Partito Comunista Internazionale


Lenin centralista organico

Il centralismo organico in Lenin, nella Sinistra e nella vita effettiva del partito


     Premessa
 1. Invarianza storica del partito comunista
 2. Ribadite conferme da un grande passato
 3. La formazione del Partito Bolscevico
 4. Contro il localismo, per la centralizzazione comunista
 5. La rivoluzione non è questione di forme di organizzazione
 6. Contro l’economismo - Lotta economica e lotta politica
 7. Contro la “libera critica”
 8. Il “Che Fare?” pietra miliare del marxismo
 9. Dai circoli al partito
10. Il cruciale “Paragrafo 1”
11. Saldezza organizzativa, coerenza tattica, purezza dei principi
12. Rivoluzionari di professione
13. Conoscenza e milizia - La “coscienza proletaria”
14. Autonomia, democrazia, libera critica
15. La imprescindibile disciplina esecutiva
16. La mentita “creatività leninista”
17. Nessun “partito di tipo nuovo”
18. Marxismo dogmatico contro revisionismo
19. Piccolo gruppo compatto
20. Settarismo
21. Da dove la coscienza?
22. Gli operai nel partito
23. Mistica nell’adesione al comunismo
24. Dominio dell’ideologia borghese e della sua legge del minimo sforzo
 
25. “Culo di piombo”
26. Il rovesciamento della prassi
27. Il piano tattico invariante
28. Lotta economica e lotta politica
29. Organismi operai e partito comunista
30. Operai e intellettuali nel partito
31. Complottismo e terrorismo
32. La selezione organica dei capi
33. Fiducia completa e fraterna fra rivoluzionari
34. Non amare nessuno per amare tutti
35. Gerarchia interna e decisioni
36. Le “garanzie”
37. Un giornale per tutta la Russia
38. La buona tattica e il buon partito
39. Centralismo comunista contro la dispersione della classe nella società borghese
40. Il centralismo organico
41. Il “centralismo democratico”
42. Il centralismo nella Sinistra
43. Come si struttura il partito secondo Lenin
44. Lavoro concorde contro le scissioni
45. Come garantire la disciplina?
46. Come ripartire i compiti
47. Impersonalità e anonimato
48. La falsa soluzione delle espulsioni
49. Partito e frazioni
50. Anticipazione della società futura


 


Premessa

Il Partito Comunista nasce nel 1848, su una base già definitiva di teoria della storia e dei lineamenti fondamentali della tattica. Nei decenni seguenti Marx ed Engels scolpiscono, con un poderoso e magistrale lavoro, il corpus teorico fondamentale del comunismo, una dottrina che chiamiamo, nella sua unità organica, marxismo. Un lavoro che non è mai terminato, ad opera della grande scuola marxista e che continua ancora oggi all’interno della nostra piccola ostinata formazione di partito.

Nel frattempo l’organizzazione fisica dei rivoluzionari, i partiti comunisti, hanno attraversato una serie di forme organizzate, in una evoluzione interrotta più volte da rovinose degenerazioni. Lo stesso loro nome era stato abbandonato, poi recuperato dal bolscevismo nel 1918 e dalla Terza Internazionale.

Nel 1973 il partito si trovò nella necessità di confrontarsi con la sua storia, per confermarsi in pieno nel solco della tradizione della Sinistra Comunista (malamente detta italiana), quella corrente che, dopo aver fondato nel 1921 il Partito Comunista d’Italia (Sezione della Internazionale Comunista) ne fu estromessa dalla direzione, poi espulsa per la sua indisponibilità ad accettare i metodi e le politiche dello Stalinismo trionfante nell’Internazionale.

L’ampia disamina storica che ne risultò fu pubblicata con il titolo “Il Partito Comunista nella tradizione della Sinistra”, tradotta anche in inglese, francese e spagnolo, alla quale rimandiamo i compagni che intendono approfondire la conoscenza sulla struttura, il funzionamento e la tattica del Partito.

Il testo fu compilato attingendo all’insieme di testi, articoli, tesi che la Sinistra aveva prodotto nell’oltre mezzo secolo precedente, una ricca massa di documenti sin dai tempi del primo dopoguerra. Era previsto il ricorso anche ai testi di Lenin, soprattutto degli anni della formazione del partito in Russia. Ma non fu possibile allora portare a sostegno delle nostre affermazioni anche la ricca produzione teorica di Lenin, che tutte le sue energie aveva dedicato al sano indirizzo del partito: una impostazione che consentì al Partito Bolscevico di portare alla vittoria le masse operaie e contadine nella rivoluzione che ebbe il suo culmine in Russia nell’Ottobre 1917.

Purtroppo la necessità di dimostrare nella vecchia organizzazione in tempi ragionevolmente brevi ai frastornati e ingannati compagni, ma anche a noi stessi, chi era rimasto “sulla strada di sempre”, nel solco della tradizione della Sinistra, non consentì allora di inserire nella pubblicazione i testi di Lenin che andavamo ordinando. Il compagno Angelo, che se ne era fatto carico e aveva intrapreso questa seconda parte dello studio, purtroppo venne ancor giovane a mancare nel 1978, e del suo lavoro rimasero le note (e molte sottolineature nei volumi delle Opere Complete), che peraltro si sono dimostrate preziose per l’avvio del rapporto che qui presentiamo.

Ciononostante è sempre stata una certezza nei cuori e nelle menti dei compagni che il nostro partito fosse il vero e unico continuatore di tutta l’opera di Lenin anche riguardo al modo di intendere il partito comunista e la sua vita interna.

Su questa convinzione si fonda la presente disamina. Impersonale e collettiva come tutti i nostri lavori, si limita ad ordinare gli scritti di Lenin da un lato, e gli scritti della Sinistra e le regole non scritte di comportamento e lavoro del partito di oggi, dall’altro. Il risultato, come i compagni potranno constatare, se si tengono presenti le differenze legate all’epoca storica e alla natura del partito ai quali gli scritti di Lenin si rivolgevano, è esattamente quello che ci si proponeva di verificare. Nè poteva essere altrimenti. Gli obiettivi sono gli stessi, le esigenze del lavoro in funzione della giusta politica rivoluzionaria, sono le stesse, identica è la passione che allora e oggi guidava e guida i rivoluzionari di tutte le latitudini, etnie e lingue.

Il lavoro è dedicato soprattutto ai giovani compagni che si avvicinano al partito da paesi nei quali la tradizione del comunismo è stata a lungo dimenticata, mistificata, condannata. A questi compagni l’augurio di buon lavoro, nel solco incorrotto del marxismo rivoluzionario di sempre.


1. Invarianza storica del partito comunista

Nostro scopo qui è tornare a dimostrare quanto affermiamo sin dalla nascita del nostro partito: accanto alla rivendicazione di una dottrina, che è unica e intangibile sin dalla enunciazione delle sue basi teoriche con il Manifesto del Partito Comunista del 1848, rivendichiamo che, proprio come la dottrina si è trasmessa intatta sino a oggi, anche il modo di concepire il partito della rivoluzione comunista è quello dei nostri maestri.

Già Marx ed Engels, in tutta la loro vita, avevano condannato aspramente e con sdegno, nelle forme del partito dapprima embrionali e non sviluppate poi dispiegata, ogni atteggiamento improprio rispetto alla sua natura, ai suoi compiti e ai fini del comunismo. Noti sono la loro sorpresa e disgusto nei confronti di certi atteggiamenti di alcuni anarchici, per esempio, quando, nella loro dura opera, non scesero mai a metodi indegni di lotta politica all’interno del partito, al di fuori del convincimento e dell’aiuto alla maturazione collettiva del movimento mondiale.

Anticipiamo fin da qui una tesi centrale: il partito comunista fa sì lotta politica, ma al suo esterno, contro i numerosi suoi nemici, non al suo interno, se non in caso di irrimediabile degenerazione. All’interno del partito non si fa polemica e fra i compagni non si fa propaganda.

Lenin fu poi in grado di confermare e difendere la necessità di un partito all’altezza del compito che lo attendeva, non solo dal punto di vista delle basi di teoria, ma da quello della sua struttura organizzata e del funzionamento organico, aspetti mai affrontati in modo separato.

Che il tipo di partito che Lenin intendeva e riuscì a far dispiegare, nelle linee guida e nel modo di concepire i rapporti interni, fosse lo stesso della Sinistra, di prima e dopo la seconda guerra mondiale, è sempre stata una nostra tesi radicata, necessaria conseguenza della sua omogeneità di dottrina.

Questa convinzione è confermata da una lettera, una fra mille, del 24 marzo 1967, del Centro del partito alla cosiddetta “rete dei negri”, che così scherzosamente si chiamavano i compagni più impegnati nel partito, quelli che lavoravano tanto, silenziosamente e a testa bassa, “come negri”:

«I nostri nemici hanno sempre voluto opporre Lenin alla tradizione della Sinistra, non solo nel campo delle questioni organizzative, ma in tutti i campi. Il nostro sforzo, invece, è stato sempre di scoprire sotto il Lenin contingente il Lenin permanente, di mostrare come il partito “di tipo nuovo” che egli ha saputo creare in polemica con la socialdemocrazia della II Internazionale rappresenta già in potenza il Partito come noi lo concepiamo e come dietro alla formula del centralismo democratico si facesse già luce un metodo veramente organico – il che si vede non nelle soluzioni singole date da Lenin ai singoli problemi contingenti, ma nella continuità della sua azione. Bisogna dunque trattare questo tema dando maggior rilievo al metodo storico, e tenendo presente come già con Lenin si verifichi il passaggio dalla seconda fase della maturazione del partito di classe, in relazione allo sviluppo del capitalismo, alla terza fase, che è insieme quella dell’imperialismo e del nostro partito.

«Legato a questo difetto di a-storicità vi è quello di considerare i problemi organizzativi come a sé stanti. Bisogna invece dimostrare come il centralismo del partito bolscevico è stato ottenuto attraverso una lotta per il programma, i principi e la tattica, del comunismo, prima e dopo il II Congresso del 1903».

Il nostro partito rivendica una totale continuità con la più pura tradizione rivoluzionaria della classe operaia, dal 1848 passando attraverso le più ortodosse espressioni teoriche marxiste e di azione delle tre Internazionali e si proclama erede diretto del Partito Comunista d’Italia, fondato nel 1921 e con il quale vanta anche una continuità fisica, di organizzazione e di uomini, difensori nel corso di un secolo della incorrotta tradizione del comunismo rivoluzionario di sinistra.


2. Ribadite conferme da un grande passato

Pur non perdendo mai il contatto con la classe operaia e con la sua lotta quotidiana, è nostra tradizione dedicare molte energie, in tempi nei quali mancano le condizioni per dirigere l’attacco rivoluzionario diretto, allo studio delle basi della teoria del nostro modo di esistere e di operare, sia per continuamente riappropriarcene sia per insistere nel lavoro di “scolpitura” delle nostre posizioni di dottrina e di tattica. Il che non significa “arricchimento”, aggiornamento o, peggio, revisione, ma la messa in evidenza di sempre più chiare e circostanziate conferme della correttezza del nostro modo di intendere il processo rivoluzionario.

È nostra ferma convinzione che la dottrina della rivoluzione non avviene per accumulo di successivi apporti, in un processo che sarebbe da considerare mai finito, e quindi suscettibile di continui aggiustamenti alla luce di presunte nuove condizioni precedentemente non prevedibili. La dottrina della rivoluzione, che si forma sulla base di dati storici, economici, scientifici, filosofici, e anche in seguito alle teorizzazioni utopistiche della società futura, nasce in un sol blocco nella prima metà dell’Ottocento, e vede la luce sotto la forma del Manifesto del 1848. Niente viene aggiunto nei 170 anni successivi a questo corpo teorico che ne contraddica postulati e assunti, se non successive verifiche operate dai comunisti marxisti, che rendono lo strumento della teoria sempre più robusto, maneggevole, efficace. Il partito quindi, a scorno di esitanti e dubbiosi, dispone già dalla sua nascita di una dottrina completa e pronta a svolgere il suo ruolo, con tutti gli strumenti che servono, nessuno escluso, da applicare alla forza dirompente e invincibile del proletariato insorto.

Il partito è allo stesso tempo il custode della dottrina e l’organo che in base a questa svolge un’azione di guida della classe rivoluzionaria. È quindi importante per noi dedicare particolare attenzione a questo strumento, organo della classe operaia anche quando questa, nella stragrande maggioranza dei suoi componenti, non ne ha coscienza, come nel momento attuale.


3. La formazione del Partito Bolscevico

Il Partito Comunista Internazionale non è solo l’erede della Sinistra Italiana: è nostra ferma convinzione che non esistano differenze tra il nostro modo di intendere il partito e quello di Marx, di Engels e quello di Lenin, valutate le differenze storiche e ambientali tra le situazioni nelle quali si sono trovati a operare. Qui intendiamo leggere l’esperienza di Lenin e del suo partito sottolineandone le caratteristiche che sono generali, le stesse del nostro piccolo movimento di oggi.

Per comprendere cosa significasse il partito della rivoluzione per Lenin, e interpretare correttamente le sue formulazioni, è indispensabile avere chiaro il contesto in cui Lenin operò, soprattutto nel periodo di definizione di quello che sarebbe stato il partito bolscevico, prima e dopo il II congresso del Partito Operaio Socialdemocratico Russo (POSDR). Una breve premessa storica ci permette di definire le caratteristiche dei diversi attori politici, dei movimenti e delle ideologie che circolavano in Russia a cavallo dei secoli XIX e XX.

Lenin ci dà una descrizione delle origini del partito in Russia sia nella conclusione del Che fare? (1902) sia nella prefazione alla raccolta Dodici anni (1907).

È negli anni intorno al 1880 che il marxismo penetra in Russia, dove già si era sviluppato il movimento populista. Intorno alla teoria marxista e a giuste proposizioni sulla tattica del proletariato nella doppia rivoluzione si costituisce all’estero il gruppo Emancipazione del Lavoro. Lenin nel Che fare? afferma che quel gruppo possedeva non solo la teoria, ma aveva anche elaborato un piano tattico aderente ai principi sulle prospettive della rivoluzione in Russia e sulla funzione del proletariato in essa.

Nella prima epoca, 1880-1898, la lotta dei marxisti si svolge soprattutto contro il populismo, movimento politico sviluppatosi in Russia tra l’ultimo quarto del secolo XIX e gli inizi del XX; questo si proponeva di raggiungere, attraverso l’attività di propaganda e proselitismo presso il popolo svolta da intellettuali e con una diretta azione terroristica, un miglioramento delle condizioni di vita delle classi diseredate, in particolare dei contadini e dei servi della gleba, e la realizzazione di una specie di socialismo rurale basato sulla comunità di villaggio, in antitesi alla società industriale di occidente. A liquidare i conti con questa dottrina intervengono non solo gli autentici marxisti, ma anche tutta una serie di elementi per i quali la critica del populismo significa necessità del passaggio alla democrazia borghese. È l’epoca del “marxismo legale”.

La lotta viene perciò condotta su due fronti: contro il populismo e contro il marxismo piccolo borghese, e a questa lotta sono dedicate le prime opere, principalmente di Lenin e di Plekhanov. La data 1890, esordio di Lenin nell’agone politico, coincide semplicemente con questo: la comparsa in Russia della classe operaia. In quest’epoca i marxisti russi sono ridotti a un piccolo gruppo. Ma è importante ciò che scrive Lenin nel Che fare?: questo gruppo di intellettuali aveva già elaborato tutto del programma, non aspettò “le masse”. Le prime, notevoli agitazioni operaie si ebbero nel 1896, e il gruppo di intellettuali si gettò nella lotta indicando al movimento non solo i suoi compiti immediati, ma tutta la sua prospettiva fino al socialismo.

Gli effetti di questo movimento e dei successivi furono: 1) il partito si legò alla classe; 2) si separò nettamente dal “marxismo legale”; 3) si costituì in organizzazione di partito (1898).

Lenin afferma in tutte le sue opere che dal 1896 in poi il proletariato russo non è mai inattivo: inadeguata è l’organizzazione del partito a guidare il vivacissimo movimento operaio. Così viene posta la questione nel Che fare?, dove il problema cruciale è questo: come deve essere un partito adatto a guidare il movimento operaio?

È di fronte a questo esuberante movimento operaio che si manifesta la deviazione economista.

È questo un primo tratto caratteristico che bisogna notare se crediamo veramente che il partito sia insieme un prodotto e un fattore delle situazioni. Le difficoltà verso la formazione di un partito rivoluzionario in Russia vanno inquadrate nella situazione particolare rispetto agli altri paesi industrializzati o in via di industrializzazione. Gli operai erano percentualmente pochissimi, e concentrati in alcuni distretti industriali; il resto dell’immenso paese era una sterminata campagna con piccoli e medi contadini, accanto a grandi proprietà condotte con salariati o con ex servi della gleba; da questi proveniva la generazione che allo svolto del secolo era andata a costituire il proletariato industriale. La tradizione sindacale era quasi inesistente, come la propaganda socialista. I rivoluzionari dovevano parlare a un uditorio prevalentemente analfabeta e sospettoso.

Era una condizione però che comportava aspetti positivi: nemmeno il veleno riformista era potuto penetrare granché nella classe, ed era più facile mettere i proletari di fronte alla realtà delle loro dure condizioni per aiutarli a trarre dalle lotte preziose indicazioni su chi erano gli amici e chi i nemici. La borghesia, costretta a essere rivoluzionaria nei confronti dell’assolutismo, non disponeva delle sue armi tipiche, o ne disponeva in misura ridotta: ideologia, tradizioni, elettoralismo. Un opportunismo, dapprima poco dotato di strumenti teorici, era in rapida evoluzione, anche grazie allo sviluppo del revisionismo all’interno del movimento socialista in Europa occidentale proprio in quegli anni.

Seconda caratteristica di cui bisogna tener conto: fin dal 1894-1895 la classe operaia in Russia non perse mai il contatto con il suo partito. La sua dimensione è desumibile dai dati di Lenin: 1894-1895 diverse centinaia di operai iscritti; 1906, al congresso di Stoccolma, circa 33.000; 1907, 150.000-170.000; 1913, 33.000-50.000. Lenin fornisce queste cifre nel 1913, mentre polemizza con Vera Zasulic, la quale sosteneva che la socialdemocrazia russa era composta da correnti di intellettuali. È naturale che di questa situazione sia necessario tener conto quando si affrontano i problemi organizzativi. È Lenin stesso che lo afferma in maniera categorica nella prefazione alla citata raccolta Dodici anni.


4. Contro il localismo, per la centralizzazione comunista

Il congresso del 1898 aveva creato una organizzazione clandestina e iniziato la pubblicazione di un giornale illegale, ma quella fu quasi subito soppressa dalla polizia, e l’opera non poté continuare. L’organizzazione si ridusse a circoli, gruppi locali senza alcun legame stabile tra loro e senza alcuna continuità di lavoro.

Lenin respinge la tesi, che trovava ancora ampio corso tra i socialisti russi, secondo cui la necessità maggiore sarebbe stata quella di sviluppare la rete dei circoli locali e di moltiplicare e irrobustire la stampa locale. La questione più urgente del movimento invece consisteva non più nello sviluppo del vecchio lavoro locale e scoordinato, ma «nella unificazione dell’organizzazione. Per compiere questo passo abbiamo bisogno di un programma; il programma deve formulare le nostre concezioni fondamentali, stabilire con precisione i nostri compiti immediati, indicare quelle rivendicazioni urgenti che devono delimitare la sfera dell’attività di agitazione, rendere questa attività unitaria, ampliarla e approfondirla, trasformarla da agitazione parziale, frammentaria, per piccole rivendicazioni frazionate, in agitazione per tutto l’insieme delle rivendicazioni socialdemocratiche» (Lenin, Opere Complete in 45 volumi, Editori Riuniti, Roma: IV, 232. Nel resto del testo volume e pagina si riferiscono a questa edizione).


5. La rivoluzione non è questione di forme di organizzazione

Anche se dare al partito la sua giusta forma era uno dei compiti principali del momento, va però sfatata una volgare favola: che la particolare forma conferita al partito bolscevico, indipendentemente dalla sua dottrina e dal suo programma, l’abbia reso strumento capace di per sé, con la sua disciplina, di suscitare una rivoluzione.

Ciò non toglie importanza a come il partito si organizza, e la storia del partito bolscevico, nella situazione specifica della Russia, lo dimostra.

Attraverso le questioni di organizzazione cercano ripetutamente di penetrare nel partito forme di opportunismo. Di qui la lotta instancabile di Lenin per una organizzazione ben legata alle basi teoriche del marxismo.

Inizia un periodo di dispersione e di confusione che Lenin descrive sia nel Che fare? sia nella prefazione citata. Le caratteristiche di questo periodo (1898-1903) sono: 1) gli operai sono in movimento; 2) la gioventù intellettuale passa sempre più al marxismo e si infatua del movimento operaio; 3) manca qualsiasi organizzazione centralizzata, un lavoro continuo e unitario; 4) fanno presa sui giovani rivoluzionari sia il movimento operaio, sia la letteratura marxista legale, sia il revisionismo: è l’epoca dei circoli, come la definisce Lenin; 5) rinascono, per reazione, le tendenze terroristiche e anarchiche.

All’estero esiste come organizzazione del POSDR la Unione dei Socialdemocratici Russi, di cui fa parte il gruppo Emancipazione del Lavoro, il gruppo di Plekhanov. Viene tentata la pubblicazione di un organo centrale del partito, la Rabociaia Gazieta, per la quale Lenin scrive alcuni articoli, ma che non verrà mai pubblicata. In Russia esistono soltanto giornali e pubblicazioni locali.


6. Contro l’economismo - Lotta economica e lotta politica

Nasce l’economismo, la tendenza a sopravvalutare le potenzialità della lotta economica spontanea del proletariato e a sottovalutare i compiti del partito politico.

Il programma degli economisti era riassunto nel Credo del 1899 ma già esposto nella Rabociaia Mysl, suo organo più conseguente di cui si pubblicarono un numero e un supplemento speciale. In un suo articolo dell’ottobre 1897 gli economisti – che oggi chiameremmo, con pochi distinguo, operaisti – affermano che «la lotta economica è la via verso ulteriori vittorie»; «gli operai hanno da lottare non per le generazioni future, ma per sé (...) gli operai per gli operai». Il partito, le prospettive della rivoluzione, per non parlare del marxismo e della teoria della rivoluzione, non sono nominati.

