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PAGINA 1
I lavoratori
immigrati lottano per tutta la classe operaia
In tutta Europa padroni e governi borghesi di ogni colore attaccano le condizioni di vita dei lavoratori, perché aumentare lo sfruttamento della classe operaia è l’unica via che hanno a disposizione per tenere ancora in piedi l’economia capitalistica, inesorabilmente avviata al tracollo.
Affinché questi attacchi si compiano con successo la borghesia cerca con ogni mezzo di dividere la classe operaia.
Il razzismo, fomentato con una cinica e vile campagna dai media, è un’arma dei padroni per dividere i lavoratori, esattamente come il lavoro precario, la cessione di rami d’azienda a ditte esterne, la frattura fra vecchi operai “garantiti” e giovani privi di qualsiasi protezione e previdenza, la concorrenza fra lavoratori di diverse aziende o stabilimenti ottenuta grazie al progressivo smantellamento della contrattazione nazionale, la contrapposizione fra i lavoratori del pubblico impiego e quelli delle aziende private.
Più i lavoratori immigrati sono abbandonati a se stessi dai lavoratori italiani, più sono deboli e ricattabili di fronte al padrone, più sono costretti per vivere ad accettare salari e condizioni di lavoro sempre peggiori, più si accresce la concorrenza al ribasso fra lavoratori. La vera lotta della classe operaia coincide con la difesa della sua parte più debole: in questo modo i lavoratori relativamente meno sfruttati difendono innanzitutto se stessi dalla concorrenza al ribasso dei lavoratori più ricattabili.
È nell’interesse di tutta la classe operaia lottare per liberare i lavoratori immigrati dalla minaccia della perdita del permesso di soggiorno in caso di licenziamento e per l’estensione dei diritti di cittadinanza alle loro famiglie. Esattamente come è nell’interesse di tutti i lavoratori combattere il ricatto della disoccupazione lottando uniti – occupati e disoccupati – per la riduzione dell’orario di lavoro e per il salario integrale ai lavoratori licenziati; impedire l’ingresso in fabbrica o in cantiere di ditte in appalto che impiegano lavoratori con salari e condizioni peggiori; impedire l’assunzione di lavoratori con contratti precari e peggiorativi; difendere il contratto nazionale di categoria.
Tutti questi semplici e sani principi della lotta di classe sono stati calpestati dai sindacati di regime: CGIL-CISL-UIL-UGL hanno attuato con Stato e padroni una tattica che ha visto prima l’attacco alle condizioni di precari, immigrati, giovani, dipendenti di piccole aziende, e subito dopo quello ad una ultima ristretta cerchia d’operai “garantiti”, ottenendo così la sconfitta dell’insieme della classe operaia.
La CGIL ha accettato la “regolarizzazione” del precariato così come ha abbandonato gli immigrati “irregolari”. Al di là dei comunicati retorici e moralisti, nei fatti, cioè nei pochi e innocui scioperi da essa proclamati, la rivendicazione dell’estensione dei diritti di cittadinanza ai lavoratori immigrati è ignorata. Ugualmente la CGIL ha abbandonato i metalmeccanici in lotta a difesa del contratto nazionale, non proclamando lo sciopero generale fin dal referendum di Pomigliano, ed anzi dando indicazione di voto analoga a quella di CISL e UIL.
Per difendersi dagli effetti della crisi e dai sempre più pesanti attacchi padronali, la classe lavoratrice ha bisogno di un vero Sindacato di classe che, partendo dalle lotte di reparto, azienda e categoria, indirizzi e prepari i lavoratori alla mobilitazione unita nello sciopero generale, della durata necessaria e con obiettivi chiari: contro i licenziamenti, per un salario di disoccupazione adeguato al costo della vita, per la difesa del contratto nazionale, per i diritti di cittadinanza ai lavoratori immigrati e alle loro famiglie, per la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Questi sono gli obiettivi di tutta la storia del movimento operaio, sono impostati secondo il principio che difendere la classe operaia significa eliminare la concorrenza al ribasso fra lavoratori – compresi immigrati e disoccupati – e sono perseguibili solo con un movimento generale, organizzato e diretto da un vero sindacato di classe.
La ricostruzione di questo sindacato è perciò un problema ineludibile per tutta la classe operaia. Essa oggi può passare attraverso la unificazione del sindacalismo di base, che da anni lotta fra mille difficoltà contro padroni e sindacati di regime, abbracciando senza riserve la causa dei lavoratori immigrati come una causa di tutti i lavoratori. Ma questa unificazione non può avvenire che “dal basso”, vincendo il settarismo e il politicantismo delle attuali dirigenze. È dovere quindi dei lavoratori e dei delegati più combattivi e coscienti di tutti i sindacati di base organizzarsi nelle rispettive strutture e battersi contro il danno gravissimo recato dall’attuale frazionamento del sindacalismo di base.
Il razzismo non è una malattia da cui il capitalismo possa guarire.
Combattere il razzismo con l’anti-razzismo, sul piano astratto della
morale e del rispetto delle culture, non solo è impotente ma è dannoso,
perché non colpisce nessuna delle sue basi materiali. La vera e sola
lotta anti-razzista è la lotta di classe, perché unifica i lavoratori
al di sopra delle razze e delle nazionalità, e perché li indirizza al
superamento
del capitalismo verso la società comunista, una società libera
dalla schiavitù del lavoro salariato, unica base materiale possibile dell’estinzione
dello sfruttamento, del razzismo e di ogni altra ideologia reazionaria
di questa società sempre più anti-storica e inumana.
Il “mondo politico” italiano sembra in perenne fibrillazione, quotidianamente ne accadono di nuove, scandali, partiti si spezzano, partiti si fondano, partiti si fondono: insomma sembra tutto in cambiamento. In realtà non cambia mai niente.
Da tempo siamo abituati a vedere le performances berlusconiane riempire le poche pagine dei giornali non occupate dalla pubblicità e dotti politologi nei programmi televisivi non parlano d’altro: i festini con minorenni e maggiorenni si alternano piacevolmente ai conflitti di interesse, agli intrallazzi finanziari, alle vecchie e le nuove pendenze con la giustizia, ecc. ecc. ecc. E il Cavaliere abbonda nel fornire materiale a coloro che invocano la questione morale e ne chiedono a gran voce le dimissioni.
Tanto che il termine “berlusconismo” è entrato a far parte del gergo della politica per indicare un approccio in rottura rispetto al passato, in bene o in male, un nuovo modo di concepire il potere di governo e rapportarsi con la realtà sociale. Questa sciocchezza viene presa tanto sul serio che uno storico illustre come Paul Ginsborg invita i colleghi a studiare l’insieme dei cambiamenti, economici, culturali, sociali determinatisi nell’ “era del berlusconismo”.
