Partito Comunista Internazionale Indice questione nazionale e coloniale



Terzo imborglio: la “teoria della guerriglia”
 
(Il Programma Comunista, n.16, 1967)

La rivendicazione della violenza armata non basta a fare un marxista più che non basti a farlo – nella frase di Marx rimessa scultoreamente in risalto da Lenin – il riconoscimento della lotta di classe: anche il rivoluzionario-nazionale borghese rivendica la prima, e ammette, sebbene non la predichi alla classe oppressa, la seconda. Non è marxista «chi non spinge il riconoscimento della lotta di classe» (di cui la violenza è parte inscindibile) «fino al riconoscimento della dittatura del proletariato»; quindi, chi non possiede la visione dell’intero processo che ad essa dittatura conduce, del suo significato nel quadro della lotta internazionale della classe operaia, del ruolo del partito nella conquista del potere e nel suo esercizio, del terrore rosso contro le sopravvivenze della classe nemica all’interno e gli attacchi della borghesia internazionale all’estero, e infine delle «dispotiche misure di intervento» nei rapporti di proprietà e nelle forme di produzione, destinate a gettare, sempre nel quadro e in funzione della rivoluzione mondiale, le basi dell’economia socialista.

Riconoscere e proclamare l’impiego della violenza può essere molto per il borghese “garibaldino”; è troppo poco per il marxista. Né il primo è salvato dalle “qualità morali” che gli si possono riconoscere, che in genere non si può non riconoscergli e che lo rendono rispettabile come non lo sarà mai l’imbelle predicatore della non-violenza: la rispettabilità dell’avversario non toglie nulla alla sua qualità di avversario.


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In un articolo sulla “teoria della guerriglia” come ultima risorsa o – come dice il giornalismo spicciolo – “terza via” del cosiddetto comunismo d’oggi, apparso nel numero 10 di questo giornale e nel nr. 39 della nostra rivista internazionale “Programme Communiste” – insieme ad un’efficacissima risposta a una lettrice algerina – come pure in un articolo pubblicato nel numero di giugno del “Prolétaire”, è stata ampiamente svolta dal Partito la critica di quelle forme di “antimperialismo borghese” che consistono nel sostituire alla lotta di classe nascente dal fondamentale antagonismo tra capitale e lavoro, una lotta a carattere nazionale, e perfino fra Stati costituiti.

Questa sorgerebbe dai rapporti, considerati decisivi dal punto di vista della rivoluzione sociale, fra paesi sottosviluppati “progressisti” e paesi sviluppati imperialisti, e quindi nel pretendere di attaccare e abbattere quella manifestazione estrema del capitalismo, che è appunto l’imperialismo, senza attaccare e distruggere il capitalismo stesso nell’integralità delle sue strutture.

È stata inoltre definita la posizione dei Castro e dei Guevara, recentissimi “apostati” della Santa Famiglia cremlinesca in nome della rivendicazione della violenza armata, come “stalinismo che si vergogna di sé stesso”, che, cioè, per mettersi a posto la coscienza, condisce il rancido e pantofolesco bagaglio staliniano con l’ingrediente “eroico” della guerriglia accettata e proclamata, ingrediente che ricorda da vicino la romantica concezione, propria degli anarchici, della rivoluzione mediante moltiplicazione di colpi di mano armati di minoranze decise, indipendentemente della lotta di classe.

Quest’ultimo aspetto – non intendiamo qui ritornare sui primi – balza in luce ancora più cruda dalla lettura degli scritti in cui “l’uomo del giorno» Régis Debray, con gran fortuna dei suoi editori francese e italiano, ha dato forma “teorica” alle parole d’ordine castriste e guevariane, ennesimo contributo allo smarrimento e alla confusione nel movimento rivoluzionario proletario. Nulla, qui è buttato a mare della zavorra programmatica dello stalinismo; essa rimane intatta nel suo contenuto popolare, democratico, nazionale, interclassista. quindi radicale-borghese e, al massimo, riformista. Nulla vi è rinnegato della sequela storica di mostruosi tradimenti che dal “socialismo in un solo paese” è andata fino al legalitarismo, al democratismo, alla collaborazione fra le classi, al “policentrismo”. Di tutto ciò, al contrario, la dottrina in questione è figlia legittima, uno dei “cento fiori” possibili, e un fiore specificamente latino-americano.

Solo che la via per arrivarci non è più quella cremlinesca della “coesistenza”; è, sulla scala mondiale, quella dello “scontro” fra i paesi del “campo socialista” – specie se arretrati – e l’imperialismo impersonato dagli U.S.A.

