento di meriti patriottici!
Il numero di ore di lavoro, come salì dal tempo feudale a quello delle prime manifatture e industrie meccaniche, salì certo tra lo Zar e Baffone. Ma soprattutto salì l’ intensità del lavoro (ombra di Stachanov!) che ci dà agio di passare al Secondo caso.
Secondo caso di Marx (e nostro)
Malthus aveva capito che aumentare illimitatamente le ore di lavoro, specie a parità di salario e di alimenti, ha un limite: non solo quello delle 24 ore, ma almeno quello del sonno-riposo. Se un lavoratore dorme solo sei ore e lavora le altre diciotto, il suo prodotto di un’ora scenderà di molto rispetto al caso in cui lavora solo otto ore e rispetta la formola, un poco quacquera: otto ore di lavoro, otto di sonno, otto di svago (!?). Allora se la si tira troppo, il prodotto e il plusvalore non saliranno in proporzione delle ore, come supposto nelle formolette, ma alquanto di meno.
Per tale motivo già gli inglesi, davanti alla diminuzione generale delle ore di lavoro, avevano notato che vi sarebbero stati dei fattori di compensazione (nota 13 nel testo). Se il lavoratore potrà respirare due ore di più, ognuna delle sue otto ore renderà molto di più che ognuna delle pesanti dieci (o peggio) di prima.
Quindi per lavoro più breve si ha lavoro più intenso. La società, la nazione, e per noi la borghesia, fanno un buon affare.
Comunque il caso dell’intensità variabile studiamolo, come nell’Abaco, in condizioni di primo momento, e cioè per una sola azienda. La giornata non varia, i prezzi generali non variano e nemmeno il salario. Ma si ottiene (poniamo a frustate, o con i non meno ignobili “premi agli esempi di rendimento”), che gli operai lavorino più fitto.
Se in ogni ora si ottiene il 20% in più, a parità di ore il prodotto aumenterà del 20%. Nell’Abaco sono le formole che mostrano come sale il plusvalore e anche il suo saggio.
Qui ci limitiamo a dare il risultato della loro applicazione al normale esempio numerico. Due terzi del prodotto erano capitale variabile, un terzo plusvalore. Senza mutare il tempo di lavoro, si ottenga la intensità cresciuta del 20%.
Il plusvalore che era un terzo è diventato 8/18 del prodotto. Il salario, restato fermo, è però ora in rapporto al prodotto diurno 10/18; ossia ben meno dei 2/3. Il saggio di plusvalore che era 1/2 sale a 8/10.
Se ora vogliamo passare dal primo al secondo momento dovremmo supporre che l’aumento della intensità del lavoro non avvenga in quella sola azienda, ma in tutto il campo sociale. Ma non lo facciamo perché si passa semplicemente dal terzo al primo caso che Marx tratta nel famoso XV Capitolo del Primo Tomo.
Infatti tale ipotesi è appunto che tutto il lavoro umano sociale, nella media, divenga più intenso, più produttivo. In questo testo di Marx, o almeno in questo metodo di calcolo quantitativo, che noi al solito abbiamo preso immutato, la circostanza considerata è appunto che lo scatto di rendimento sia avvenuto in tutto il campo della società, anziché in una singola impresa. In Marx stesso giocano due concetti, ossia la potenza del lavoro può aumentare come intensità, quando il lavoratore fa di più nella stessa ora per maggiore impegno (al che il vero incentivo sarebbe un drastico abbreviamento delle ore di sforzo), o come produttività, quando un nuovo utensile o macchinario permette con meno operai e in meno tempo lavorativo di avere lo stesso prodotto. Che i due concetti distinti siano ben presenti a Marx si può leggere nel testo, al principio del paragrafo sul suo primo caso. Esempio: «se una ora di lavoro di intensità normale produce un valore di mezzo scellino, una giornata produrrà… a valore della moneta invariabile, sempre sei scellini per 12 ore. Quando la produttività del lavoro aumenti o diminuisca (sempre ad intensità normale) la stessa giornata darà una quantità più o meno grande di prodotti (leggi quantità fisica) e lo stesso valore di 6 scellini si distribuirà su un numero (o quantità) più o meno grande di merci».