Berlusconi sarebbe una anomalia rispetto alla evoluzione sociale che, dal secondo dopoguerra, si sarebbe svolta per circa 50 anni in maniera normale e senza traumi? Eh, no, cari signori, Berlusconi non è che il risultato del regime demo-partitocratico post-fascista. Lo dimostra il fatto che da quel popolo italiano, educato a base di valori demo-resistenziali, è stato eletto e ripetutamente rieletto, nel pieno rispetto di tutte le libertà borghesi. L’accusa che il PD rivolge a Berlusconi, di allontanare la popolazione dalla politica (per loro “politica” significa partecipare alle farse elettorali) si ritorce contro chi la muove perché l’astensionismo (oggi non certamente “rivoluzionario”) è alimentato prevalentemente dagli ex elettori, illusi/delusi, del PCI e della DC.
Ormai, però, il “berlusconismo” sembrerebbe giunto al capolinea, e già si straparla del suo “post”. Dicono che la borghesia ha bisogno di un governo dalla faccia seria, sostanzialmente per procedere ad ulteriori attacchi contro i lavoratori.
Ammesso che sia vero, anche questa crisi – come tutte le crisi di regime avvenute in Italia, si pensi al 25 luglio 1943, ma anche per la DC è successo lo stesso – si sarebbe sviluppata dall’interno del personale di governo, perché le “opposizioni” si sono sempre dimostrate così vili ed impotenti da mettere fuori la testa solo a “crimine consumato”. Se il governo Berlusconi dovesse cadere ciò dipenderebbe dagli attacchi provenienti non da una opposizione di fatto inesistente, ma dall’interno della sua stessa maggioranza e, ad essere più precisi, dall’interno del suo stesso partito.
Allo stesso tempo, se tutti chiedono le dimissioni del Berlusca, si augurano che la caduta del governo avvenga dolce e senza traumi. Fini chiede le dimissioni, ma solo per allargare la maggioranza cooptandovi l’UDC. La sinistra non chiede di prenderne il posto con un governo suo, ma “tecnico”, “di transizione”, che avrebbe il compito, dice, di varare una nuova legge elettorale, e poi rituffarsi tutti nel balletto elettorale e in una “equa” spartizione delle mazzette.
In realtà quelle sulla legge elettorale sono soltanto chiacchiere. Chi è, fra le diverse bande di politicanti, ad ottenere gli incarichi di governo è stabilito non dallo spoglio delle schede ma dalle scelte del grande capitale industriale e finanziario. Non è forte chi vince le elezioni, ma vince le elezioni chi è più forte, chi è meglio finanziato per la propaganda ed è appoggiato dai grandi giornali e televisioni, a loro volta espressione del rapporto di forza di lobby, logge, imbrogli e malaffare. Infatti non fu il “porcellum” (questa è la denominazione data alla legge Calderoni, da lui stesso definita “una porcata”) ad impedire a Prodi di vincere le elezioni del 2006. Per contro Prodi, che in campagna elettorale aveva promesso che la prima iniziativa del suo governo sarebbe stata cambiare la legge elettorale, arrivato a Palazzo Chigi per i due anni e mezzo in cui vi rimase se ne dimenticò completamente.
Dall’affermazione in Italia del modello fascista di governo borghese, or sono quasi novanta anni, e peggio ancora dopo la sua caduta resistenzial-democratica, non possiamo parlare più di “partiti” in senso vero, ma di bande di mestieranti del politicantismo che si offrono alla borghesia senza idee e senza alcun programma. Il programma è per tutti quello, contingente, del capitale. La crisi economica è, oggi, anche crisi di queste agenzie di carrieristi. Tanto che nemmeno “a sinistra”, nel PD e nella costellazione dei partitini che l’attorniano, si è in grado di esprimere un minimo di coesione per riuscire a formulare un programma di governo. Lo stesso PD, che dovrebbe rappresentare il nucleo centrale della nuova coalizione, è solo un contenitore di correnti e frazioni che si combattono fra di loro; oltre i “dalemiani”, i “veltroniani”, i “bersaniani”, ora ci sono i “rottamatori”. E c’è chi prende e se ne va, facendosi un suo partitino privato...
Gli schermi televisivi, come con la magia dello stregone, stanno facendo sorgere dal niente – oplà – un... Vendola, nuovo “capo carismatico”, “diverso”, forse, finalmente, in grado di raccogliere le membra sparse della sinistra in una “nuova compagine politica”. In questo partito ce n’é per tutti: “Sinistra Ecologia e Libertà”. Vendola nel suo bello stile saltella qua e là in cerca di alleati, consensi e rimedi per riformare l’Italia e gli italiani. Ma, siccome questi rimedi gli mancano, si volge all’ascetismo, va “incontro a Cristo”, e si dichiara “innamorato di quel povero Cristo che finisce in croce”. In nome dell’umanità e del cristianesimo, vuol riportare gli uomini alla pace; conciliare il ricco col povero; gli operai coi padroni. La lotta di classe nemmeno se la sogna, tutt’al più è quella del padrone cattivo contro l’operaio buono. Ma anche in questo caso il compagno Vendola predica la pace e la non violenza. Agli operai che tutti i giorni gemono sotto il torchio dello sfruttamento capitalistico e che sembra tanto avere a cuore, non dirà mai che è il più forte che si crea il diritto, che gli attacchi della borghesia vanno ripagati con egual moneta. Anche nel convegno di Firenze Vendola ha fatto una bella predica di Pasqua. Con strizzatine d’occhio a Pannella ed al Vaticano, a Casini e Beppe Grillo, a Di Pietro ed ai socialisti è anche possibile che Vendola riesca a vincere le “primarie” del centro sinistra, è possibile pure che riesca a varcare la soglia di Palazzo Chigi.
Quello che certamente non è possibile è che muti le sorti della classe operaia. I duri fatti quotidiani lo sbugiardano dimostrando che tutto ciò che accade è pura competizione di classi e gli appelli alla concordia civile nascondono la menzogna di chi è oggi più forte. C’è un solo modo di rispondere agli attacchi borghesi: la mobilitazione e l’azione di classe.
D’altra parte un Berlusconi a simbolo e capo dello Stato borghese la sua funzione l’ha svolta benissimo, e non si vede perché la borghesia non dovrebbe lasciarlo ancora lì: finché il gioco regge, fa molto comodo una maschera effimera e grottesca, che suscita facili e impotenti emozioni, a nascondere la spietata realtà della macchina statale del capitale. Agli oppressi, proletari sfruttati e piccolo borghesi in rovina, si ostentano le prodezze del “capo” e se ne riferiscono le quotidiane scemenze perché alla maschera diano la colpa di tutto, e non a quello che ci sta dietro, il dominio della classe borghese. Se il Cavaliere si interessa solo di donnine, così dicono, ciò non impedisce che nello stesso tempo lo Stato borghese, perfettamente efficiente, implacabile e inflessibile continui ad approvare ed applicare una dopo l’altra leggi micidiali contro la classe operaia e nel pieno e democratico consenso di tutti i partiti.