Parallelamente, all’interno di ogni singolo paese, non è più la via del legalitarismo democratico cara ai baracconi elettoraleschi dei diversi P.C., ma quella della guerriglia armata, o, se si preferisce, di un partigianismo adattato a “specifiche condizioni ambientali” e di “terreno”, sconosciute ai paesi di più antica “civiltà» borghese.

Nella storia del movimento operaio l’ideologia di cui si riveste questa reincarnazione dell’opportunismo, malgrado le pretese di “aggiornamento”, è tutt’altro che nuova per degli stalinisti sia pure a disagio. Non v’è nessuna ragione di mettere in dubbio la sincerità del disgusto di un “Che” Guevara e di un Debray per la corruzione, la codardia, la propensione al mercanteggiamento e al compromesso, il conformismo, dei partiti “comunisti” ufficiali dell’America latina (ma che forse nel resto del mondo, questi sono diversi?), come non v’era nessuna ragione, nel primo decennio del secolo, di mettere in dubbio la sincerità della reazione anarco-sindacalista, e del suo teorico Sorel, di fronte alla corruttela gradualista e riformista.

Ma i “barbudos” non si chiedono (quand’anche lo potessero o lo volessero) se tale degenerazione non sia la conseguenza necessaria del passaggio di Mosca e dipendenze nel campo del minimalismo demopopolare, né, quindi, se l’unico modo per uscirne, non sia di far piazza pulita di simile zavorra e tornare ai fondamenti stessi del marxismo, così come gli anarco-sindacalisti non si chiedevano se, per debellare il riformismo, non si dovesse, semplicemente, ritrovare la strada perduta da quello. Per entrambi, esiste una nuova e metafisica ricetta, per curare un imborghesimento che è ai loro occhi di natura essenzialmente morale – e la ricetta si chiama la violenza in sé e per sé, fiamma purificatrice, incendio risanatore; la violenza come categoria o, per dirla alla Sorel, come mito; la violenza purchessia, esercitata da chiunque e per qualsiasi fine – che poi, invariabilmente, diventa il fine della classe dominante.

Ma non facciamo troppo torto ai pur squinternati anarco-sindacalisti: i Debray e compagni stanno perfino al disotto di loro! Nel fumoso irrazionalismo, fra romantico e cinico, di Georges Sorel la violenza aveva come protagonista il proletariato: era un mito anche questo, un’idealizzazione, ma che si incarnava in forme di lotta e di organizzazione inevitabilmente schierate sui fronti dell’antagonismo di classe. Nel fumoso irrazionalismo, misto di romanticismo etico e di tecnicismo militare, di un Régis Debray, la violenza non è esercitata dal proletariato – personaggio inesistente nella sua visione storica – e nemmeno dal popolo, ma dall’individuo che “si dà alla montagna”, schierandosi su un fronte non di guerra di classe; ma di guerriglia nazionale, fianco a fianco dei cento o mille altri individui che, non importa da quali ideologie ispirati, abbiano “scelto” la stessa via.

Per Sorel, la violenza “rigeneratrice”, arma del proletariato, culmina nello sciopero generale; per Debray presuppone, per essere esercitata bene, la fuga da qualunque azione proletaria di massa e il tuffo nel magma indistinto delle élites garibaldine. Sorel idealizza misticamente lo sciopero generale; Debray lo cancella dall’ideologia e dalla storia come spregevole forma di autodifesa economica, quindi necessariamente aperta all’infezione minimalista e al compromesso: lo sciopero è difensivo, quindi intrinsecamente conformista; la guerriglia è offensiva per natura, quindi essenzialmente sovvertitrice.

Occorre ricordare che la stessa cosa si disse, nel ’14, della guerra mondiale? Dalla constatazione che i partiti tradizionali erano affogati nella corruzione e trasudavano codardia, gli anarco-sindacalisti deducevano che il partito politico dovesse sparire dalla scena, per cedere il posto al sindacato: i garibaldini alla Debray liquidano insieme partito e sindacato sostituendoli con i “commandos” partigiani e aggravano la situazione, dal punto di vista della lotta di classe, traendo dalla esperienza sudamericana questo sillogismo di tipo... sociologico: i vecchi partiti ingaglioffiti hanno sede in città: dunque la città ingaglioffisce: dunque la violenza può esercitare la sua funzione rigeneratrice alla sola condizione di rifuggirne come la peste seppellendosi nella boscaglia e nei campi, insomma, tagliando anche fisicamente ogni ponte con la classe operaia, inevitabilmente concentrata nelle grandi agglomerazioni industriali urbane, e cercando appoggio al massimo, nel contadiname disperso. Una variante, tutto sommato, della ”Lunga marcia” di Mao, con gli stessi effetti catastrofici sul moto proletario di classe. E pretenderebbero, costoro di erigersi a ricostruttori dell’Internazionale Comunista!


