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La profetica potenza della teoria rivoluzionaria marxista lega le sussultorie vicende del corso economico borghese alla riscossa coronante l’ardente ciclo 1848‑1871‑1919 Rapporto sugli argomenti trattati nel VI capitolo inedito de “Il Capitale” di Carlo Marx (in Il Programma Comunista n. 5 e 6 e 19, 1966) |
Il Programma Comunista n. 5, 1966
Le nostre precedenti riunioni si sono più volte occupate di questo manoscritto inedito recentemente pubblicato in lingua tedesca, trattandone alcuni aspetti salienti e svolgendo taluno dei temi toccati in modo veramente illuminante. Il lavoro ha presentato varie difficoltà compresa quella di allestire una corretta traduzione italiana, sulla scorta di quella in lingua francese curata negli ultimi anni da alcuni compagni di Parigi. Per alcuni passi importanti si è dovuto ridiscutere il testo originale, con il contributo di vari compagni francesi e italiani incaricati del lavoro.
Alla riunione di Firenze si è potuto per la prima volta svolgere una esposizione quasi completa estesa all’intero materiale trattato nel testo. Il rapporto attuale contiene la sintesi che fu quasi totalmente comunicata alla riunione.
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Riportiamo anzitutto la premessa che segue immediatamente il titolo prescelto dall’autore, il quale scriveva per la migliore elaborazione del materiale, e prima di aver deciso in quale forma definitiva, e in quale dei capitoli in cui sarebbe stato diviso il Primo Libro della sua monumentale opera, che egli intendeva preparare per passarla alle stampe, sarebbe stato inserito.
Sesto capitolo
Risultati del processo di produzione immediato
«In questo capitolo abbiamo tre punti da considerare:
1) Le merci in quanto prodotti del capitale, della produzione
capitalista;
2) La produzione capitalista è produzione di plusvalore;
3) essa è, infine, produzione e riproduzione di tutto il rapporto;
è questo che conferisce a tale processo di produzione immediato il suo
carattere specificamente capitalista.
«Di queste tre rubriche, la prima sarà posta, nella sua finale redazione destinata alla stampa, alla fine e non al principio, perché costituisce la transizione al Secondo Libro: il processo di circolazione del capitale. Per maggiore comodità è da questa terza rubrica che noi adesso cominciamo».
Tali parole dello stesso Marx meritano un breve commento, perché hanno valore di definizioni fondamentali nel marxismo. Ci rifaremo alla formoletta scolastica: “Definitio fit per genus proximum et differentiam specificam”. Ciò vuol dire: ogni definizione si fa indicando il genere più vicino, che comprende l’oggetto speciale da definire, e la differenza che lo caratterizza tra gli altri oggetti dello stesso genere.
Col primo punto Marx definisce quelle merci che sono prodotte nella forma storica capitalista. La sua prima rubrica vuol dire che sono merci anche i prodotti di altre forme storiche di produzione, come la schiavistica e la feudale. Uno specifico tipo di produzione di merci è il capitalismo. Con la seconda rubrica Marx vuol dire che sarebbe falso definire il capitalismo come la sola produzione mercantile. Il capitalismo è anche mercantile, ma la definizione della produzione capitalista non è che essa sia produzione di merci, ma che è produzione di plusvalore, il che vuol dire produzione di capitale. La terza rubrica stabilisce che inoltre il capitalismo è la forma che produce e riproduce tutto il rapporto, ossia tutto il rapporto sociale, di uomini e di classi, che caratterizza l’epoca capitalista.
Una conclusione importante è che molti processi storici si possono indicare sotto la definizione generale di processi immediati di produzione in cui il prodotto esca senza altre mediazioni dalla mano dell’uomo che lavora.
Il capitalismo è uno tra i tanti processi immediati di produzione, e specificamente quello che produce plusvalore, ossia produce altro capitale, ossia produce (fino alla morte violenta che si chiama rivoluzione) altro capitalismo.
Il Primo Libro tratterà la produzione, non delle merci bensì del capitale. Il Secondo la circolazione, non delle merci bensì del capitale. Il Terzo tutto il processo della produzione capitalistica, nel suo insieme, sociale e storico.
Tale il piano de “Il Capitale”, opera più che umana, prodotto non di individuo specifico, ma della specie stessa, come Carlo Marx primo seppe ed intese.
I – La produzione capitalista come produzione di plusvalore
A) DEFINIZIONE DELLA PRODUZIONE MERCANTILE SEMPLICE E DELLA PRODUZIONE
SPECIFICAMENTE CAPITALISTA
Le merci e il danaro esistono storicamente prima che si possa parlare di capitale e di società capitalista.
Tuttavia il capitale moderno si presenta sotto le sue forme elementari di merce e di denaro; e il capitalista moderno assume il carattere di possessore di merce e possessore di denaro, sebbene entrambi questi tipi sociali abbiano preceduto i capitalisti. Si tratta di vedere quali determinate condizioni trasformano la merce e il denaro in capitale, e quindi i possessori di essi in capitalisti.
All’origine il capitale si presenta come denaro destinato a trasformarsi in capitale: quel danaro è capitale solo in modo potenziale.
La condizione perché la somma di danaro possa divenire capitale è quella di un rapporto sociale che le permetta di accrescersi, di avere incremento, in modo che la somma di denaro si presenti come un fluens ed il suo incremento come una fluxio. La natura specifica del capitalismo si manifesta, rispetto ad altre formule semplici di produzione di merci (ad esempio un artigiano individuale o familiare che va al consumo prima col baratto, e più oltre con lo scambio monetario), col fatto che se il capitale iniziale è una somma di valori eguale ad x, questa x tende a divenire e diviene capitale per il fatto che si trasforma in x + △x.
L’aritmetica è il calcolo coi numeri finiti. L’algebra è un calcolo con cui una lettera rappresenta un numero finito. Nel calcolo delle variazioni o delle differenze finite si considerano piccoli incrementi, tuttavia finiti, che si indicano con la lettera greca △. Se la mia età è a anni, ad un nostro prossimo incontro non avrò più l’età a ma l’età a + △a. Marx non impiega il calcolo infinitesimale che pur conosceva, e nella edizione definitiva dei suoi testi, ammorbato da mille idioti che lo accusavano di essere difficile e teorico (dimenticando che i suoi testi sono lo squillo di battaglia con cui la classe degli ignoranti sterminerà quella dei sapienti usando i suoi possenti muscoli, e solo così libererà i suoi cervelli) si decide a presentare solo calcoli aritmetici e monetari, che essendo molto più lunghi nello sviluppo e nella esposizione preoccupano e forse spaventano il lettore.
Questo manoscritto non destinato al pubblico è non solo di enorme interesse, ma di eccezionale potenza. Chiusa la digressione.
Il fenomeno di x che diventa x+ △x non esiste solo nella forma storica capitalista, ma anche in altre forme storiche precedenti come la schiavitù e la servitù della gleba.
Tuttavia il fenomeno strepitoso non potrebbe succedere in una società i cui membri si incontrino solo in quanto persone e come possessori di merci semplici ossia di oggetti fisici, suscettibili di essere utili all’uomo e di avere quindi un valore di uso, e suscettibili anche di avere, restando fisici oggetti materiali, un valore di scambio.
All’inizio del processo una somma di danaro che di per sé stessa (come quando chiusa nel forziere dell’usuraio) è costante, evidentemente non può avere incrementi. Questo concetto del tutto pratico è comprensibile per chiunque anche incolto e si esprime in matematica con la tesi che l’incremento di ogni costante è zero. Ma se questa x cessa di essere costante, perché figlia un △x che, non più zero, deve essere diventato una grandezza variabile; e quindi nel linguaggio dei matematici si esprime come la funzione di una grandezza variabile, nel senso che anche il valore della funzione è un valore variabile dipendente dal variare della variabile indipendente, Marx si pone alla ricerca di questa funzione. Egli scopre che una parte del valore di x, una parte sola, non tutto, si deve cambiare in un determinato valore d’uso, abbandonando la forma monetaria, perché sappiamo, e lo sa ogni fedel minchione pari nostro, che finché questa forma non è abbandonata non figlia nessun incremento.
Se il capitale iniziale era una somma di valori uguale a x, il suo incremento △x può prendere il nome di plusvalore che significa appunto incremento di valore. Il processo particolare che questo consente è quello in cui la produzione di plusvalore, che implica la conservazione dell’x primitivamente esistente, appare come lo scopo determinante del processo di produzione.
Marx chiamò con la lettera c quella parte del capitale che non genera incremento, e con la lettera v quella che lo genera: capitale costante e capitale variabile. Quindi il capitale iniziale si esprime
x = c + v
Ora, l’incremento di X, per logica intuitiva, come in un teorema di analisi differenziale, è la somma delle variazioni dei due addendi in cui è stato scomposto. Sarà quindi
△x = △c + △ve quindi:
x + △x = c + v + △ c + △ v
Ma abbiamo detto che c è costante e il suo incremento è zero. Quindi si ha la formula semplicissima di:
△x = △(c + v) = △c + △v = △v dato che △c = 0.
In altri termini:
△x = △v
Il rapporto fra questo incremento del valore primitivo x, che abbiamo chiamato plusvalore, e il capitale variabile è:
△v | |
v |
Ossia il plusvalore diviso il capitale variabile: è la formula del tasso del plusvalore.
Invece la proporzione nella quale è aumentato il capitale anticipato e iniziale x= c + v, e che si scriverà:
△v | |
c + v |
Quando tutto il valore alla fine del ciclo di lavoro materiale ha preso di nuovo la forma di merce, che andrà sul mercato, per essere trasformata ancora in denaro, la formula che rappresenta bene tutto il ciclo è quella che abbiamo data nel nostro ABACO dell’Economia Marxista, indicando con k il capitale iniziale e con k’ il capitale finale del ciclo, tutto rappresentato da merci vendibili. Le formolette erano:
k = c + v
p è la lettera con cui indichiamo il plusvalore, ossia quello che abbiamo indicato sinora △x = △v
k’ = k + △k = k + p = c + v + p
In tale caso il tasso di plusvalore è dato da:
p | |
v |
Il tasso di profitto di un capitale in ciclo continuo può essere espresso:
p | |
c + v + p |
Il che in un bilancio di un’azienda capitalistica si esprime indicando il profitto netto come percentuale del “fatturato”, ossia del prodotto lordo totale della azienda stessa.
B) VALORE DI USO E VALORE DI SCAMBIO NEL PROCESSO DI PRODUZIONE CAPITALISTA
Le forme che il capitale assume in tutto il processo di produzione e circolazione e nei vari stadi del processo, possono essere duplici a seconda dei momenti: ossia di valore di uso e di valore di scambio.
Se noi consideriamo il processo di produzione nella fase che precede il prodotto, che ora è il risultato finale, dobbiamo dire che tutto il denaro anticipato è stato impiegato in acquisti sul mercato di valori che interessano la produzione.
Ma una prima distinzione si può fare tra i mezzi di produzione che sono oggetto del lavoro (materia prima) e mezzi di produzione che sono mezzi di lavoro (strumenti, materie ausiliarie, ecc.).
Un’altra distinzione sta tra le condizioni oggettive della produzione che possono essere le materie prime e gli strumenti di lavoro, e le condizioni soggettive che si ravvisano nella forza di lavoro che si manifesta utilmente.
A processo finito tutto apparirà come valore di uso dei prodotti finali, ma nel suo sviluppo solo alcuni elementi possono essere valori d’uso.