Conseguenza dell’economismo è la giustificazione teorica del sistema dei circoli locali. Strettamente legato all’economismo è il bernsteinismo, che svaluta anch’esso i compiti del proletariato nella rivoluzione borghese e sostiene la necessità di una critica in senso riformistico della teoria marxista. L’economismo permea molti circoli russi creando una mentalità antipartito, anti-organizzazione, anti-teoria, ecc.

Lenin subito contrappone al Credo una riunione di diciassette militanti deportati in Siberia, che si pronunziano per la condanna di quelle posizioni.

Lenin le demolisce nella “Protesta dei socialdemocratici russi”, scritta nel 1899 a nome di tutta la comunità socialdemocratica in esilio in Siberia:

«Non è vero che in Occidente la classe operaia non abbia partecipato alla lotta per la libertà politica e alle rivoluzioni politiche. La storia del cartismo e la rivoluzione del ’48 in Francia, Germania e Austria provano l’opposto.

«Non è affatto vero che e il marxismo è stato l’espressione teorica della prassi dominante: la lotta politica che prevale sulla lotta economica. Il marxismo comparve invece nel momento in cui dominava il socialismo apolitico (owenismo, fourierismo, Vero Socialismo), e il Manifesto Comunista prese immediatamente posizione contro il socialismo apolitico. Persino quando il marxismo si presentò armato di tutta la sua teoria (Il Capitale) e organizzò la celebre Associazione Internazionale degli Operai, la lotta politica non era affatto la prassi dominante (ristretto tradunionismo in Inghilterra, anarchismo e proudhonismo nei paesi latini). In Germania, il grande merito storico di Lassalle è consistito nell’aver trasformato la classe operaia da appendice della borghesia liberale in partito politico indipendente.

«Il marxismo ha fuso in un tutto indivisibile la lotta economica e la lotta politica della classe operaia, e la tendenza degli autori del Credo a separare queste forme di lotta appartiene alle più infelici e nefaste deviazioni dal marxismo.

«Parimenti, con buona pace degli autori del Credo, non c’è neanche da parlare di cambiamento radicale dell’azione pratica dei partiti operai dell’Occidente: l’enorme importanza della lotta economica del proletariato e la necessità di questa lotta sono state riconosciute dal marxismo fin dai suoi inizi, e già negli anni quaranta Marx ed Engels polemizzavano contro i socialisti utopisti, che ne negavano l’importanza» (IV, 174-175).


7. Contro la “libera critica”

Nel 1900 si scinde l’organizzazione socialdemocratica all’estero, una parte della quale passa sul terreno dell’economismo e della “libertà di critica” del marxismo. L’Unione pubblica il Rabociaie Dielo, permeato di dissimulato economismo e bernsteinismo. È per la ricostituzione dell’unità organizzativa del partito sulla base teorica della “libertà di critica” e sulla base pratica di una “ampia democrazia” nell’organizzazione. Plekhanov si stacca dell’Unione e fonda l’organizzazione Il Socialdemocratico.

La necessità di unificazione è nettamente sentita, perché tutto il lavoro in Russia è rovinato dal localismo e dalla mancanza di un programma saldo e condiviso.

Sul problema della ricostituzione del partito alla fine dell’anno 1900 scende in campo l’Iskra e il suo circolo. Tra i socialdemocratici si hanno le seguenti posizioni. 1) Gli economisti dichiarati, i quali non sentono neanche il bisogno dell’organizzazione e ne negano l’importanza; sono i teorizzatori di ciò che esiste nel momento presente. 2) Il Rabociaie Dielo, tendenza informe che difende la legittimità del revisionismo e della “libertà di critica” sul piano teorico; sono per una unificazione puramente organizzativa garantita dalla democrazia interna sul piano pratico. 3) L’Iskra, che vuole porre alla base dell’organizzazione il chiarimento netto delle posizioni teoriche, programmatiche e tattiche, rompendo con l’economismo.

L’Iskra intende riaffermare l’ortodossia marxista e rendere quella testata il quartier generale ideologico che funga da collegamento fra tutti i marxisti rivoluzionari. Nel suo primo numero del dicembre 1900 sono rivelate le sue costanti preoccupazioni: infondere nelle masse proletarie le idee e la coscienza socialdemocratiche, organizzare un forte e disciplinato partito di rivoluzionari “a tempo pieno”, e attraverso loro creare solidi legami con il movimento operaio spontaneo. Questo per evitare ai lavoratori di scivolare nel riformismo e all’intelligencija di rimanere al livello delle dispute dottrinarie.

Nel giugno del 1901 i rappresentanti delle organizzazioni in esilio si riuniscono a Ginevra. L’unità raggiunta in quel convegno si rivela di breve durata e l’Iskra, di conseguenza, si irrigidisce e diviene sempre più scettica sulle possibilità di giungere all’unificazione. Nell’ottobre dello stesso anno si tiene a Zurigo un nuovo convegno che, dopo animate discussioni, si conclude con la completa rottura da parte della sinistra. Subito dopo i militanti dell’Iskra, quelli del gruppo Social-Demokrat e altri si unificano in una nuova organizzazione, la Lega della Socialdemocrazia Rivoluzionaria Russa. Nella loro dichiarazione programmatica si dichiarano fieri di essere chiamati “settari”.


8. Il Che Fare? pietra miliare del marxismo

L’espressione più compiuta della campagna iskrista è il Che fare? in cui Lenin pone da un punto di vista coerentemente marxista tutte le questioni: 1) teoria, sua importanza e sua invarianza; 2) funzione del proletariato nella rivoluzione doppia: necessità del partito autonomo e della lotta politica proletaria; 3) rapporti fra partito e classe, fra politica tradeunionista e politica socialdemocratica, fra spontaneità e coscienza. Infine, sul piano organizzativo, sono necessari: 1) un giornale politico unico per tutta la Russia; 2) una organizzazione clandestina di “rivoluzionari di professione”, strettamente ancorata ai principi, ben delimitata dall’esterno, continua nel tempo e collegata nello spazio, circondata da tutta una serie di organizzazioni legali e semi-legali, specializzata nel lavoro pratico e strettamente centralizzata; 3) un piano tattico prestabilito, discendente dai principi e non mutevole da un giorno all’altro.

Riguardo alla teoria, Lenin è categorico e non esita a chiamare a testimone Engels, che cita ampiamente per dimostrare come gli stessi operai tedeschi, in quel momento all’avanguardia in Europa, si fossero avvantaggiati nel campo della lotta politica e della lotta economica delle esperienze delle lotte trascorse in Francia e in Inghilterra e delle conseguenti elaborazioni teoriche del marxismo.

Il problema era rappresentato dai sostenitori della “libertà di critica”, che Lenin definisce «libertà di trasformare la socialdemocrazia in un partito democratico di riforme, la libertà di introdurre nel socialismo le idee borghesi e gli uomini della borghesia» (V, 326).

Il Che fare? è un testo nostro in tutto e per tutto. Il piano organizzativo dell’Iskra può essere condiviso parola per parola.

Notiamo che Lenin pone la questione della rigida delimitazione della organizzazione dei rivoluzionari dalle altre organizzazioni, anche operaie. Rivendica inoltre il ricorso a compagni con una certa “specializzazione” nel campo dell’azione pratica, ma non nell’attività della ricerca teorica. Notiamo altresì che Lenin pone la questione degli strumenti, dei mezzi operativi che realmente organizzino, e non si affida a formulari organizzativi o gerarchici: un lavoro comune per un giornale comune, il giornale organizzatore collettivo; gruppi del partito che vengono abituati dal lavoro stesso a reagire simultaneamente agli avvenimenti, fino all’insurrezione.

Gli stessi temi sono ripresi nella Lettera a un compagno, immediatamente successiva al Che fare?: «Probabilmente potremo fare a meno di uno statuto». Appunto, il centralismo organico.


9. Dai circoli al partito

Nell’agosto 1903 si riunisce il II Congresso che deve procedere alla riunificazione del partito, sulla base delle proposizioni dell’Iskra. Tutti accettano ormai il programma iskrista, ma Lenin nota e dimostra che l’accettazione a parole di un programma non basta se non si accetta la disciplina organizzativa del partito. Questa affermazione non ha senso meccanico, ma storico e dialettico, anche se è da noi perfettamente accettata anche nel semplice suo senso letterale. Pensate bene: c’era fino a ieri l’economismo, c’erano fino a ieri i circoli, ognuno con una propria visione, una struttura, una propria tradizione, c’era e c’è ancora il bernsteinismo. L’Iskra ha martellato per tre anni le sue proposizioni e la situazione stessa della lotta materiale ha costretto piano piano tutti i militanti a schierarsi apertamente con l’Iskra e ad ammettere il piano dell’Iskra come il solo adeguato.

Lenin conferisce alla parola “unificazione” un significato preciso: trasformazione del movimento di circoli locali autonomi in un partito marxista di tutta la Russia, ideologicamente omogeneo e diretto da un centro unico. Disciplina unica e omogeneità ideologica: questa è la “unificazione”. Per raggiungerla è pronto a non sottostare a compromessi e lasciare che se ne vadano tutti quelli che non accettano una organizzazione centralizzata, tutti i giornali che rifiutano di fondersi in un solo organo nazionale, il Bund socialista ebraico se non è pronto a rinunciare alla propria autonomia, i revisionisti e gli economisti e tutti quelli che non accettano il programma “marxista ortodosso” che, con Plekhanov e gli altri redattori dell’Iskra, ha codificato per il congresso.

Vi è chi pensa che la prima esigenza del partito non ancora nato sia una discussione prolungata, piena e libera dei principi fondamentali. Invece per Lenin, come per Plekhanov, tutto è stato già scritto, in Europa occidentale, nelle opere di Marx e di Engels, e nuovamente da quelle di Kautsky e di Plekhanov nella loro polemica ancora accesa con Bernstein.

Il congresso è quindi convocato all’insegna della accettazione del piano iskrista. “Bene signori, noi iskristi vi chiediamo dei fatti che dimostrino se il vostro riconoscimento è reale o solo a parole, a voi, che fino a ieri difendevate la legittimità di ciò che esiste, poniamo questa pietra di paragone: tutti i circoli devono sciogliersi e tutti i giornali soppressi; non sono previsti mandati imperativi di gruppi al congresso”.


10. Il cruciale “Paragrafo 1”

La verifica dà i suoi frutti. A voi, che fino a ieri difendevate le organizzazioni per la lotta economica e il partito solo come una superiore istanza ideale, proponiamo un Paragrafo 1 dello statuto che suona così: «È membro del partito non solo colui che ne accetta il programma e lo sostiene nella misura delle proprie forze, ma che anche lavora in una delle organizzazioni del partito. Siete davvero per la distinzione tra partito e classe? Dimostratelo accettando queste condizioni».

La discussione sul Paragrafo 1 è importante perché pone la questione più ampia dell’organizzazione del partito. Dice Lenin: «Nel mio progetto questa definizione era la seguente: “Si considera membro del Partito Operaio Socialdemocratico Russo chiunque ne accetti il programma e sostenga il partito stesso sia con mezzi materiali sia partecipando personalmente a una delle sue organizzazioni”. Martov, invece, al posto delle parole evidenziate, proponeva: “lavorando sotto il controllo e la direzione di una delle sue organizzazioni”(...) Noi dimostrammo che era necessario restringere il concetto di membro del partito per distinguere gli elementi che lavorano dai chiacchieroni, per eliminare il caos organizzativo, per eliminare lo scandalo e l’assurdità che ci fossero organizzazioni composte di membri del partito, ma senza essere organizzazioni di partito, ecc. Martov era per l’ampliamento del partito e parlava di ampio movimento di classe, movimento che esigeva una organizzazione vasta, senza contorni precisi, ecc. (...) Plekhanov insorse vivacemente contro Martov, rilevando che la sua formulazione alla Jaurès spalancava le porte agli opportunisti, bramosi appunto di questa posizione: nel partito e fuori dell’organizzazione. “Sotto il controllo e la direzione” – dissi io – significa in pratica, ne più ne meno: senza alcun controllo e senza alcuna direzione» (“Racconto sul II congresso del POSDR”, 1903, VII, 19).

Martov auspica “un partito di massa”, intendendo con le porte spalancate a ogni sorta di opportunisti, con i suoi confini indeterminati e vaghi, rendendo non facile distinguere il rivoluzionario dal parolaio ozioso.

Lenin osserva che un buon terzo dei componenti del congresso erano degli intriganti. Perché preoccuparsi di coloro che non vogliono o non possono aderire a una delle organizzazioni del partito, si domanda Plekhanov. «Gli operai che desiderano entrare nel partito non avranno paura di entrare in una delle sue organizzazioni. La disciplina non fa loro paura. Temeranno di entrarvi gli intellettuali, completamente imbevuti di individualismo borghese. Questi individualisti borghesi sono generalmente i rappresentanti di ogni sorta di opportunismo. Dobbiamo allontanarli da noi. Il progetto è uno scudo contro la loro irruzione nel partito, e solo per questo tutti i nemici dell’opportunismo devono votare per il progetto di Lenin» (Atti del II congresso, seduta del 2 (15) agosto).

Trotski parla contro la proposta di Lenin ritenendola inefficace. Gli ribatte Lenin: «[Trotski] non ha rilevato una questione fondamentale: la mia formulazione restringe o allarga il concetto di membro del partito? Se egli si fosse posto questa domanda, gli sarebbe stato facile vedere che la mia formulazione restringe questo concetto, mentre quella di Martov lo allarga, distinguendosi (secondo la giusta espressione dello stesso Martov) per la sua “elasticità”. E proprio la ”elasticità”, in un periodo della vita del partito come quello che attraversiamo, spalanca indubbiamente le porte a tutti gli elementi sbandati, tentennanti e opportunisti».


11. Salda organizzazione, tattica coerente, purezza dei principi

Gli elementi instabili sono forieri di incertezze, deviazioni, e poco lavoro. Il pericolo può essere grande. «La salvaguardia della fermezza della linea e della purezza dei principi del partito diviene appunto ora un compito tanto più impellente in quanto il partito, ricostituito nella sua unità, accoglierà nelle sue file moltissimi elementi instabili, il cui numero crescerà nella misura in cui il partito si sviluppa» (“Il congresso del POSDR”, 1903, VI, 465).

D’altronde, dove sta il pericolo di una rigorosa delimitazione del partito, attraverso precisi limiti alla definizione di socialdemocratico? «Se risultasse che centinaia e migliaia di operai arrestati per aver partecipato a scioperi e dimostrazioni non sono membri delle organizzazioni del partito, ciò dimostrerebbe unicamente che le nostre organizzazioni sono buone, che noi adempiamo il nostro compito, quello di far lavorare clandestinamente una cerchia più o meno ristretta di dirigenti e di far partecipare al movimento le più larghe masse possibile». Non si può confondere il partito, reparto d’avanguardia della classe operaia, con la classe tutta, come faceva Axelrod. «È meglio che dieci elementi che lavorano non si chiamino membri del partito (i veri militanti non vanno a caccia dei gradi!), piuttosto che un solo chiacchierone abbia il diritto e la possibilità di essere membro del partito (...) Il CC non sarà mai in grado di controllare veramente tutti coloro che lavorano, ma non entrano nell’organizzazione. Il nostro compito è di affidare al CC un controllo effettivo. Il nostro compito è di salvaguardare la saldezza, la coerenza, la purezza del nostro partito. Noi dobbiamo sforzarci di elevare sempre più l’appellativo e l’importanza di membro del partito» (VI, 465-467).


12. Rivoluzionari di professione

Scriveremo noi nel 1955 in “Russia e rivoluzione nella teoria marxista”, Parte 2, §37: «Apparentemente sembra che Lenin distinguesse tra i semplici militanti del partito e i “rivoluzionari professionali”, i cui più ristretti gruppi formavano l’ossatura dirigente. Mostrammo più volte che qui si tratta della rete illegale, e non della sovrapposizione al partito di una apparecchiatura burocratica di gente pagata. Professionale non significa necessariamente stipendiato, ma dedicato alla lotta del partito per volontaria adesione, svincolata ormai da ogni associazione per motivi di difesa di interessi collettivi, anche se questa rimane la base determinista del sorgere del partito. Tutta la portata della dialettica marxista è in questo doppio rapporto. L’operaio è rivoluzionario per interesse di classe, il comunista è rivoluzionario per lo stesso fine, ma elevato oltre l’interesse soggettivo».

E in Gracidamento della prassi, “Il programma comunista”, n. 11/1953: «La destra del partito russo vuole che il membro del partito venga da un gruppo operaio di professione o di fabbrica federato nel partito: i sindacati furono chiamati dai russi associazioni professionali. In senso polemico Lenin forgia la storica frase che soprattutto il partito è una associazione di rivoluzionari professionali. A essi non si chiede: siete operaio? In quale professione? Meccanico, stagnaio, legnaiuolo? Essi possono essere così bene operai di fabbrica come studenti o magari figli di nobili; risponderanno: rivoluzionario, ecco la mia professione. Solo il cretinismo stalinista poteva dare a tale frase il senso di rivoluzionario di mestiere, di stipendiato dal partito. Tale inutile formula avrebbe lasciato il problema allo stesso punto: assumiamo impiegati dell’apparato tra gli operai, o anche fuori? Ma di ben altro si trattava».


13. Conoscenza e milizia - La “coscienza proletaria”

Per i bolscevichi il militante comunista è colui che accetta – non necessariamente conosce o comprende nei dettagli – il programma, ed è disposto a lavorare agli ordini del partito: doti di abnegazione, volontà di combattere, che qualsiasi proletario può avere, anche se illetterato. Un’accettazione del programma che può essere basata sulla comprensione di pochi aspetti essenziali, a volte solo di slogan, ma che coincidono con le sue aspirazioni profonde, con i suoi bisogni. Un’adesione basata più sulla passione che sull’intelletto. La comprensione verrà, col tempo.

Mai completa però, la comprensione totale della dottrina non può essere del singolo ma del collettivo del partito, e si esprime nella sua stampa, nelle sue tesi, nella sua tattica rivoluzionaria. «La conoscenza dottrinale non è fatto singolo anche del più colto seguace o capo, e nemmeno è condizione per la massa in moto: essa ha per soggetto un organo proprio, il partito» (“Russia e rivoluzione...”, Parte 2, § 37).

Questo concetto è ripetuto nelle Tesi caratteristiche del partito, del 1952: «La questione della coscienza individuale non è la base della formazione del partito: non solo ciascun proletario non può essere cosciente e tanto meno culturalmente padrone della dottrina di classe, ma nemmeno ciascun militante preso a sé, e tale garanzia non è data nemmeno dai capi. Essa consiste solo nella organica unità del partito».

«Oltre l’influenza della socialdemocrazia non vi è altra attività cosciente degli operai», dice Lenin al II congresso. E noi aggiungiamo: «È pesante, ma è così. L’azione dei proletari è spontanea in quanto sorge dalle determinanti economiche, ma non ha per condizione la coscienza, né nel singolo, né nella classe. La fisica lotta di classe è fatto spontaneo, non cosciente. La classe raggiunge la sua coscienza solo quando nel suo seno si è formato il partito rivoluzionario, che possiede la coscienza teorica poggiata sul reale rapporto di classe, proprio, in fatto, di tutti i proletari. Questi però non potranno mai possederne la vera conoscenza – ossia la teoria – né come singoli, né come totalità, né come maggioranza finché il proletariato sarà soggetto all’educazione e alla cultura borghesi, ossia alla fabbricazione borghese della sua ideologia e, in buoni termini, finché il proletariato non vincerà, e cesserà di esistere. Quindi, in termini esatti, la coscienza proletaria non vi sarà mai. Vi è la dottrina, la conoscenza comunista, e questa è nel partito del proletariato, non nella classe» (Ibid., § 39).


14. Autonomia, democrazia, libera critica

Al congresso si ha un duro scontro, man mano che i bolscevichi espongono le loro condizioni si manifestano contro-posizioni. E dove necessariamente? Nella questione organizzativa. Chi prima era stato avversario dell’Iskra sul piano teorico, programmatico e tattico, ora grida contro il centralismo e la disciplina, è per l’autonomia e la democrazia nell’organizzazione; accusa l’ala rivoluzionaria di burocratismo, di imporre lo “stato d’assedio”. In realtà tutto il burocratismo di Lenin è porre lo stato d’assedio alle posizioni opportuniste. Tutto qui il presunto “manovrismo” di Lenin, che, al contrario, mai e poi mai decampa da rapporti sinceri e fraterni, impolitici, con tutti i compagni, avversari compresi.

Il partito, quello di Marx e di Lenin, come pure della Sinistra non ha mai mentito alla classe, per conquistare consensi, e non risparmia nemmeno i commenti sui risultati negativi delle lotte. Meno che mai quel partito ha mentito ai suoi stessi militanti, che si formano in un ambiente di piena reciproca sincerità.

Negli anni 1895-97 aveva difeso a spada tratta l’importanza del coinvolgimento del partito nella lotta economica del proletariato. Precedentemente al congresso ha dovuto invece distruggere le posizioni degli economisti. Ora ha da difendere il “burocratismo”, inteso come negazione della brama di “libertà di critica”, di autonomia: il centralismo, senza aggettivi, come necessità primaria. Questo non capirono allora trotskij e la Luxemburg.

La crisi giunge con la scelta dei componenti della redazione dell’Iskra. Lenin ne ottiene la riduzione ai soli che effettivamente lavorano (scelta organica), ma Martov si oppone, e rifiuta di far parte della redazione. Lenin ricorda che si tratta di una decisione del congresso, e che quindi rifiutare di lavorare equivale a una scissione del partito. Che poi è proprio quello che accade.

Lenin è accusato dagli oppositori, soprattutto Martov, di formalismo e burocratismo. Difende il meccanismo democratico adottato dal congresso, mentre Martov difende la democrazia dal basso: «Burocratismo versus democrazia - centralismo versus autonomia, è il principio organizzativo della socialdemocrazia rivoluzionaria in contrapposizione al principio organizzativo degli opportunisti della socialdemocrazia. Quest’ultimo vuole andare dalla base al vertice, e sostiene perciò, dovunque è possibile e nella misura in cui è possibile, l’autonomia, una “democrazia” che giunge (in coloro che sono eccessivamente zelanti) sino all’anarchia. Il primo vuol partire dal vertice, propugnando l’estensione dei diritti e dei pieni poteri del centro nei confronti della parte» (VII, 384).