Per contro, quando lo Stato avrà necessità di liberarsi di Berlusconi, se ne avrà la necessità, non andrà per il sottile e non si fermerà di fronte alla conta dei voti e delle teste. Per lo Stato i voti non contano niente. E neppure le teste.
Il governo e il suo personale politico sono l’espressione e lo specchio della borghesia di un dato paese. Se la borghesia in Italia si fa rappresentare da un Berlusconi e da un Bossi, noi non possiamo che rallegrarcene: significa che la parabola discendente della classe dominante è arrivata alla sua naturale conclusione. Non chiederà un “governo tecnico”, ugualmente borghese, il proletariato, ma solo attende il suo risveglio per poter dare la spallata definitiva a tutte queste marcescenti strutture. È questo che maggiormente preoccupa la componente “sinistra” della borghesia italiana.
Da parte nostra noi non cadiamo nel trabocchetto del “Governo della Legalità”. Sarebbe una ulteriore frode far credere al proletariato che con la formazione di un governo diverso, che garantisca il rispetto della legge costituzionale borghese, il “belusconismo” verrebbe sepolto. Esso continuerebbe a vivere sotto altra forma perché niente di meno triviale può ormai esprimere la classe borghese. Governo della legalità o berlusconismo sono per il proletariato uguali negli effetti: rappresentano, entrambi!, il massimo della fregatura. Anche mantenendo gli istituti parlamentari ed esecutivi democratici tutto il potere dello Stato resta nelle mani della borghesia; una maggioranza parlamentare od un Ministero di “sinistra” non potranno mai imprimere alla macchina esecutiva un moto e una funzione diversa da quelli che sono nella sua natura, e tanto meno abbatterla.
Lo Stato borghese non è affatto mortificato dallo “stupro di democrazia” – secondo la definizione dipietrista. Noi non siamo dunque né per un governo della illegalità, né per quello della legalità, né per quello di destra, né per quello di sinistra. Queste sono distinzioni puramente “parlamentari”. La forza dello Stato borghese, non dipende dalle manovre di corridoio degli onorevoli.
Il solo governo che noi auspichiamo è quello, forte, della rivoluzione:
la dittatura del proletariato.
L’imperialismo cinese sta adeguando al suo accresciuto potere industriale, economico e finanziario l’apparato militare già ingente di cui dispone. Ma l’esercito più numeroso del mondo da solo non basta per affermare i suoi intenti egemonici a scala planetaria. Forze di proiezione come marina ed aviazione non possono restare quelli di una potenza regionale.
In questa direzione, programmi di rafforzamento della marina militare sono stati resi manifesti con una esercitazione congiunta italo-cinese nelle acque del Golfo di Taranto, in pieno Mediterraneo. Chiarissima testimonianza per tutti, e non solo per gli addetti ai lavori e servizi segreti militari, che la flotta cinese ora dispone di unità militari d’altura e non solo costiere come un tempo. Nel mese di agosto hanno ormeggiato nella base di Chiapparo a Taranto il cacciatorpediniere «Guangzhou» e la fregata «Chaohu», con una cerimonia di accoglienza alla presenza dell’ambasciatore e di numerose famiglie di lavoratori immigrati.
Già nel 2001 a La Spezia erano arrivate delle navi da guerra cinesi.
La metropoli imperialista italiana, giocando su vari fronti come al solito, dopo aver siglato importanti accordi economici bilaterali, pare voler intrattenere rapporti privilegiati con la giovane potenza asiatica anche su altri piani.
Le esercitazioni italo-cinesi giungono successivamente alla partecipazione di Pechino al pattugliamento della acque del Golfo di Aden, in quel tratto di Oceano Indiano dove le incursioni dei pirati somali hanno messo a rischio la navigazione di portacontainer e petroliere. Ovviamente anche Pechino si prepara alle guerre di domani prendendo parte con le democratiche potenze occidentali a nobili iniziative di pace a favore della sicurezza dei traffici commerciali.
Anche l’Italia, in questo grande gioco di riposizionamento militare, ambisce a giocare un ruolo di protagonista se è vero che, successivamente alle operazioni con la flotta cinese, ha partecipato nel Mediterraneo a manovre congiunte con altre marine da guerra di Stati come la Croazia, il Montenegro, l’Albania, la Grecia e anche la Russia.
Mentre si agita il mare del capitalismo per l’incedere minaccioso
della crisi, gli Stati tengono efficienti i dispositivi militari per prepararsi
agli scontri di domani. Nessun fronte stabile divide ormai più i blocchi
imperiali. E del resto, come ben sappiamo, ad un certo punto la guerra
mondiale, imposta dalla crisi economica, come le due precedenti, per il
capitale è importante farla; con chi, contro chi e per cosa è
un fatto quasi imposto dal caso ed in sé ha poca importanza.
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Altre nostre riproduzioni della
stampa storica della Sinistra
Il Comunista di Bologna/Imola e Milano e Il Lavoratore di Trieste
Il nostro partito – nella sua attività di riappropriazione e riproposizione degli strumenti che costituiscono il patrimonio dottrinale della nostra corrente ed il filo rosso della tradizione marxista rivoluzionaria, e nell’intento di trasmettere alle future falangi comuniste tutte le armi teoriche acquisite attraverso la viva esperienza della lotta di classe – ha portato a compimento la riedizione dei due più importanti organi del PCd’I: Il Comunista ed Il Lavoratore.
Per quanto concerne Il Comunista, alla già ripubblicata collezione completa, che copriva l’arco temporale dall’ottobre 1921 all’ottobre 1922, come “Organo del Partito Comunista d’Italia”, si aggiungono ora i nove numeri che vennero pubblicati tra la costituzione della Frazione Comunista all’interno del PSI ed il congresso di Livorno, del gennaio 1921. Si aggiunge anche l’edizione milanese, che usciva due volte la settimana, dal gennaio 1921 al settembre 1922.
Per Il Lavoratore di Trieste riteniamo necessario fare una doverosa, anche se succinta, presentazione.
* * *
Il Lavoratore di Trieste, la sua continuità dal 1895, la distruzione della tipografia da parte della congiunta opera statal/fascista e la sua rinascita dalle ceneri sono simboli della sua tradizionale vitalità classista e della forza e determinazione del proletariato giuliano, esempio di internazionalismo prima della Grande Guerra e di ardore comunista dopo Livorno.