Un altro elemento è la facoltà di lavoro attivo (Marx all’inizio parlava di capacità o facoltà del lavoro; più modernamente parlò di forza di lavoro). È questa che cambia i mezzi di produzione in elementi materiali della propria attività, facendoli passare dalla loro forma primitiva di valori d’uso (materie prime trasformate, strumenti consumati) alla loro nuova forma di prodotti del lavoro, col proprio nuovo valore di uso e di scambio. Abbiamo una vera trasformazione fisico-chimica delle materie introdotte nel processo produttivo. Si tratta ora di darne l’interpretazione economica e sociale.
a) Processo di lavoro capitalista come valore d’uso
Gli economisti nostri avversari tendono a fare una grave confusione teorica per concludere che il processo di lavoro umano in generale, facendo astrazione da tutte le sue forme storiche, debba avvalersi di capitali in quanto tutti i suoi fattori indispensabili all’uso fisico sono stati acquistati come valori di scambio, per concludere quindi che il capitale ha qualcosa di eterno, inscritto nella natura stessa del lavoro umano.
Bisogna invece distinguere tutte le differenze specifiche che corrono fra gli elementi identici di tutti i processi di produzione.
Punto primo. Per quanto riguarda il capitale costante si può dire che esso è proprietà in senso assoluto del capitalista che lo ha acquistato al suo valore di mercato.
Tuttavia il suo valore monetario non avrebbe mai potuto agire come capitale se non fossero intervenuti gli altri fattori del processo. Di più, l’altra parte del danaro anticipato è servita a pagare gli operai, cioè a comprare della forza di lavoro, come è mostrato in altre parti dell’opera di Marx. Ma è qui che interviene la differenza specifica. La maniera di usare questa seconda parte dei fattori che il capitalista si è procurato con il suo danaro consiste appunto nel processo di lavoro, che è una funzione soggettiva dell’operaio e non del capitalista. Dunque sono state usate in modo ben diverso le parti del capitale in cui il danaro del capitalista è stato investito. La fusione di questi due valori d’uso è inseparabile da tutto il processo, ed è la sola che fa sì che il risultato finale sia maggiorato rispetto all’anticipazione. Quindi se è vero che vi è equilibrio di valori di scambio in tutti i valori d’uso che si acquistano sul mercato delle merci e in quello che si vede alla fine, la cosa va altrimenti per quella parte che noi chiamiamo variabile. Ed è qui che nasce tutto lo spareggio considerato in tutta la sua forma reale: il danaro dato dal capitalista agli operai, non rappresenta altro che il valore sul mercato dei mezzi di esistenza che entrano nel consumo individuale dell’operaio.
È quindi un volgare sofisma degli economisti borghesi che in tutto il processo non vi sia che trasformazione di identici valori di uso.
b) Processo di lavoro capitalista come valore di scambio
Il valore di scambio non rimane lo stesso dal principio alla fine ma aumenta della quantità detta plusvalore. Chiamiamo questo: processo di valorizzazione.
Per quanto riguarda la parte costante non sorgono difficoltà; sebbene sia da considerare che la utile attività del personale dell’azienda è la sola che garantisca il capitale costante da variazioni negative, con perdite di valore di scambio.
Il lavoro che è il fattore vivente del processo di valorizzazione è quello che introduce nel prodotto una quantità di valore addizionale ossia una quantità di lavoro superiore a quella che col salario è stata pagata.
È un rapporto sociale obbligatorio che costringe l’operaio ad accettare per garantire la sua esistenza un valore di scambio minore di quello che ha generato. Di qui le note deduzioni di Marx su la partizione della giornata di lavoro tra tempo socialmente necessario e tempo utilizzato dal capitalista, o tempo di sopralavoro.
c) Fattori oggettivi del processo di lavoro e di valorizzazione
Una distinzione fondamentale di Marx è quella tra lavoro vivente, che è erogato dai lavoratori nel processo di produzione, e lavoro oggettivato detto anche lavoro morto, che è quello contenuto nei prodotti acquistati dal capitalista sul mercato, e questi a pieno valore di scambio.
I mezzi di produzione che appaiono eminentemente come capitale non hanno che una sola funzione: aspirare la più grande quantità possibile di lavoro vivente. La forza di lavoro, che sola valorizza il capitale, ossia ne conserva il valore e gli crea un nuovo sopravalore, diventa forza del capitale; il che esprime il dominio di classe dei capitalisti sui lavoratori.
In ciò sta il processo di alienazione del suo lavoro e della sua stessa vita da parte del lavoratore. Tutto il processo reale di lavoro sociale è volto al solo scopo della massima possibile produzione di plusvalore, cioè del processo di oggettivazione del lavoro non pagato.
d) Unità del processo di lavoro e di valorizzazione capitalista
Il testo considera come inseparabili il processo di lavoro e il processo di valorizzazione. La teoria del valore di scambio di ogni merce dedotto solo dalla quantità di lavoro contenuto è ambigua e incompleta presso gli economisti, che non considerano il lavoro nella doppia forma di lavoro completo come si presenta nella merce, e di lavoro socialmente necessario, quale è calcolato nel valore d’uso.
e) Unione del lavoro morto e del lavoro vivo nel processo di lavoro
Gli economisti borghesi non hanno mai potuto risolvere il problema perché non hanno mai spinto l’analisi della mercanzia fino alla considerazione del lavoro sotto doppia forma, per conseguenza essi son condotti a definire il capitale attraverso il blocco dei prodotti del processo di produzione capitalista, come quando dicono: che cos’è il capitale? Esso è del cotone, perché interessa loro non distinguere quanta parte è lavoro morto trasformato in potenza della società capitalistica, e quanto è lavoro vivente sacrificato sotto il peso della oppressione di classe.
f) I prodotti del processo di produzione capitalista
Il risultato di tutto il processo di produzione capitalista non è né un semplice prodotto (valore d’uso), né una semplice mercanzia, ossia un prodotto che ha un valore di scambio: il suo prodotto specifico è il plusvalore: sono delle mercanzie che possiedono più valore di scambio di quello anticipato per produrle. Nel processo di produzione capitalista il processo di lavoro non è che un mezzo; il processo di valorizzazione o produzione di plusvalore è il vero scopo.
Talvolta l’economista borghese se ne ricorda, e definisce il capitale come ricchezza utilizzata nella produzione per “fare del profitto”.
C) PROCESSO DI CIRCOLAZIONE E DI PRODUZIONE DEL CAPITALE
a) Vendita e compera della forza lavoro sul mercato
Marx distingue sempre nel processo totale due sfere indipendenti e assolutamente differenti.
La prima sfera è quella della circolazione delle merci che si svolge sul mercato. In questa sfera del puro scambio resta compreso non solo l’acquisto di tutto quanto forma il capitale costante, ma anche la vendita finale del prodotto.
Ma in questa stessa prima sfera del mercato rientra anche un aspetto che riguarda il capitale variabile, ed è la compra e la vendita della forza lavoro, scambiata con il salario in danaro. Sino a questo punto il lavoro è trattato come una merce qualunque ed è pagato sul mercato che gli è proprio al corso dei salari.
La seconda sfera, del tutto indipendente, riguarda il consumo della forza di lavoro comprata. Marx la distingue come processo di produzione. Nel secondo fascicolo del nostro ABACO, abbiamo mostrate le formule che Marx usa nella prima sezione del 2° Volume del Capitale e abbiamo data una presentazione identica, ma solo più uniforme nei simboli, là dove Marx adotta la lettera P per definire non una grandezza, ma tutto questo che chiama processo di produzione; più precisamente si tratta del secondo stadio, mentre il primo e il terzo riguardano fenomeni di pura circolazione sul mercato, e i simboli di Marx non erano quelli ortodossi dell’algebra elementare. Su questo paragrafo dell’antica stesura inedita Marx ritorna un momento sulla fase puramente mercantile di compra vendita della forza lavoro, prima di qualunque inizio del particolare impiego di questa merce “stregata”. Prima di esso, capitalista e operaio si fronteggiano come ogni altra coppia di operatori sul mercato.
L’operazione rispetta il codice borghese e la dottrina economica borghese dello scambio tra equivalenti. Fino a questo momento una sola cosa distingue l’operaio da altri venditori di mercato ed è la natura specifica della merce venduta che compare solo nel suo specifico valore di uso.
Sino a questo momento l’operaio ha agito come ogni altro portatore proprietario di merci. Ma egli è condotto ad offrire sul mercato questa merce originale per il fatto di essere non-proprietario di qualunque altra merce o bene; e quindi tutte le condizioni del suo lavoro lo fronteggiano come una proprietà estranea.
Marx dà qui una distinzione interessante che ci serve per la nostra tradizionale tesi, socialpolitica, che il vero proletario rivoluzionario è il puro nullatenente, perché la sua forza di lavoro non vale e non serve a nulla se non si cercano le condizioni del suo impiego presso una serie di capitalisti che Marx chiama genialmente capitalisti n.1, n.2 e n.3.
Il capitalista n.1 è l’industriale che possedendo del danaro compra dei mezzi di produzione (materie, macchine) presso il capitalista n.2 che li possiede; mentre l’operaio, col suo salario ricevuto in denaro dal capitalista n.1, acquista le sue sussistenze presso il capitalista n.3.
Il fenomeno può essere complicato quanto si vuole, ma la sostanza è che i capitalisti 1, 2, 3 nel loro insieme sono i possessori esclusivi (monopolisti) del danaro, dei mezzi di produzione e delle sussistenze. Ciò fa sì che anche nel primo processo circolatorio, prima che il danaro del capitalista n.1, o le sue merci, siano state trasformate in capitale, è stato già loro impresso il carattere di capitale, in quanto che danaro, merci, mezzi di produzione e sussistenze sono potenze autonome che si schierano contro la sola, nuda, nullatenente capacità di lavoro, spogliata di ogni ricchezza materiale.
Queste potenze sono estranee all’operaio e sono esse, aspetti del capitale, che si presentano come feticci, dotati di propria volontà ed anima. In breve, nella frase geniale di Marx, sono queste merci, animate da un demone, che figurano compratrici delle persone umane e fanno del salariato un autentico schiavo che vende sé stesso.
È vero che l’operaio liberamente sceglie, compra e consuma i suoi mezzi di sussistenza, ma se non lo facesse la sua capacità di lavoro sarebbe presto rivolta a zero e gli toglierebbe l’ultima possibilità che è quella di vendere sé stesso.
Se l’operaio non vendesse la sua forza lavoro per vivere, la ricchezza materiale non potrebbe trasformarsi in capitale. È solo per rapporto al lavoro salariato che diventano capitale tutti gli oggetti, che rappresentano le condizioni oggettive del lavoro (mezzi di produzione e di sussistenza). Senza salariato non vi è produzione di plusvalore. Se gli individui si fronteggiassero come persone libere, non vi sarebbe produzione di plusvalore, né produzione capitalistica.
Noi ne abbiamo dedotto, a proposito della Russia moderna, che quando vi è salariato e moneta, ivi è plusvalore e capitalismo.
b) Forza di lavoro di fronte agli altri elementi nel processo di produzione immediata
Marx intende per processo di produzione immediato quello che mette in catena i rapporti fisici e le operazioni materiali per passare dai mezzi di produzione al prodotto, prima di considerare gli intermediari, dati dalle istituzioni sociali, e dai rapporti di classe.