Lenin deve quindi tornare al paragrafo 1: «nella mia formulazione, difesa da Plekhanov, si rifletteva una interpretazione sbagliata, burocratica, formalistica, alla Pompadour, non socialdemocratica del centralismo? Opportunismo e anarchia o burocratismo e formalismo – così si pone la questione oggi, dopo che la piccola divergenza è diventata grande» (VII, 249).

«Se nelle frasi sul burocratismo si cela un principio, se non si tratta di una negazione anarchica del dovere che ha la parte di sottomettersi al tutto, ci troviamo di fronte al principio dell’opportunismo, che tende a indebolire la responsabilità dei singoli intellettuali davanti al partito del proletariato, a indebolire l’influenza degli organismi centrali, a rafforzare l’autonomia degli elementi meno stabili, a ridurre i rapporti organizzativi alla loro accettazione meramente platonica e formale» (VII, 356).

Quindi da questa esperienza particolare dei bolscevichi che lezione possiamo trarre? È Lenin stesso a chiarircelo: «È oltremodo interessante rilevare che le caratteristiche essenziali dell’opportunismo nelle questioni organizzative (autonomia, anarchia da gran signore, o da intellettuale, codismo e girondismo) si riscontrano mutatis mutandis (coi dovuti mutamenti) in tutti i partiti socialdemocratici di tutto il mondo, sol che vi esista una divisione in ala rivoluzionaria e opportunistica (ma dove non esiste?) (...) Non soltanto in Germania, ma anche in Francia, anche in Italia gli opportunisti sono come un sol uomo per l’autonomia, per l’indebolimento della disciplina di partito, per il suo annullamento; dappertutto le loro tendenze portano alla disorganizzazione, alla degenerazione del "principio democratico” in anarchia» (VII, 384-387).

L’opportunismo nelle questioni di organizzazione è la deviazione che Lenin denuncia spesso nei suoi scritti: «L’indubbia tendenza a difendere l’autonomia contro il centralismo come caratteristica essenziale dell’opportunismo nelle questioni organizzative». «L’opportunismo nel programma è naturalmente legato all’opportunismo nella tattica e all’opportunismo nelle questioni organizzative».

Il democratismo è invocato a sostegno dell’opportunismo. Noi abbiamo rifiutato per sempre i meccanismi democratici. Qualsiasi trasgressione del modo organico di funzionare del partito è una porta aperta all’ingresso dell’opportunismo, che di solito si manifesta come deviazioni sulle questioni organizzative. Da qui la costante attenzione del partito al corretto modo di lavorare e ai rapporti tra compagni.

Il burocratismo che Lenin difende nel 1903-1904 non è nient’altro che centralismo, e adesione ai principi non deformati del marxismo, insieme ad una forte ed efficiente organizzazione. Naturalmente Lenin rigetta il vero burocratismo: «Burocratismo significa subordinare gli interessi della causa agli interessi della carriera, rivolgere la più viva attenzione ai posti e ignorare il lavoro, azzuffarsi per la cooptazione invece di lottare per le idee. Un simile burocratismo è, in effetti, del tutto indesiderabile e nocivo per il partito» (VII, 353).

Lenin racconta tutto questo in “Un passo avanti, due passi indietro”, del 1904, dove considera un fatto positivo la divisione in due ali della socialdemocrazia. La divisione del partito in due ali in lotta fra di loro, nota Lenin, è [a quel tempo] una caratteristica di tutti i partiti della Seconda Internazionale. La divisione ha radici nella situazione sociale del proletariato. Lo stesso sarà ribadito dopo il IV Congresso, del 1906 (“Libertà di critica e unità d’azione”, X, 422). La corrente opportunista (marxismo legale, economismo, menscevismo) rappresenta l’influenza della piccola borghesia sul proletariato. Ecco come Lenin pone la questione: «In tutti i paesi capitalistici il proletariato è inevitabilmente legato da migliaia di gradini di passaggio al suo vicino di destra, la piccola borghesia. In tutti i partiti operai è inevitabile il formarsi di un’ala destra più o meno nettamente delineata, la quale, nelle sue concezioni, nella sua tattica, nella sua “linea” organizzativa, esprime le tendenze dell’opportunismo piccolo-borghese» (“Prefazione alla raccolta ‘Dodici Anni’”, 1907, XIII, 99).

L’atteggiamento che i bolscevichi tengono fino al 1917 di tolleranza nel partito di correnti spurie o incerte varia a seconda che sia possibile attendere la loro maturazione in senso marxista radicale alla luce delle esperienze del movimento, ovvero di netta e intransigente differenziazione e separazione quando poca chiarezza e incertezze nella tattica sarebbero esiziali per le sorti della rivoluzione. Scelte legittime in un paese con scarso proletariato e poco maturo come la Russia di allora. Lenin sarà molto più deciso dopo lo scoppio della guerra mondiale, e dopo la fondazione della Terza Internazionale, anche se per noi non abbastanza nella applicazione ai partiti in Occidente.


15. La imprescindibile disciplina esecutiva

Dopo il congresso una parte del gruppo dell’Iskra, che raccoglieva intorno a sé tutti gli scontenti, aveva rifiutato di sciogliersi e sabotava lo svolgimento di tutto il lavoro di partito. A questo atteggiamento, che non riconosceva le decisioni del congresso e la sottomissione della minoranza alla maggioranza, è dedicata l’ultima parte dell’opuscolo di Lenin e l’epiteto di “anarchia da gran signori”. Le regole formali che ancora disciplinavano il confronto di opinioni all’interno del partito prevedevano – secondo il “centralismo democratico” – la sottomissione della minoranza, alla quale era però garantita la possibilità di esporre e argomentare liberamente le sue opinioni di fronte a tutto il partito. Questo contraddittorio fra compagni dello stesso partito era regolato da precise forme e consuetudini, sempre premuroso di evitare lacerazioni e danni all’organizzazione. Il partito è lo stato maggiore di un esercito in guerra e sotto il tiro del nemico: è escluso che se ne infranga l’unità d’azione, la disciplina esecutiva. Quella “lotta ideale”, la parola è di Lenin, fra una “maggioranza” e una “minoranza”, in forme “democratiche”, ha avuto campo nella vita del partito, beninteso, finché vi è stato inevitabile, per immaturità storica, il confronto fra opposti indirizzi e concezioni.

Non giunga mai però a infrangere l’unità d’azione, la disciplina esecutiva. Per Lenin, come per noi, l’appartenenza al partito coincide con il lavorare con, e per, il partito: «l’autoestraniarsi dal lavoro in comune altro non è che una scissione» (VII, 159).

Bolscevichi e menscevichi formano due frazioni organizzate dal 1903 al 1906.

La “lotta ideale” all’interno del POSDR continua fino al 1906, con reiterati sinceri tentativi dei bolscevichi di richiamare i menscevichi al lavoro di partito. Naturalmente tutta l’attività pratica in Russia, che ricade quasi interamente sui bolscevichi, risente enormemente di questa situazione.

Nel maggio 1905, su iniziativa dei comitati bolscevichi, si riunisce a Londra il terzo congresso, nel quale è definita la tattica per la rivoluzione che si approssima. I menscevichi convocano contemporaneamente una conferenza a Ginevra, dove adottano risoluzioni tattiche opposte. In Due tattiche, del luglio 1905, Lenin propone ancora l’individuazione dell’indirizzo corretto come base per la futura unificazione del partito. Si confida ancora che “la rivoluzione istruisca”, cioè che i menscevichi, in quanto corrente avente una base nel movimento operaio, spinti dai fatti, spontaneamente abbandonino le loro proposizioni. L’opuscolo è chiaramente dedicato a questo scopo.

Dall’ottobre al dicembre del 1905 si hanno in Russia i grandi avvenimenti rivoluzionari. Sotto la spinta di questi e della loro effettiva base operaia i menscevichi sostengono il proletariato, anche se in maniera incerta ed esitante. Si impone quindi la possibilità della riunificazione organizzativa.

Le due frazioni vanno al congresso, il quarto, aprile 1906, che risulta in maggioranza menscevico. Lenin spiega le condizioni dell’unificazione, ma è significativo che ribadisca l’importanza della teoria: «In vista degli imminenti, gravi e decisivi eventi della lotta popolare, l’essenziale è di realizzare l’unità pratica del proletariato cosciente di tutta la Russia, di tutte le sue nazionalità. In un’epoca rivoluzionaria come quella che attraversiamo, ogni errore teorico e ogni deviazione tattica del partito vengono criticati nel modo più implacabile dalla realtà stessa, che istruisce ed educa la classe operaia con una rapidità mai vista. In tempi come questi è dovere di ogni socialdemocratico adoperarsi affinché la lotta ideale all’interno del partito sulle questioni di teoria e di tattica venga condotta nella maniera più aperta, ampia e libera possibile, ma tale da non distruggere e da non intralciare in nessun caso l’unità dell’offensiva rivoluzionaria del proletariato socialdemocratico» (“Indirizzo al partito dei delegati al congresso di unificazione”, 1906, X, 296).

«La risoluzione del CC è sbagliata nella sostanza, e contrasta con lo statuto del partito. Il principio del centralismo democratico e dell’autonomia delle istanze periferiche significa appunto piena libertà di critica in ogni sede, purché non violi l’unità nell’azione concreta, e inammissibilità di qualsiasi critica che danneggi o intralci l’unità in un’azione decisa dal partito» (“Libertà di critica e unità d’azione”, 1906, X, 422).

Allo stesso congresso si assiste anche a una vittoria teorica a posteriori di Lenin: il famoso paragrafo 1, che era stato deliberato nella formulazione menscevica in occasione del II congresso del 1903, viene adottato nella formulazione di Lenin.

In questo periodo, prima parte del 1906, i bolscevichi sono per il boicottaggio della Duma (boicottaggio del tutto teorico perché la Duma di Witte non fu mai convocata, e seguì un periodo di reazione). I menscevichi propongono invece l’appoggio a un ministro cadetto. Lenin allora si appella al diritto delle organizzazioni di partito e degli iscritti di discutere le decisioni del Comitato Centrale, soprattutto se queste contraddicono le risoluzioni del Congresso. Insomma, con un linguaggio più generale, non rientra nelle facoltà del Centro impartire direttive o anche solo teorizzare in contraddizione con il programma del partito.


16. La mentita “creatività leninista”

Il Che fare? è un testo fondamentale per noi eredi della ben individuata corrente della Sinistra Comunista, ma non per questo di un marxismo diverso da quello di Lenin. La sua opera gigantesca è basata sugli stessi fondamenti sui quali si formò la Sinistra, partita, ancor prima di conoscere gli scritti di quel grande compagno, dalle stesse premesse teoriche e dallo stesso inquadramento tattico generale. Le traduzioni di Lenin arriveranno in Italia molti anni dopo (la prima edizione del Che fare? in italiano è del 1946, anche se in altre lingue il testo era già conosciuto nel primo dopoguerra dai comunisti italiani).

Ci permane l’obbligo di dimostrare la continuità delle posizioni, che giunge spesso alla identità nelle formulazioni, tra noi e i bolscevichi, per chiudere la bocca a chi, immaginando una “creatività” teorica di Lenin, fa della sua dottrina qualcosa di nuovo nel panorama marxista, da associare alle tante altre che nei decenni hanno impestato il movimento rivoluzionario del proletariato.

Quella delle novità, delle invenzioni tattiche e teoriche, del manovrismo scaltro di Lenin è una leggenda che non regge a una lettura non disonesta dei suoi scritti, cosa che qui cercheremo di fare relativamente a un periodo chiave della formazione del Partito Operaio Socialdemocratico Russo, a cavallo del suo secondo congresso (1901-1904).

La falsificazione del pensiero di Lenin – che altro non è che marxismo conseguente e sempre meglio definito e, come diciamo noi, “scolpito” – è un lavoro che ha consentito a torme di intellettuali orbitanti nelle aree più o meno “di sinistra”, dai liberali borghesi dichiarati agli anarchici agli stalinisti, di guadagnarsi uno stipendio sicuramente meritato, visto il danno causato al movimento operaio. In Italia questa opera di travisamento raggiunse il suo massimo di vergognosa abilità nel secondo dopoguerra per opera del Partito Comunista Italiano, cui facevano riferimento fior di storici e filosofi che per oltre 50 anni dettero il meglio di sé per confutare il marxismo fingendo di esaltarlo. La tecnica era sempre la stessa: si partiva riconoscendo la portata storica delle tesi avanzate, per poi inserire di sfuggita una parolina velenosa che di fatto azzerava la forza rivoluzionaria della tesi. È la tecnica dello stalinismo, che non a caso coniò l’obbrobrioso termine di “leninismo”.

Non era ancora “opportuno” dir male di Lenin apertamente, quindi il lavoro difficile richiedeva un artigiano bravo, un intellettuale di vaglia.

Invece, per Lenin, come per noi, la teoria della rivoluzione nasce in un sol blocco dal Manifesto del 1848, ed è solo meglio definita, chiarita, approfondita negli scritti successivi di Marx e di Engels, poi nei suoi, mai in contraddizione con quei primi; al contrario citandoli spesso, ogni volta che doveva dimostrare assunti poco digeribili ai compagni meno provveduti.

Il “processo di elaborazione” che si svolge nel partito va inteso nel senso nostro e di Lenin, di conferma della dottrina, non di continua revisione, adattamento a presunte impreviste condizioni nelle quali il movimento operaio si troverebbe.

Quando Lenin afferma nel 1899 che «per i socialisti russi è necessaria una elaborazione indipendente della teoria di Marx» (“Il nostro programma”, IV, 213) intende una “analisi concreta della situazione concreta”, non una innovazione tanto della tattica quanto della teoria rivoluzionaria. L’articolo dal quale è tratta la citazione, “Il nostro programma”, si scaglia proprio contro gli innovatori alla Bernstein (molto più “a sinistra” dei partiti moscoviti del secondo dopoguerra), mentre si difende, come dobbiamo continuamente fare anche noi, dalle accuse di “dogmatismo”. Nello stesso articolo il nostro Vladimiro ricorda che «la teoria di Marx (...) ha posto le pietre angolari della scienza che i socialisti devono far progredire in tutte le direzioni» (Ibid.). Questo il senso della elaborazione indipendente di cui parla Lenin, non lo smantellamento del marxismo, pietre angolari comprese.

Gli stalinisti parlano di una fantomatica “nuova teoria marxista della rivoluzione” a opera di Lenin. In questo sono in buona compagnia con i trotskisti: Mandel, per esempio, scrive di un preteso sviluppo originale della teoria marxista da parte di Lenin, o altri cialtroni per i quali le definizioni relative al partito «come ogni parte del marxismo, non possono essere mai fissate dogmaticamente, esigono una rielaborazione e uno sviluppo continuo», tutti desiderosi di trovare innovazioni in quello che chiamano “leninismo”, per legittimare la loro incoerenza, il loro sempre rinnovato opportunismo e i loro tradimenti. La tecnica è estrapolare frasi dal contesto per far affermare il contrario di quanto si intendeva riempiendo milioni di pagine di spazzatura anticomunista.

Nel riaffermare i fondamenti del marxismo in Lenin siamo quindi costretti a impiegare citazioni non brevissime, e a collocarle nel loro vero contesto storico e politico nel quale i testi furono vergati.


17. Nessun “partito di tipo nuovo”

Cosa era il partito per i nostri maestri fondatori, cosa era per Marx ed Engels il partito, di “tipo vecchio”, della classe operaia?

Nel Manifesto si legge:
     «Di quando in quando gli operai vincono; ma solo in modo effimero. Il vero risultato delle lotte non è il successo immediato, ma il fatto che l’unione degli operai si estende sempre più.
    
«Questa organizzazione dei proletari in classe, e quindi in partito politico, torna a essere spezzata in ogni momento dalla concorrenza fra gli operai stessi. Ma risorge sempre di nuovo, più forte, più salda, più potente (...)
     «I comunisti si distinguono dagli altri partiti proletari solo per il fatto che essi mettono in rilievo e fanno valere, nelle varie lotte nazionali dei proletari, gli interessi comuni dell’intero proletariato, indipendenti dalla nazionalità.
    
«In pratica i comunisti sono la parte progressiva più risoluta dei partiti operai di tutti i paesi, e quanto alla teoria essi hanno il vantaggio sulla restante massa del proletariato di comprendere le condizioni, l’andamento e i risultati generali del movimento proletario. Lo scopo immediato dei comunisti è lo stesso di tutti gli altri partiti proletari: formazione del proletariato in classe, abbattimento del dominio della borghesia, conquista del potere politico da parte del proletariato. Le proposizioni teoriche dei comunisti non poggiano affatto su idee, su princìpi inventati o scoperti da questo o quel riformatore del mondo. Esse sono semplicemente espressioni generali di rapporti di fatto in una esistente lotta di classi, cioè di un movimento storico che si svolge sotto i nostri occhi» (M-E, VI 498).

«La classe operaia, nella sua lotta contro il potere collettivo delle classi possidenti, non può agire come classe se non costituendosi in un partito politico, distinto e opposto a tutti i vecchi partiti formati dalle classi possidenti. Questa costituzione della classe operaia in partito politico è indispensabile per assicurare il trionfo della rivoluzione sociale e del suo fine ultimo, l’abolizione delle classi» (M-E, Risoluzione sulle regole generali, Congresso dell’Aia, 1872).

«Il proletariato non può conquistare il potere politico, unica porta per entrare nella nuova società, senza una rivoluzione violenta. Perché il giorno decisivo il proletariato sia abbastanza forte per vincere è necessario – e questo Marx e io l’abbiamo sostenuto fin dal 1847 – che si formi un partito specifico, separato da tutti gli altri e a loro contrapposto, un partito di classe cosciente di sé (...) Come tutti gli altri partiti, quello del proletariato impara prima di tutto dalle conseguenze dei suoi errori, e nessuno può risparmiargli del tutto questi errori» (Engels a Gerson Trier, 18 dicembre 1889).

«Le nostre opinioni sui punti di differenza tra una società futura, non capitalistica e quella di oggi, sono rigorose conclusioni da fatti e sviluppi storici esistenti; sarebbero senza valore – teorico o pratico – se non fossero presentate in relazione a questi fatti e sviluppi» (Engels a Pease, 27 gennaio 1889, M-E, XLVII, 392).

«Ogni sconfitta subita è stata una necessaria conseguenza di opinioni teoriche errate nel programma originale» (Engels a Kelley-Wischnewetzky, 28 dicembre 1886, M-E, XLVII, 541).

Queste scarne citazioni tratte dall’immenso corpus teorico che abbiamo ereditato sono sufficienti a stabilire dei punti fermi sulla natura e sul ruolo del partito proletario, e battere in anticipo le critiche che allora furono mosse a Lenin, e successivamente a noi:
     1) La classe è tale solo se organizzata in partito, altrimenti lo è solo per la statistica, non per sé;
     2) La coscienza della classe risiede solo nel partito, non nei singoli, proletari o meno;
     3) La teoria della rivoluzione è “scientifica”, fondata sulla realtà storica, passata e presente; è incarnata nel programma, continuamente confermato e affinato alla luce delle esperienze, ma, in quanto compiuta teoria scientifica, non può essere contraddetta da eventi nuovi senza perire.
     4) È necessario il partito per poter vincere nella lotta finale le classi avverse, lotta che sarà inevitabilmente violenta.

La grandezza di Lenin non consiste nella elaborazione di un partito “di tipo nuovo”, come i “leninisti” vorrebbero far credere, poiché “tutto cambia”, per la necessità di sopraggiunte scoperte, di vie nuove, di elaborazioni originali. Lenin ha tratto da una profonda conoscenza della scienza marxista il piano di un partito che fosse, sia dal un punto di vista della teoria sia della organizzazione, capace di vincere il doppio confronto in Russia con lo zarismo e con lo incombente capitalismo. La sua formula di partito marxista rivoluzionario per la Russia è altrettanto valida per tutti i partiti, allora socialisti poi comunisti. È così che si deve interpretare Lenin, anche nei suoi scritti del periodo di nascita del partito in Russia, oggetto principale di questa trattazione.


18. Marxismo dogmatico contro revisionismo

Lenin esordisce ricordando le questioni poste in Da che cosa cominciare?: «Le questioni del carattere e del contenuto essenziale della nostra agitazione politica, dei nostri compiti organizzativi e del piano per la creazione simultanea, da diverse parti, di un’organizzazione di lotta per tutta la Russia» (“Che fare?”, V, 321-22).

La trattazione è centrata sulla critica dell’economismo, ma dà l’opportunità di fare chiarezza su molte altre questioni centrali del movimento.

Il primo capitolo si intitola “Dogmatismo e ‘libertà di critica’”. Lenin si affretta qui a chiarire il punto che più gli sta a cuore, quello del cosiddetto “marxismo dogmatico”, del quale ammette di essere portatore, minacciato a livello internazionale dalla nuova ondata di “critici”, il revisionismo di Bernstein e altri. In questo capitolo fondamentale Lenin denuncia il revisionismo, e in generale il tentativo di cancellare la base scientifica del socialismo; con “nuovi” argomenti si arrivano a negare o a mettere in discussione tutti i capisaldi del marxismo, compresa la teoria della lotta di classe. Si tratta soltanto di una nuova varietà di opportunismo, paludata dalla parola libertà, libertà di critica. «La libertà è una grande parola, ma sotto la bandiera della libertà dell’industria si sono fatte le guerre più brigantesche, sotto la bandiera della libertà del lavoro i lavoratori sono stati costantemente derubati. L’impiego che oggi si fa dell’espressione “libertà di critica” implica lo stesso falso sostanziale» (V, 327).

Da allora sappiamo bene quante volte questa parola, che non appartiene al vocabolario del marxismo, è stata usata per consumare i più atroci crimini. Dalle guerre costate decine di milioni di morti non è scaturita alcuna libertà ma l’asservimento di interi continenti agli interessi del capitale internazionale.