Non è possibile fare una presentazione del quotidiano comunista triestino senza rammentare l’episodio della sua distruzione e, soprattutto, senza evidenziare l’atteggiamento assunto dal neonato Partito Comunista d’Italia nei confronti della violenza borghese e statale, in questo come in cento altri episodi simili.
La distruzione del Lavoratore di Trieste è un evento che si potrebbe riferire a moltissimi altri episodi delle lotte fra fascisti e comunisti negli anni del primo dopoguerra.
Non a caso la nostra rivista Rassegna Comunista, nell’articolo di presentazione del suo primo numero, del 30 marzo 1921, scriveva:
«La reazione bianca (...) ha contribuito ad una netta differenziazione fra i comunisti d’occasione e le giovani forze del nuovo partito. I primi hanno rivelata tutta la vacuità dei loro atteggiamenti, il secondo ha dato prova di essere già in grado di agire come un centro di accolta delle energie proletarie, che con contrattacchi decisi hanno posto fine alle serie di facili successi dell’avversario. I socialisti hanno ripudiata ogni solidarietà con queste azioni delle masse – hanno perseguita in ogni circostanza, con tradizionale cretinismo parlamentare, la prova che erano stati i lavoratori ad “essere provocati”, ad essere trascinati fuori della legalità, ad essere picchiati anziché picchiare – hanno auspicata la tregua di classe, la pace civile, l’evolversi pacifico dell’attuale crisi sociale (...) A Roma i fascisti si adunano ufficialmente – mentre le nostre bandiere salutano l’immolazione generosa di Lavagnini – a commemorare le vittime fasciste del comunismo, e sembrano così commettere ancora alle forze ufficiali dello Stato borghese la lotta contro un avversario meno comodo di quelli che sistematicamente rinculano rinnegando pietosamente ogni proposito offensivo».Una dettagliata cronaca di come si svolsero i fatti che portarono alla totale distruzione del glorioso organo politico del proletariato giuliano la si può leggere nel numero del 10 settembre, quando il giornale comunista riapparve grazie alle vigorose energie ed alla tenace volontà dei comunisti triestini.
I fascisti, al servizio degli industriali triestini, vedevano nel battagliero quotidiano dei lavoratori giuliani il maggiore nemico degli interessi padronali. Decisero così di sopprimerlo per la seconda volta, tanto più che non mancavano i malcelati incitamenti della stampa borghese che non riusciva a battere la concorrenza del giornale proletario per la innegabile superiorità tecnica di questo.
L’occasione favorevole a giustificare l’attacco e a dare un carattere di rappresaglia al saccheggio preordinato non tardò a presentarsi: l’uccisione di un carabiniere che, avvinazzato, si aggirava profferendo minacce, in un rione popolare. Questo fu l’episodio che fornì alle bande fasciste il pretesto per attuare il loro proposito contro Il Lavoratore.
Il giorno seguente, verso le 23,30, una squadra di circa 30 fascisti, armati di tutto punto e provvisti di leve e picconi, mosse all’assalto. Le 4 Guardie Regie poste a difesa dell’edificio, dopo una simulata breve opposizione, lasciarono campo libero agli assalitori. I fascisti avanzarono fino alle porte dell’edificio, ma il lancio di due bombe da parte dei comunisti fu sufficiente a far dileguare gli assalitori, che, a velocità vertiginosa si dispersero per rientrare nelle loro tane.
Fu a questo punto che, come in tutte le occasioni di difesa proletaria, intervennero le forze dell’ordine. Tutte le adiacenze del giornale furono occupate dalla forza pubblica, lo stesso questore diresse personalmente le operazioni di assedio. Il Lavoratore venne occupato e quanti trovati all’interno dei locali tratti in arresto. Dei bestiali trattamenti a cui furono sottoposti i compagni (una minuziosa narrazione può essere letta nel citato numero del 10 settembre) non parliamo, basti solo ricordare che i metodi di brutale malvagità instaurati dalla polizia italiana nella Venezia Giulia avevano subito fatto rimpiangere a quelle popolazioni l’“odiato” dominio degli Asburgo.
Dopo l’occupazione della forza pubblica le porte furono spalancate alla irruzione vandalica dei fascisti che, sotto l’ala protettrice della questura, ritrovarono il coraggio perduto nel primo assalto.
L’opera distruttrice, iniziata nella tipografia, dove i macchinari furono frantumati a colpi di piccone, non ebbe termine che quando il fuoco, appiccato alle carte, propagatosi a tutto l’edificio aveva preso proporzioni tali da minacciare l’incolumità degli stessi assalitori. A questo punto Guardie Regie e fascisti uscirono a contemplare lo spettacolo. Ai pompieri sopraggiunti venne impedito di azionare gli idranti per spegnere l’incendio. Soltanto quando le fiamme minacciarono di propagarsi alle case vicine fu permesso di mettere in azione le pompe.
Ma l’opera dei vigili del fuoco non valse a nulla, del Lavoratore non rimase che un cumulo di rovine: soltanto lo scheletro dei muri maestri resistette alle fiamme.
Se l’opera congiunta di Stato e fascisti aveva appagato il desiderio degli industriali triestini, non fece però vacillare la fede del proletariato che ancor di più si strinse attorno alla bandiera del partito comunista e, a prezzo di immensi sacrifici, dal 10 settembre successivo Il Lavoratore riprendeva le sue pubblicazioni ancora più forte e agguerrito a fianco di tutte le battaglie del proletariato della Venezia Giulia.
La rievocazione della distruzione del Lavoratore di Trieste ci serve non certo per raccontare un fatto di cronaca, non tanto per dimostrare la brutalità e la collusione fra Stato e fascismo, ci serve soprattutto per ribadire la posizione comunista rivoluzionaria di fronte allo scontro di classe ed alla violenza sociale. A questo proposito niente di meglio può essere che riproporre l’annuncio dell’incendio dato Il Comunista del 13 febbraio 1921:
«Coloro che si attendono da noi espressioni di alta meraviglia o di indignazione per l’assalto alla sede del Lavoratore di Trieste dalla guardia bianca e per la distruzione del nostro giornale, si disinganneranno di fronte alla nostra serenità dolorosa.
«Il rammarico per il danno materiale subito e per la sorte dei nostri compagni non ci commuove al punto da farci perdere la visione esatta degli avvenimenti dei quali siamo spettatori ed attori. Potremmo dire che l’attacco contro i comunisti triestini è stato provocato da un fatto di cronaca comune; e saremmo nel vero, se non volessimo trovare legami più profondi e logici tra l’odierno episodio e tutta la complessa situazione sociale italiana.