Potremmo avere una catena di rapporti sociali aderenti al processo materiale di lavoro, se ciascun operaio, in proporzione della sua capacità o forza di lavoro, avesse messa a disposizione della società la quantità adeguata di materie prime e di strumenti di lavoro, senza doverne patteggiare la richiesta con alcuno.
Un processo immediato potrebbe aversi anche in una società di lavoratori autonomi (artigiani), ognuno dei quali possedesse una cellula di luogo di lavoro e potesse procurarsi le frazioni di materie prime, semilavorati ed utensili presso altri liberi artigiani. Ma questa unione, naturale nelle società primitive, è abolita e spezzata nella società capitalistica. Marx dice, parafrasando un passo che apparirà nel I Libro del Capitale: «La pelle che l’operaio concia (nella primitiva bottega) egli non la tratta come capitale, ma come semplice oggetto fisico della sua attività produttiva. Non è dunque al capitalista (purtroppo – vuol dire Marx) che egli concia la pelle!».
È quando Marx ce lo mostrerà che entra nell’ergastolo della fabbrica capitalista che egli esclamerà: Non ha altro da attendersi che essere conciato.
Se il processo di produzione non fosse che processo di lavoro, l’operaio vi consumerebbe i mezzi di produzione come semplici alimenti del lavoro. Ma tutto cambia quando il processo di produzione è diventato anche processo di valorizzazione; allora – dice Marx – il capitalista vi consuma forza di lavoro dell’operaio appropriandosi lavoro vivente come sangue vitale del capitale. Le materie prime non servono che a comprare lavoro altrui; lo strumento di lavoro non è che il conduttore di questo processo di succhiamento, ed abbiamo qui l’altra grande frase che il capitale è divenuto un mostro animato e si mette ad agire “come se egli avesse l’amore nel suo corpo”.
c) Creazione di maggior valore (processo di produzione) contro minor valore (nel processo di circolazione)
Il testo a questo punto prende a considerare il processo di produzione vero e proprio quale si inserisce tra i precedenti e i seguenti periodi di circolazione, in cui tutto si svolge sul mercato, ivi compreso, lo ripetiamo ancora una volta, il rapporto tra capitalista e operaio in quanto compra-vendita della forza-lavoro. Finite queste contrattazioni ed entrando nel vero processo di produzione, considerato non più come immediato, ossia come semplice catena di attività trasformatrici fisiche, ma come processo di produzione specificamente capitalistico e collocato nel periodo storico del capitalismo, Marx rileva che il lavoro è divenuto: 1° - lavoro oggettivato, cioè del capitale, in quanto il lavoro dei precedenti attori storici esiste ormai solo come tale; 2° - per effetto dello stesso assorbimento di appropriazione del lavoro come attività umana, il valore anticipato (salario – capitale variabile) diventa valore in processo, ossia valore che crea del plusvalore distinto da sé. È soltanto perché il lavoro si trasforma in capitale durante il processo di produzione che la somma dei valori anticipati (come danaro o come merci, e per lo stesso capitale costante), che era prima capitale solo potenziale, si realizza come capitale reale.
La produzione delle merci (che era lo scopo del processo di lavoro immediato) non è più lo scopo della produzione capitalistica, e non appare che come un mezzo per raggiungere questo scopo di valorizzare il capitale, ossia di formare il plusvalore.
Quando è avvenuto lo scambio (anch’esso tra equivalenti) tra capitale variabile e forza di lavoro, è stata posta la sola premessa che poteva condurre alla valorizzazione del capitale. Non esiste, dunque, una autovalorizzazione del capitale totale (del danaro, della merce), ma la valorizzazione è effetto del solo lavoro, ossia del vero e proprio processo di consumo della forza-lavoro che il capitale ha acquistato.
Abbiamo quindi avuti due stadi: 1° - lo scambio della forza di lavoro con il capitale variabile; 2° - l’effettivo processo di produzione in cui il vivente lavoro è incorporato come agente al capitale.
I mezzi di produzione (materie prime, utensili, ecc.) rivestono qui la forma non soltanto di mezzi di realizzazione del lavoro (il che è sempre vero), ma parimenti di sfruttamento del lavoro altrui.
D) STORIA – LE DUE FASI DELLO SVILUPPO SOCIALE DELLA PRODUZIONE CAPITALISTICA
a) Sottomissione formale del lavoro al capitale
Essendo, come è mostrato, il processo fisico di lavoro divenuto il mezzo del processo di valorizzazione del capitale – della fabbricazione di plusvalore – esso processo di lavoro è sottomesso al capitale, ed il capitalista entra in questo processo anche come dirigente e capo. Marx dichiara che ciò è quello che egli chiama sottomissione formale del lavoro al capitale, forma generale di ogni processo di produzione capitalistico, ma il capitalismo storicamente si sviluppa in modo di produzione specificamente capitalistico.
Quando il contadino, un tempo indipendente e producente per sé stesso, diviene un giornaliero che lavora per un affittuario, oppure quando sparisce la gerarchia regnante nel modo di produzione delle corporazioni per cedere il posto al semplice antagonismo di un capitalista che fa lavorare per sé l’artigiano divenuto salariato; quando l’antico schiavista comincia a impiegare i suoi antichi schiavi come salariati, etc., questi diversi modi sociali di produzione sono trasformati nel processo di produzione del capitale.
Il capitalista prende il posto degli antichi capi gerarchici del lavoro, si preoccupa della qualità, della intensità, della continuità di esso.
È apparsa la mistificazione immanente al rapporto capitalistico. La forza di lavoro, che sola conserva i valori, appare come forza dell’autoconservazione del capitale: insomma sembra che sia il lavoro oggettivato che utilizza il lavoro vivente per una facoltà insita nel primo.
In un primo periodo storico il capitale si sottomette i procedimenti di lavoro che trova senza mutarli: il processo reale di lavoro non cambia ancora ma vi è già introdotta la dominazione del capitale e la sostituzione della produzione di molto profitto al semplice scopo di produrre molte merci. Per Marx il modo di produzione specificamente capitalistico (lavoro a grande scala, concentramento delle aziende, etc.) si sviluppa quando la produzione capitalistica ha progredito e rivoluziona non solo i rapporti sociali tra i diversi agenti della produzione, ma la stessa forma del lavoro e il modo reale e fisico di tutto il suo processo. L’espressione sottomissione formale indica la fase in cui il capitalismo si è soltanto sottomessi, senza ancora innovarli radicalmente, i processi di lavoro che ha trovati.
In questa fase, che è quella iniziale del capitalismo, vi è un solo mezzo di aumentare la produzione di plusvalore, ed è quello del prolungamento della durata del lavoro. Si tratta del plusvalore assoluto e questa distinzione teorica di Marx ci è servita per stabilire la dottrina del più rapido incremento produttivo presso i capitalismi più giovani e avidi di sfruttamento.
b) sottomissione reale
del lavoro al capitale o il modo di produzione specificamente capitalistico
Marx qui si riferisce alla sezione IV del Tomo I del Capitale, in cui aveva trattato della produzione del plusvalore relativo, intendendo che solo con questo sorgesse un modo di produzione specificamente capitalistico (anche tecnologicamente). Marx si riferisce anche alla introduzione della macchina a vapore nell’industria, specie di quella tessile in Inghilterra, anche se qui non è detto. Noi oggi possiamo aggiungere che restiamo nel modo e nel tempo specificamente capitalistico anche con le tecnologie dell’elettricità, della energia nucleare e della automazione.
Il passaggio storico indicato da Marx è del più alto significato perché le forze produttive del lavoro nel capitalismo sviluppato, grazie alla cooperazione (che presso Marx significa lavoro di grandi masse di operai nella medesima azienda), alla divisione del lavoro internamente alla officina, allo impiego del macchinismo e in generale alla trasformazione del processo di produzione con l’impiego cosciente delle scienze naturali, della meccanica, della chimica, formano tutto ciò che ci permette di dire che il capitalismo, oltre ad essersi impossessato dei tipi di lavoro individuali, o di piccoli gruppi, ha dovuto per la forza ineluttabile del determinismo rendere sociali le grandi forze di produzione.
Questo risultato, che contiene già la vittoria del comunismo, sta già di un secolo dietro di noi.
La grande mistificazione è che tutto ciò si presenta come forza produttiva del capitale e non del lavoro. Ciò non è cambiato da quando esistono le Repubbliche Fondate sul Lavoro, e, sebbene Marx dica che sarebbe inesatto parlare di forza produttiva sia dei lavoratori isolati che di quelli combinati, o anche di forza produttiva del lavoro, perché questa (fino a che il regime borghese è in piedi) non è che identica al capitale.
Il concetto di Marx sul borghese “progresso” si può derivare da questa tesi: «questa mistificazione, che esiste in generale nel rapporto capitalistico, si svilupperà oggi molto più che non potesse farlo con la semplice sottomissione formale del lavoro». Marx ricorda di avere dimostrato che nella realtà ciò che è sociale nel suo lavoro si leva di fronte all’operaio come forza straniera, e, peggio ancora, nemica e antagonistica, perché questo elemento sociale è oggettivato e personificato nel capitale.
c) Note complementari alla sottomissione formale del lavoro al capitale
Prima di continuare l’analisi della sottomissione reale del lavoro, che è la più completa e moderna, Marx dedica questo capitolo ad alcune osservazioni sulla sottomissione formale, con le quali ribadisce i punti trattati nelle pagine precedenti. Si tratta di confronti cui già ci siamo riferiti con l’artigiano, il contadino, il servo della gleba e lo schiavo, forme che possono essere già in principio definite anche quando si considera la prima fase con cui il capitale sottomise a sé le antiche forme di lavoro che nell’avvenire avrebbe rivoluzionate.
d) Sottomissione reale del lavoro al capitale
Marx cita il Manifesto del ’48 in cui era già detto che con la sottomissione completa e reale del lavoro al capitale si era prodotta una rivoluzione nel modo di produzione, nella produttività del lavoro e nei rapporti tra capitalista e operaio. Questo svolto conferma che più il capitalismo evolve, più noi lo combattiamo. Il padrone delle ferriere della letteratura era per i suoi pochi operai un buon maestro e perfino un amico e un padre che aveva diviso con loro i primi vantaggi di un sistema più moderno di lavoro. Nella fase ulteriore l’immensa corporazione, e perfino lo Stato capitalistico, personificano il mostro che ha disumanizzato il lavoratore e l’intera società.
Con la sottomissione reale la produzione capitalistica si assoggetta tutti i rami di produzione che non poteva controllare con la sola sottomissione formale (industria agricola, mineraria, delle confezioni tessili, etc.). Certo, già con la sottomissione formale trionfava la consegna “produzione per la produzione” al posto di quella “produzione per i consumi vitali”. Ma il fenomeno è completo con la sottomissione reale, il plusvalore relativo e il modo di produzione specificamente capitalistico.
A questo punto Marx indica i caratteri contraddittori della produzione capitalistica, la sua anarchia, il suo carattere negativo, per cui la produzione si oppone ai produttori e non si prende alcuna cura di essi.
E) LAVORO PRODUTTIVO E IMPRODUTTIVO
Sarebbe molto interessante sviluppare questo efficace capitolo di Marx, conducendolo sulle stesse basi fino ai tempi modernissimi, nei quali le critiche di Marx ai criteri borghesi di indicare quali lavori siano improduttivi o produttivi resterebbero largamente confermate.