19. Piccolo gruppo compatto

Lenin conclude il capitoletto con un periodo che è tra i più famosi della sua letteratura: «Piccolo gruppo compatto, noi camminiamo per una strada ripida e difficile tenendoci con forza per mano. Siamo da ogni parte circondati da nemici e dobbiamo quasi sempre marciare sotto il fuoco. Ci siamo uniti, in virtù di una decisione liberamente presa, allo scopo di combattere i nostri nemici e di non sdrucciolare nel vicino pantano, i cui abitanti, fin dal primo momento, ci hanno biasimato per aver costituito un gruppo a parte e preferito la via della lotta alla via della conciliazione. Ed ecco che taluni dei nostri si mettono a gridare: “Andiamo nel pantano!”. E, se si incomincia a confonderli, ribattono: “Che gente arretrata siete! Non vi vergognate di negarci la libertà d’invitarvi a seguire una via migliore?”. Oh sì, signori, voi siete liberi non soltanto di invitarci, ma di andare voi stessi dove volete, anche nel pantano; del resto pensiamo che il vostro posto è proprio nel pantano e siamo pronti a darvi il nostro aiuto per trasportarvi i vostri penati. Ma lasciate la nostra mano, non aggrappatevi a noi e non insozzate la nostra grande parola della libertà, perché anche noi siamo “liberi” di andare dove vogliamo, liberi di combattere non solo contro il pantano, ma anche contro coloro che si incamminano verso di esso».

Naturalmente l’opuscolo e la polemica riguardano principalmente i rappresentanti dell’opportunismo presenti nel movimento socialista russo; i quali sostengono che “Per una solida unione è necessaria la libertà di critica”, contro “la fossilizzazione del pensiero”. Lenin ricorda che lo stesso Engels a più riprese si scagliò contro chi voleva interpretare la teoria del socialismo nei modi più fantasiosi, e soprattutto non scientifici; e che i difensori della “libertà di critica” in Russia non sono né liberi né critici nei confronti del bernsteinismo.

L’opportunismo è uno dei pericoli maggiori per il partito: nemico della teoria, quando vi si dedica lo fa per piegarla ai suoi scopi, spesso paludati da “buonsenso”, che sono sempre quelli di frenare i compiti rivoluzionari per favorire scopi contingenti, irrilevanti, e spesso fasulli. Gli opportunisti sono portati ad accodarsi servilmente ai pregiudizi diffusi fra gli operai, a “contemplarne religiosamente il didietro”, per usare l’espressione di Plekhanov. Se l’operaio si preoccupa soprattutto di questioni interne alla fabbrica, l’opportunista diventa un “aziendista”. “Le masse hanno sempre ragione”.

Dopo aver ripetuto in che termini si può e ci si deve alleare, in una situazione di doppia rivoluzione, con movimenti democratici borghesi – cioè mantenendo la capacità di svelare alla classe operaia che i suoi interessi e quelli della borghesia sono opposti – il testo passa a spiegare in che modo si combatte l’opportunismo. «Bisognava, prima di tutto, preoccuparsi di riprendere quel lavoro teorico che era stato appena incominciato all’epoca del marxismo legale e che ricadeva di nuovo sui militanti illegali; senza questo lavoro uno sviluppo reale del movimento era impossibile (...) Prima di unirsi, e per unirsi, è necessario innanzi tutto definirsi risolutamente e nettamente» (V, 336, 338). Quindi è possibile unirsi solo se si condividono i cardini irrinunciabili del programma, comprendente sia la teoria marxista sia la impostazione tattica. Bando al feticcio dell’unione fine a sé stessa.

Segue un capitoletto, il cui titolo è sufficiente a sottolinearne il rilievo: Engels e l’importanza della lotta teorica. Gli economisti citano, contro i “dogmatici”, una frase di Marx: «Ogni passo del movimento reale è più importante di una dozzina di programmi». Ma Lenin è lesto a ricacciare loro in gola il tentativo di sminuire l’importanza della teoria, citando a sua volta Marx, dallo stesso documento: «Ripetere queste parole in un momento di sbandamento teorico, è come “fare dello spirito a un funerale”. Queste parole, d’altra parte, sono estratte dalla lettera sul programma di Gotha, nella quale Marx condanna categoricamente l’eclettismo nell’enunciazione dei principi. Se è necessario unirsi – scriveva Marx ai capi del partito – fate accordi allo scopo di raggiungere i fini pratici del movimento, ma non fate commercio dei principi e non fate “concessioni” teoriche» (V, 340).

Lenin cita, circa l’importanza della teoria, un lungo brano di Engels, e aggiunge: «senza teoria rivoluzionaria non vi può essere movimento rivoluzionario (...) Solo un partito guidato da una teoria di avanguardia può adempiere la funzione di combattente di avanguardia» (V, 340-41). E quale è questa teoria di avanguardia? Era per il nostro ben chiaro già nel 1899: «Solo la teoria del marxismo rivoluzionario può essere la bandiera del movimento di classe degli operai, e la socialdemocrazia russa deve preoccuparsi di svilupparla ulteriormente e di attuarla, salvaguardandola in pari tempo dalle deformazioni e dall’avvilimento che subiscono così sovente le “teorie di moda”» (“Protesta dei socialdemocratici russi”, IV, 179). Lenin lo rammenterà in modo non equivocabile ne L’Estremismo del 1920: «Il bolscevismo è sorto nel 1903 sul fondamento solidissimo della teoria marxista (...) su questo fondamento teorico granitico» (XXXI, 15-16).

Scriveremo noi in “Russia e rivoluzione nella teoria marxista”, del 1955: «Se in Russia non vi fu utopismo proletario gli è perché, quando il movimento si svolse fino alle premesse di un partito, la teoria di questo partito era internazionalmente bell’e fatta, e giungeva da fuori (...) Ora ben fece il partito a “importare” la già disponibile arma strumentale che è la teoria di partito. Nulla vi è in questo di idealismo. Il marxismo non poteva formarsi, le scoperte che lo costituiscono non potevano raggiungersi prima che si fosse diffuso il modo di produzione borghese e formata in esso la classe proletaria, in grandi e sviluppate società nazionali; ma una volta formato esso è valido per le zone, i campi, che arrivano in ritardo, e vale a stabilire quale sarà il processo che li attende e che nello stesso modo si determina» (“Il Programma Comunista”, n. 7, 1955, Parte 2, §32).

Lenin prende le mosse, in sostanza, dalla lunga citazione di Engels per riaffermare la preminenza della teoria e del programma nell’indissolubile concatenarsi di tutti gli aspetti fondamentali della lotta del partito: teorico, politico e pratico-economico.

Lenin è sempre molto esplicito nel richiamarsi ai fondatori del moderno socialismo. Negli anni che precedono il Congresso, nel 1899, su “Il nostro programma” scrive: «[La teoria di Marx] ha chiarito il vero compito di un partito socialista rivoluzionario: non elaborazione di piani per riorganizzare la società, non prediche ai capitalisti e ai loro reggicoda sul modo di migliorare la situazione degli operai, non organizzazione di congiure, ma organizzazione della lotta di classe del proletariato e direzione di questa lotta, il cui scopo finale è la conquista del potere politico da parte del proletariato e l’organizzazione della società socialista» (IV, 212).

A chi l’accusa di trascurare la lotta economica risponde: «Tutti i socialdemocratici sono d’accordo nel ritenere che è necessario fare dell’agitazione fra gli operai su questo terreno, cioè aiutare gli operai nella lotta quotidiana contro i padroni, attirare la loro attenzione su ogni forma e ogni caso di vessazione e spiegar loro in tal modo la necessità di unirsi. Ma dimenticare la lotta politica per la lotta economica significherebbe allontanarsi dal principio fondamentale della socialdemocrazia mondiale, significherebbe dimenticare quanto ci insegna tutta la storia del movimento operaio» (IV, 213).

L’anno seguente sente di nuovo la necessità di affermare la sua fede marxista, in “Dichiarazione della redazione dell’Iskra”: «Prima di unirci e per unirci dobbiamo anzitutto delimitarci risolutamente e con precisione. Altrimenti la nostra unione sarebbe soltanto una finzione, che maschererebbe la confusione esistente di fatto e ostacolerebbe la sua radicale eliminazione. È quindi comprensibile che non intendiamo fare del nostro organo di stampa un semplice ricettacolo di concezioni diverse. Noi lo dirigeremo, viceversa, nello spirito di una tendenza rigorosamente definita. Questa tendenza può essere enunciata con una sola parola: marxismo, ed è quasi superfluo aggiungere che siamo per lo sviluppo coerente delle idee di Marx e di Engels e respingiamo risolutamente quelle bastarde correzioni vaghe e opportunistiche, divenute ora tanto di moda grazie alla fortuna di cui godono E. Bernstein, P. Struve e molti altri» (IV, 389).

Lenin non esita mai a utilizzare ampiamente citazioni di Marx e di Engels a sostegno delle posizioni che difende dentro e fuori il partito, e questo non solo nella fase di nascita dell’organizzazione, ma nel corso di tutta la sua vita. Basta leggere “Stato e Rivoluzione”.

Sin dal periodo di Samara diceva che doveva consigliarsi con Marx (sua espressione citata da Trotski in “Il giovane Lenin”) quando si presentava qualche argomento critico. Un’altra testimonianza è di Krisov (“Lénine tel qu’il fut”, 1958): «In genere i dibattiti non duravano a lungo, perché le questioni erano state studiate in precedenza. Ma se, ciononostante, scoppiava una discussione, Lenin non imponeva il suo punto di vista, cercava di soppesare tutti i pro e i contro, e a volte dichiarava: “Bisogna rimandare la decisione alla prossima riunione per chiedere l’opinione di Marx”».

Allora come oggi ai comunisti è rimproverato di vivere sulle cose vecchie, di non sapersi rinnovare, di non fare attenzione al nuovo. In “Alcune considerazioni a proposito della lettera di 7z 6f”, del 1903, Lenin scrive: «Roba vecchia! – gridate voi. Sì, lo è. Ma tutti i partiti che hanno una buona letteratura divulgativa, diffondono le cose vecchie per decenni. È buona e adatta solo quella letteratura che serve per decenni (...) E voi avete sempre e solo l’Iskra: che noia! Trentun numeri, e sempre l’Iskra, mentre quei tipi affascinanti a due numeri (merda) di una testata fanno seguire immediatamente tre numeri (merda) di un’altra testata. Questo sì che è energia, è allegro, nuovo» (VI, 289, 292). Non è una novità per noi che, oggi, restiamo gelosamente attaccati al “ribattere i vecchi chiodi”.


20. Settarismo

Né è una novità il dedicare i nostri attacchi e la nostra critica più ai nostri “vicini”, e presunti “affini”, che ai nemici dichiarati della classe operaia, dai quali il proletariato non ha bisogno di essere aiutato a difendersi. In questo troviamo un illustre precedente di Marx nella Neue Rheinische Zeitung no. 4, 1850: «Nostro compito è la critica senza riserve, più nei confronti dei supposti amici che dei nemici dichiarati; e, affermando questa nostra posizione, rinunciamo con piacere a una popolarità democratica a buon mercato». Siamo solo noi a cogliere in Marx il disprezzo per la democrazia? In questo la nostra tradizione trasmessa verbalmente afferma: i più vicini sono i peggiori.

Questo nostro atteggiamento, dimostrato anche dal grande Lenin, ci ha spesso valso il titolo di “settari”. Ebbene, è un titolo che non rifiutiamo se significa il contrario di situazionista, opportunista, coloro che cercano vie nuove, e spesso non per il bene della rivoluzione quanto per esaltare il proprio ego, per poter dire di aver dato un contributo “personale”, se non per perpetrare il più miserabile dei tradimenti.

Così trattavamo l’argomento nel 1959: «Ben noto è il sapore che ogni pidocchioso spirito piccolo-borghese conferisce alle obiezioni e alle critiche a questa nostra ricerca per tornare alla originaria costruzione del marxismo. Noi prenderemmo, a dire di quei coboldi, lo scritto di Marx come un verbo rivelato a cui si debba fede cieca, lo seguiremmo come un dogma che non è lecito discutere ma che si deve accettare a priori. Rinunzieremmo alla luce preziosa della libera critica individuale del nostro intelletto e di quello di quanti ci seguano. Negheremmo che lo svolgersi dei fatti storici per oltre un secolo abbia potuto smentire o per lo meno modificare quelle posizioni dedotte utilizzando solo i dati della storia umana anteriori a quell’epoca ripetuta di circa il 1850. Ebbene, o imbecilli sorti dalla degenere cultura borghese, è proprio questo che noi pretendiamo e proponiamo! E abbiamo il diritto di farlo perché la nostra scoperta, il primo impiego della chiave formidabile che risolse le antitesi e gli enigmi che gravavano sull’umanità, già conteneva la conquista scientifica e critica che quei vostri richiami sono vuote e inconsistenti menzogne» (“Struttura economica e sociale della Russia”, “Il Programma Comunista”, n. 15-18, 1959).

D’altronde, come non tacciare Lenin stesso di “settarismo”, come d’altronde fecero gli economisti nel 1902, se, con tutto il suo preteso “manovrismo” – sempre invocato dalle carogne che ambiscono a porre il miserabile sé stesso in qualche pagina della storia – non ha mai esitato a condannare, a deridere tutti quelli che pretendevano di adulterare le tavole fondamentali del Marxismo? Un aneddoto della Ljiudvinskaja (in “Lénine tel qu’il fut”) racconta: «A Parigi Lenin dirigeva tutta la nostra attività (...) L’asprezza e l’intransigenza di Lenin nei confronti degli opportunisti turbavano alcuni compagni. Uno di loro disse a Lenin: “Perché espellere tutti dalla sezione? Con chi lavoreremo?” Lenin rispose sorridendo: ”Poco importa se non siamo molto numerosi oggi, perché, in compenso, saremo uniti nella nostra azione, e gli operai coscienti ci sosterranno, dato che siamo sulla strada giusta”».


21. Da dove la coscienza?

Il capitolo seguente, “La spontaneità delle masse e la coscienza della socialdemocrazia” non abbandona il tema dell’importanza della teoria. Dove sta la coscienza? Possono gli operai acquisirla in virtù delle loro esperienze di lotta? La storia ci ha dimostrato che non è così, la coscienza rivoluzionaria socialista può arrivare ai proletari solo dall’esterno, dall’esterno della lotta sindacale, e questo Lenin lo ribadisce con forza, in questo confortato dai nostri grandi maestri: «Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè, la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante. La classe che dispone dei mezzi della produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché a essa in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale» (M-E, Opere, V, 44). Quindi: «La rivoluzione non è necessaria soltanto perché la classe dominante non può essere abbattuta in nessun’altra maniera, ma anche perché la classe che l’abbatte può riuscire solo in una rivoluzione a levarsi di dosso tutto il vecchio sudiciume e a diventare capace di fondare su basi nuove la società» (M-E, V, 38).

La dottrina del socialismo deriva dalle acquisizioni della scienza, della storia, dell’economia, della filosofia, che sono appannaggio delle classi possidenti e che sono prodotte dagli intellettuali. I proletari possono arrivare a una coscienza tradeunionista, cioè capire che si devono organizzare in sindacati, che devono condurre le lotte in un certo modo, che possono e devono avanzare richieste al governo per una migliore legislazione, e organizzarsi in tal senso, ma non hanno gli strumenti per procedere oltre.

Lenin non sottovaluta l’importanza della spontaneità, al contrario. Scrive: «Vi è spontaneità e spontaneità. [A confronto delle lotte degli anni precedenti, anche di tipo luddista] gli scioperi avvenuti dopo il 1890 potrebbero perfino essere chiamati “coscienti”, tanto è importante il passo in avanti fatto nel frattempo dal movimento operaio. Ciò prova che in fondo l’”elemento spontaneo” non è che la forma embrionale della coscienza» (“Che fare?”, V, 345).

Ma attendersi di più dalle lotte spontanee è una sottomissione alla spontaneità, che ha la conseguenza di rafforzare l’influenza borghese sulla classe. Questo spontaneismo è tipico non solo degli economisti della polemica russa di allora ma degli anarchici di ogni tempo e in genere di chi disdegna la teoria. Non ci sono vie di mezzo: «Dal momento che non si può parlare di una ideologia indipendente, elaborata dalle stesse masse operaie nel corso stesso del loro movimento, la questione si può porre solamente così: o ideologia borghese o ideologia socialista» (V, 354). Quindi «ogni sottomissione del movimento operaio alla spontaneità, ogni menomazione della funzione dell’elemento cosciente, della funzione della socialdemocrazia significa di per sé – non importa lo si voglia o no – un rafforzamento dell’influenza dell’ideologia borghese sugli operai» (V, 352).


22. Gli operai nel partito

In una nota Lenin chiarisce, per confutare facili e non oneste critiche a questa lapidaria tesi, che gli operai comunisti non sono esclusi dallo studio della dottrina del partito e dalla sua difesa, nonché da cariche dirigenti, e di questo vi sono molti esempi.

Gli operai nel partito non sono più “operai”, come i borghesi non sono più borghesi, ma uomini che si sono elevati alla milizia per il comunismo e hanno rinnegato le superstizioni nelle quali rinchiude il regime sociale borghese. Questo indipendentemente dal loro livello culturale, dal fatto che siano divenuti o no “intellettuali”. Il partito non richiede qualifiche accademiche, il possesso delle quali, al contrario, lo spingono a maggiore cautela nell’accettare adesioni. Ai militanti chiede la determinazione a lavorare per la rivoluzione, con gli strumenti che possiedono. L’operaio che entra nel partito cessa di essere un operaio, diviene un militante comunista, in tal modo strappandosi «dalla mente e dal cuore la classificazione in cui lo iscrisse l’anagrafe di questa società in putrefazione» (“Considerazioni sull’organica attività...”, 1965).

«La scuola dei proletari sarà la vittoriosa rivoluzione, che per ora chiede a essi le loro mani armate, ma non può chiedere loro una laurea politica; anche a quelli iscritti al partito non si chiede un esame di cultura. Fin dalle lotte nella Seconda Internazionale la Sinistra ha deriso la tesi del partito culturista» (“La teoria della funzione primaria del partito politico, sola custodia e salvezza della energia storica del proletariato”, “Il Programma Comunista” n. 21-22, 1958).


23. Mistica nell’adesione al comunismo

Per l’adesione al partito altre caratteristiche si richiedono che non la cultura “marxista” e la conoscenza individuale della nostra dottrina; si richiedono doti che Lenin chiamò di coraggio, abnegazione, eroismo, volontà di combattere; è per verificare queste qualità che si discrimina fra il candidato e il militante, il soldato attivo dell’esercito rivoluzionario; non certo perché il candidato “non sa” ancora, mentre il militante possiede coscienza. Se così non fosse cadrebbe tutta la concezione marxista, perché il partito comunista è quel tale organismo che deve, nei momenti della ripresa rivoluzionaria, organizzare nel suo seno moltitudini di uomini i quali non avranno né tempo né possibilità di fare corsi di marxismo neanche accelerati e aderiranno a noi non perché sanno, ma perché sentono «in via istintiva e spontanea e senza il minimo corso di studio che possa scimmiottare qualificazioni scolastiche». E anche perché sono capaci di sognare, come il presunto “freddo organizzatore”, il “raziocinante” Lenin auspica nello stesso Che fare? (V, 471). L’adesione risponde prima di tutto a una spinta che va al di là del raziocinio, della comprensione totale, del freddo ragionamento: una scelta che noi, lontani allievi di Lenin, non abbiamo esitato a chiamare una mistica.

Sempre in “Struttura economica e sociale della Russia”, in “Il Programma Comunista” 18/1959, scrivemmo: «Il problema della conoscenza che tormentò le vigilie del pensiero nei secoli è per noi risolto in quanto oggi la scienza universale futura ha accesso nel seno di un partito, che solo dà il nome alla classe che anticipa il domani. Come il partito sta ancora a mezzo tra la finzione dell’individuo e la meravigliosa conquista “umana” della universalità, così nella storia il cemento ideologico che lo contraddistingue sta al di là degli antichi errori che gli versarono il tanto di verità per cui sorsero e dovettero cadere, ma guida e conduce con un sistema di principii che può essere definito ancora una mistica, l’ultima delle mistiche, per cui si lotterà e si cadrà da tanti e tanti non solo nel supremo sacrificio della vita, ma in quello maggiore della gioia di tutto controllare prima di credere, che solo dopo la vittoria alla generazione superstite sarà stata largita da quella ultima che ha avuto la missione di vindice guerriera, in guerra di uomini contro uomini».

È interessante un aneddoto del 1905, quando Lenin, posto di fronte all’interrogativo se un prete – o comunque un non marxista – possa essere ammesso nel Partito socialdemocratico, risponde positivamente, ponendo come condizione per l’iscrizione al partito l’adesione al suo programma politico, anche quando questa non si accompagni alla adesione alla concezione generale della storia che il programma sottende. «Una organizzazione politica non può sottoporre i suoi iscritti a un esame sull’assenza di contrasti tra le loro opinioni e il programma del partito» (“L’atteggiamento del partito operaio verso la religione”, XV, p. 387). Se ne può ricavare: l’appartenenza al partito si verifica nella pratica e non in un impossibile esame del livello di coscienza.

«Dobbiamo richiamare l’attenzione dei membri del partito su una questione generale: quella della situazione esistente nel POSDR. Come ogni partito rivoluzionario, il nostro può esistere e svilupparsi alla sola condizione che vi sia il desiderio primario dei rivoluzionari di aiutarsi reciprocamente nell’adempimento del lavoro comune» (“La situazione nel partito”, 23 dicembre 1910).


24. Dominio dell’ideologia borghese e della sua legge del minimo sforzo

Sul prevalere della cultura dominante è interessante a questo riguardo un ulteriore passaggio del Che fare?: «Ma perché – domanderà il lettore – il movimento spontaneo, il movimento che segue la linea del minimo sforzo, conduce al predominio dell’ideologia borghese? Per la semplice ragione che, per le sue origini, l’ideologia borghese è ben più antica di quella socialista, essa è meglio elaborata in tutti i suoi aspetti e possiede una quantità incomparabilmente maggiore di mezzi di diffusione» (V, 355).