È dunque ben chiaro. Nel primo e secondo caso trattati, che sono il terzo e secondo in Marx, non si considerano ancora variazioni universali nel campo sociale, o almeno non è di rigore farlo nel calcolo (poi vi è il IV paragrafo, che tratta, e vedremo come, le variazioni di tutte le grandezze). Nel primo caso di Marx, che noi trattiamo come terzo, varia la misura sociale del valore, ossia quello che si produce in una giornata di medio lavoro umano. Non dimentichiamo che noi misuriamo il valore dal tempo di lavoro medio, e questo ci va bene per le considerazioni di primo e secondo momento, ossia al fine di trovare la misura dello sciupìo di valore, e quindi anche di lavoro, dovuta al sistema capitalista, indicandola in termini di valore capitalista. Quando con Marx saliamo al terzo momento, ossia alla economia socialista, del valore non ce ne frega più nulla, e così del plusvalore e del capitale, e abbiamo a che fare solo con grandezze naturali fisiche: numero di ore, di uomini e di unità di prodotti (dal metro al chilowattora).
Terzo caso (primo in Marx)
La giornata di lavoro ora non muta, ma il prodotto di un’ora, e quindi di una giornata, aumenta in tutto il campo sociale della produzione. Ciò ha per effetto che tutti i valori delle merci scendono nello stesso rapporto. Tra essi anche quello della merce lavoro, e quindi il salario. Gli operai avranno quindi lo stesso salario reale, con un diminuito salario nominale. I prodotti saranno come quantità fisica saliti nello stesso rapporto della potenza del lavoro, ma il loro valore in economia di mercato sarà rimasto lo stesso per la uguale e inversa riduzione dei prezzi. Le formoline stanno nell’Abaco e qui, come fa il nostro Maestro, diamo delle cifre; la verifica può essere per il lettore un “esercizio” divertente. Salga la produttività generale del 20%. Il valore aggiunto nella produzione sarà sempre lo stesso, e in cifra sia 1 (uno).
L’ipotesi è che il capitale variabile era 2/3 e il plusvalore 1/3. Il primo, ossia il salario, è diminuito, abbiamo detto, ai 5/9 [8/15]. Il plusvalore sale, ai 4/9 [6/15].
Il saggio del plusvalore, che era solo 1/2, sale audacemente ai 4/5 [3/4].
Possiamo dare lo specchietto dei benefizi “patriottici” che attendono i
lavoratori quando la gloriosa produttività del lavoro nazionale aumenta.
Quando si stava peggio:
V+P = 1 V = 2/3 P = 1/3 s = 1/2
Ora che si sta meglio
V+P = 1 V = 5/9 P = 4/9 s = 4/5
Marx prende tre leggi che sono date per il primo da Ricardo. Vale la pena di dare la eloquente seconda che esprime il nostro specchietto, usando la parola salario al posto della espressione valore della forza di lavoro, che si vede usata nelle dizioni correnti e che era meglio fosse prezzo della forza di lavoro, come nel titolo già riportato del capitolo. Ciò conferma che seguiamo colle nostre formolette strettamente il testo.
2. Il salario e il plusvalore variano in senso inverso. Il plusvalore varia con la produttività del lavoro, ma il salario varia in senso opposto.
Salariati! Ci avete studiato cent’anni; e ora, voce: Viva l’Italia! Viva la Russia!
Pagine di fiamma
Dai tempi di Marx ad oggi è mutata la durata del lavoro (in meglio), è mutata la produttività del lavoro (in meglio) ed è mutata la remunerazione del lavoro (in meglio). Ma quello che noi vogliamo dimostrare, sui grugni egualmente odiosi degli apologisti del capitale e di quelli della sua riforma, è che la dilapidazione della potenza produttiva umana, l’alienazione della umanità dell’uomo, sono mutate di gran lunga in peggio. E questo è scritto in Marx; è vero con le letterine algebriche ed è vero coi numeretti.