Il primo rilievo è che in un processo immediato di lavoro è produttivo ogni lavoro che si realizza in un prodotto e anche in una merce se pensiamo alle forme mercantili, ma pre-capitalistiche; in un senso ancora più lato chiunque si fabbrica un oggetto, quindi dotato d’un valore d’uso, anche se non lo scambierà mai, avrà fatto un lavoro produttivo.
Giungendo al modo capitalistico, poiché noi lo definiamo come produzione di plusvalore, e in sostanza come produzione di capitale, dovremmo dire improduttivo ogni lavoro che non viene ad incrementare la massa del plusvalore. Diremo quindi produttivo l’operaio secondo il lavoro che effettua e sarà veramente produttivo ogni lavoro che crea del plusvalore, ossia che valorizza del capitale.
Ma il limitato spirito borghese non riconosce questo principio, sebbene vi si siano avvicinati gli economisti classici, e dato che considera naturale ed eterna la forma capitalistica e il lavoro salariato, considera produttivo ogni lavoro pagato. Marx considera che ai suoi tempi tutte le attività tendono a divenire salariate o stipendiate e tutti quelli che prima si dicevano servizi si trasformano in attività salariate. In questo senso non si potrà più dire che il lavoro dei domestici sia improduttivo, etc.
Nell’ultimo stadio anche la società presente conferma quello che sapeva il vecchio Aristotele, cioè che chiunque si disturba e si dimena ha come proprio scopo il fare dei soldi.
Anche nella moderna America non ci domandiamo se un soggetto collabora alla produzione di certe merci socialmente utili, ma se ha trovato il proprio job. Purché si riesca a fare entrare dei soldi nel proprio bilancio personale nessuno si domanda se la sua attività o il suo tempo di occupazione concorrano a produrre qualche cosa.
Marx ricorda, scherzando, che se tutti sono salariati, secondo lo spirito borghese, tutti fanno lavoro produttivo: dalla puttana al re.
Tratta i famosi esempi del “paradiso perduto” di Milton e della prima-donna che è un uccello canoro. Ma anche questa se fa guadagnare l’impresario, produce direttamente del capitale, etc.
Secondo Malthus, era lavoratore produttivo quello che aumentava direttamente la ricchezza del suo padrone. Marx ironizza ferocemente i teorici della borghesia, che considerano i capitalisti, dato che mangiano plusvalore creato da altri, la classe produttiva per eccellenza. In conclusione, per noi la definizione di lavoro produttivo è quella di lavoro che produce plusvalore, fin quando siamo in una società capitalistica.
F) PRODOTTO LORDO E PRODOTTO NETTO
Poiché lo scopo della produzione capitalistica (e quindi del lavoro produttivo) non è la esistenza dei produttori, ma la produzione del plusvalore, ogni lavoro necessario che non produca sopra lavoro è superfluo e senza valore per la produzione capitalistica.
Lo stesso vale per una nazione capitalista. Ogni prodotto lordo che non riproduce che l’operaio, ossia non crea prodotto netto (sovraprodotto) è tanto superfluo quanto lo stesso operaio. In altri termini, non occorre se non il numero di uomini che nella nazione è profittevole per il capitale.
Marx dimostra questo apparente paradosso con citazioni di Ricardo e di Young e rileva che la stessa filantropia nulla trova da obiettare alle tesi di Ricardo che è meglio se a produrre i mezzi di sussistenza bastano cinque milioni di uomini anziché sette milioni.
Quindi, lo scopo della produzione capitalistica è il prodotto netto, di cui la forma concreta è il sopraprodotto che diviene sopravalore.
Il capitalismo, quindi, rinnega la politica economica di forme antiche che si preoccupava di tutelare il pane per i lavoratori, e la politica protezionistica per il capitale nazionale che lotta contro la concorrenza straniera. La conclusione di questi confronti storici è la seguente:
«La legge della produzione capitalistica è di aumentare il capitale costante in opposizione al capitale variabile; e di aumentare il plusvalore, il prodotto netto; in secondo luogo di aumentare il prodotto netto in rapporto alla parte del prodotto che sostituisce il capitale, cioè il salario. Queste due cose vengono confuse. Se si chiama prodotto lordo l’intero prodotto, allora nella produzione capitalistica esso aumenta in confronto al prodotto netto; se si chiama prodotto netto la parte del prodotto totale risolvibile in salario e prodotto netto, questa quantità aumenta in rapporto al prodotto lordo. Solo nell’agricoltura (mediante trasformazione di arativi in pascoli, etc.) il prodotto netto aumenta spesso a spese del prodotto lordo (cioè della massa totale dei prodotti), a causa di certe caratteristiche proprie della rendita, che non entrano nel nostro tema attuale.
«D’altra parte la teoria del prodotto netto, come scopo massimo e fine ultimo della produzione, non è che l’espressione brutale, ma giusta, del fatto che la valorizzazione del capitale, ossia la creazione di plusvalore, senza alcun riguardo per il lavoratore, è l’anima che muove tutta la produzione capitalistica. Parallelamente all’aumento relativo del prodotto netto, l’ideale supremo della produzione capitalistica è diminuire quanto possibile il numero di quelli che vivono di salario, e di aumentare quanto più possibile il numero di quelli che vivono di reddito netto».
Per chiarire questo passo fondamentale bisogna definire bene le grandezze adoperate, rilevando come Marx sin da un secolo addietro aveva già intuito le più moderne falsificazioni che introducono gli economisti ufficiali sfruttando anche quanto sono riusciti ad afferrare della nostra terminologia marxista. Marx indica infatti che l’equivoco sorge nel definire il prodotto netto. Non vi è dubbio che per prodotto lordo si intende tutto l’insieme di quanto risulta dalla produzione sia di una azienda che di una nazione intera. I borghesi nello smistare il prodotto lordo, distinguono due sole parti: una è il totale capitale anticipato nella produzione, l’altra è il profitto realizzato in questa, che si suole chiamare in ciascuna impresa reddito netto. Si avrebbe allora: prodotto lordo = capitale anticipato + reddito netto. L’espressione prodotto netto che vuol dire parte netta del prodotto, sarebbe identica alla espressione reddito netto.
Da quando noi marxisti esistiamo, abbiamo fondamentalmente resa ternaria la partizione binaria, in quanto abbiamo diviso l’anticipazione tra capitale costante e capitale variabile. Consideriamo, quindi, che il prodotto lordo è dato da capitale costante, capitale variabile e profitto netto (nel nostro linguaggio plusvalore).
Il doppio giuoco consiste in questo. Se il prodotto netto è, come nella spiegazione tradizionale, il reddito netto, allora nel corso della produzione capitalistica il rapporto di esso al prodotto lordo va diminuendo (nostra legge della diminuzione del saggio di profitto). Quando Stalin non credette a questa legge, noi gli rispondemmo che storicamente il prodotto lordo capitalistico nella sua massa aumenta grandemente, ma anche la massa di tutto il profitto netto aumenta, sia pure con velocità minore, e non occorreva che il preteso pontefice dei “comunisti”, per far dispetto ai capitalisti, rimangiasse la legge di Marx sulla discesa del tasso, che è sacrosanta.
Ma oggi, per dare successo alla democrazia, alla demagogia e alla ipocrisia che sono pari in Occidente e in Oriente, si finge di accorgersi della partizione ternaria di Marx, e si dice: il prodotto netto non è il reddito netto, esso è tutto il prodotto quando se ne sottragga non tutto l’anticipato ma il solo capitale costante, dato che questo resta sempre pari sul capitale nazionale.
In questa forma capziosa, qui stritolata dal genio profetico di Marx, si chiama reddito nazionale la somma del reddito netto + il capitale variabile. Ciò che azienda per azienda si definisce come valore aggiunto dal lavoro nel corso della produzione. Questa conquista si considera retaggio comune della classe imprenditrice e della classe lavoratrice, ed anzi se ne calcola il reddito pro-capite riferito all’abitante senza chiedersi quanta parte della popolazione sia nella classe dominante e quanta nella classe sfruttata.
In questa seconda interpretazione, questo falso prodotto netto, risolvibile, come dice il testo, in salari e profitti netti, aumenta molto di più del profitto puro e può anche aumentare in rapporto maggiore del prodotto lordo.
Chiave di volta della curva di sviluppo del capitalismo è la composizione organica del capitale, ossia il rapporto della sua parte costante alla sua parte variabile. Con i vantati progressi tecnologici, cresce la produttività del lavoro e cresce questo rapporto. La mistificazione capitalistica, cui è dedicato il capitolo successivo, tende a fare dimenticare che la famosa massa del lavoro oggettivato nel capitale costante forma la base della potenza della classe capitalistica contro il lavoro vivente dei salariati, già insidiato dalla paurosa falcidia del plusvalore, il cui saggio non decresce storicamente come quello del profitto, e solo la beota ignoranza del mondo contemporaneo può inscriverla a bilancio nel patrimonio comune a tutta la società nazionale e mondiale.
G) MISTIFICAZIONE DEL CAPITALE, ETC.
È evidente anche al semplice buon senso che tutte le forze produttive appartengono al lavoro e quindi alla classe che lavora, ma il congegno della presente società e il peso delle idee tradizionali che la infestano induce a credere vanamente che le forze produttive siano proprietà inerenti al capitale. Per conseguenza il moderno carattere sociale della grande produzione, sociale, col suo favoloso rendimento che ha eclissato quello delle più povere forme passate, viene attribuito a una potenza del capitale anziché alla potenza collettiva del lavoro umano. Il capitalismo tenta di farsi un merito della diminuzione storica dei prezzi degli articoli manufatti derivanti dal lavoro associato, per dirsi padrone di quanto è stato risparmiato, e agitare il suo grande mito dei diminuiti costi di produzione. Con questo e altri inganni vuole fare dimenticare che rispetto agli antichi regimi esso ha prodotto il crudo rincaro dei mezzi di sussistenza primordiali e trasformata la grande maggioranza dell’umanità in una massa affamata. Mentre la ristretta minoranza dei popoli privilegiati e delle stesse loro classi alte vive nella minaccia paurosa delle guerre, delle catastrofiche crisi, delle inflazioni e della penuria generale.
Marx chiude questo capitolo sulla gigantesca mistificazione degli apologisti del
capitale con alcune citazioni borghesi classiche, le quali, mostrando di
riconoscere che il lavoro è la fonte di tutte le ricchezze, attribuiscono il
merito del progresso ai capitalisti industriali che vivono di profitto perché
essi soli danno una utile direzione al lavoro attuale, facendo il migliore uso
del lavoro accumulato; e aprono così il paradiso a quelli che non recano alcuna
parte né al lavoro dei vivi né a quello dei morti.
La parte di questo rapporto data nel nostro precedente nr.5, secondo le indicazioni della premessa che Marx dà alla pagina 441 del suo originale manoscritto, è proprio quella che riguarda la prima rubrica che Marx annunziava sarebbe divenuta la Terza nella stesura destinata alle stampe. Ha preso per noi qui il numero d’ordine I ed è stata intitolata “La produzione capitalista come produzione di plusvalore”, titolo datole da Marx stesso, mentre lo svolgimento occupa le pagine con i numeri originali da 459 a 469 notando che la 469 si compone di molti fogli con le lettere dell’alfabeto fino ad h oltre a comprendere un inserto che sta nel manoscritto al n. 263, mentre sembra il n. 262 sia andato perduto. Questa prima parte secondo il nostro ordine ha compreso i capitali: A) Definizione della produzione mercantile semplice e della produzione specificamente capitalista; B) Valore di uso e valore di scambio nel processo di produzione capitalista; C) Processo di circolazione e di produzione del capitale; D) Storia: Le due fasi dello sviluppo sociale della produzione capitalista; E) Lavoro produttivo e improduttivo; F) Prodotto lordo e prodotto netto; G) Mistificazione del capitale nei suoi apologisti.