Riguardo al “minimo sforzo” non si può non ricordare una regola che da sempre si trasmette all’interno del partito della Sinistra: la strada per avere i risultati giusti non è quella del minimo sforzo ma spesso la più lunga, che richiede più tempo e lavoro; noi non adottiamo il metodo borghese del massimo profitto con il minimo investimento né abbiamo fretta di ottenere comunque il risultato. Abbiamo scritto nelle “Tesi supplementari sul compito storico, l’azione e la struttura del partito comunista mondiale”: «Una fondamentale caratteristica del fenomeno che Lenin con termine ammesso da Marx ed Engels chiamò, trattandolo a ferro rovente, opportunismo, sta nel preferire una via più breve, più comoda e meno ardua a quella più lunga e disagiata e irta d’asprezze sulla quale sola si può attuare il pieno incontro tra l’affermazione dei nostri princìpi e programmi, ossia dei nostri massimi scopi, e lo svolgersi dell’azione pratica immediata e diretta nella reale situazione del momento» (“Il Programma Comunista”, n. 7, 1966).

Qui vale la pena di fare una curiosa citazione da uno scritto di Lenin a circolazione interna del 1902: «Se il signore Iddio ci ha puniti per i nostri peccati ponendoci nella necessità di presentare un “aborto” di progetto, bisogna almeno fare tutti gli sforzi per diminuirne le tristi conseguenze. Hanno quindi completamente torto coloro che si lasciano guidare soprattutto dal desiderio di “finire presto”: si può essere certi che ora, così come vanno le cose, dalla fretta non può derivare nulla di buono, e il nostro progetto redazionale sarà insoddisfacente. Non importa se non verrà pubblicato nel n. 4 della Zarià: lo pubblicheremo nel n. 5. Il ritardo di un mesetto non arrecherà il minimo danno al partito» (“Materiali per l’elaborazione del programma del POSDR”, VI, 62).


25. “Culo di piombo”

È nostra tradizione che il giovane compagno che si avvicina al partito è inizialmente istruito con pochi motti lapidari. Uno di questi è “culo di piombo”, che significa un certo abito, atteggiamento e stato d’animo del militante comunista, specie in un’epoca che non prevede riprese in grande a breve scadenza del moto rivoluzionario di classe. L’attività del partito da molti decenni è infatti prevalentemente dedita allo studio, alla difesa e alla propaganda della sua teoria e della sue norme tattiche. La raccomandazione era particolarmente necessaria nel periodo post ‘68 quando ogni generico ribellismo giovanile era incanalato da organizzazioni che proditoriamente si richiamavano al marxismo in un attivismo senza futuro.

Quella voglia di non perdere il “treno della storia” colpì anche il nostro partito, nel quale molti cominciarono a dubitare di aver commesso errori strategici che l’avrebbero escluso del festino di una rivoluzione che vedevano sfuggirgli di mano. Improvvisamente si vollero far passare nel partito nuove indicazioni tattiche, tese a conquistargli quei giovani d’animo piccolo borghese che le “vecchie” posizioni della Sinistra respingevano. Non fu difficile prevedere come sarebbe andata a finire. Al disciplinato richiamo di noi “culopiambati” per il ritorno ai tradizionali atteggiamenti comunisti, già da tutti condivisi, i “frettolosi” risposero con l’isolamento, il bavaglio, la volgare e disonesta menzogna, infine con l’espulsione.


26. Il rovesciamento della prassi

Tornando a Lenin, occorre soffermarsi sul rapporto tra il movimento spontaneo del proletariato e il partito, tra spinte materiali che sorgono spontaneamente nella società e l’elaborazione teorica rivoluzionaria, tra la spontaneità e la coscienza. È ovvio che non sarebbe sorta una teoria rivoluzionaria se nella società non vi fosse una contraddizione tra il modo di produzione e le esigenze dei lavoratori, generanti il loro ampio movimento di classe. Ma tutto l’opuscolo tende a dimostrare la necessità che da quella teoria torni alla classe una guida cosciente, perché i movimenti anche estesi possano sboccare in un cambiamento rivoluzionario della società. Lenin ricorda che la componente cosciente della classe, quella che si può chiamare ideologica, cioè il partito, ricopre un ruolo attivo nello sviluppo della lotta rivoluzionaria.

Non si tratta di una fatalistica attesa del “momento buono”. «Non comprendono che l’”ideologo” merita di essere chiamato ideologo solo allorquando precede il movimento spontaneo e gli indica la via, quando sa risolvere prima degli altri tutte le questioni teoriche, politiche, tattiche e organizzative che si pongono spontaneamente gli “elementi materiali” del movimento. Dire invece che gli ideologi (cioè i dirigenti coscienti [leggi: il partito]) non possono deviare il movimento dalla strada determinata dal gioco reciproco dell’ambiente e degli elementi, significa dimenticare una verità elementare: che la coscienza partecipa a questa azione reciproca e a questa determinazione» (“Un colloquio con i sostenitori dell’economismo”, 1901, V, 292).

Si tratta del concetto del rovesciamento della prassi che il marxismo ha enunciato fin dal suo sorgere: il partito riceve tutti gli stimoli e le spinte emananti dalla classe e dalle sue organizzazioni immediate; ne ha tratto e ne trae materia prima per l’elaborazione della dottrina e delle sue direttive di azione; poi come guida per l’azione le riverbera sulla classe, sulle sue organizzazioni e sui singoli lavoratori. Entro dati limiti, secondo le situazioni e i rapporti di forza, il partito può, con le sue decisioni, direttive e iniziative, influire sull’andamento della lotta. Il rapporto dialettico risiede nel fatto che in tanto il partito rivoluzionario è un fattore cosciente e volontario degli eventi, in quanto è anche un risultato di essi e del conflitto che essi contengono tra antiche forme di produzione e nuove forme produttive. Una funzione che cadrebbe se si interrompessero i legami materiali con l’ambiente sociale e della lotta di classe.


27. Il piano tattico invariante

Questo aspetto è ribadito dal partito, per esempio, in “La continuità d’azione del partito sul filo della tradizione della Sinistra”, “Il Programma Comunista” n. 3-5, 1967: «Balza agli occhi come per noi non solo i problemi di organizzazione e di funzionamento del partito rivoluzionario marxista si intreccino alle fondamentali questioni della dottrina, del programma e della tattica, ma la corretta soluzione di queste sia pregiudiziale alla corretta impostazione e soluzione di quelli».

Ovviamente il fatto che il partito sia anche prodotto dell’ambiente in cui opera non significa che la teoria debba subire alti e bassi a seconda della situazione esterna: «È chiaro che, se il nostro partito è un fattore degli avvenimenti, è però nello stesso tempo un loro prodotto, anche se ci riesce di realizzare un partito mondiale veramente rivoluzionario. Ora, in quale senso gli avvenimenti si riflettono in questo partito? Nel senso che il numero dei nostri iscritti aumenta e la nostra influenza sulle masse cresce quando la crisi del capitalismo genera una situazione a noi favorevole. Se invece, in un certo momento, la congiuntura ci diventa sfavorevole è possibile che le nostre forze si riducano numericamente. Ma noi non dobbiamo permettere che la nostra ideologia ne soffra; non solo la nostra tradizione e la nostra organizzazione, ma anche la nostra linea politica deve rimanere intatta» (Rapporto della Sinistra alla VI Sessione dell’Esecutivo Allargato dell’Internazionale Comunista, V Seduta, 23 febbraio 1926).

Continuando nella puntualizzazione di come deve lavorare il partito, e prendendo spunto dalle osservazioni degli economisti, Lenin dimostra che non vi è contraddizione tra le due affermazioni: «La socialdemocrazia non si lega le mani, non restringe la propria attività in base a un qualche piano o metodo di lotta politica prefissato: essa ammette tutti i mezzi di lotta, purché corrispondano alle forze reali del partito» (“I compiti urgenti del nostro movimento”, 1900, IV, 406) e «Se non esiste una salda organizzazione, preparata alla lotta politica in ogni momento e in tutte le situazioni, non si può parlare di quel piano sistematico d’azione, illuminato da principi fermi e rigorosamente applicato, che è l’unico che meriti il nome di tattica» (“Da che cosa cominciare?”, 1901, V, 10).

Quindi un piano tattico non è altro che descrivere quale deve essere l’atteggiamento del partito in date situazioni. Il partito deve prevedere, e questo è il suo lavoro teorico fondamentale, i più vari scenari nei quali può trovarsi a operare; piano che deve esser noto non solo al partito nel suo insieme ma anche al singolo militante, che può dover prendere decisioni operative in condizioni di collegamento assente con il Centro.

«L’errore fondamentale della “nuova tendenza” della socialdemocrazia russa è di sottomettersi alla spontaneità, di non comprendere che la spontaneità delle masse esige da noi, socialdemocratici, un alto grado di coscienza. Quanto più grande è la spinta spontanea delle masse, quanto più il movimento si estende, tanto più aumenta, in modo incomparabilmente più rapido, il bisogno di coscienza nell’attività teorica, politica e organizzativa della socialdemocrazia» (“Che fare?”, V, 365).

“Coscienza” significa “conoscenza”, ed è in questo senso che Lenin intende il termine. Conoscenza del mondo borghese, della sua politica, della sua economia, della sua cultura, per essere in grado di prevedere le situazioni nelle quali il partito si troverà a dare indicazioni di lotta alla classe operaia. Noi, suoi modesti allievi, abbiamo appreso da lui la necessità di lavorare alla difesa della teoria e alla previsione della tattica da adottare nelle varie possibili situazioni. È questo lo scopo del lavoro dei compagni che periodicamente, alle Riunioni Generali, è presentato all’insieme del partito; un lavoro che serve a conoscere, a sapere cosa fare in determinate circostanze. È condivisio fra tutti i compagni, che all’occorrenza sapranno utilizzarlo in senso rivoluzionario; e nella formazione continua che impegna compagni vecchi e nuovi.

Il marxismo si assimila col lavoro di partito, non con ridicole scuolette. «Non si tratta di testi perfetti, irrevocabili e immodificabili», come scriviamo nelle Tesi di Napoli, del 1966, «perché si è sempre dichiarato nel nostro seno che si trattava di materiali in continua elaborazione e destinati a pervenire a una forma sempre migliore e più completa». Testi che però tornano periodicamente, con nuovi dati e nuove precisazioni, sui principi che sono alla base della nostra dottrina, senza mai minimamente contraddirli. In tal modo i militanti, attraverso la partecipazioni agli incontri periodici, locali e generali, sono sempre a contatto con le nostre posizioni, e hanno agio di farle proprie.

È nostra antica convinzione che il partito forte è quello i cui militanti, in una data situazione, si comportano tutti nello stesso modo anche se privi di possibilità di comunicare tra loro e con il Centro. Come è d’altronde tradizione del marxismo: «Il Consiglio Generale è fiero del ruolo eminente che le sezioni parigine dell’Internazionale hanno assunto nella gloriosa rivoluzione di Parigi. Non che, come immaginano certi ottusi, la sezione di Parigi o alcun altra affiliazione dell’Internazionale abbiano ricevuto una parola d’ordine da un centro. Ma in tutti i paesi civili, il fiore della classe operaia che aderisce all’Internazionale ed è impregnata dei suoi principi, prende dappertutto, a colpo sicuro, la direzione delle azioni della classe operaia» (Marx, Secondo abbozzo di redazione per “La guerra civile in Francia”, 1871).

La teoria è un blocco unico, non si modifica, ma si conferma, si definisce sempre meglio. La tattica invece è la previsione di scenari nei quali la risposta del partito può avere risvolti diversi, in presenza di eventi difficilmente prevedibili nel dettaglio.

Ovviamente le scelte tattiche dipendono dalla conoscenza dei dati relativi alle varie situazioni.  Ma col passare del tempo, e con l’accumularsi di conoscenza in base a una sempre più ampia casistica di esperienze di lotta, lo spazio delle scelte tattiche si riduce, e vi sono comportamenti che dal piano della tattica, che offre delle scelte, sconfinano nella teoria generale, “dogmatica” e intangibile. È il caso più volte citato della partecipazione alle elezioni politiche nei paesi a capitalismo maturo: si poneva la scelta fino agli anni ’20 del secolo passato (anche se per la Sinistra esisteva già sufficiente esperienza per rifiutarla), oggi la nostra dottrina l’esclude, come posizione sulla quale non può esistere dubbio, una posizione che fa parte della nostra teoria generale.

Lenin non ritiene di aver esaurito l’argomento spontaneità/coscienza, in quanto l’equivoco è molto radicato nel movimento socialista, non solo in Russia e, aggiungiamo noi, non solamente nel 1902. Quindi il terzo capitolo, “Politica tradunionista e politica socialdemocratica”, è ancora dedicato alla polemica con gli economisti, argomento che in realtà consente di stabilire dei precisi confini all’attività dei rivoluzionari, chiarendone anche il ruolo in una situazione di rivoluzione doppia, quando la rivoluzione democratica borghese è ancora da fare.


28. Lotta economica e lotta politica

La difesa delle condizioni economiche per la classe operaia è necessaria. Ma non può essere considerata, come fanno gli economisti, il suo compito esclusivo. È la sua scuola di guerra.

Il pericolo, allora come ora, è che concentrandosi su attività vitali ma in modo esclusivo, si dimentichino i compiti politici fondamentali della lotta socialista rivoluzionaria: «La socialdemocrazia dirige la lotta della classe operaia non soltanto per ottenere condizioni vantaggiose nella vendita della forza-lavoro, ma anche per abbattere il regime sociale che costringe i nullatenenti a vendersi ai ricchi. La socialdemocrazia rappresenta la classe operaia non nei suoi rapporti con un determinato gruppo d’imprenditori, ma nei suoi rapporti con tutte le classi della società contemporanea, con lo Stato, come forza politica organizzata. È dunque evidente che i socialdemocratici non soltanto non possono limitarsi alla lotta economica, ma non possono nemmeno ammettere che l’organizzazione di denunce economiche sia la parte prevalente della loro attività. Dobbiamo occuparci attivamente dell’educazione politica della classe operaia, dello sviluppo della sua coscienza politica» (V, 369-70).

Coscienza che deve prevedere, in Russia, anche la lotta per l’abbattimento del regime autocratico. La lotta per le riforme sociali, importanti per la classe operaia, è uno dei compiti della socialdemocrazia, che però «subordina la lotta per le riforme alla lotta rivoluzionaria per la libertà e il socialismo, come la parte è subordinata al tutto» (V, 375).

Il partito dunque non solo elabora un programma e una tattica per portarlo a compimento, valuta anche, a seconda del momento storico, quale sia l’attività prevalente sulla quale impegnare le risorse sue e della classe. Lenin ricorda sempre ai proletari in fabbrica che senza un cambiamento politico, del potere statale, le loro condizioni non migliorerebbero significativamente e che tale miglioramento sarebbe consolidato solo dalla vittoria politica del loro partito, che avrebbe gestito il potere in loro nome, fino a una società senza classi.

Lenin non si stanca di insistere nel sostenere un’agitazione politica più vasta, per non restare nel codismo economico: «La coscienza politica di classe può essere portata all’operaio solo dall’esterno, cioè dall’esterno della lotta economica, dall’esterno della sfera dei rapporti tra operai e padroni (...) Per dare agli operai cognizioni politiche, i socialdemocratici devono andare fra tutte le classi della popolazione, devono inviare in tutte le direzioni i distaccamenti del loro esercito (...) L’ideale del socialdemocratico non deve essere il segretario di un sindacato, ma il tribuno popolare» (V, 389-391).

Quello che conta in questo martellamento che occupa gran parte dell’opuscolo non è solo la polemica contingente. Lenin, il presunto tattico, astuto navigatore tra congressi e correnti, non adopera mezzi termini e bolla di borghese tutto quanto socialista e rivoluzionario non è: «La politica tradunionista della classe operaia è precisamente la politica borghese della classe operaia» (V, 394).

Descrivere quindi quali sono i compiti dei socialdemocratici in Russia, in quel periodo storico, compiti che comprendono anche obiettivi democratici, sempre chiamandoli tali, sempre distinguendo l’attività del partito da quella delle altre organizzazioni, sempre, infine, ricordando a chiare lettere quali sono i fini ultimi del partito, anche quando parla alle altre classi e strati sociali (contadini, studenti, religiosi, artigiani).


29. Organismi operai e partito comunista

Nel quarto capitolo, “Il primitivismo degli economisti e l’organizzazione dei rivoluzionari”, Lenin esordisce cercando di spiegare il significato del termine primitivismo, ripercorrendo la storia recente dei circoli socialdemocratici, e dimostra come questi siano sempre stati perseguitati, e quindi distrutti, dalla polizia, proprio per un’attitudine primitiva, dilettantesca del lavoro; e non esita ad associare a questa tipologia gli economisti, che sono primitivi in quanto sottovalutano i compiti politici e organizzativi del movimento socialdemocratico. Quindi è necessario rifarsi ai cardini teorici e organizzativi di un partito rivoluzionario che si basa sulla classe operaia.

In primis, bisogna distinguere tra organizzazione degli operai e organizzazione dei rivoluzionari: «Le organizzazioni operaie per la lotta economica devono essere organizzazioni sindacali. Ogni operaio socialdemocratico deve, per quanto gli è possibile, sostenerle e lavorarvi attivamente. È vero. Ma non è nel nostro interesse esigere che solo i socialdemocratici possano appartenere alle associazioni “di mestiere”, perché ciò restringerebbe la nostra influenza sulla massa. Lasciamo partecipare all’associazione di categoria qualunque operaio il quale comprenda la necessità di unirsi per lottare contro i padroni e contro il governo! Le associazioni di categoria non raggiungerebbero il loro scopo se non raggruppassero tutti coloro che comprendono almeno tale necessità elementare, se non fossero molto larghe. E quanto più saranno larghe, tanto più la nostra influenza su di esse si estenderà, non solo grazie allo sviluppo “spontaneo” della lotta economica, ma anche grazie all’azione cosciente e diretta degli aderenti socialisti sui loro compagni» (V, 419-420).

Quindi il sindacato, che non di altro si tratta quando si parla di associazioni di mestiere, deve essere composto per sua natura di operai; gli operai socialdemocratici vi devono lavorare, ma non si deve pretendere che al suo interno vi sia unanimità politica; questo principio, che come spiega Lenin consente di avere sindacati molto ampi e forti, crea poi un ambito particolarmente favorevole all’operaio rivoluzionario per svolgere la sua propaganda. Erano anni in cui sorgeva il miraggio del sindacalismo rivoluzionario in Francia (Sorel), in Italia, in Sudamerica, in U.S.A. (I.W.W.), un esperimento che in capo a un paio di decenni dimostrò il suo fallimento, ma che impestò il movimento operaio, impedendo o rendendo difficoltoso lo sviluppo dei partiti rivoluzionari di fede marxista. Lenin prevede questa degenerazione del movimento, che potrebbe sorgere proprio dagli economisti.

Quanto poi ai sindacati di regime, come quello famoso di Zubatov, il nostro non si preoccupa: «Lavorate signori; fate quanto vi è possibile! Voi tendete delle trappole agli operai – mediante la provocazione diretta o servendovi dello “struvismo”, mezzo “onesto” per corrompere gli operai – ma noi ci incaricheremo di smascherarvi. Se voi fate veramente un passo avanti – anche con un “timido zigzag” – vi diciamo: fate pure! Un vero passo avanti amplia, anche di pochissimo se volete, ma ciò nonostante amplia effettivamente lo spazio entro il quale si muovono gli operai. Ciò non può che esserci utile e affrettare il sorgere di associazioni legali in cui i provocatori non piglieranno più in trappola i socialisti, ma i socialisti guadagneranno degli aderenti» (V, 421).

Quindi, se questi sindacati governativi, di regime, vorranno ottenere qualche seguito fra gli operai, dovranno dimostrare di meritarselo, seppure all’interno della legalità; ma così facendo creeranno condizioni favorevoli all’attività rivoluzionaria dei socialdemocratici nei sindacati. Peraltro si dovranno anche aiutare gli operai che costituiscono organizzazioni sindacali segrete, perché ancora la vera lotta anche sindacale richiede clandestinità.

L’importante è non parlare agli operai in modo generico, velleitario o improvvisato; sarebbe demagogia, dice Lenin, e ciò alla lunga ci alienerebbe i favori dei proletari. Chi parla deve sapere quello che dice.

Sia la lotta sindacale sia quella politica richiedono organizzazione, ma i due ambiti sono diversi, e tali sono anche le modalità di organizzazione, e non solo in un regime poliziesco come quello di inizio secolo XX in Russia.

Il partito deve contare su rivoluzionari di professione, non dilettanti della politica, e in tal modo sarà meglio difeso dalle persecuzioni poliziesche, e la sua propaganda e agitazione saranno veramente efficaci. La necessità della clandestinità porta a centralizzare il lavoro clandestino, ma ciò «non implica affatto la centralizzazione di tutta l’attività del movimento». Il partito in questo senso non si dà regole schematiche fisse, ma adatta la sua organizzazione alle condizioni.


30. Operai e intellettuali nel partito

Per la formazione di rivoluzionari bisogna saper attingere dalle file operaie e non solo dagli intellettuali: «Il nostro primo obbligo, il nostro obbligo più imperioso, consiste nel contribuire alla formazione di rivoluzionari operai, i quali, per quanto riguarda l’attività del partito, siano allo stesso livello dei rivoluzionari intellettuali. Perciò bisogna che noi lavoriamo soprattutto per elevare gli operai al livello di rivoluzionari e non che ci abbassiamo, noi, al livello della “massa operaia”, come vogliono gli economisti» (V, 434).

Anche se Lenin sempre riconosce che, da un punto di vista organizzativo, il ruolo della vivente classe operaia è determinante, classe che, per cause economiche oggettive, si distingue dalle altre della società capitalistica per la sua attitudine all’organizzazione. Il Che fare? sottolinea che senza il contatto con la classe operaia l’organizzazione dei rivoluzionari sarebbe un giocattolo, un’avventura, una vacua insegna, e che solo quando esiste una «classe veramente rivoluzionaria e che spontaneamente si leva alla lotta» ha un senso l’organizzazione che il partito propugna per il momento in cui potrà porsi alla testa dell’offensiva proletaria.

Ma per far questo servono militanti reali, che si dedicano a dar vita a questa organizzazione, rivoluzionari di professione, disciplinati, non chiacchieroni, avanguardia radicata nella classe e capace di dirigerla: questi sono i membri del partito secondo Lenin. Al di là delle situazioni contingenti, milite del partito non sarà chi si limita a partecipare al movimento di tanto in tanto, quando ne ha voglia, «ad andare alle riunioni nelle serate libere».