Parli ora il testo, nel paragrafo IV del capitolo esposto.
Il testo dice dapprima che parrebbe che la giornata di lavoro possa ridursi al tempo di lavoro necessario. Fin qui esso copriva due terzi della giornata, ma già Marx prima di morire lo calcolava una metà (classiche cifre, di 400 di costante, 100 di variabile e 100 di plusvalore). Con tali cifre la composizione organica del capitale era di 4 a 1, ma in un secolo la produttività del lavoro è cresciuta enormemente – ma inutilmente dato che siamo in regime mercantile. Ecco il nostro punto di arrivo. Tuttavia Marx qui avverte lo stesso che dice nella “Critica al programma di Gotha” tanti anni dopo; è vero che con la eliminazione dello sciupìo di primo momento possiamo scendere al lavoro necessario, ossia da otto a quattro ore, ma «non bisogna dimenticare che una parte dell’attuale sopralavoro, quella che è destinata a costituire un fondo di riserva e di accumulazione (cioè una provvista di mezzi di produzione di esistenza che permetta di allargare la produzione e di far fronte agli eventuali sinistri e perdite) verrebbe allora contata come lavoro necessario, e che l’attuale grandezza del lavoro necessario è solamente limitata alle spese di mantenimento di una classe di schiavi salariati, destinata a produrre la ricchezza dei loro padroni». Ciò vuol dire che il consumo proletario deve salire e di molto. Ma vi sono ben altri margini nelle successive formole dello sciupìo per indurre a ben drastiche riduzioni delle quattro ore. Già nel 1910 la scuola marxista austriaca ne calcolava due e meno al giorno.
Ma lasciamo le vicende della fradicia economia borghese e saliamo a mirare l’apice del nostro terzo momento. È Marx che lo fa, come sempre senza preavviso, talché l’incauto immediatista e concretista passa ad occhi chiusi (qui seguiamo il più fedele testo Dietz):
«Quanto più cresce la forza produttiva del lavoro, tanto più può essere abbreviata la giornata lavorativa, e quanto più può essere abbreviata la giornata lavorativa, tanto più potrà crescere l’intensità del lavoro. [Verità cristallina in una società che non sia snaturata e disumanata]. Da un punto di vista sociale la produttività del lavoro cresce anche con la sua economia. Quest’ultima comprende non soltanto il risparmio nei mezzi di produzione, ma l’esclusione di ogni lavoro senza utilità. Mentre il modo di produzione capitalistico impone risparmio in ogni azienda individuale [volgarissimo primo momento!] il suo anarchico sistema della concorrenza determina lo sperpero più smisurato dei mezzi di produzione sociali e delle forze-lavoro sociali, oltre a un numero stragrande di funzioni attualmente indispensabili, ma in sè e per sè superflue».
La fine di questo meraviglioso capitolo rivoluzionario vuole fare una misurata concessione a un puro argomento di giustizia livellatrice. Ma nello stesso tempo lo sguardo è sulle funzioni più alte e nobili della umana specie.
«Date l’intensità e la forza produttiva del lavoro [questo vuol dire subito, 1860 e 1960 che sia, senza aspettare altri miracoli della degenerante scienza tecnologica, o altri suoi delitti] la parte della giornata lavorativa sociale necessaria per la produzione materiale sarà tanto più breve e la parte di tempo conquistata per la LIBERA ATTIVITÀ MENTALE E SOCIALE DEGLI INDIVIDUI SARÀ QUINDI TANTO MAGGIORE, quanto più il lavoro sarà distribuito uniformemente su tutti i membri della società capaci di lavorare, e quanto meno uno strato della società potrà allontanare da sé la necessità naturale del lavoro e addossarla ad un altro strato. Il limite assoluto dell’abbreviamento della giornata lavorativa è sotto questo aspetto la universalizzazione del lavoro».
«Nella società capitalistica si produce tempo libero per una classe mediante la trasformazione in tempo di lavoro di tutto il tempo di vita delle masse».