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Per il marxismo la violenza è di classe: la esercita il proletariato costretto ad impugnarla da spinte deterministicamente emananti dal sottosuolo economico: e l’organo della sua direzione è il partito. Nella mistica guerrigliera, la violenza è esercitata da individui spinti ad unirsi dallo slancio morale (o dall’élan vital?), dall’ardore patriottico, dalla generica volontà di “fare la rivoluzione” e simili; essa non ha organo direttivo perché si dirige da sé, perché “la guerriglia è il partito in gestazione”. Non ha, quindi, programma: prendete le armi, e il programma lo troverete per la strada. Ma è facile, per i marxisti, capire che cosa un programma, la cui genesi si pretenderebbe di abbandonare alla misteriosa indeterminazione della violenza armata, finirà per essere.

Eccolo: «Da nessuna parte – scrive Debray in “Rivoluzione nella rivoluzione?” – la guerriglia ha preteso di formare un nuovo partito, essa punta piuttosto a cancellare al suo interno qualsiasi distinzione di partito e di dottrina fra i suoi combattenti. Ciò che unifica è la guerra e i suoi obiettivi politici immediati. Il movimento guerrigliero incomincia a realizzare l’unità nel suo interno, intorno ai compiti militari più urgenti, che sono già compiti politici: l’unità dei senza-partito e di tutti i partiti rappresentati fra i guerriglieri. Da un punto di vista politico, quello che conta in ultima analisi è far parte della guerriglia, delle Forze Armate di Liberazione. Così, a poco a poco, questo piccolo esercito, nella misura in cui cresce e ottiene le prime vittorie, realizza l’unità di tutti i partiti partendo dalla base».

Eccolo, il programma! È l’unità indifferenziata di tutti i partiti, il fronte popolare, il “blocco nazionale antimperialista”. Castro può ben gridare: Rivoluzione o morte, ma il suo motto resta Patria o morte. E poiché, in questa nebulosa in cui sorelismo, bergsonismo, anarchismo, idealismo, danzano insieme, le parole e i concetti che queste dovrebbero esprimere, perdono ogni valore definito, per diventare forme in cui qualunque contenuto può essere versato dal materno fecondissimo grembo della violenza guerrigliera. Nulla impedisce di chiamare “socialista”, in perfetto stile cremlinesco, anche la più nazionale, patriottica, democratica, riformistica “rivoluzione”.

Castro e Debray, in materia, hanno la bocca buona. Il secondo può dichiarare, senza bisogno di ulteriori dimostrazioni, che, «se l’ideologia dell’Esercito Ribelle cubano non era marxista, l’ideologia dei nuovi comandi militari lo è chiaramente [beato lui che ci vede tanto chiaro], come è chiaramente socialista e proletaria la rivoluzione che si son fissati come obiettivo da raggiungere». Il cerchio è chiuso: rivoluzione nazionale = rivoluzione socialista, e viceversa; il tutto contrabbandato come la prospettiva “leninista” della saldatura fra proletariato e contadiname nelle rivoluzioni doppie e come prologo radioso alla... Internazionale di domani!


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Concludiamo. L’America Latina è in gran fermento, e non saremo noi a guardare con dottorale disprezzo i moti convulsi che si sprigionano, sotto la rabbiosa pressione dell’imperialismo, dal suo sottosuolo sociale.

Non per questo saremo meno duri nel combattere il “formule” che, sovrapponendosi alla spinta gigantesca di rivolte spontanee, impediscono agli schieramenti di classe di precisarsi, definirsi e, infine, prendere la loro strada.

Le masse del mondo intero non hanno bisogno di lezioni di eroismo né di esortazioni morali per andare alla rivoluzione. Hanno bisogno di parole d’ordine chiare che mostrino loro il cammino da battere per colpire sicuramente e decisamente il nemico. Non una versione guerresca, rutilante e garibaldina, del guazzabuglio interclassista attendono le masse proletarie del Sud America, o dell’Asia, o dell’Africa, ma l’indicazione di una via nettamente tracciata, fuori dai blocchi spuri e dalle combinazioni eterogenee fra partiti, classi, sottoclassi, e, peggio, Stati.

Questa esigenza non può essere soddisfatta alla stupida e meschina scala nazionale, che lo stesso imperialismo distrugge nella sua diabolica marcia; è un compito internazionale del proletariato perché solo internazionale può essere il partito.

Senza quest’organo primario nemmeno le rivoluzioni nazionali andranno “fino in fondo”; perché fino in fondo, insegnano Marx e Lenin, possono andare soltanto sotto l’egemonia del proletariato, diretto dal partito di classe, Senza di esso e senza il suo programma non c’è, a maggior ragione, rivoluzione comunista.

Ogni altra “soluzione” è un inganno; e l’inganno, per la classe che lotta per spezzare le sue catene, è tradimento.