Nella riunione, per illustrare i concetti fondamentali su prodotto lordo e prodotto netto a titolo esemplificativo, fu svolto il piccolo rapporto intercalare che diamo qui subito. In seguito dobbiamo trattare la parte II del testo di Marx che tratta: La produzione capitalista come produzione e riproduzione del rapporto di produzione specificamente capitalista. Ne daremo un cenno breve, e così anche della parte III intitolata: Merci come prodotti del capitale.
Piccolo rapporto intercalare
Allo scopo di meglio chiarire i concetti fondamentali sul prodotto lordo e il prodotto netto, e la radicale contrapposizione tra le vedute dei borghesi e quella di noi marxisti, due compagni, uno di Marsiglia e uno di Napoli, ebbero incaricato di illustrare un esempio pratico.
Tra i dati della rivista americana “Fortune”, utilizzati in altro studio degli stessi compagni di cui s’è precedentemente riferito nel rapporto di questa stessa riunione a proposito del corso delle economie occidentali, fu prescelta l’azienda più importante, ossia la colossale General Motors, unione delle più grandi fabbriche di automobili americane che ha filiali in tutto il mondo.
Il totale delle sales, ossia vendite, e, in termine italiano tecnico, fatturato, fu nel 1964 di 17 miliardi di dollari, unità di cui ci serviamo nel seguito. Tale grandezza nel senso marxista misura il capitale, che indichiamo con la lettera k. Nei dati di cui ci serviamo il capitale dell’azienda ha due altre forme, gli assets, che vale il nostro attivo patrimoniale, ossia il valore dato in bilancio alle proprietà e impianti sociali, ed è minore, ossia di soli miliardi 11,2. Figura inoltre l’invested capital ossia il capitale azionario ancora minore che è di miliardi 7,6, e considerato dai borghesi debito della Compagnia verso i suoi azionisti, ed esprime la cifra che posseggono i “padroni” di tutta la General Motors. Abbiamo la notizia che gli utili netti, ossia, dopo pagate le tasse, furono nel 1964 miliardi 1,78. La cifra distribuita agli azionisti come dividendi non è data, ma ha dovuto essere di circa miliardi 1,3 come da cifre del 1965 trovate altrove. La differenza vale capitale portato a nuovo investimento tratto dagli utili del passato esercizio, e che riesce molto maggiore quando si emettono nuove azioni e si contraggono debiti con le banche.
La tabella non ci dà la cifra delle tasse e quindi quella dell’utile lordo, ma dai dati ora citati del 1965 possiamo presumerla in miliardi 1,78, e l’utile lordo diventa di miliardi 3,515. A questo punto se ci domandiamo quale è il tasso del profitto sulla cifra del fatturato, esso risulta del 10,2% se consideriamo il netto e se consideriamo il lordo di ben il 20,7%. L’altezza eccezionale di questo tasso esprime un momento particolarmente propizio per il capitalismo americano e per la sua più florida azienda. Se chiamiamo p il profitto, e t le tasse, sarà p + t l’utile lordo. La parte di capitale che nel nostro linguaggio marxista è detta plusvalore deve essere considerata p o p + t? Sfioriamo questa difficile questione ricordando che Marx nella critica al “Programma di Gotha” chiarisce che anche recuperando tutto il lavoro non pagato, un’economia collettiva dovrebbe sempre accantonare una certa parte per spese generali pubbliche. Queste sono oggi coperte dalle tasse statali e ogni economista conformista dirà subito che si spendono anche a vantaggio dei proletari. Ma per noi lo Stato non è interclassista ma di classe, e quanto va nelle sue grinfie serve per la sporca politica del capitale, tipo guerra nel Vietnam. Per noi dunque tutto il plusvalore ed il profitto di classe sarà miliardi 3,515.
Cercando ora il capitale variabile, ossia la sfera salari, abbiamo in tabella solo la cifra dei dipendenti che fu di 661.000. La statistica americana in cui frughiamo da anni non distingue mai fra salariati e altri stipendiati, ossia tra vittime e manutengoli prezzolati dal capitale. Alla riunione presumemmo che ognuno guadagnasse 100 dollari la settimana e 5200 dollari all’anno. Ma le notizie 1965 ci inducono ad alzare tale cifra a 6500 dollari, rinunziando per ora a smistare tra wages (salari) e salaries (stipendi).
Ne segue una spesa per il personale di miliardi 4,3, che assumiamo per il vostro v, ossia capitale variabile.
Di tutto il capitale abbiamo dedotto il plusvalore (profitto lordo) di 3,515, deduciamo ancora il variabile di 4,3 e resterà la cifra del capitale costante, che risulta miliardi 9,185.
c + v + p = 9,185 + 4,3 + 3,515 = 17 = capitale totale.
Il saggio del plusvalore, nella fatta considerazione dell’utile lordo e non netto, risulta l’82,6%. Se avessimo escluso le tasse, ammettendo che siano un regalo al proletariato come farebbe ogni buon comunista del partitone, scenderebbe al 40% soltanto.
La composizione organica, ossia il rapporto tra il capitale costante e variabile, risulta molto modesta, ossia vale 2,2. Sarebbe certamente più alta se dal capitale variabile potessimo smistare il valore degli alti stipendi. Possiamo ora venire al problema che interessava la riunione.
Il prodotto lordo della General Motors nell’anno 1964 è stato di 17 miliardi di dollari. Quale il prodotto netto? In una considerazione di classe è quanto è rimasto ai capitalisti dopo avere recuperato tutte le spese anticipate e quindi miliardi 1,78 e aggiungendo le tasse (come è giusto) miliardi 3,515.
Il trucco dei borghesi è di chiamare prodotto netto non il profitto dei capitalisti, ma tutto ciò che l’attività produttiva sociale ha realizzato passando da un capitale costante (materie prime, logorio macchine, etc.) di miliardi 9,185 ad un valore lordo di 17 miliardi, e quindi la somma p + v di 7,815 miliardi, che naturalmente è molto più considerevole. Nella ipocrisia dei moderni programmatori questa somma si chiama “valore aggiunto nella produzione” ed è considerata un bene comune degli alti profittatori e degli operai affamati, e su una grandezza di tal genere si costruisce la menzogna del reddito nazionale e peggio ancora quella del reddito pro-capite.
San Bernardo o un altro santo che sia incontrò il diavolo truccato da buon viandante che gli propose di fare strada insieme e fare società. Il santo aprì la sua borsa piena di monete d’oro, il diavolo aveva nella sua pochi spiccioli e li versò subito in quella del santo gridando: “Facciamo cassa comune!”. Il santo, pensando alla salvezza dell’anima e avendo ben conosciuto il diavolo, sorrise e proseguì. Gli opportunisti contemporanei stanno santificando il proletariato, e perciò i sinistri amoreggiano col Vaticano!
Aggiungiamo un piccolo codicillo per le cifre 1965, avute recentemente.
Fatturato miliardi 20,7, tasse 1,974; utili netti 2,126, utili lordi 4,1 (plusvalore); capitale variabile 5,4 (dunque 7350 dollari per ognuno dei 735.000 dipendenti in tutto il mondo, compresi quelli che viaggiano con lo aeroplano personale!); capitale costante residuo 11,2.
Diciamo brevemente che l’utile netto è stato del 10,25% (però gli azionisti hanno avuto dividendi soltanto per miliardi 1,5, ossia per il 7.2%). L’utile lordo è stato del 19,8%. Il tasso del plusvalore del 76,0% (mentre considerando l’utile netto sarebbe l’erroneo 40,0%). La composizione organica del capitale è stata data dal rapporto 2,09, salvo tutte le fatte riserve sul vero capitale variabile, che è qui soltanto apparente. Il truccato prodotto netto, cioè l’ipocrita valore aggiunto degli economisti up to date, è stato di 9,5 miliardi, ossia il 46,0% del prodotto lordo.
Due anni così vicini e così trionfali per la mostruosa azienda americana ci vietano di trattare le variazioni storiche seguendo la previsione di Marx. Lo potremo fare nella prossima riunione avvalendoci dei dati storici della massima azienda italiana, la Fiat, che sono stati ricavati a cura del nostro movimento di Torino.
II – La produzione capitalista è produzione e riproduzione del rapporto di produzione specificamente capitalista
A) Risultati del processo di produzione immediato
Dal punto di vista immediato appare che nelle aziende capitalistiche si producono articoli per il mercato, ossia merci, il cui valore di scambio realizzato sul mercato è tutto di proprietà integrale dell’azienda, ossia del suo proprietario. Nella riferita indagine sui caratteri specifici della forma capitalista, Marx ha stabilito che fine di questa non è il valore di scambio dei prodotti venduti, e tanto meno il loro valore di uso, ma è quel premio di cui il capitale beneficia che abbiamo chiamato il plusvalore. Perciò il capitale è molto più che una massa di merci e di danaro, ma è un valore che si valorizza, un valore che genera valore.
La somma di danaro e di valore, trasformata in fattori del processo di produzione (capitale costante e capacità di lavoro, in cui si cambia il capitale variabile) non è capitale che nel senso potenziale. È solo nel primo processo di lavoro, quando realmente il lavoro vivente è incorporato nelle forme oggettive del capitale, che il totale dei valori anticipati si è trasformato in capitale reale ed attivo.
Abbiamo pertanto parlato di processo di produzione non delle merci, ma del plusvalore. Non è che un cambiamento di parole parlare di processo di produzione del capitale.
Ma Marx procede oltre. Ci potremmo fermare qui se i capitalisti come persone fisiche consumassero l’intero plusvalore in valori di uso. Resteremmo a quella che Marx chiama la riproduzione semplice del capitale.
Ma il fenomeno sociale di maggior rilievo si ha quando il plusvalore viene consumato in piccola parte dalla classe capitalistica e destinato in larga parte all’investimento di nuovo capitale. Il processo dell’accumulazione è un momento immanente del processo capitalista di produzione. Esso implica una nuova creazione di lavoratori salariati (donne, bambini, strati della popolazione dediti all’agricoltura familiare e così via). Marx conclude che il capitale produce continuamente a scala sempre più allargata i lavoratori salariati produttivi.
Non solo quindi la produzione capitalista è riproduzione di tutto il rapporto sociale, ma lo è in maniera incessantemente allargata, crescendo di fronte all’operaio il mondo della ricchezza che gli è straniera e lo domina.
Ancora una volta il testo ricorda che l’atto di compravendita contenuto nel rapporto salariale non ha più nulla di comune con lo scambio tra due possessori di merci liberi e autonomi, eguali in diritto nel fronteggiarsi con atto del tutto spontaneo. Il rapporto salariale continuamente riprodotto dallo stesso rapporto di produzione capitalista non riveste un libero contratto, ma l’assoluta dipendenza del vivente lavoratore dal dominante capitale.
B) Transizione dalle parti I e II di questo capitolo alla III che abbiamo
precedentemente trattata nella prima
(Questo testo nel manoscritto di Marx occupa la cartella 444).