31. Complottismo e terrorismo

Anche il terrorismo, che ancora conquistava aderenti, era da associarsi alla palude spontaneista: «Gli economisti e i terroristi della nostra epoca hanno una radice comune: la sottomissione alla spontaneità (...) L’inferno è lastricato di buone intenzioni, e in questo caso le buone intenzioni non salvano ancora dal lasciarsi attrarre dalla “linea del minimo sforzo” [ecco ancora il concetto che noi condividiamo da sempre] (...) Fare appello al terrorismo o fare appello a che sia dato alla stessa lotta economica un carattere politico sono due modi diversi di sottrarsi al dovere più imperioso dei rivoluzionari russi: l’organizzazione di una multiforme agitazione politica» (V, 386-388).

Contro gli apostoli della cospirazione, del complottismo, Lenin è esplicito: «Noi ci siamo sempre opposti – e beninteso continueremo a farlo – a ogni tentativo di restringere la nostra lotta politica per ridurla a un complotto. Ma ciò non significa affatto negare la necessità di una forte organizzazione rivoluzionaria (...) Soltanto una organizzazione di combattimento centralizzata, che esplichi con energia un’azione politica socialdemocratica e soddisfi, per così dire, tutti gli istinti e tutte le aspirazioni rivoluzionarie, può premunire il movimento contro un’offensiva inconsulta e preparare un attacco che possa concludersi con la vittoria» (V, 440).


32. La selezione organica dei capi

Alle accuse di scarsa “democrazia interna” la risposta di Lenin è semplice: voi chiedete larga democrazia in una situazione di clandestinità, invece di un segreto rigoroso e una selezione rigorosa!

È però anche qui evidente che Lenin non si riferisce a un assoluto principio democratico ma al banale meccanismo con il quale nel partito si eleggono i compagni alle diverse sue funzioni. Eleggere non significa solo votare, ma scegliere, selezionare. E nelle parole di Lenin, se ben intese, non è la difesa del meccanismo ma della sostanza del funzionamento organico del partito.

Lenin qui si rivolge ai russi, per i quali i partiti europei debbono essere un esempio anche di organizzazione. Dice loro che in un Paese non feudale ma borghese a regime democratico, nel quale esiste la libertà di parola, il partito può funzionare secondo i suoi moduli, dove chi si candida a una carica è da tutti conosciuto. Ci permettiamo qui di sottolineare noi. «Così tutti i membri del partito possono, con conoscenza di causa, eleggerlo o no a questa o a quella carica di partito. Il controllo generale (nel significato letterale della parola), esercitato da ognuno su ogni iscritto al partito nel corso della sua carriera politica, crea un meccanismo che funziona automaticamente e assicura ciò che in biologia si chiama la “sopravvivenza dei più adatti”. Per effetto di questa “selezione naturale”, derivante dal carattere pubblico di ogni atto, dall’eleggibilità e dal controllo generale, ogni militante si trova, alla fine, al proprio posto, assume il compito più adatto per le sue forze e per le sue capacità».

Lenin prosegue riferendosi a un regime non democratico, come quello russo di allora. Ma la storia avrebbe presto poi confermato che di ben poca “democrazia” potranno godere i comunisti rivoluzionari anche in Germania, in Italia... Le sue parole, correttamente intese, superano e negano anche l’adozione del meccanismo democratico all’interno del partito. Continuiamo a sottolineare noi.

«In un regime come quello russo una “larga democrazia”... non è che un balocco inutile e dannoso. Inutile, perché nessuna organizzazione rivoluzionaria ha mai applicato, né, anche volendo, potrà mai applicare, una larga democrazia. Dannoso, perché i tentativi di applicare effettivamente il “principio di una larga democrazia” servono solo a facilitare le larghe retate, a perpetuare il regno del primitivismo, a distogliere i militanti dal pensiero del loro compito serio e impellente, che consiste nel formare la propria educazione di rivoluzionari di professione, per concentrarlo su quello della compilazione di statuti particolareggiati e “cartacei” sui sistemi elettorali. Solo all’estero, ove spesso si raccoglie gente che non ha la possibilità di svolgere un vero lavoro attivo, s’è potuto manifestare qua e là, e soprattutto nei diversi piccoli gruppi, questo “giuoco alla democrazia (...)»


33. Fiducia completa e fraterna fra rivoluzionari

Continuiamo a sottolineare noi.

«Per i militanti del nostro movimento, il solo principio organizzativo serio dev’essere: rigorosa clandestinità, scelta minuziosa degli iscritti, preparazione di rivoluzionari di professione. Con queste qualità avremo anche qualcosa di più della “democrazia”: avremo una fiducia completa e fraterna fra rivoluzionari. E questo qualcosa di più è senza dubbio necessario per noi, perché da noi, in Russia, non è possibile sostituirlo con il controllo democratico generale.

«Sarebbe d’altra parte un errore gravissimo credere che, a causa dell’impossibilità di un controllo veramente “democratico” [le virgolette sono di Lenin], non si possano controllare i membri dell’organizzazione rivoluzionaria. Questi ultimi infatti non hanno il tempo di pensare alle forme esteriori della democrazia (in un piccolo nucleo di compagni che abbiano gli uni verso gli altri una completa fiducia), ma sentono molto fortemente la propria responsabilità e sanno inoltre per esperienza che, per sbarazzarsi di un membro indegno, una organizzazione di veri rivoluzionari non arretrerà dinanzi a nessun mezzo. Inoltre, nel nostro ambiente rivoluzionario russo (e internazionale), esiste un’opinione pubblica abbastanza sviluppata, che ha una lunga tradizione e che punisce implacabilmente ogni mancanza verso i doveri dei compagni (ora la “democrazia”, autentica, che non è un semplice balocco, è un elemento che fa parte organicamente dei rapporti fra compagni!).

«Si tenga conto di tutto questo e si comprenderà come i discorsi e le risoluzioni sulle “tendenze antidemocratiche” puzzino di chiuso e rivelino la burlesca tendenza degli emigrati a fare i generali!» (V, 442-444).

È qui evidente che con “democrazia autentica” Lenin non intende altro che la unità organica del partito.

Non diverso quanto scrive il partito nel 1922, nelle “Tesi di Roma”, I, 4: «La proclamazione di queste dichiarazioni programmatiche come la designazione degli uomini a cui si affidano i vari gradi della organizzazione di partito si svolgono formalmente con una consultazione a forma democratica di consessi rappresentativi del partito, ma devono in realtà intendersi come un prodotto del processo reale che accumula gli elementi di esperienza e realizza la preparazione e la selezione dei dirigenti dando forma al contenuto programmatico e alla costituzione gerarchica del partito».

L’organicità che deve guidare il partito nella scelta dei compagni cui affidare responsabilità emerge chiaramente anche dal commento che Lenin fa circa la scelta dei componenti della redazione dell’Iskra, cioè dei compagni che avrebbero costituito il “centro” del partito: «Il vecchio gruppo a sei era tanto poco capace di lavorare che in tre anni non si era riunito al completo nemmeno una volta: è incredibile, ma è la realtà. Dei 45 numeri dell’lskra nessuno è stato compilato (nel senso tecnico-redazionale) da qualcuno che non fosse Martov o Lenin. E nemmeno una volta è stata sollevata una questione teorica importante da qualcuno che non fosse Plekhanov. Axelrod non ha lavorato affatto (zero articoli nella Zaria e 3-4 articoli per tutti i 45 numeri dell’lskra). La Zasulic e Starover si sono limitati alla collaborazione e alla consulenza, senza mai svolgere il lavoro puramente redazionale; chi dovesse essere eletto dirigente politico, chi dovesse far parte del centro era chiaro come la luce del sole per tutti i partecipanti al congresso, dopo un mese di lavoro» (VII, 23).

Queste citazioni bene chiariscono il pensiero di Lenin, in tutto accomunato al modo di esistere del partito attuale. In primo luogo il disprezzo nei confronti della democrazia, “balocco” di “burleschi generali”. In secondo luogo, il funzionamento del partito è presentato come quello di una compagine nella quale il compagno si trova nella funzione che organicamente gli è più adatta: quello che fino dai suoi albori la Sinistra chiamò “centralismo organico” e che il nostro partito tuttora pratica. I compagni hanno il loro posto organico nel partito; “fraterna considerazione” e “fiducia” tra compagni; processi altrettanto organici di individuazione delle mancanze o dei veri e propri tradimenti. È il problema delle “garanzie”, che abbiamo tante volte affrontato nei nostri testi. Il democratismo invocato come toccasana è “una forma di primitivismo”, e quindi ormai – già nel 1902! – di opportunismo.

Anche in “Lettera a un compagno” del 1902 Lenin non invoca statuti o norme procedurali o decisionali di tipo democratico, ma individua la soluzione per i problemi di efficienza e capacità operativa in rapporti fraterni tra compagni, e in ultima istanza nel ricorso all’organo centrale, che per lui ovviamente rappresenta la dottrina del partito, il corpus della teoria della rivoluzione, unica vera istanza dirimente di tutte le questioni.


34. Non amare nessuno per amare tutti

Immediatamente dopo il II Congresso, invece di inveire contro Martov per aver abbandonato la redazione, e aver prefigurato una scissione (che ci sarà), Lenin conclude il suo “Racconto sul II Congresso” con un richiamo per tutti i compagni ai valori veri del lavoro di partito, ben altro che i formalismi burocratici e democratici: «La socialdemocrazia russa deve compiere l’ultimo, difficile passo che dallo spirito di circolo porta allo spirito di partito, dal filisteismo alla coscienza del dovere rivoluzionario, dai pettegolezzi e dalle pressioni di circolo alla disciplina. Chi apprezza il lavoro di partito e l’attività in favore del movimento operaio socialdemocratico non tollererà mai pietosi sofismi come il “legittimo” e “leale” boicottaggio dei centri, non tollererà che la causa ne soffra e il lavoro si interrompa perché una decina di compagni sono insoddisfatti per non essere stati ammessi, essi e i loro amici, nei centri; non tollererà che privatamente e segretamente si eserciti un’influenza sui funzionari del partito mediante la minaccia della non collaborazione, mediante il boicottaggio, mediante il taglio dei mezzi finanziari, mediante i pettegolezzi e le dicerie menzognere» (VII, 26).

Questo non significa che i rapporti di sana considerazione e fraterna fiducia fra compagni debbano essere guidati da “sentimentalismo” (le virgolette sono di Lenin) nei confronti dei capi apprezzati e stimati. Lenin vi si sofferma nel raccontare l’esperienza del suo primo incontro con Plekhanov (“Perché è mancato poco che la ‘scintilla’ si spegnesse”, 1900, IV, 374).

In “Politique d’abord” del 1952 il partito trasse le stesse conclusioni: «Una lunga e tragica esperienza dovrebbe avere appreso che nell’azione di partito bisogna adoperare tutti secondo le loro svariatissime attitudini e possibilità, ma che “non bisogna amare nessuno”, ed essere pronti a buttare via chiunque, anche se avesse fatto su ogni anno di vita undici mesi di galera. La decisione sulle proposte di azione ai grandi svolti deve riuscire a farsi al di fuori della “autorità” personale di maestri, capi e dirigenti, e in base alle norme prefissate di principio e di azione del nostro movimento: postulato difficilissimo, ben lo sappiamo, ma senza il quale non si vede via perché un movimento potente riappaia».


35. Gerarchia interna e decisioni

Una prova della considerazione di Lenin per la “democrazia interna” si ha da quanto riferisce Trotski in “La mia vita”. Si era all’esordio del II Congresso: «Il punto importante era determinare il rapporto tra l’organo centrale (l’”Iskra”) e il Comitato Centrale in Russia. Io ero arrivato all’estero con l’idea che la redazione dovesse “essere subordinata” al Comitato Centrale. Questa era l’opinione della maggioranza dei sostenitori dell’”Iskra”. “Non funzionerà – mi rispose Lenin – il rapporto delle forze non si presenta così. Come faranno a dirigerci dal profondo della Russia? Non funzionerà (...) Noi siamo un centro stabile, siamo più forti ideologicamente, dirigeremo di qui”. “Allora sarà la completa dittatura della redazione?”. “Che c’è di male in ciò? rispose Lenin. Nell’attuale situazione non può essere altrimenti”».

Non è il rispetto delle regole democratiche che mantiene il partito sulla strada giusta, ma l’aderenza completa e testarda alla dottrina marxista! E quella Lenin, spesso da solo, allora, impersonava. La dottrina, il partito storico, era allora nell’organo centrale. Come può risultare il miglior lavoro rivoluzionario da una consultazione democratica, o da una mediazione tra diverse correnti, che ancora nel partito di Lenin esistevano?

Lenin su questo è molto chiaro ancora nel 1920, quando l’Opposizione Operaia pretendeva che le decisioni fossero prese in base alla rappresentanza proporzionale nel Comitato Centrale e nei vari Comitati cittadini; e che ci si appellasse alla democrazia per risolvere i problemi operativi: «Per eleggere i delegati a una conferenza di partito con funzioni deliberanti o a un congresso di partito, la rappresentanza proporzionale è indispensabile. Ma quando si tratta di costituire un organismo esecutivo, che deve dirigere il lavoro pratico, questo principio proporzionale non può essere considerato giusto, e non è mai stato applicato. La considerazione determinante per voi, membri della conferenza, deve consistere nella conoscenza personale di ciascun candidato e nella preferenza per quel gruppo che offra la garanzia di un lavoro concorde, e non il principio della proporzionalità nell’elezione di un organismo esecutivo, principio che non è stato mai applicato, e che non sarebbe giusto applicare oggi» (“Conferenza provinciale moscovita del PCR”, 1920, XXXI, 410-11).

Quindi Lenin riconosce sì che il dispositivo democratico interno era allora inevitabile. Ma che quando si tratta di decisioni operative e quando si tratta di enunciare le posizioni fondanti del partito la democrazia era già un orpello inutile, e addirittura dannoso, del quale il grande Vladimiro senza esitare fa a meno.

Noi, forti dell’esperienza di altri decenni di controrivoluzione – e di tradimenti di sedicenti leninisti – abbiamo fatto gettito della democrazia, anche nel suo formalismo. Nel partito è tradizione enunciare il paradosso che la democrazia potrebbe avere un senso se potessero votare assieme i comunisti morti, vivi e nascituri!


36. Le “garanzie”

Essendo il partito organismo formato sulla base di adesioni volontarie, la “garanzia” che risponda alla più severa disciplina deve essere ricercata nella chiara definizione delle norme tattiche, uniche e impegnative per tutti, nella continuità dei metodi di lotta e nella chiarezza delle norme organizzative.

In “Marxismo e autorità” (1956) scrivevamo: «Ricorderemo appena le garanzie da noi tante volte proposte e illustrate ancora nel “Dialogato coi Morti”. Dottrina: il Centro non ha facoltà di mutarla da quella stabilita, fin dalle origini, nei testi classici del movimento. Organizzazione: unica internazionalmente, non varia per aggregazioni o fusioni, ma solo per ammissioni individuali; gli organizzati non possono stare in altri movimenti. Tattica: le possibilità di manovra e di azione devono essere previste da decisioni dei congressi internazionali con un sistema chiuso. Alla base non si possono iniziare azioni non disposte dal centro: il centro non può inventare nuove tattiche e mosse, sotto pretesto di fatti nuovi. Il legame tra la base del partito e il centro diviene una forma dialettica. Se il partito esercita la dittatura della classe nello Stato, e contro le classi contro cui lo Stato agisce, non vi è dittatura del centro del partito sulla base. La dittatura non si nega con una democrazia meccanica interna formale, ma col rispetto di quei legami dialettici».


37. Un giornale per tutta la Russia

Anche opporre l’autonomia del lavoro locale a quello generale del partito è una forma di primitivismo. Il lavoro locale langue, scrive Lenin, anche perché non c’è un piano nazionale di attività, aspetto chiarito nel quinto e ultimo capitolo del Che Fare?, dopo aver speso molte pagine a dimostrare con dati storici quanto sostiene. Piuttosto che sostenere la stampa locale, si sente il bisogno di un organo centrale “specializzato” sul lavoro sindacale e di agitazione.

Proponendo un “piano di un giornale politico per tutta la Russia” si risponde alle critiche dei primitivisti. Si trattava di un organo che raccogliesse punto per punto i contributi di tutti i comitati e i circoli (non erano ancora sezioni di un unico partito). Per Lenin un giornale per tutta la Russia si avvicina molto all’idea che ha del centro del partito; nella struttura dell’organo di stampa, compresi la sua distribuzione, la sua lettura da parte dei compagi, la sua propaganda, Lenin dipinge un embrione del partito, in ispecie nel regime poliziesco dell’epoca. Il bisogno fondamentale e impellente è quello di un partito marxista e rivoluzionario, con una salda base teorica, condivisa da tutta l’organizzazione, attraverso appunto un organo attorno al quale si coagula e prende forma il lavoro di tutti i militanti.

Niente a che fare con dibattiti e passerelle di opinioni, ma un giornale degno del partito comunista. Dopo un richiamo alla necessità di delimitarsi prima di unirsi, in “Dichiarazione della redazione dell’Iskra” Lenin chiarisce senza possibilità di equivoci: «Non intendiamo fare del nostro organo di stampa un semplice ricettacolo di concezioni diverse. Noi lo dirigeremo, viceversa, nello spirito di una tendenza rigorosamente definita. Questa tendenza può essere enunciata con una sola parola: marxismo, ed è quasi superfluo aggiungere che siamo per lo sviluppo coerente [la nostra “scolpitura”!] delle idee di Marx e di Engels e respingiamo risolutamente quelle bastarde correzioni vaghe e opportunistiche, divenute ora tanto di moda grazie alla fortuna di cui godono E. Bernstein, P. Struve e molti altri» (IV, 389).

Chiarito questo, a cosa deve servire il giornale? «Dobbiamo non soltanto chiarire a noi stessi quale organizzazione precisamente occorra, e per quale lavoro precisamente: dobbiamo elaborare un determinato piano di organizzazione affinché da ogni parte ci si accinga a costruirla (...) Ci occorre innanzi tutto un giornale; senza un giornale è impossibile condurre sistematicamente quella propaganda e quell’agitazione multiformi e conseguenti che costituiscono il compito permanente e principale della socialdemocrazia in generale, e il compito particolarmente urgente del momento attuale, in cui l’interesse per la politica, per le questioni del socialismo, si è destato nei più larghi strati della popolazione (...) Non credo sia esagerato affermare che la maggiore o minore frequenza e regolarità dell’uscita (e diffusione) del giornale potrà essere l’indice più esatto della solidità con la quale saremo riusciti a organizzare questo settore, che è il più elementare e il più importante della nostra attività militante (...)

«Un giornale non ha solo la funzione di diffondere idee, di educare politicamente e di conquistare alleati politici. Il giornale non è solo un propagandista e un agitatore collettivo, ma anche un organizzatore collettivo (...) Attraverso il giornale e con il giornale si formerà quindi un’organizzazione permanente, che si occuperà non soltanto del lavoro locale, ma anche del lavoro generale sistematico, che insegnerà ai suoi membri a seguire attentamente gli avvenimenti politici, a valutarne l’importanza e l’influenza sui diversi strati della popolazione, a elaborare quei metodi che permettono al partito rivoluzionario di esercitare la sua influenza sugli stessi avvenimenti. Lo stesso compito tecnico di assicurare al giornale un regolare rifornimento di materiale e una regolare diffusione costringerà a creare una rete di fiduciari locali del partito unico, fiduciari che dovranno mantenersi in contatto vivo gli uni con gli altri, dovranno conoscere la situazione generale, abituarsi a eseguire regolarmente una parte del lavoro per tutta la Russia, a saggiare le loro forze organizzando ora questa ora quell’azione rivoluzionaria. Questa rete di fiduciari sarà l’ossatura dell’organizzazione» (“Da che cosa cominciare?”, V, 12-14).

«Il fatto è che, per educare forti organizzazioni politiche, non vi è altro mezzo all’infuori di un giornale per tutta la Russia (...) Tutti parlano attualmente dell’importanza dell’unificazione, della necessità di “raccogliere e di organizzare”, ma nella maggior parte dei casi non si sa ancora chiaramente da che cosa cominciare e come raggiungere l’unificazione (...) Per conto mio persisto nel sostenere che questo legame effettivo si può cominciare a crearlo solo per mezzo di un grande giornale comune, iniziativa unica e regolare per tutta la Russia, che farà il bilancio delle più diverse forme di attività e inciterà quindi i militanti a procedere senza requie lungo tutte le molteplici strade, che conducono alla rivoluzione, come tutte le strade conducono a Roma. Se vogliamo una unificazione non soltanto a parole, bisogna che ogni circolo locale mobiliti immediatamente, mettiamo, un quarto delle sue forze per partecipare attivamente all’opera comune (...) Oggi, nella maggior parte dei casi, queste forze si fanno sterminare su un ristretto campo di operazioni, cioè nel lavoro locale, mentre allora si avrebbe costantemente la possibilità e l’occasione di spostare da un capo all’altro del paese ogni agitatore od ogni organizzatore di qualche capacità. Cominciando con piccoli viaggi per questioni di partito e a spese del partito, i militanti si abituerebbero a poco a poco a passare interamente alla sua dipendenza, diventerebbero dei rivoluzionari di professione, si preparerebbero alla funzione di veri capi politici (...) Intorno a quest’opera ancora semplice e minuta, ma regolare e veramente collettiva, si recluterebbe sistematicamente e addestrerebbe un esercito permanente di combattenti provati (...) Ecco che cosa bisogna sognare!» (“Che fare?”, V, 462-470).


38. La buona tattica e il buon partito

Quali sono le caratteristiche di questa organizzazione? La capacità di prevedere in linea di massima lo svolgersi degli eventi: «Meno di tutti corre il rischio di non vedere sopraggiungere la rivoluzione chi, come l’Iskra, pone alla base del proprio programma, della propria tattica e del proprio lavoro di organizzazione l’agitazione politica fra tutto il popolo. Gli uomini che in tutta la Russia si sforzano di stendere la rete di un’organizzazione, collegata a un giornale per tutta la Russia, non solo hanno visto sopraggiungere gli avvenimenti della primavera, ma ci hanno dato la possibilità di predirli. Non lasceranno sopraggiungere senza vederla, se saranno ancora vivi in quel momento, nemmeno la rivoluzione, che esigerà da noi innanzi tutto e soprattutto molta esperienza nell’agitazione, e durante il cui svolgimento dovremo saper appoggiare (da socialdemocratici) tutte le proteste, dirigere il movimento spontaneo e preservarlo dagli errori degli amici come dalle trappole dei nemici».