«I compagni comunisti di Trieste hanno dimostrato in questi ultimi giorni di avere largo consenso nella massa lavoratrice. A questa noi rivolgiamo una parola virile. Non ricerchiamo le cause del doloroso episodio in un gesto casuale: interpretiamo l’avvenimento senza staccarlo dalla cornice storica nella quale esso deve rimanere. Il giuoco delle responsabilità non è il nostro giuoco. Due nemici mortali non misurano i colpi, si affrontano in campo aperto, ove lo possono; e dove ciò non sia possibile si insidiano gettando i lacci per colpire di sorpresa l’avversario. La tattica di guerra è tattica di astuzia come di forza.
«Alla organizzazione avversaria, formidabile perché creata dalla classe che ha nelle mani il potere statale, si affretti e vi si contrapponga l’organizzazione proletaria armata, di tutto il proletariato comunista.
«Di fronte a questa necessità che è oggi salvazione della vita dei lavoratori, e che sarà domani la vasta formazione d’assalto delle masse rivoluzionarie, ogni suggerimento pacificatore deve essere interpretato come intenzionalmente rivolto a tradire la causa proletaria.
«La guerra civile infuria. Essa non può concludersi che con la vittoria completa del proletariato. Ma per vincere bisogna combattere. Gli episodi hanno le fluttuazioni delle battaglie. La guerra civile continua più aspra e più dura.
«Lavoratori comunisti di Trieste, lavoratori comunisti d’Italia, non disperate dell’avvenire: preparatevi a conquistarlo con sacrificio e con dolore!
«Domani la vostra vendetta sarà inesorabile!»
Una cosa dobbiamo ancora dire, prima di terminare: quando Il Lavoratore
di Trieste, così come le tante sedi delle associazioni comuniste, così
come le innumeri Camere del Lavoro venivano devastate e date alle fiamme,
assassinati i proletari ed i dirigenti comunisti, quando accadeva tutto
questo non governava Mussolini, bensì il democratico e socialisteggiante
Giovanni Giolitti, a cui le postume esegesi democratiche e “comuniste”
dedicarono accenti di ammirazione e rimpianto.
I marxisti sanno bene che lo Stato accentra in una autorità unitaria il suo potere di classe inquadrando tutta una serie di gerarchie esecutive. L’organo dirigente dello Stato borghese non risiede nel parlamento, da oltre cento anni svuotato del potere reale, ma nella burocrazia, nella polizia, nell’esercito, nella magistratura, e questo indipendentemente dalle pagliaccesche combinazioni di uomini che di volta in volta paiono avvicendarsi al timone del governo.
La Magistratura è uno dei più importanti organi dello Stato, a sua difesa dall’esterno e conservazione dall’interno.
Questo purtroppo è stato dimenticato dai proletari, disorientati tra chi presenta la Magistratura come unico garante delle libertà costituzionali, e quindi “di tutti”, e chi, al contrario, la presenta come un potere eversivo tendente a scardinare la civile convivenza: le cosiddette “toghe rosse”
I difensori della Magistratura, imparziale e democratica, ogni tanto si trovano a dover assumere delle imbarazzate e, soprattutto, ipocrite prese di posizione come è stato il 25/26 ottobre scorso a proposito di una sentenza del tribunale di Torino che decurtava il risarcimento ai familiari di un operaio morto sul lavoro, in quanto albanese.
Il giorno 25 La Repubblica titolava: “La vita di un operaio albanese vale meno di quella di un italiano”. L’Unità dello stesso giorno: “Una sentenza che lascia sbigottiti”. Ed il giorno dopo il Manifesto parlava di “sentenza shock a Torino”.
I giornali, che si fingono scandalizzati, ma nemmeno tanto, hanno riportato la notizia secondo la quale il giudice civile del tribunale di Torino con una sentenza, risalente allo scorso luglio, oltre ad attribuire all’operaio morto sul lavoro il 20% di colpa, avrebbe assegnato ai familiari superstiti un risarcimento di dieci volte inferiore rispetto a quello che sarebbe toccato ai congiunti di un lavoratore italiano, perché altrimenti questi avrebbero goduto di “un ingiustificato arricchimento”.
I giornali democratici hanno dovuto ammettere è che il giudice torinese si è riferito ad una sentenza della Corte di Cassazione di 10 anni fa. Da ciò si deduce che non si tratta di “cattiveria” o mala volontà del giudice, ma di applicazione di una autorevole interpretazione giurisprudenziale.
In fondo il giudice è come il macchinista di un treno e deve condurre la locomotiva della giustizia su dei precisi binari che sono costituiti dai codici borghesi, e questi binari sono ancor più netti quando le questioni trattate riguardano la classe operaia.
L’omicidio in questione (perché per noi di omicidio si tratta) risale al febbraio del 2002: l’operaio, di nazionalità albanese, era stato assunto da una Ditta italiana la quale aveva preso in subappalto dalla Ponteggi Dalmine s.p.a. l’incarico di montare una struttura in carpenteria all’interno della nave metaniera in costruzione presso il Cantiere di Bilbao-Sestao. L’impalcato orizzontale sul quale lavoravano gli operai della Ditta italiana non era stato ancora ultimato in quanto mancavano alcune pedane che lasciavano aperte delle cavità. La presenza di questi vuoti era dovuta al fatto che il materiale fornito agli operai per il ripiano di lavoro non era sufficiente a ricoprire tutta la superficie e che, in particolare, mancavano alcune pedane di forma angolata, non ancora arrivate. I quattro o cinque vuoti provvisoriamente erano stati coperti con assi di legno compensato dello spessore di 2 centimetri.
È in uno di questi vuoti che il giovane operaio è precipitato cadendo per circa 30 metri. Secondo la testimonianza di un compagno di lavoro la dinamica dell’incidente sarebbe stata la seguente: per sistemare le pedane giuste, finalmente arrivate, l’operaio in questione avrebbe tolto la copertura provvisoria di una di queste cavità e, tenendola sollevata davanti all’addome, avrebbe avanzato e, non potendo così avere la visuale del baratro sottostante, ci sarebbe precipitato.
È vero, è scandaloso che ad un operaio morto sul lavoro in queste condizioni sia stato attribuito il 20% di concorso colposo. Ma non è meno scandaloso che la stampa democratica non abbia fatto il minimo accenno al fatto che: 1. l’Autorità Giudiziaria spagnola abbia deciso di archiviare il procedimento per omicidio colposo apertosi a seguito del sinistro; 2. nessuna condanna sia stata inflitta o richiesta per i dirigenti della Ditta che costringevano gli operai a lavorare su piattaforme a 30 metri di altezza ricoperte con assi di compensato.