Il capitalismo può sorgere da livelli storici della produzione sociale in cui si siano formate certe quantità di mezzi di produzione e di circolazione, e di nuovi bisogni che tendono a superare i vecchi rapporti. Si ha dapprima la sottomissione formale del lavoro al capitale, ma immediatamente prende pieno slancio lo sviluppo allargato del nuovo specifico tipo capitalista di produzione.
Anche quando consideriamo il capitalismo pienamente sviluppato, il plusvalore prodotto non è che una parte del valore dei prodotti finiti, ossia delle merci. Il capitale è caratterizzato dalla produzione di plusvalore, e dunque riproduce sé stesso soltanto come produttore di merci. Se abbiamo tra le mani una merce uscita da un’azienda capitalista possiamo dire che essa è il prodotto immediato del capitale; tuttavia la analizziamo come il capitale l’ha prodotta, pur sapendo che l’attendono per completare il suo ciclo altri processi di mercato in cui prenderà la forma monetaria, e dopo ancora quella di valore di uso o di mezzi di lavoro per ulteriori cicli produttivi.
La nostra trattazione parte dunque dalla merce perché essa è la base e la presupposizione della produzione capitalista. Prima del capitalismo gran parte dei prodotti non era fabbricata come merce, né destinata a diventarlo. La trasformazione dei prodotti in merce era una eccezione limitata ai settori manifatturieri. Molti prodotti del lavoro andavano al consumo diretto naturale senza entrare né uscire dal processo di produzione come articoli di commercio (in Francia nel 1752 il grano era il solo dei prodotti agricoli considerato articolo di commercio).
Tuttavia, entro certi limiti la circolazione delle merci e del danaro – dunque un certo grado di sviluppo del commercio – è il punto di partenza del capitale e del modo capitalista di produzione. Perciò partiamo dalla trattazione della merce come elemento più semplice di quella produzione. Ma la merce è anche il risultato, il punto di arrivo di essa. Quindi cominciamo lo studio della merce considerandola come il risultato di una produzione capitalista del tutto sviluppata.
III – Le merci, come prodotto del capitale
A) Caratteristiche generali
La merce potette essere il prodotto anche di forme precedenti a quella borghese, ma allora non era ancora la forma generalizzata del prodotto. Anche il danaro, che non è che una certa forma di merce, non si trasforma in capitale che a termine di un lungo periodo, ed essenzialmente quando la capacità di lavoro dell’operaio si è trasformata in merce.
Siccome nell’agricoltura una gran parte del prodotto lo è come mezzo di sussistenza, e una parte della popolazione operaia non è ancora salariata, il capitale non vi domina completamente, anche quando ha conquistato la sfera della manifattura. A questo punto nella produzione agricola non si è ancora sviluppata la divisione del lavoro nel seno della società, né quella tecnica come appare nell’officina industriale.
Il testo si riassume in tre punti.
1. _ È soltanto la produzione capitalista che fa della merce la forma generale
di tutti i prodotti.
2._ La produzione delle merci conduce necessariamente al capitalismo da quando
il lavoratore ha cessato di far parte delle condizioni di produzione (schiavitù,
servitù della gleba), ovvero la base sociale non è più la naturale Comunità
(India), da quando la forza di lavoro essa stessa diviene in generale una merce.
3. _ La produzione capitalista abolisce la base della produzione mercantile, la
produzione autonoma e parcellare, con lo scambio tra equivalenti. Lo scambio di
capitale e di forza di lavoro diviene la regola.
Tornando all’agricoltura, essa può divenire un ramo d’industria condotto al modo capitalista quando i suoi prodotti vanno tutti al mercato per la vendita, e non al consumo immediato, e si calcolano le spese per gli articoli che occorre acquistare come merci, e il tutto in grandezza monetaria.
Tanto avviene anche se una parte del prodotto dell’azienda (come le sementi) viene resa in natura alla produzione calcolandola come se l’azienda la comprasse da sé stessa.
Quando la merce viene prodotta a grande scala e in tipi fissi, il prodotto diviene unilaterale e di massa.
In questi casi esso si collega strettamente ai rapporti sociali di pieno
capitalismo e il legame immediato tra il suo valore di uso e la soddisfazione
del bisogno di profitto del produttore capitalista resta del tutto contingente,
indifferente e inessenziale. La merce che sgorga dal pieno capitalismo è ben
altrimenti determinata che la merce semplice che fu elemento e presupposto di
partenza del capitalismo iniziale. Oramai la merce ha due altre determinazioni.
1. _ Fatta astrazione dal suo valore di uso essa contiene una quantità
determinata di lavoro sociale necessario. Ma mentre per una merce qualunque non
interessa sapere da chi proviene il lavoro oggettivato, la merce, come prodotto
del capitale, contiene una parte di lavoro pagato e una parte di lavoro non
pagato.
2. _ Ogni merce appare non solo materialmente come parte del prodotto totale, ma
come una parte aliquota del lotto prodotto. Non si tratta più di una merce
specifica, di un prodotto individuale. Il risultato del processo è una massa
di merci ove ciascun elemento porta al prodotto il valore del capitale
anticipato oltre il plusvalore.
Come supporto del valore totale del capitale la merce si manifesta ora nel volume e nelle dimensioni che permettono la vendita e la realizzazione dell’antico valore del capitale anticipato, più il plusvalore creato. Ora ciò non è affatto legato all’obbligo che una merce o una sua parte si vendano a un prezzo di mercato pareggiante il loro valore. Il testo accenna senza fermarsi al problema di esprimere in prezzi, ossia in valori monetari, certe merci incluse in un sistema unitario prodotto dall’industria capitalistica, come può essere ad esempio una ferrovia, e simili. Non tutte le merci infatti possono essere definite secondo il prezzo di unità di misura pratiche, come chilogrammi di caffè, metri di stoffa, ecc., ecc.
Comunque abbiamo isolato un determinato blocco di merci, il problema è d’indicare quanto valore vi si è trasferito come elemento del capitale costante (materie prime, logorio delle macchine, ecc.), e di distinguere poi circa la differenza di valore col prodotto finito, la parte restante, data dal capitale variabile, o spesa d’acquisto della forza lavoro, e dal profitto o sopravalore che è stato creato dal processo produttivo.
B) Rapporto tra gli elementi costitutivi della merce prodotta
dal capitale
Il prospetto numerico che inseriamo ha lo scopo di facilitare l’esposizione di quanto contenuto negli ultimi due capitoli che dobbiamo trattare e che contengono alcuni specchietti nei quali Marx ha adoperato, come farà largamente nel Capitale, le unità del sistema inglese e le loro frazioni che riescono abitualmente di tanto difficile lettura. Abbiamo trasformato le unità in numeri decimali più o meno plausibili, ma lasciando intatti i rapporti adottati da Marx in modo che si può seguire la sua dimostrazione.
In questo capitolo B della parte III Marx viene a un esempio numerico che noi abbiamo trasportato nella prima colonna del nostro prospetto. Marx ha supposto che con 80 sterline di capitale costante, 20 di capitale variabile e 20 di plusvalore (ossia nell’ipotesi che l’operaio lavori metà del suo tempo per sé stesso e metà per il padrone, ossia col saggio di plusvalore di 1, ovvero 100%) si producono 1200 metri di lino, il cui valore totale sarà di 120 sterline. Marx cerca il prezzo unitario della merce, ossia il suo valore e anche prezzo di produzione. È chiaro che esso sarà di un decimo di sterlina, e siccome la sterlina si divide in 20 scellini, di 2 scellini al metro. Marx ora suppone che la produttività in questa industria aumenti nettamente, ossia si quadruplichi in modo che nello stesso tempo e con gli stessi operai e con le stesse spese, in totale 380 sterline (320 + 20 + 20), si producano 4800 metri. Il prezzo unitario viene di 1/15 di sterlina, ossia di 1 scellino e mezzo. È quindi diminuito di mezzo scellino. Marx ha voluto dimostrare che crescendo la produttività tecnica ma fermo restando il salario, il plusvalore ed il loro rapporto, il prezzo della merce è notevolmente diminuito. In questo esempio non vi è ulteriore dettaglio e le unità inglesi sono risultate facilmente comprensibili.
Subito dopo Marx dà un altro esempio, ossia l’agricoltura, in cui per vedere di diminuire il prezzo non occorre pensare all’aumentata produttività tecnica, ma basta supporre un raccolto più abbondante e anche un terreno più fertile. L’autore suppone che un determinato campo a grano assorba 3 sterline di capitale costante, 2 di salari e 2 di sopralavoro conservando lo stesso saggio con il prodotto totale di 7 sterline. Se il campo produce 2 quarters di grano (ossia 2,9 ettolitri) ogni quarter potrà essere venduto 3 sterline e mezzo, ossia 70 scellini. Ma se, se ne producono di più, ossia 2,5, il prezzo scenderà a 56 scellini. Proseguendo e ricordando che il prodotto totale di 7 sterline vale 140 scellini, si avrà per il raccolto di 3 quarters il prezzo di 46 scellini e 8 pence (… per chi ricordi che ogni scellino si divide in 12 pence); se il raccolto è 3,5 quarters il prezzo viene 40 scellini. Se è 4 quarters, 35 scellini; se è 4,5, 31 scellini; e se quindici è 5,28 scellini.
Marx vuole dimostrare che avendo anticipato lo stesso capitale e ottenuto lo stesso plusvalore, il valore di produzione o prezzo al mercato (egli suppone sempre che prezzo e valore si identifichino, perché rinvia ad altre parti dell’opera le cause dell’oscillazione del prezzo interno al valore medio sociale) può variare grandemente nell’industria e nell’agricoltura soprattutto senza che si debba necessariamente supporre modificato il saggio del plusvalore.
Siccome negli ulteriori esempi le frazioni in scellini e denari e pence e anche terzi di pence si complicano molto, abbiamo ridotto tutto a numeri decimali. I due esempi della manifattura di tessuti di lino figurano nella I e II verticale. Nella I (B.I) le anticipazioni sono 1000 di capitale costante e 250 di variabile, il plusvalore è anche 250. Marx ha introdotto qui il famoso valore aggiunto cui diamo il simbolo w e che in questo caso è 500. Il capitale totale è 1500. Il saggio del plusvalore è 1, la composizione organica o saggio della produttività è 4. Con le dette spese supponiamo che il lino prodotto sia una pezza di 30 metri, il prezzo di 1 metro sarà 50. Marx vuole suddividere questa quantità di 30 metri di prodotto secondo le varie parti del capitale totale. Il capitale costante rappresenta 20 metri, il variabile 5 metri, il plusvalore 5 metri, il valore aggiunto somma le due precedenti, 10 metri. La somma totale è 30.
Nella II colonna (B.II) abbiamo svolta l’ipotesi di un rilevante aumento della produttività. Quadruplicandola esattamente il suo saggio diventerebbe 16, ma a noi è convenuto adottare la cifra 17,2, ossia supporre una produttività aumentata 4,3 volte. Abbiamo 4300 capitale costante, variabile e plusvalore come prima 250, totale 4800, lino prodotto immaginando che sia proprio 4 volte del primo caso metri 120, prezzo 40, molto diminuito dal precedente di 50 al metro. La partizione del prodotto viene: capitale costante 107,5; variabile e plusvalore 6,25; valore aggiunto nella lavorazione 12,5.
C) Prezzo e valore degli elementi costitutivi del capitale
Il primo caso numerico riportato da Marx è lo stesso con cui si è aperto il capitolo precedente sotto la lettera B), quindi esso risponde alla già dimostrata prima colonna del prospetto da noi formato.