La duttilità: «Solo un’organizzazione di tal genere darà alla socialdemocrazia militante la duttilità necessaria, e cioè la capacità di adattarsi immediatamente alle più diverse condizioni, alle sempre mutevoli condizioni della lotta».

Il disprezzo per la fretta, l’impazienza, tipica della società borghese: «Se non sappiamo elaborare una tattica politica e un piano di organizzazione per un periodo lunghissimo, che assicurino, attraverso lo svolgimento stesso del lavoro, la capacità del nostro partito di trovarsi sempre al proprio posto e di fare il proprio dovere nelle circostanze più inattese, qualunque sia la rapidità degli avvenimenti, siamo soltanto dei miserabili avventurieri politici. Solo Nadezdin, che ha incominciato ieri a dirsi socialdemocratico, può dimenticare che la socialdemocrazia ha per fine la trasformazione radicale delle condizioni di vita di tutto il genere umano e che non è da socialdemocratico lasciarsi “turbare” dalla durata del lavoro».

Svolgimento sempre di tutti i compiti del partito: «“La rivoluzione sarà una successione rapida di esplosioni più o meno violente, alternantisi con fasi di calma più o meno profonda. Perciò il contenuto essenziale dell’attività del nostro partito, il fulcro della sua attività, deve consistere nel lavoro che è possibile e necessario sia nei periodi delle esplosioni più violente sia in quelli di calma completa (...) Proprio nel momento della rivoluzione avremo bisogno dei risultati della lotta teorica [fatta in precedenza] contro i “critici” per combatterne energicamente le posizioni pratiche».

Strutturazione organica del lavoro: «Una rete di fiduciari che si fosse formata da sé, lavorando alla creazione e alla diffusione di un giornale comune, non si accontenterebbe di “attendere con le braccia incrociate” la parola d’ordine dell’insurrezione, ma svolgerebbe una attività regolare che le garantirebbe le maggiori probabilità di successo in caso di insurrezione. E proprio tale attività rafforzerebbe i legami con le grandi masse operaie e con tutti gli strati della popolazione malcontenti dell’autocrazia».

Quindi: «In una parola, il “piano di un giornale politico per tutta la Russia” non è l’opera teorica di persone affette da dottrinarismo e da mania letteraria è, al contrario, il mezzo più pratico per ottenere che da ogni parte ci si metta senza indugio al lavoro e ci si prepari all’insurrezione, senza dimenticare neppure per un istante il lavoro quotidiano» (V, 474-477).

Il solo compito tecnico di custodire, diffondere, consegnare il giornale necessita di quadri a livello centrale che garantiscano la sua corretta impostazione e fiduciari nei gruppi locali.


39. Centralismo comunista contro la dispersione della classe nella società borghese

In definitiva si tratta di creare un’organizzazione come premessa e non come risultato del processo rivoluzionario; o, se si vuole, come risultato di un processo rivoluzionario già avanzato che è iniziato con la nascita e contrapposizione di borghesia e proletariato molti secoli addietro.

Questo non lo capirono i menscevichi nel 1903, quando si separarono dal gruppo maggioritario che faceva riferimento a Lenin. Una lettera di Axelrod a Kautsky, del 6 giugno 1904, è rivelatrice. Nella sostanza Axelrod considera le condizioni russe non mature per la nascita di un partito organizzato e strutturato per la presa del potere. Deride la visione organizzativa di Lenin come «banale e miserabile caricatura del sistema autocratico-burocratico del nostro ministero degli interni». Sarebbe “feticismo organizzativo”, che avrebbe causato l’”equivoco” che ha portato alla scissione. Ma in un punto il nostro vede bene, anche se interpreta male: «Da noi le divergenze nei problemi organizzativi per la prima volta si sono manifestate in modo chiaro e concreto soltanto nei metodi e nei procedimenti con i quali Lenin e i suoi favoreggiatori hanno attuato in pratica il “centralismo” da noi tutti riconosciuto». Quei metodi e quei procedimenti sono la sola vera garanzia, sia del corretto funzionamento del partito sia del mantenimento della sua ortodossia teorica.

L’opuscolo si conclude con un sintetico riassunto delle tre fasi della socialdemocrazia in Russia, e con l’auspicio che ve ne sia una quarta, con l’uscita dalla crisi e con il rafforzamento del marxismo militante. Lenin se lo augura, noi sappiamo che così sarà grazie soprattutto al suo potente e indefesso lavoro. Che è rivolto soprattutto a creare una organizzazione degna di questo nome. Così conclude “Un passo avanti, due passi indietro”: «Il proletariato non ha altra arma che l’organizzazione nella lotta per il potere. Scompaginato dal dominio della anarchica concorrenza nel mondo borghese, schiacciato dal lavoro forzato per il capitale, sospinto continuamente “nell’abisso” della più nera miseria, dell’abbrutimento e della degradazione, il proletariato può diventare, e inevitabilmente diventerà, una forza invincibile solo se la sua unità ideale, fondata sui principi del marxismo, sarà consolidata dall’unità materiale di una organizzazione che riunisca saldamente assieme milioni e milioni di lavoratori nell’esercito della classe operaia. Davanti a questo esercito non reggerà né il potere già decrepito dell’autocrazia russa, né il potere del capitale internazionale, che decrepito sta diventando. Quest’esercito serrerà sempre più strettamente le sue file, nonostante tutti i possibili zigzag e passi indietro, nonostante le frasi opportunistiche dei girondini dell’odierna socialdemocrazia, nonostante la fatua glorificazione dell’arretrato sistema dei circoli, nonostante gli orpelli e lo stamburamento dell’anarchia da intellettuali».


40. Il centralismo organico

Pur se opera in un’epoca e in un ambiente in cui ancora il meccanismo democratico non poteva non essere utilizzato per il suo funzionamento, quanto abbiamo visto sinora dimostra che Lenin, in base alla sua osservazione critica dei meccanismi di funzionamento dei partiti socialisti, si schiera per un modo di essere del partito che noi oggi possiamo definire “organico”, oltre che centralistico. Se centralismo e disciplina esecutiva sono la condizione per l’esistenza del partito comunista, siffatta condizione non può essere ottenuta con i meccanismi propri dei partiti borghesi. Anche nel suo funzionamento il partito della classe operaia è costretto a essere rivoluzionario.

Il modo di essere del partito sarà formulato dai compagni della Sinistra sin dalla nascita del Partito Comunista d’Italia, Sezione della III Internazionale.

Negli anni seguenti l’esperienza della controrivoluzione staliniana fu la prova evidente che quello del centralismo organico era l’unico metodo per dare una possibilità al partito di sopravvivere, anche come compagine militante, in periodi di riflusso rivoluzionario. Enunciato di nuovo nel 1926, al III Congresso del P.C.d’I. a Lione, il centralismo organico è riaffermato in tutte le sue svolte del partito: nel dopoguerra, nel 1952, nel 1965, nel 1973. È solo grazie a una aderenza stretta, quasi fanatica, al nostro modo di lavorare che il partito è ancora attivo e in buona salute a 70 anni dalla sua ricostituzione, dove in buona salute significa legato ai cardini dottrinari che furono di Marx, Engels, Lenin e della Sinistra.

Cosa è quindi il centralismo organico? Non ci rinnegheremo certo dando qui una serie di regole, un codice, un regolamento, uno statuto. Rammenteremo piuttosto alcuni fondamenti del nostro modo di lavorare, già in parte delineati nel testo che precede, citando il partito in varie epoche della sua esistenza. Senza dimenticare che la nostra storia ci insegna che l’acquisizione del nostro metodo non può derivare da descrizioni libresche, per quanto dettagliate possano essere: il compagno si impadronisce del metodo di lavoro del partito lavorando al suo interno, nel suo ambiente “ferocemente anti-borghese” che accomuna tipi diversi di compagni e più generazioni. Con la difficoltà supplementare che nel nostro caso deve liberarsi di una massa di zavorra cultural-ideologica, pregna di mito dell’individuo, della patria e della divinità, con la quale gli sconfinati mezzi di propaganda delle società di classe hanno avvelenato il profondo del suo animo.

I moduli di comportamento interni del partito comunista non rispondono a comandamenti, a canoni estetici o ad astratte norme morali, ma sono gli insegnamenti di un doloroso passato che ha visto nel loro rinnegamento il veleno somministrato al partito ad accompagnare la sua degenerazione fino al passaggio al nemico. Per altro una coerente vita organica interna, fra compagni che “si tengono strettamente per mano”, è un coefficiente di forza, un fatto materiale prima che di coscienza e di affetti, una disciplina che nella guerra sociale conferisce al partito quella efficace unità di intenti e di movimento che è negata a ogni organismo e istituzione borghese.


41. Il “centralismo democratico”

Quali sarebbero le regole formali “sacre” – che per Lenin tali non erano – che garantirebbero il funzionamento del centralismo democratico, quello che tutti il sinistrume oppone al centralismo organico? Le divergenze presenti in seno al partito non possono essere risolte che in un rapporto di forze; diritto proclamato di organizzarsi in tendenze e frazioni; formazione di gruppi di pressione in vista delle elezioni dei dirigenti e dei congressi, regolarmente convocati; elezione degli organi direttivi con la conta dei voti; verifica periodica della linea politica del partito tramite la possibilità accordata alle minoranze di diventare maggioritarie.

Il centralismo democratico, assurto contro di Lenin a principio, sanziona il principio antimarxista della continua e libera ricostruzione della teoria e della tattica, nei periodici congressi, in funzione di pretesi cambiamenti delle condizioni sociali, economiche, politiche, condizioni che varierebbero da paese a paese, se non addirittura modulate per particolari aree all’interno dei singoli paesi. Le “scelte” non sono determinate in base a un programma invariante, né a seguito a evidenze storiche e scientifiche, ma in base alla contingente maggioranza che gli si raccoglie intorno.

Lenin – benché alcune di queste regole non riesca a evitarle, e le proponga addirittura come primo strumento contro la dispersione e l’indisciplina dei circoli – viene non a caso sempre accusato di ostacolare, col suo centralismo, lo sviluppo della democrazia interna di partito.

Nel 1972 così trattavamo la questione (“Premessa alle tesi dopo il 1945”, da In difesa della continuità del programma comunista, p. 130):

«In verità la questione del centralismo organico in quanto contrapposto al centralismo democratico è tutt’altro che terminologica. Nella sua contraddittorietà, la seconda formula riflette bensì nel sostantivo l’aspirazione al partito mondiale unico come noi l’abbiamo sempre auspicato, ma rispecchia nell’aggettivo la realtà di partiti ancora eterogenei per formazione storica e base dottrinaria (...)

«Nella nostra visione il partito si presenta con caratteri di centralità organica perché non è una “parte”, sia pure la più avanzata, della classe proletaria, ma il suo organo, sintetizzatore di tutte le sue spinte elementari come di tutti i suoi militanti, da qualunque direzione provengano, e tale è in forza del possesso di una teoria, di un insieme di principi, di un programma, che scavalcano i limiti di tempo dell’oggi per esprimere la tendenza storica, l’obiettivo finale e il modo di operare delle generazioni proletarie e comuniste del passato, del presente e del futuro, e che superano i confini di nazionalità e di Stato per incarnare gli interessi dei salariati rivoluzionari del mondo intero; tale è, aggiungiamo, anche in forza di una previsione, almeno nelle grandi linee, dello svolgersi delle situazioni storiche, e quindi della capacità di fissare un corpo di direttive e norme tattiche obbligatorie per tutti (...) Se il partito è in possesso di tale omogeneità teorica e pratica (...) la sua organizzazione, che è nello stesso tempo la sua disciplina, nasce e si sviluppa organicamente sul ceppo unitario del programma e dell’azione pratica, ed esprime nelle sue diverse forme di esplicazione, nella gerarchia dei suoi organi, la perfetta aderenza del partito al complesso delle sue funzioni, nessuna esclusa».


42. Il centralismo nella Sinistra

Una prima enunciazione si ha nel 1922 (“Il principio democratico”): «La democrazia non può essere per noi un principio; il centralismo lo è indubbiamente, poiché i caratteri essenziali dell’organizzazione del partito devono essere l’unità di struttura e di movimento. Per segnare la continuità nello spazio della struttura di partito è sufficiente il termine centralismo, e per introdurre il concetto essenziale di continuità nel tempo, ossia nello scopo cui si tende e nella direzione in cui si procede verso successivi ostacoli da superare, collegando anzi questi due essenziali concetti d’unità, noi proporremmo di dire che il partito comunista fonda la sua organizzazione sul “centralismo organico”».

Nel 1926, in una situazione di ritirata e di perdita della bussola rivoluzionaria da parte del partito internazionale, della quale eravamo perfettamente coscienti, nelle Tesi presentate al III Congresso del P.C.d’I. a Lione, la Sinistra conferma l’importanza della corretta gestione del partito:

«II.5 - (...) I partiti comunisti devono realizzare un centralismo organico che, col massimo compatibile di consultazione della base, assicuri la spontanea eliminazione d’ogni aggruppamento tendente a differenziarsi. Questo non si ottiene con prescrizioni gerarchiche formali e meccaniche, ma, come dice Lenin [nell’Estremismo, n.d.r.], con la giusta politica rivoluzionaria».

In poche parole il partito deve essere una struttura centralizzata, con l’esistenza di organi diversi e di un organo centrale capace di coordinare, dirigere, ordinare a tutta la rete; disciplina assoluta di tutti i membri dell’organizzazione nell’eseguire gli ordini disposti dal centro; nessuna autonomia a sezioni o gruppi locali; nessuna rete di comunicazione divergente da quella unitaria che collega il centro alla periferia e la periferia al centro. E la continua attività di studio, di scolpimento della dottrina che è una caratteristica del partito, non ha solo un valore conoscitivo, ma anche e soprattutto organizzativo, per essere sempre in grado di esprimere la giusta politica rivoluzionaria.


43. Come si struttura il partito secondo Lenin

Non molto diverso è quanto auspicato da Lenin nella “Lettera a un compagno sui nostri compiti organizzativi”, del 1902: «Il giornale può e deve essere il dirigente ideologico del partito, sviluppare le verità teoriche, i principi tattici, le idee organizzative generali, i compiti comuni di tutto il partito in questo o quel momento (...)

«Gli statuti sono inutili non perché il lavoro rivoluzionario non può avere sempre una struttura ben definita. No, la struttura è necessaria e noi dobbiamo cercare di dare a tutto il lavoro, nella misura del possibile, una struttura. Ed è possibile darla su scala molto più vasta di quel che comunemente si pensi, ma non con gli statuti, bensì solo ed esclusivamente (lo ripetiamo per l’ennesima volta) con l’esatta informazione al centro del partito: solo allora si tratterà di una reale struttura legata a una reale responsabilità e pubblicità (di partito)» (VI, 216, 230).

Ricordiamo che, l’abbiamo visto nel Che fare?, quando Lenin dice giornale, rivista, Iskra (finché fu sua, e nostra), intende centro del partito, che nel 1902 è soprattutto il centro ideologico, dottrinale. Ogni richiamo all’organo centrale vuol dire richiamo al marxismo ortodosso. Quindi già si parla di dittatura del programma.

Che a farsi espressione cosciente di quel programma fossero allora pochi uomini, o uno solo, Lenin, non ci turba. Fatto certo negativo in quanto fattore della vulnerabilità del partito, e lo si vedrà alla prematura morte del grande Vladimiro, quando sarebbe stata storicamente più auspicabile una sconfitta militare, piuttosto che un trionfo della controrivoluzione passata attraverso la degenerazione del partito russo, dell’Internazionale e di tutte le sue sezioni nazionali.


44. Lavoro concorde contro crisi e scissioni

Raccogliamo un’altra testimonianza di Lenin, che coincide con il modo di lavorare della Sinistra: «Alla domanda “che cosa non fare?” (che cosa non fare in generale e che cosa non fare per non provocare una scissione) risponderei innanzi tutto: non celare al partito i motivi di scissione che sorgono e si sviluppano, non celare nulla delle circostanze e degli avvenimenti che possono costituire tali motivi. Inoltre non celarli non solo al partito, ma, possibilmente, neanche al pubblico estraneo. Una vasta pubblicità: ecco il mezzo più idoneo, il solo mezzo sicuro per evitare le scissioni che si possono evitare, per ridurre al minimo il danno di quelle che sono ormai divenute inevitabili» (“Lettera alla redazione dell’Iskra“, 1903, VII, 110-111).

Ancora nel 1920, a una conferenza di partito, mentre ancora si combatteva contro gli eserciti dei bianchi, di fronte alle difficoltà poste dall’Opposizione Operaia, Lenin, mentre riconosce a quei compagni alcune ragioni, insiste prima di tutto affinché l’intero partito sia coinvolto nella risoluzione del problema. Poi però ricorda che c’è un programma, che va rispettato a tutti i costi, se non si vuole soccombere al nemico. «L’Opposizione (...) reca indubbiamente in sé qualcosa di sano, ma quando si trasforma in un’opposizione fine a se stessa, bisogna farla finita assolutamente con tale opposizione. Abbiamo perduto troppo tempo in alterchi, liti e bisticci, è tempo di dire “basta!”, è tempo di ricercare le condizioni per risanare il lavoro. Si facciano queste o quelle concessioni, ma si ottenga che il lavoro sia concorde, perché altrimenti non potremo resistere, mentre siamo attorniati da nemici esterni e interni» (“Conferenza provinciale moscovita del PCR”, 1920, XXXI, 407).

Quindi stretta aderenza ai cardini programmatici, con criteri ben conosciuti e sempre ripetuti a tutto il partito, non solo nel chiuso delle sezioni ma anche sulla stampa; risolvere i problemi collettivamente, dopo di che disciplina esecutiva totale, senza lagne sulla mancanza di democrazia.

Scrivevamo in “La continuità d’azione del partito sul filo della tradizione della Sinistra”, in “Il Programma Comunista” 3-5/1967: «È attorno a quest’inscindibile e durissimo nocciolo, dottrina-programma-tattica, possesso collettivo e impersonale del movimento, che la nostra organizzazione si cristallizza, e ciò che la tiene unita non è il knut del “centro organizzatore” ma il filo unico e uniforme che lega dirigenti e base, centro e periferia, impegnandoli all’osservanza e alla difesa di un sistema di fini e di mezzi nessuno dei quali è separabile dall’altro. In questa vita reale del partito comunista – non di qualunque partito ma solo e proprio di esso in quanto comunista sia di fatto e non di nome – il rompicapo che assilla il democratico borghese; chi decide: l’”alto” o il “basso”, i più o i pochi? Chi “comanda” e chi “ubbidisce”? (...)

«La generosa preoccupazione dei compagni che il partito operi in modo organizzativamente sicuro, lineare e omogeneo, si rivolga dunque – come ammoniva lo stesso Lenin nella “Lettera a un compagno” – non alla ricerca di statuti, codici e costituzioni, o peggio, di personaggi di tempra speciale, ma a quella del modo migliore di contribuire, tutti e ciascuno, all’armonico espletamento delle funzioni senza le quali il partito cesserebbe di esistere come forza unificatrice e come guida e rappresentanza della classe, che è l’unica via per aiutarlo a risolvere giorno per giorno, “da sé” – come nel Che fare?, di Lenin, là dove si parla del giornale come di un “organizzatore collettivo” – i suoi problemi di vita e di azione. È qui la chiave del “centralismo organico”, è qui l’arma sicura nella storica battaglia delle classi, non nella vuota astrazione delle pretese “norme” di funzionamento dei più perfetti meccanismi o, peggio, nello squallore dei processi agli uomini che per selezione organica si trovano a maneggiarli».


45. Come garantire la disciplina?

Il partito funziona grazie al lavoro di uomini: quali le garanzie che questi uomini non tradiranno o sbaglieranno? È evidente l’obiezione del piccolo borghese: chi impedirà che gli individui facciano quello che loro pare, che disobbediscano, perché in ogni individuo, anche militante nel partito, c’è il germe dell’individualismo, dell’autoesaltazione, dell’anarchismo, ecc.? Chi impedirà che i singoli sollevino problemi solo per il gusto di sollevarli o di criticare? La Sinistra ha già risposto oltre 50 anni fa a obiezioni di questo genere e la risposta suona così: in un organismo, come il partito, che si forma sulla base di adesioni volontarie a una comune trincea di combattimento e di sacrificio, queste manifestazioni individuali devono rimanere delle rare eccezioni, e in quanto tali si possono facilmente risolvere.

Diverso è il caso di dissensi ed episodi di indisciplina che sorgono, si moltiplicano e crescono invece di ridursi e tendere a scomparire. Ciò significa che qualcosa non va nella complessa attività del partito e nella sua conduzione centrale. Questo si può risolvere solo nel rendere più tagliente e netta la fisionomia del partito in tutte le sue manifestazioni teoriche e pratiche. La soluzione non sta, né per Lenin né per la Sinistra, nell’intensificare i reticolati burocratici e le repressioni organizzative, di cui abbiamo sempre dichiarato che possiamo benissimo fare a meno, allo stesso titolo che facciamo a meno della conta delle teste individuali.

«L’arte di prevedere come il partito reagirà agli ordini, e quali ordini otterranno la buona reazione, è l’arte della tattica rivoluzionaria; essa non può essere affidata se non all’utilizzazione collettiva delle esperienze di azione del passato, assommate in chiare regole di azione (...) Non esitiamo a dire che, essendo lo stesso partito cosa perfettibile e non perfetta, molto deve essere sacrificato alla chiarezza, alla capacità di persuadere delle norme tattiche, anche se ciò comporta una certa schematizzazione (...) Non è il partito buono che dà la tattica buona, soltanto, ma è la buona tattica che dà il buon partito, e la buona tattica non può essere che tra quelle capite e scelte da tutti nelle linee fondamentali» (Tesi della Sinistra al III Congresso del P.C.d’I., Lione 1926).

La garanzia dell’obbedienza agli ordini del centro da parte della base non è più data dall’osservanza degli articoli di uno statutodi un codice, ma perché gli ordini sono quelli attesi, essendo aderenti al patrimonio comune del partito. La gerarchia del partito non ha più bisogno né di essere eletta dalla base, né di essere nominata dall’alto, perché l’unico criterio di selezione rimane quello della capacità allo svolgimento delle varie funzioni dell’organo partito. Che al centro si trovi un individuo piuttosto che un altro non deve cambiare l’indirizzo politico del partito e la sua tattica. Nel partito forte e sano ogni compagno deve essere sempre sostituibile senza che nulla cambi nella fisionomia del partito perché la designazione dei militanti più adatti nelle varie funzioni diventa fatto “naturale e spontaneo” che non ha bisogno d’alcuna sanzione particolare.