Nemmeno l’avvocato della parte lesa ha contestato, in fatto o in diritto, la motivazione del Tribunale secondo cui «l’esigenza di riconoscere a tutti i danneggiati un risarcimento uguale non può infatti ritenersi soddisfatta dalla mera attribuzione di un uguale valore monetario che sia indipendente dal contesto economico in cui vive il singolo danneggiato, perché in tal modo si creerebbe un ingiustificato arricchimento in capo a coloro che vivano in Stati ad economia depressa con prezzi medi del costo della vita inferiori a quelli dell’Italia o di altri Paesi, come è notoriamente per l’Albania».
In verità il risarcimento riconosciuto ai familiari della vittima non è stato pari ad un decimo, come si leggeva su Repubblica, ma a circa un terzo: diciamo questo solo per notare con quanto pressappochismo i giornalisti borghesi scrivano i loro articoli.
Invece, in merito a questo processo, Cesare Damiano, deputato PD, ex segretario nazionale Fiom ed ex Ministro del Lavoro, si è scandalizzato. Non per la morte dell’operaio, gli operai morivano anche quando lui era ministro del lavoro, ed infatti dà per scontato che gli operai muoiano e continuino a morire. Solo è allarmato per il fatto che questo «inaccettabile principio discriminatorio potrebbe indurre le imprese a occupare prevalentemente manodopera proveniente da Paesi più poveri». Veramente encomiabile il suo interessamento per l’ “operaio made in Italy”. Infatti è lo stesso che, buon italiano e buon deputato, ha invitato gli operai Fiat a non tirare troppo la corda visto che «l’obiettivo è quello di assicurare condizioni di competitività rispondendo alla richiesta di Marchionne, analogamente a quanto si è fatto per altri settori».
A questo è ridotta la vita di un proletario nella società borghese, a merce di scambio, sia vivo, sia morto. Per tutti quanti, democratici e non, sinistri e non, il proletario deve vivere per il capitale e per il capitale deve morire. Da vivo riceve un salario, se muore basta pagare una buonuscita ai parenti, il cui ammontare lo decide il mercato...
In fondo non è forse vero che la quasi totalità degli operai immigrati riceve un salario inferiore a quella dei “nativi”, cosa che non fa scandalizzare nessuno?
Solo quando il proletariato si riapproprierà della sua coscienza di classe e risoluto lotterà per i propri interessi potrà difendere i salari e i suoi diritti. Allora si determinerà uno schieramento di classe contro classe: da una parte il proletariato ed il suo partito, dall’altra lo Stato con la sua burocrazia, polizia, esercito e magistratura (sia rosso che nero togata, senza differenza alcuna).
La stampa sinistroide non verserà più le sue democratiche lacrime di coccodrillo sulle condizioni operaie, ma si collocherà apertamente dalla parte dello Stato e della sua conservazione. E pure il Presidente della Repubblica smetterà di rammaricarsi per il fatto che continuino «purtroppo a registrarsi ogni giorno infortuni sul lavoro, troppo spesso mortali, anche a causa di inammissibili superficialità e gravi negligenze nel garantire la sicurezza dei lavoratori».
La classe operaia a quel punto sarà sola, è vero, ma certamente molto
più vicino il momento della sua liberazione.
La vita del nostro compagno Franco è stata quella di un proletario, diventato e rimasto fine alla fine un comunista convinto e fedele alla spirito e i nostri ideali.
Come la più parte dei giovani proletari, e in particolar modo quelli della sua generazione, giovanissimo, dopo pochi anni di istruzione elementare fu avviato alla concreta scuola del lavoro, fra le cui prime esperienze ricordava la fatica notturna di garzone in un forno per il pane. Poi passò apprendista in varie botteghe artigiane.
Raccontava del duro lavoro, soprattutto degli anni della ricostruzione postbellica, quando la classe operaia veniva sfruttata con ritmi esasperanti, sotto continuo ricatto del licenziamento e con l’ipocrita scusa che con la loro fatica si sarebbe “costruita” una “società di benessere”.
Fin dall’inizio della sua vita di lavoratore ha visto, e subito, soprusi ed ingiustizie che lo hanno portato con forza e determinazione a partecipare alle lotte operaie, come quelle che infiammarono Torino alla fine degli anni ’60.
Da quelle lotte è passato ad abbracciare i fini del comunismo, la liberazione di una nuova società che sorge dalla distruzione della presenta capitalista. Per questo aderì al partito.
Sentì sempre il bisogno di informarsi, leggere, studiare, nel poco tempo libero che il suo lavoro di artigiano cottimista gli concedeva. Per poi continuare, nel suo troppo breve periodo di pensione, a leggere tutto quanto riguardava la teoria comunista. Non faceva mai sfoggio di cultura, avendo ben presente che per noi la dottrina è un’arma di combattimento. Come afferma Marx: “La nostra non è una passione del cervello, ma il cervello di una passione”.
Mai ha smesso questo impegno nonostante la malattia ai polmoni, contratta per la continua respirazione di polveri sul lavoro, si fosse già manifestata diversi anni fa e il suo corpo avesse dovuto affrontare impegnativi interventi chirurgici.
Il comunismo ha riempito la sua vita. Anche negli ultimi giorni discorreva dell’inevitabile ed oggi prossimo e rovinoso crollo del capitalismo perfino con i medici che lo assistevano: il compagno lì presente ha notato il loro stupore nel vedere la forza di un comunista che, pur conscio dei pochi giorni che gli rimanevano, continuava con lucidità a sostenere vigoroso la lotta, oltre che contro il terribile male che affliggeva, contro quel cancro che mina l’intera società e che si chiama capitalismo.
In questa lotta e in questo coraggio ti ricorderemo con stima e affetto
continuando il lavoro di sempre per il fine di sempre.
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Roma 16 ottobre
Il significato della manifestazione della Fiom
La manifestazione FIOM del 16 ottobre ha visto una grande partecipazione di operai metalmeccanici e di lavoratori delle federazioni locali della CGIL che avevano dato la loro adesione. Indubbiamente è stato un successo per la FIOM, per la sinistra CGIL, e per la CGIL tutta, quindi per il sindacalismo di regime.
Ma è solo un apparente paradosso sostenere che è lo stesso sindacalismo di regime che deve temere dal successo delle proprie iniziative.
Da materialisti sosteniamo che, per gli individui come per le classi, prima viene l’azione, dopo la coscienza. È un fatto positivo in sé che gli operai scendano nelle strade per la difesa della loro condizione, al di là delle insegne sotto le quali sfilano. Dall’esperienza pratica del successo di una manifestazione sindacale come quella del 16 ottobre decine di migliaia di operai traggono rinnovata fiducia nell’organizzazione che l’ha proclamata e costruita, è vero. Ma anche nella forza e capacità di mobilitazione della propria classe.