Il II esempio di questo capitolo che indichiamo con C.II figura nella terza colonna del prospetto. Marx ha voluto formare un esempio in cui il prezzo resta quello originario del I caso, ma si è ottenuto, senza variazione del capitale variabile come salario pagato, un maggiore plusvalore. Egli ha supposto che in questo caso gli stessi operai con la stessa paga giornaliera siano fatti lavorare per un tempo maggiore, ossia 12 ore invece di 10. È lo stesso esempio che abbiamo ripetutamente studiato a proposito del XV capitolo del I volume, in cui sono studiati i vari effetti di una aumentata produttività.
Il ragionamento del testo si adatta benissimo alle nostre cifre. Con lo stesso capitale variabile di 250, avendo aumentato il lavoro del 20%, si è operato su un capitale costante salito da 100 a 1200. Evidentemente invece di 30 metri di lino se ne sono prodotti 36, che allo stesso prezzo di 50 al metro hanno reso il capitale totale di 1800. Il valore aggiunto è stato 600 e siccome gli operai ne hanno preso sempre gli stessi 250, il plusvalore è salito a 350 e il suo saggio da 1 a 1,4. La produttività è salita da 4 a 4,8 e le parti del prodotto figurano nelle solite finche orizzontali come 24, 5, 7, 12.
Marx tratta quindi il terzo esempio del capitolo C), nel quale rifacendosi sempre all’esempio iniziale che è nella prima colonna del nostro specchio, ha immaginato che la produttività aumenti nel senso che i padroni riescono a diminuire il salario agli operai da 250 a 200. Evidentemente il plusvalore salirà da 250 a 300, restando il valore aggiunto di 500; il prodotto totale 1500 per 30 metri e quindi 50 per metro. Il saggio del plusvalore è salito a 1,5, quello della produttività da 4 a 5, le parti del prodotto sono nel solito ordine: 20, 4, 6, 10.
L’ultimo esempio del testo è l’ultima colonna del nostro quadro e riguarda il caso IIIa. Riferendoci al caso di partenza si è lasciato uguale il salario ma si è supposto che la produttività del lavoro si elevi di ¼, ossia passi come nel caso precedente da 4 a 5. In tal caso il prodotto sarà salito da 30 a metri 37,5, che al prezzo di 50 danno il capitale totale di 1875. Il plusvalore è salito a 37,5 col saggio di 1,5 come nel caso precedente. Il valore aggiunto è 625 e le partizioni del prodotto di 37,5 sono nelle ultime 4 finche: 25; 5; 7,5; 12,5.
Riteniamo che le cifre da noi elaborate senza nulla mutare nei loro rapporti in ciascun esempio e tra esempio e esempio dimostrino chiaramente il procedimento di Marx e possiamo dare ragione delle sue due conclusioni (pag. 453 del manoscritto originale).
Elementi costitutivi del capitale negli esempi trattati da Marx
Riferimento al testo | B.I C.I |
B. II |
C. II |
C. III |
C. III a |
|
Capitale costante | C | 1000 | 4300 | 1200 | 1000 | 1250 |
Capitale variabile | V | 250 | 250 | 250 | 200 | 250 |
Plusvalore | S | 250 | 250 | 350 | 300 | 375 |
Valore aggiunto | w=S+V | 500 | 500 | 600 | 500 | 625 |
Capitale totale | K’=C+w | 1500 | 4800 | 1800 | 1500 | 1875 |
Saggio del pusvalore | s=S/V | 1 | 1 | 1,4 | 1,5 | 1,5 |
Composizione organica o produttività | o=C/V | 4 | 17,2 | 4,8 | 5 | 5 |
Quantità del prodotto | q | 30 | 120 | 36 | 30 | 37,5 |
Prezzo unitario | P=K’/q | 50 | 40 | 50 | 50 | 50 |
Capitale costante unitario | C/P | 20 | 107,5 | 24 | 20 | 25 |
Lavoro pagato unitario | V/P | 5 | 6,25 | 5 | 4 | 5 |
Lavoro non pagato unitario | S/P | 5 | 6,25 | 7 | 6 | 7,5 |
Valore aggiunto unitario | w/P | 10 | 12,5 | 12 | 10 | 12,5 |
I - Se il prezzo delle merci cambia possono essere rimasti costanti il tasso e la massa del plusvalore. La esattezza di questo teorema è dimostrata dal confronto tra i due esempi del capitolo I, ossia le due prime colonne del nostro quadro. La tecnologia capitalista progrediente ha fatto scendere il prezzo del lino da 50 a 40, ma malgrado questo gli operai ricevono lo stesso salario e i capitalisti guadagnano lo stesso profitto. È indiscutibile che vi è stato un vantaggio sociale.
II - Quando il prezzo delle mercanzie resta costante il saggio e la massa del plusvalore possono cambiare. La esattezza di questo II teorema risulta dai 4 casi di questo capitolo C), ossia dalla I, III, IV e V colonna del nostro quadro. In questi 4 casi il prezzo unitario è sempre 50, ma nel II caso (colonna III), la massa del plusvalore è salita da 250 a 350 e il saggio da 1 a 1,4, mentre la produttività saliva da 4 a 4,8. Questi vantaggi dei capitalisti senza nessun benefizio sociale sono stati ottenuti dal prolungamento della giornata di lavoro del 20% (fase storica iniziale della forma capitalista ossia sottomissione formale del lavoro al capitale; Inghilterra del primo 800, Russia del 900). Nel III caso del capitolo C), ossia IV del prospetto, che potrebbe andare sotto la stessa rubrica, anziché aumentare la giornata di lavoro si è diminuito il salario operaio, in modo che il plusvalore è salito da 250 a 300, il suo saggio da 1 a 1,5. La produttività da 4 a 5. Anche qui nessun beneficio sociale né della classe operaia e ancora sottomissione formale del lavoro al capitale.
Nell’ultimo caso, sempre restando costante il prezzo di mercato, si è immaginata la produttività salita per ragioni tecniche da 4 a 5, fermo restando il salario dei lavoratori. La massa del plusvalore ha raggiunto la quota massima 375, il valore aggiunto anche il massimo di 625, il saggio del plusvalore è anche salito ad 1,5 e a parità di trattamento della classe salariata il plusvalore e l’accumulazione capitalista hanno fortemente progredito. Possiamo considerarci nella sottomissione non solo formale ma anche reale del lavoro al capitale e della grande industrializzazione con lo sviluppato macchinismo, che potrebbe essere anche rappresentata da aumenti molto più notevoli della produttività del lavoro come quello ipotizzato alla II colonna, che era andato a vantaggio sociale in quanto il solo caso, tra gli esempi qui trattati, in cui il prezzo delle merci è sensibilmente diminuito, come effetto immanente del capitalismo pienamente sviluppato e tecnologicamente avanzato.
I commenti che Marx fa seguire a queste esemplificazioni significative, si rivolgono alla critica degli economisti volgari e dei socialisti immediatisti tipo Proudhon, che non comprendevano come fosse irraggiungibile con l’aumento dei salari la riconquista ai lavoratori dell’intero frutto del lavoro. Marx qui non svolge il III caso del citato Capitolo XV del I Tomo sull’aumento di produttività generale che fa diminuire il costo della vita al punto che la costanza del salario rappresenta un grande vantaggio per il proletariato, e che tuttavia come a suo tempo mostrammo a sua volta si può conciliare con un aumento rilevante sia della massa che del tasso del plusvalore. Tralasciando la parte critica delle ultime pagine di Marx, citeremo questo suo decisivo passo:
«Dato che con lo sviluppo della produzione capitalista e il crescente miglior mercato delle merci, la loro massa aumenta, occorre che il numero delle merci vendute aumenti, cioè che il mercato senza posa si estenda. È un bisogno per il modo di produzione capitalista, sebbene questo argomento sarà piuttosto trattato nel prossimo Tomo».
Non abbiamo bisogno di dire ancora una volta che questa è la linea dello sviluppo di tutta l’opera concepita da Marx che doveva raggiungere le tappe del mercato mondiale e della politica di classe dello Stato capitalista, ossia la considerazione del moderno imperialismo che sempre prepara la finale catastrofe rivoluzionaria.
L’importanza di questa redazione inedita del testo di Marx, come abbiamo cercato di mettere in evidenza, è che egli già un secolo addietro sviluppava la teoria del valore aggiunto dal lavoro nella produzione, in maniera coerente al programma rivoluzionario e in maniera diametralmente opposta alla degenerata forma moderna e opportunista della politica dei redditi.
Studiato a secoli intieri di distanza, sempre più Marx è attuale.
La nostra dottrina marxista della storia umana costruisce le linee di certezza del corso della Rivoluzione futura sul solido materiale delle Rivoluzioni storiche di classe e delle guerre civili sostenute dalle avanguardie proletarie mondiali
Il VI capitolo inedito del “Capitale” nel quadro dell’opera economica di Marx
Alla riunione di Milano fu data una traccia della studio in corso in Francia sul nesso che collega il VI Capitolo inedito del Capitale – di cui si era trattato nella precedente riunione – allo insieme dell'opera di Marx, e sulla luce che esso getta sulla nostra dottrina come arma di battaglia. Questa traccia riproduziomo qui, a chiusura dei rapporti della riunione generale dell'1-2/4/1966, come primo saggio del lavoro che dovrà essere svolto.
Per capire l’importanza del VI Capitolo (inedito) del Capitale – di cui abbiamo dato un’ampia sintesi nei nr. 5 e 6 di quest’anno – è necessario fare una cronologia dell’Opera economica di Marx; e lo è tanto più in quanto Marx, in realtà, non la poté condurre a termine. Sarebbe importante trovare l’ossatura comune, la preoccupazione centrale intorno a cui si ordinano tutti i suoi lavori.
Lo stesso Marx ha indicato lo svolgimento di questi. Nella prefazione alla Critica dell’Economia Politica, del 1859, egli parla come punto di partenza del geniale schizzo di Engels sulla critica delle categorie economiche, apparso negli Annali franco-tedeschi. Esso veniva, per così dire, a puntino. In realtà, Marx aveva dimostrato che i diversi sviluppi dell’attività umana hanno una stessa base: la produzione economica; e che dal modo di produrre dipendono tutte le altre manifestazioni dell’attività umana, in particolare il pensiero. Invece di studiare la coscienza dell’uomo come un prodotto indipendente, bisognava capire il processo di vita reale di questo ultimo. Questo rovesciamento appare in forma straordinariamente condensata nelle famose Tesi su Feuerbach. È nell’Ideologia tedesca che si trova elaborato il metodo di cui la prefazione alla Critica dell’Economia Politica darà una definizione così netta e limpida: il materialismo storico. In quest’opera v’è un tentativo di dare una dimostrazione della nuova teoria: provare che i fattori determinanti sono quelli economici e sociali. Perciò noi vi troviamo insieme un primo schizzo di quella che sarà più tardi l’Introduzione alla Critica della Economia Politica – esposizione del metodo e piano dell’opera integrale – e un abbozzo delle Forme che precedono il modo di produzione capitalista: periodizzazione della storia umana. La coerenza con la dottrina è completa: la storia è la sola vera scienza.