Il partito è un’organizzazione “volontaria” nel senso che vi si aderisce per libera scelta e nel senso che ogni militante «è materialmente libero di lasciarci quando voglia» e che «neanche dopo la rivoluzione concepiamo l’iscrizione forzata nelle nostre file». Quando si è nell’organizzazione si è tenuti all’osservanza della più ferrea disciplina nell’esecuzione degli ordini centrali, ma la trasgressione a questa regola non può essere eliminata dal centro se non attraverso l’espulsione dei trasgressori. Il centro non dispone, per farsi obbedire, di altre sanzioni materiali.

Che cosa può mantenere il militante sul fronte di battaglia e renderlo obbediente agli ordini che gli pervengono? Non gli articoli di un codice penale bensì il riconoscimento che quegli ordini si collocano sul terreno comune, coerenti ai principi, alle finalità, al programma, al piano d’azione cui esso ha aderito. È dunque nella capacità del partito di muoversi su questa base storica, di acquisirla, di permeare di essa tutta la sua organizzazione e la sua attività che si pongono le condizioni della disciplina. Nella misura in cui questo si verifica i casi d’indisciplina, non riconducibili a questioni individuali, divengono meno frequenti e il partito acquisisce un comportamento univoco nell’azione. Il lavoro per creare un’organizzazione veramente centralizzata e capace di rispondere in ogni momento a disposizioni unitarie, consiste dunque essenzialmente nella continua precisazione e scolpimento dei cardini di teoria, di programma, di tattica e nel continuo uniformarsi a loro dell’azione del partito, dei suoi metodi di lotta.

«Noi dobbiamo avere un partito assolutamente omogeneo, senza divergenze di idee e senza raggruppamenti diversi nel suo seno. Ma questo non è un dogma, non è un principio a priori; è un fine per il quale si deve e si può combattere nel corso dello sviluppo che porta alla formazione di un vero partito comunista, alla condizione che tutte le questioni ideologiche, tattiche e organizzative siano poste e risolte correttamente. La disciplina è quindi un punto di arrivo, non un punto di partenza, non una piattaforma che si possa ritenere incrollabile. Ciò si ricollega, del resto, al carattere volontario della adesione alla nostra organizzazione di partito. Non è dunque in una specie di codice penale del partito che si può cercare un rimedio ai casi frequenti di indisciplina» (Rapporto della Sinistra alla VI Sessione dell’Esecutivo Allargato dell’Internazionale Comunista, V Seduta, 23 febbraio 1926).

Né hanno senso misure di terrore ideologico e organizzativo, che richiamano le lugubre pratiche dello stalinismo distruttore del partito. Affermano le nostre Tesi supplementari sul compito storico, l’azione e la struttura del partito comunista mondiale, in “Il Programma Comunista” n. 7, 1966):

«Altra lezione che sorge da episodi della vita della Terza Internazionale è quella della vanità del “terrore ideologico”, metodo disgraziato col quale si volle sostituire il naturale processo della diffusione della nostra dottrina attraverso l’incontro con le realtà bollenti nell’ambiente sociale, con una catechizzazione forzata di elementi recalcitranti e smarriti, per ragioni o più forti degli uomini e del partito o inerenti a una imperfetta evoluzione del partito stesso, umiliandoli e mortificandoli in congressi pubblici anche al nemico, se pure fossero stati esponenti e dirigenti della nostra azione in episodi di portata politica e storica. Nel partito rivoluzionario in pieno sviluppo verso la vittoria le ubbidienze sono spontanee e totali, non cieche e forzate, e la disciplina centrale, come illustrato nelle tesi e nella documentazione che le appoggia, vale un’armonia perfetta delle funzioni e della azione della base e del centro, né può essere sostituita da esercitazioni burocratiche di un volontarismo antimarxista».

E in “La teoria della funzione primaria del partito politico sola custodia e salvezza della energia storica del proletariato”, in “Il Programma Comunista” n. 21-22, 1958):

«Il partito che noi siamo sicuri di veder risorgere in un luminoso avvenire sarà costituito da una vigorosa minoranza di proletari e di rivoluzionari anonimi, che potranno avere differenti funzioni come gli organi di uno stesso essere vivente, ma tutti saranno legati, al centro o alla base, alla norma a tutti sovrastante e inflessibile di rispetto alla teoria; di continuità e rigore nella organizzazione; di un metodo preciso di azione strategica la cui rosa di eventualità ammesse va, nei suoi veti da tutti inviolabili, tratta dalla terribile lezione storica delle devastazioni dell’opportunismo.

«In un simile partito finalmente impersonale nessuno potrà abusare del potere, proprio per la sua caratteristica non imitabile, che lo distingue nel filo ininterrotto che ha l’origine nel 1848».


46. Come ripartire i compiti

Già nel 1924, in una conferenza che tenemmo a commemorare Lenin in occasione della sua morte, avevamo puntualizzato il ruolo del singolo nel partito.

«La organizzazione in partito, che permette alla classe di essere veramente tale e vivere come tale, si presenta come un meccanismo unitario in cui i vari “cervelli” (non solo certamente i cervelli, ma anche altri organi individuali) assolvono compiti diversi a seconda delle attitudini e potenzialità, tutti al servizio di uno scopo e di un interesse che progressivamente si unifica sempre più intimamente “nel tempo e nello spazio” (questa comoda espressione ha un significato empirico e non trascendente).

«Non tutti gli individui hanno dunque lo stesso posto e lo stesso peso nella organizzazione: man mano che questa divisione dei compiti si attua secondo un piano più razionale (e quello che è oggi per il partito-classe sarà domani per la società) è perfettamente escluso che chi si trova più in alto gravi come privilegiato sugli altri. La evoluzione rivoluzionaria nostra non va verso la disintegrazione, ma verso la connessione sempre più scientifica degli individui tra loro.

«Essa è antindividualista in quanto materialista; non crede all’anima o a un contenuto metafisico e trascendente dell’individuo, ma inserisce le funzioni di questo in un quadro collettivo, creando una gerarchia che si svolge nel senso di eliminare sempre più la coercizione e sostituirvi la razionalità tecnica. Il partito è già un esempio di una collettività senza coercizione.

«Questi elementi generali della questione mostrano come nessuno meglio di noi è al di là del significato banale dell’egualitarismo e della democrazia “numerica” (...)

«In conclusione, se l’uomo, lo “strumento”, di eccezione esiste, il movimento lo utilizza: ma il movimento vive lo stesso quando tale personalità eminente non si trova».

Assodato che sulla dottrina non si discute, che sul programma non si discute, che sulle linee dorsali del piano tattico non si discute, i rapporti interni si configurano come lavoro solidale e comune di tutti i membri del partito inteso a ricercare sulla base del patrimonio comune a tutti le soluzioni più idonee dei vari problemi.

Da tutto ciò discende l’importanza del lavoro comune. Tutti i compagni devono lavorare, questo è ovvio, ma nella misura del possibile i compagni devono lavorare in tutti gli ambiti, non ci devono essere specializzazioni, separazioni tra chi fa un certo lavoro e chi ne fa un altro, anche se è ovvio che non siamo tutti uguali, come non lo saremo nemmeno nel comunismo pieno.

«Tutta l’arte dell’organizzazione clandestina deve consistere nell’utilizzare tutto, nel “dar lavoro a tutti” conservando nel medesimo tempo la direzione di tutto il movimento, conservandola, s’intende, non con la forza del potere, ma con la forza del prestigio, dell’energia, della maggiore esperienza, della maggiore ampiezza di cognizioni, della maggiore capacità» (“Lettera a un compagno”, 1902, VI, 221).


47. Impersonalità e anonimato

Il lavoro comune è il fulcro del funzionamento organico del lavoro, scevro da personalismi e carrierismi. Ai tempi di Lenin ancora non era possibile per immaturità storica, ma noi dal 1952 non pubblichiamo mai i nomi dei compagni sotto a rapporti, articoli, tesi. Non è una scelta morale o estetica ma corrisponde al fatto innegabile che il nostro lavoro non è più individuale, non fosse altro perché qualsiasi nostro nuovo studio non può prescindere da quanto è nella nostra dottrina, da quanto scritto in precedenza da altri compagni, siano questi i grandi Marx o Lenin o oscuri compagni che hanno dato il loro contributo per un giorno, un anno o un’intera vita; anche compagni che poi hanno abbandonato il partito e il marxismo, la mano dei quali, per esempio, ha materialmente scritto alcune delle citazioni che abbiamo qui ordinato. La rivoluzione, abbiamo scritto, risorgerà, ma anonima. Sul fatto che la nostra missione è al di sopra di qualsiasi individuo Lenin fa parlare il compagno Rusov:

«”Dalle bocche dei rivoluzionari – disse giustamente il compagno Rusov – si odono strani discorsi che contraddicono nettamente la nozione di lavoro di partito. L’argomento fondamentale cui si sono ancorati gli avversari (...) si riduce a una concezione meramente filistea delle questioni di partito (...) Se assumessimo questa posizione in ogni elezione ci imbatteremo nella domanda: ma Tizio non si offenderà perché abbiamo eletto Caio? Il tal membro del comitato di organizzazione non se l’avrà a male perché non l’abbiamo eletto nel CC? Dove ci porterà compagni tutto questo? Se ci siamo qui riuniti non per intrattenerci in discorsi reciprocamente piacevoli, non per intrattenerci in amabilità filistee, ma per dar vita al partito, non possiamo in alcun modo essere d’accordo con una simile tesi. Qui si tratta di eleggere dei dirigenti, e quindi non si può parlare di sfiducia per questo o quel compagno non eletto, ma solo dell’interesse della causa e dell’idoneità del compagno eletto all’organismo a cui viene eletto» (“Un passo avanti e due indietro”, 1903, VII, 305-306).

Anche se non era possibile per Lenin scrivere in forma anonima in un momento in cui solo lui e il suo gruppo impersonavano la dottrina marxista, in un partito non del tutto omogeneo in teoria, egli tuttavia rifuggiva da qualsiasi culto della sua, e di altre, persone. Lo si evince da diverse testimonianze, come quella di Andreev (“Lénine comme il fut”): «Né alle riunioni, né ai congressi, né sulla stampa Lenin tollerava alcuna lode, alcuna esaltazione dei suoi meriti personali; si opponeva al culto della personalità, estraneo ai marxisti, e si indignava sempre sinceramente alle sue minime manifestazioni. Il partito e le masse si ponevano sempre in primo piano, quando analizzava gli avvenimenti storici o i compiti da assolvere. La estrema modestia di Lenin si manifestava in tutto e sempre». Facile è qui fare il parallelo con i nostri più grandi maestri.


48. La falsa soluzione delle espulsioni

Il centralismo organico esclude la nascita di frazioni. Ormai l’attività di un partito sano non richiede, e quindi non giustifica, la costituzione di frazioni che si contendono la sua direzione. Come è sintomo di grave malessere che alla periferia si formino delle frazioni per la conquista della direzione del partito, lo è altrettanto che il Centro si concepisca come una frazione, fra le cui funzioni ci sarebbe il mantenimento del suo incarico.

La nascita di frazioni – che nei vecchi partiti socialisti era stato un fatto necessario e spesso utile quando generato da movimenti in difesa del marxismo autentico, quindi progressivi nell’evoluzione del partito formale – quando si verifica nel partito di oggi è un fenomeno patologico.

Questo soprattutto quando la frazione che si allontana dalla giusta politica rivoluzionaria è quella che fa capo al Centro, come accadde nel 1972-1973. In seguito a quell’evento un gruppo di compagni, che poi continuò “sulla strada di sempre” e che oggi fa parte del Partito Comunista Internazionale, fu espulso nel 1973 dall’organizzazione di allora. Ma di fatto fu la frazione del Centro a uscire dal partito, dal partito storico, mentre quello formale andava incontro a una inevitabile degenerazione.

Mesi prima i compagni della sezione di Firenze scrissero una lettera al centro, relativa a una precedente espulsione, per decisione del centro, di un’intera sezione estera: qui la riportiamo perché fornisce ulteriori importanti chiarimenti.

«Non importa quale compagno o quale gruppo di compagni si trovi in un momento dato o su un problema dato in questa o quella delle due parti. Sono le due parti che non devono mai esistere all’interno del partito. È il modo di vivere del partito che si fonda proprio sulla negazione assoluta che più parti esistano e che l’una debba combattere contro l’altra. Se un singolo compagno o un gruppo di compagni non si rendono conto di una situazione o di un problema o persistono in un errore, tutto il partito è impegnato a chiarire, scolpire, ribadire una linea impersonale, in quanto la debolezza di un punto del partito è la debolezza di tutto il partito, la mancanza di chiarezza di tutta l’organizzazione. E noi abbiamo sempre detto che se un compagno non ha le idee chiare, significa che il partito non ha sufficientemente lavorato a chiarirgliele, che è necessario un maggior lavoro da parte di tutto il partito. Questo è il solo modo in cui il partito può vivere e funzionare. Questo è il metodo organico che è nostro e che noi rivendichiamo, perché è l’unico metodo che ci permette di vivere come una organizzazione dove non ci sono né compagni che capiscono, né altri che non capiscono, né compagni che sbagliano, né altri che non sbagliano, ma ci sono solo compagni che, bene o male, portano il loro contributo alla comune battaglia contro il nemico di classe e danno a questa battaglia tutte le loro forze.

«Per questo non condividiamo il tono e le affermazioni trionfalistiche dell’ultima circolare in cui si afferma che la riunione generale ultima ha portato a termine la battaglia contro le insorgenze di ideologie antimarxiste ecc. Le tendenze antimarxiste ci sono state, è chiaro, ma l’accento va posto non tanto sulla vittoria conseguita quando siamo riusciti a eliminarle dal partito, ma sulla sconfitta che abbiamo subito quando esse sono riuscite a penetrare al nostro interno spezzando preziose energie e demolendo una parte della nostra organizzazione. Non dobbiamo certo felicitarci per averle espulse, ma riflettere sul perché sono riuscite a penetrare al nostro interno e lavorare a rendere il partito sempre più forte e più impermeabile a queste influenze distruttive. Dobbiamo giudicare che le nostre difese erano troppo deboli per impedire al nemico di scardinarle e lavorare a rafforzare e potenziare queste difese. Questa è la lezione che dobbiamo trarre dalla crisi che il partito ha subito».

Eppure l’atteggiamento del partito nei confronti delle frazioni era ben chiaro sin dal lontano 1926, e continuamente ribadito nelle tesi:

«La questione delle frazioni non va posta dal punto di vista della morale, dal punto di vista del codice penale. V’è nella storia un solo esempio che un compagno abbia organizzato una frazione per divertirsi? No, un caso simile non è mai avvenuto. V’è un solo esempio nella storia che l’opportunismo si sia infiltrato nel partito per via di una frazione, che l’organizzazione di frazioni sia servita di base alla mobilitazione della classe operaia e il partito rivoluzionario si sia salvato grazie all’intervento degli uccisori delle frazioni? No, l’esperienza prova che l’opportunismo penetra nelle nostre file sempre dietro la maschera dell’unità. È nel suo interesse di influenzare la massa più grande possibile, ed è quindi dietro lo schermo dell’unità che esso avanza le sue proposte insidiose. La storia delle frazioni mostra, in generale, che esse non fanno onore ai partiti entro i quali esse si formano, ma fanno onore ai compagni che le creano. La genesi di una frazione indica che c’è nel partito qualcosa che non va. Per rimediare al male bisogna risalire alle cause storiche che l’hanno prodotto, che hanno determinato la nascita della frazione o la tendenza a costituirla; e queste cause risiedono in errori ideologici e politici del partito. Le frazioni non sono la malattia, sono un sintomo e, se si vuole combattere l’organismo malato, bisogna non già combattere i sintomi, ma cercare di stabilire le cause del male» (Rapporto della Sinistra alla VI Sessione dell’Esecutivo Allargato dell’Internazionale Comunista, V Seduta, 23 febbraio 1926).

Sono le lezioni delle sconfitte dovute a degenerazione del centro quelle che ci hanno sempre fortificato nell’applicazione del centralismo organico. E sono quelle le sconfitte più dolorose, più disastrose, per il partito. Da quella dei partiti della Seconda Internazionale a quella del centro di Mosca, che azzerò la spinta rivoluzionaria internazionale per asservire i movimenti operai agli interessi dello Stato russo.


49. Partito e frazioni

La Sinistra non esitò mai a esporre con la massima franchezza le obiezioni che il comportamento del centro causava. Così fu nel Partito Socialista Italiano, così fu nell’Internazionale e di fronte allo stesso Stalin. Quando ai compagni della Sinistra nel 1925 fu imposto di sciogliere il Comitato d’Intesa, si obbedì, ma dichiarando: «Dinnanzi a una materiale imposizione noi ci ricordiamo di tenere soprattutto al nostro posto di gregari del partito comunista e dell’Internazionale, che conserveremo con volontà di ferro, senza rinunziare giammai a opporci con una critica instancabile a quei metodi che consideriamo contrastanti con l’interesse e l’avvenire della nostra causa» (“Un documento indegno di comunisti”, L’Unità”, 18 luglio 1925).

Ne “Il pericolo opportunista e l’Internazionale” (“Lo Stato Operaio”, luglio 1925) scrivevamo, senza diplomazia: «Crediamo alla possibilità che l’Internazionale cada nell’opportunismo. Non possono bastare i precedenti storici più gloriosi e smaglianti a garantire un movimento, anche e soprattutto un movimento di avanguardia rivoluzionaria, contro l’eventualità di un revisionismo interno. Le garanzie contro l’opportunismo non possono consistere nel passato, ma devono essere in ogni momento presenti e attuali.

«Non vediamo poi gravi inconvenienti in una esagerata preoccupazione verso il pericolo opportunista. Certo il criticismo e l’allarmismo fatti per sport sono deplorevolissimi, ma è certo che non avranno modo di indebolire minimamente il movimento, e saranno facilmente superati. Mentre gravissimo è il pericolo se, all’opposto, come purtroppo è avvenuto in tanti precedenti, la malattia opportunista grandeggia prima che si sia osato da qualche parte dare vigorosamente l’allarme. La critica senza l’errore non nuoce nemmeno la millesima parte di quanto nuoce l’errore senza la critica.

«Il compagno Girone pone la questione in modo semplice e chiaro quando dice che tutto quanto i dirigenti dell’Internazionale dicono e fanno è materia di cui rivendichiamo il diritto di discutere, e discutere significa poter dubitare che si sia detto e fatto male, indipendentemente da ogni prerogativa attribuita a gruppi, uomini e partiti. Si tratta di ripetere la santa apologia della libertà di pensiero e di critica come diritto dell’individuo? No, certo, si tratta di stabilire il modo fisiologico di funzionare e lavorare di un partito rivoluzionario, che deve conquistare e non custodire conquiste del passato, invadere i territori dell’avversario, e non chiudere i propri con trincee e cordoni sanitari».

Perché per evitare scissioni e frazioni, e anche solo la perdita di singoli militanti, il partito ha a disposizione il solo strumento della giusta politica rivoluzionaria, l’unica attività fisiologica di prevenzione dalle degenerazioni. E quindi si torna al lavoro di studio, di scolpitura, di chiarimento e dimostrazione della giustezza delle basi programmatiche. Tra l’altro niente vieta che siano proprio i compagni che sono i portatori di incomprensioni della nostra dottrina a partecipare al lavoro di chiarimento, di scolpitura di quegli aspetti che richiedono maggiore chiarezza. Un lavoro che è anche il segreto per ottenere una risposta corretta agli ordini, e anche alla mancanza di ordini, quando il compagno deve agire senza poter rapportarsi agli organi di partito.


50. Anticipazione della società futura

Un partito quindi che esiste in quanto difende non solo la prospettiva del futuro comunista, ma anche una sua dottrina, la teorizzazione e sistematizzazione dei caratteri peculiari, degli interessi collettivi e dei compiti storici e immediati della classe, e un suo metodo di operare, ossia l’attività politica e l’organizzazione della lotta. Da sempre per noi il partito è scuola di pensiero e metodo di azione.

E questo indipendentemente dalle dimensioni che ha in un dato momento storico, in termini di numero di militanti o di estensione geografica. «Pure accettando che il partito abbia un perimetro ristretto, dobbiamo sentire che noi prepariamo il vero partito, sano ed efficiente al tempo stesso, per il periodo storico in cui le infamie del tessuto sociale contemporaneo faranno ritornare le masse insorgenti all’avanguardia della storia; nel quale slancio potrebbero ancora una volta fallire se mancasse il partito, non pletorico ma compatto e potente, che è l’organo indispensabile della rivoluzione. Le contraddizioni anche dolorose di questo periodo dovranno essere superate traendo la lezione dialettica che ci è venuta dalle amare delusioni dei tempi passati e segnalando con coraggio i pericoli che la Sinistra aveva in tempo avvertiti e denunziati, e tutte le forme insidiose che volta a volta rivestì la minacciosa infezione opportunista» (Tesi supplementari sul compito storico, l’azione e la struttura del partito comunista mondiale, 1966).

Per concludere, il partito non assomiglia a una caserma, nella quale ogni comportamento e affermazione è rigidamente imposta e controllata dall’alto, ma vi scorre un vitale ricambio continuo fra il centro e la base. Nemmeno il partito è “un falansterio circondato da invalicabili mura”, sospettoso di contaminazioni esterne, che in realtà non sono evitabili, se non altro per il succedersi di compagni di mille provenienze, di più generazioni, con diverse formazioni ed esperienze.

Al contrario, il lavoro comune e il comune obiettivo rendono i compagni legati da “fraterna considerazione”. Nel partito si tende a dare vita a un ambiente fortemente antiborghese, che pur coi condizionamenti dovuti all’immersione in questa società disumana, determina una anticipazione dei caratteri della futura società comunista. Il partito “anticipazione della società futura” è la sintesi di quanto un militante sente e vive, mentre offre la sua vita a quel grande rivolgimento della storia umana che farà passare l’uomo, nell’accezione di Engels, dal regno della necessità a quello della libertà.