Il sindacalismo di regime gioca un ruolo di difficile equilibrio: deve mobilitare i lavoratori quanto basta per mantenere il suo prestigio, ma deve farlo in misura e modalità tali da evitare che essi ritrovino fiducia nei propri mezzi, il che li incoraggerebbe ad ingaggiare una vera battaglia in difesa dei loro interessi.
Il successo di questo equilibrismo poggia innanzitutto su una base materiale che è quella del corso economico del capitalismo. Fintanto che il ciclo del capitale percorre il ramo ascendente della sua parabola, la borghesia può concedere qualche briciola dei suoi enormi profitti. Si sfiora il pieno impiego, la classe si sente forte e che può rivendicare. Finisce che è impossibile contenerne la pressione, che si riesce però a far sfogare all’interno delle strutture dei sindacati di regime, che operano in modo non palese al disfattismo di movimenti di lotta anche potenti. Questi sindacati si appropriano allora del merito dei miglioramenti ottenuti. Su questo prestigio si appoggiano poi nelle successive fasi di crisi economica, e anche facendo leva sulle loro enormi strutture organizzate, sostenute da Stato e padroni.
L’autunno caldo del ’69 non giunse a “cambiare la CGIL”, buttando a gambe all’aria la sua dirigenza e trasformandola in un sindacato di classe, proprio perché essa poté permettersi in un certo grado di “lasciar fare” agli operai, sul momento, per poi recuperare nel lungo termine il terreno perduto. Ciò fu possibile solo perché il capitalismo allora poteva concedere effettive migliorie normative e salariali: statuto dei lavoratori e scala mobile. La CGIL poté così trasformare i CUB dell’autunno ’69 nei Consigli di fabbrica e nel giro di dieci anni annullare ogni loro residua efficacia e pericolo. La classe operaia era forte, ma il capitalismo mondiale era ancora più forte, e più forte la controrivoluzione.
Oggi è ben chiaro che la situazione è assai differente. La crisi non permette alla borghesia di fare concessioni, anzi la spinge a revocare tutte quelle migliorie che sotto la spinta della lotta aveva malvolentieri ceduto. Ai sindacati di regime ogni giorno di più viene a mancare la base materiale.
* * *
Come prevedibile la manifestazione del 16 è stata preparata in tutti i dettagli. Le dichiarazioni del Ministro degli Interni i giorni precedenti sono servite a scoraggiare chi avesse voluto una contestazione ad Epifani e approfondire le contraddizioni fra maggioranza CGIL e FIOM. Al contrario di ciò che hanno sostenuto Epifani e Landini, Maroni non ha sabotato la manifestazione, ma ha aiutato la FIOM e la CGIL a mantenerla nei binari ad esse utili. Con una pratica esperita da ormai oltre 30 anni lo Stato borghese paventa e allude alla violenza e al “terrorismo” per intimorire i lavoratori che lottano contro l’opportunismo sindacale.
Il grande corteo è stato poi fatto defluire nella sua maggior parte prima che dal palco parlasse il segretario generale Epifani: gli hanno anteposto cinque interventi minori e, dopo, quello del segretario FIOM Landini. Quando è giunto il turno di Epifani erano ormai le sei e mezza di sera e la maggior parte degli operai era già incamminata ai pullman. Ciò non ha impedito ad un numero significativo di essi di attendere quasi altre due ore, di fischiare l’intervento di Epifani e di gridare per lo sciopero generale.
Simbolicamente il segretario della CGIL ha parlato affiancato da Cremaschi e Landini, che come paladini, o cani da guardia, facevano ampi gesti per calmare i “contestatori” ed ostentavano convinti applausi ai passaggi più “duri” del discorso di Epifani. Il messaggio per tutti doveva essere chiaro: la CGIL può tradire i metalmeccanici, può sabotare la loro lotta, può contrattare con CISL e UIL mentre questi combattono apertamente la FIOM, può indicare a Pomigliano di votare in favore dell’accordo, ma questo non basterà mai a mettere in discussione la “unità” della CGIL, cioè l’adesione della FIOM al sindacalismo di regime e alla sua politica.
Si dimostra confermata appieno la nostra trentennale diagnosi sulla sinistra CGIL: il più prezioso puntello del sindacalismo di regime.
Al comizio la recita delle parti ha visto Landini richiedere lo sciopero generale, ed Epifani mostrare la sua disponibilità a ricorrervi, fatte naturalmente alcune riserve. Tutti perfettamente d’accordo: l’intento è prendere tempo. Epifani ha chiarito che, se sarà, lo sciopero verrà proclamato dopo un’altra manifestazione, questa volta di tutta la confederazione, prevista per il 27 novembre. Cremaschi ha affermato che la proclamazione non può essere rimandata alle calende greche e che quindi una decisione deve essere presa... dopo la manifestazione del 27 novembre! Nulla di nuovo: la manifestazione del 16 ottobre era stata annunciata a fine luglio, con quasi tre mesi di anticipo!
Perfetto equilibrismo opportunista: non si proclama lo sciopero generale, ma si apre un lungo dibattito su di esso, cercando di far credere ai lavoratori che, contro gli effetti della crisi mondiale, sia sufficiente uno sciopero generale annunciato con mesi di anticipo e magari di quattro ore!
Ma ciò che è l’aspetto più significativo di tutta quest’opera di intorbidamento delle chiare necessità di lotta è privare i lavoratori della consapevolezza del nesso fra la loro mobilitazione e gli obiettivi. Questi non sono mai chiaramente formulati, concreti, ma ideologici e impalpabili, oltre che oggettivamente anti-operai: la democrazia (borghese), il lavoro (salariato), i diritti (cartacei), la legalità (padronale). Nella manifestazione del 16 ottobre, la rivendicazione centrale e attuale della difesa del contratto nazionale è rimasta offuscata nel fumo narcotico di queste parole d’ordine borghesi.
La FIOM stessa ha contribuito a indebolire le basi del contratto nazionale, con la firma di tutti gli accordi che oggi sventola per dimostrare di non essere un sindacato che sa dire solo “no”: coi contratti d’area come alla FIAT SATA di Melfi e di Pratola Serra, accettando il principio di legare una quota del salario alla produttività del lavoro, concentrando l’attenzione dei lavoratori sulla contrattazione integrativa aziendale. Dopo la disdetta del contratto da parte di Federmeccanica ha fatto scioperare i metalmeccanici per sole 4 ore e divisi per territorio e per fabbrica. Modo davvero curioso di opporsi a un attacco padronale che vuole proprio approfondire questa divisione.