Come è noto, l’opera non vide la luce, abbandonata come fu alla “critica roditrice dei topi”. Marx ed Engels non ci tenevano, del resto, eccessivamente. La sua elaborazione aveva permesso loro, soprattutto, di veder chiaro nella nuova concezione, di rendersi padroni della nuova dottrina. In compenso, Marx lavorava già attivamente all’opera economica di cui Engels parla in una lettera del 20-1-1845: «Fa in modo di completare il tuo libro di Economia Politica, poco importa se molte pagine non ti soddisfino»; e alla quale lo stesso Marx accenna in una lettera a Leske dell’1-8-1846: «Attraverso un amico di quei signori, mi si era praticamente assicurata l’edizione della mia critica dell’Economia». Neppure questo libro doveva, vivente lo autore, vedere la luce. Esso fu pubblicato dopo la morte dei due amici sotto il titolo di Manoscritti parigini del 1844.
Non per questo Marx abbandonò gli studi economici e, nel 1847, pubblicò, in risposta a un volume di Proudhon, La miseria della filosofia. È questo, in certo modo, un riassunto di tutta la opera, e conclude la critica della filosofia così come era stata condotta nella Critica della filosofia del diritto di Hegel e nella Questione ebraica: il proletariato è l’emancipatore della società umana. D’altra parte, vi si trova esposto il vero movimento di questa emancipazione: la costituzione della classe in Partito, il che implica una caratterizzazione esatta della società presente e la delimitazione di quella futura. Ma il 1847 è anche l’anno del Manifesto del Partito Comunista. Al movimento operaio, che prende un’ampiezza sempre crescente (così come è stato descritto nella Miseria della Filosofia) bisogna dare un programma: il Manifesto condensa l’apporto di tutte le lotte proletarie passate, tanto sul piano pratico quanto su quello teorico, e lo illumina della chiara e evidente affermazione del Comunismo, spoglio di ogni utopismo perché presentato così com’è – come il movimento reale della società, il moto reale del proletariato verso la sua emancipazione.
I lavori economici di Marx non sono accademici: essi sono destinati al proletariato come armi e strumenti di lotta. Perciò, nel 1849, Marx condensa i risultati delle sue ricerche in una serie di conferenze tenute a Bruxelles: Lavoro salariato e capitale. Spentasi l’ondata rivoluzionaria, egli riprende la grande opera economica iniziata e mai apparsa – soprattutto non apparsa in tempo prima della rivoluzione. Bisognava dare una base indistruttibile al programma lanciato nel 1847. Marx, quindi, continua i suoi lavori e nel 1859 pubblica la Critica dell’Economia politica. Questa doveva essere l’inizio di un’opera molto vasta che egli avrebbe voluto pubblicare di un sol blocco; tuttavia, Marx è costretto ad accelerarne la pubblicazione a causa delle storture economiche messe in circolazione da un gran numero di propagandisti socialisti, e in particolare da Lassalle.
L’opera trattava soprattutto del valore in fase di circolazione semplice delle merci e al momento della trasformazione del danaro in capitale. Ma era troppo densa e sintetica. Marx voleva fornire insieme la critica della base e quella delle soprastrutture; una spiegazione dei fenomeni reali e, insieme, delle teorie che essi hanno generato (quella che sarà più tardi la Storia delle dottrine economiche o Teorie del plusvalore): «È nello stesso tempo l’esposizione di questo sistema e la sua critica attraverso la sua esposizione» (Marx a Lassalle, 27-11-1858). Di qui il doppio piano dell’Opera: esposizione dei fenomeni economici, e critica delle diverse concezioni in corso in merito al fenomeno studiato. Il carattere troppo dialettico di questa esposizione (flirt con Hegel!) spiega forse perché la Critica non ebbe alcun successo.
Il Capitale appare in pieno periodo di ascesa del movimento operaio in due dei maggiori centri dell’epoca: la Germania e la Francia. L’esposizione è più didattica, ed è in realtà il vero programma del proletariato per la sua emancipazione. Si può dire che l’Opera era richiesta a gran voce dalla classe operaia. Questa aveva bisogno di un’arma critica e costruttiva per la sua lotta quotidiana contro il capitale, e per quella, molto più vasta, che avrebbe portato a distruggerlo. Questo il senso dell’esposto tenuto da Marx sull’argomento: Salari, prezzi e profitti, suppergiù alla stessa epoca, alla Associazione Internazionale dei Lavoratori.
Com’è noto, solo il I Libro del Capitale apparve mentre l’autore era vivo. Gli altri due furono pubblicati da Engels, che a sua volta non poté completare l’Opera. Restava una grande quantità di manoscritti. Kautsky non pubblicò che l’equivalente del IV Libro: La storia delle dottrine economiche. I Grundrisse furono pubblicati in tedesco dopo la guerra mondiale: il IV Capitolo, e senza dubbio molti altri materiali, particolarmente sulla questione agraria, attendono ancora di vedere la luce.
I quattro modi di affrontare la critica dell’economia
politica in Marx
Lo studio di tutte queste Opere mostra come Marx abbia affrontato la critica dell’economia politica in quattro modi che si completano.
Il primo è quello dei Manoscritti del 1844: fondamento della società capitalistica è il lavoro salariato; lo stesso capitale non è che lavoro oggettivato. Marx spiega l’alienazione di cui parlava Hegel: tutta la storia è il prodotto del lavoro dell’uomo non solo del lavoro teorico, intellettuale, ma di tutto il lavoro, di tutta l’attività reale dell’uomo. L’alienazione risiede nella vita pratica, nella vita reale, e deriva dal fatto che l’uomo, nella società borghese, è diventato merce.
Marx, tuttavia, è ancora troppo sul terreno dell’avversario, nel senso che affronta la questione, al modo dei filosofi e quindi di Hegel, partendo dall’uomo, dal soggetto, mentre bisogna spiegare come il soggetto sia prodotto. Appunto perciò si parla prima del salariato, poi del capitale e della proprietà fondiaria, per infine analizzare la proprietà nella società borghese e nella società comunista: insomma, si fa, in parte, il contrario di quello che Marx farà in seguito: «… Il mio metodo analitico non parte dall’uomo ma dal periodo sociale economicamente dato…» (“Il trattato di economia politica di Adolph Wagner”). Il procedimento è dunque ancora soggettivo. È vero, l’uomo è al centro della questione (non l’uomo individuale, ma l’uomo sociale, la specie umana: ecco già confutata la posizione borghese), ma bisogna anche spiegare quali siano le condizioni economiche che lo producono. Ora, l’uomo può essere soggetto solo nella società comunista. Nelle altre società di classe, è alienato e quindi oggetto: è proletario o borghese, ma ciò vuol dire che il soggetto è il capitale. «L’ex possessore di danaro marcia davanti come capitalista, il possessore di forza lavoro gli viene dietro come suo operaio; quello con aria soddisfatta, importante e indaffarata; questo timido e recalcitrante come chi ha portato la sua pelle al mercato e ora non ha da aspettare altro che la concia» (Il Capitale, I, cap.4, par.3).
L’importanza dei Manoscritti è di segnare l’atto di nascita del comunismo. Nella polemica con gli economisti. Marx scopre la forma futura così come l’aveva intuita nella sua lotta contro la filosofia di Hegel e nella Questione ebraica: ma va più lontano, perché ne scopre il substrato economico.
Il secondo modo di affrontare la questione è quello della Critica e del Capitale. Marx parte da ciò che è constatabile; cioè la merce (come osserva Lenin), per porre la questione del valore e delle sue diverse forme, e per poi tornare alla circolazione semplice delle merci e all’apparizione del capitale. Il lavoro salariato, produttore di plusvalore, appare in seguito per spiegare la genesi del capitale, cioè la genesi dell’incremento di valore senza il quale nessuna formazione di capitale è possibile; e appare attraverso l’analisi del processo di produzione immediato. «Ciò da cui parto, è la forma sociale più semplice in cui, nella società attuale, il prodotto del lavoro si presenta, cioè la “merce”. È questa che analizzo, e lo faccio dapprima nella forma in cui essa appare» (“Il trattato di economia politica” di Adolph Wagner).
Il terzo modo ci è dato dal frammento della versione primitiva della Critica dell’Economia Politica. Marx affronta il problema nel modo più generale possibile: la nascita del valore; e pone la questione: Come il valore può giungere all’autonomia (dato constatabile nella società borghese), cioè non essere più strettamente dipendente dalle condizioni che l’hanno generato?
L’ultimo e quarto modo lo troviamo nelle Forme che precedono la produzione capitalistica (capitolo dei Grundrisse). Il capitalismo può svilupparsi alla sola condizione di liberare l’uomo e farne una merce. A questo fine, occorre che le diverse comunità che lo inglobavano e che, in modo più o meno degradato, erano rette da un’economia in cui lo scopo della produzione era l’uomo, siano distrutte. È, in certo modo, lo studio degli ostacoli allo sviluppo capitalista, lo studio dell’inerzia sociale costituita dalle diverse comunità, di cui la più tenace si trova nel modo di produzione asiatico ancora perdurante, ad esempio, in India, e che rende così difficile lo sviluppo economico di questo Paese.
Posizione del VI Capitolo nell’insieme dell’Opera
Il VI Capitolo si trova al punto di convergenza di questi diversi modi di esporre: ecco perché ci permette di capire l’insieme dell’Opera. Esso si presenta, sotto certi aspetti, come una chiave non per capire il Capitale, che basta a sé stesso, ma l’intera Opera in cui questo è inserito. Esso permette di ricollegare l’uno all’altro dei lavori che sembravano non avere alcun rapporto fra di loro; mostra la coerenza assoluta di tutta la teoria.
Le Opere che abbiamo citato sono, in realtà, altrettanti frammenti di un’Opera unica. Perciò, se può sembrare che Marx abbia avuto diverse preoccupazioni, diversi modi di affrontare un solo e identico problema, gli è che l’Opera non ha potuto vedere la luce nella sua totalità. I suoi diversi “piani” ci illuminano a questo proposito. Nella Critica, Marx ne dà uno che è una semplice variante di quello dei Manoscritti del 1844, variante legata alle considerazioni da noi fatte a proposito di quest’Opera. Nella Prefazione alla Critica, scrive: «Analizzo il sistema dell’economia borghese nel seguente ordine: capitale, proprietà terriera, lavoro salariato, Stato, commercio estero, mercato mondiale. Sotto le prime tre rubriche, studio le condizioni economiche di esistenza delle tre grandi classi in cui si divide la moderna società borghese; quanto alle altre tre, la loro connessione è evidente». Questo piano è identico a quello inviato da Marx a Engels il 2-04-1858. Nel 1862, nel suo XVIII quaderno, egli ne dà uno più dettagliato; ma i punti essenziali (suddivisione dell’Opera) sono identici. Nel punto 5 dello studio del processo di produzione, Marx scrive: «Combinazione del plusvalore assoluto e relativo, lavoro produttivo e improduttivo». Da altra parte, in un progetto di piano del 1859, suddivide lo studio del processo di produzione nel modo seguente: «I. Trasformazione del danaro in capitale. a) Passaggio, b) Scambio fra capitale e potenza di lavoro, c) Processo di lavoro, d) Processo di valorizzazione». I punti c e d sono i due primi trattati dal VI Capitolo.
Perciò, in uno studio ulteriore, noi ci proponiamo di farne una analisi in collegamento con tutti i lavori citati più sopra. Due grandi questioni emergono da queste Opere, siano esse complete o allo stato di piano o a quello di abbozzo: 1) Origine del valore, sue determinazioni e sue forme; 2) Origine del lavoratore libero, del lavoratore salariato. Si tratterà di analizzarle nell’ordine, con le conseguenze che esse implicano.