Dalla manifestazione di Roma gli operai sono tornati alle loro città e fabbriche con questo in mano: che è necessario fare uno (uno!) sciopero generale e la mezza promessa della CGIL di ricorrervi. Se la richiesta in tal senso da parte dei lavoratori si farà più pressante la CGIL userà questa carta, tardi, con parsimonia e a sostegno degli obiettivi ad essa consueti. Questi sono già intuibili oggi. Mentre la FIOM ancora organizzava le 4 ore di sciopero per azienda e per territorio contro la disdetta del contratto, la CGIL apriva “un grande tavolo negoziale” con CISL, UIL, Confindustria e Governo per la riforma contrattuale, fiscale e degli ammortizzatori sociali. La CGIL ostacolerà in ogni modo la necessità dei lavoratori di ricorrere allo sciopero generale per i loro veri obiettivi, e cercherà di deviare le energie operaie ad attendere il risultato del “tavolo negoziale”, che sarà una riforma ulteriormente peggiorativa.
La FIOM, recitando la parte di ala sinistra e combattiva della CGIL, si rifiuterà però nei fatti di attaccarne la politica e di dare chiari obiettivi di lotta agli operai, con questa complicità passiva aiutando la CGIL a riuscire nella manovra anche questa volta.
* * *
Ma il gioco per tutto il sindacalismo di regime si fa sempre più difficile e rischioso. Se la CGIL si trova costretta, per non perdere tutta la fiducia dei suoi iscritti, a sventolare la parola d’ordine dello sciopero generale, più la crisi avanza più i lavoratori crederanno a queste parole, e pretenderanno da essa sia a queste coerente e conseguente.
Se, sotto la spinta della crisi, lo sciopero generale, proclamato dalla CGIL a mo’ di valvola di sfogo e per sostenerla al tavolo negoziale, dovesse essere invece colto dai lavoratori, sempre più sfruttati e immiseriti, come atto necessario per ribellarsi e lottare contro lo condizione in cui li sta riducendo il capitalismo, se allora venissero a riempire le piazze non solo di numeri, come è successo a Roma, ma anche di rabbia, ecco allora che il doppiogiochismo della stessa FIOM verrebbe smascherato, non potendo questa accettare di imbastire un vero scontro con il padronato, una vera lotta di classe.
Questo processo è ineluttabile. I tempi perché si compia li stabilisce innanzitutto il maturare della crisi sociale, che dipende, sebbene non legata rigidamente, dal corso della crisi economica capitalistica.
Un fattore importante in questa complessa dinamica può presentarsi in quegli organismi sindacali che affermano di lavorare alla costruzione di un sindacato di classe fuori e contro i sindacati di regime. Purtroppo tutto il sindacalismo di base, affetto nei capi da un inguaribile ed inveterato politicantismo, continua ad ignorare l’elemento primordiale ed elementare della lotta di classe: che cioè l’azione comune difensiva dei lavoratori è già in sé un atto contro i padroni e i sindacati di regime. Solo per questa non perdonabile insensibilità le diverse sigle del sindacalismo di base hanno deciso di non partecipare unitamente alla manifestazione del 16 ottobre, con la richiesta di un vero sciopero generale, attaccando la CGIL e mettendo in tal modo in crisi la sua sinistra e la dirigenza della FIOM.
La discussione nelle assemblee, lo sciopero, la manifestazione nelle strade, indipendentemente delle sigle sindacali che li hanno proclamati, sono un fenomeno fisico nel quale si esprime e si prende atto della forza della classe e si accumulano le esperienze di lotta che portano al maturare della coscienza sindacale dei lavoratori, del ruolo dello Stato, del parlamento, dei partiti, delle forze dell’ordine e, non ultimo, la comprensione delle differenze fra le sigle sindacali di regime e quelle tendenti alla costruzione del sindacato di classe. Non oltre, che lo strumento tramite fra le secolari esperienze della lotta di classe e i mezzi adatti ad abbattere il capitalismo può essere solo il partito politico. Ma non è poco!
Invece le attuali dirigenze dei sindacati di base, nonostante l’evidente precipitare nella crisi del capitalismo, perseverano nella deleteria prassi di indire manifestazioni e scioperi separati, dalla CGIL e perfino fra di loro! Il settarismo dei capi dei sindacati di base è oggi altrettanto dannoso quanto lo è il ruolo della sinistra CGIL. E va combattuto alla stessa stregua.
I comunisti, e i lavoratori iscritti a tutte le sigle del sindacalismo
di base (USB, CUB, Slai Cobas, Cobas) devono lottare contro le attuali
dirigenze per l’unione dal basso di tutti i loro sindacati in un unico
organismo, per finirla con le azioni sindacali separate, accettando finalmente
lo scontro con il sindacalismo di regime.
L’ultima offensiva della frazione italiana del capitale mondiale contro il proletariato ha assunto le sembianze subdole della Legge 122/2010.
Il capitale si trova in una difficile situazione: da una parte è costretto a resistere alla crisi di sovrapproduzione e a lottare per non cedere altre posizioni nei confronti delle frazioni avversarie, dominanti il mercato mondiale, i “fratelli nemici” di cui parlava Marx; dall’altra è consapevole della presenza di una camera magmatica in inesorabile riempimento sotto i suoi piedi: il malcontento oggi latente della classe operaia causato dai colpi di maglio di una crisi che arriva da lontano e si trascinerà ancora per lungo tempo. Dietro all’impersonalità del rapporto di capitale, si cela sempre una personalità collettiva, la classe dei capitalisti, verso la quale si rivolgerà la sacrosanta lotta proletaria e il suo odio di classe.
Lo scioglimento delle contraddizioni capitalistiche sarà possibile solo nel comunismo, forma economico-sociale successiva nella grande serie che attraversa l’intero corso della storia umana. All’opposto, nel capitalismo, le “soluzioni” comportano una dilazione delle sue contraddizioni, rimedi che non fanno altro che ingigantire le cause del male. La medicina è la solita: portare un attacco al salario, diretto, indiretto e differito, motivandola come dettata dalla situazione dei conti economici dello Stato borghese: il ladro prima ci deruba, poi viene a dirci che l’ha fatto per il nostro bene!
Facile perdersi nelle questioni tecniche, molto complesse, del sistema previdenziale italiano ed è bene inquadrare la questione. La recente manovra è subdola in questo: portare un attacco, di dimensioni paragonabili, al salario diretto avrebbe comportato l’immediata eruzione del vulcano proletario; si è resa quindi necessaria una via più buia: colpire il salario indiretto.
Torniamo sulla scena del delitto. La Legge 122/2010 ha convertito il Decreto Leggo 78/2010 recante “Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica” (attenzione ai termini: “stabilizzazione”, “competitività”). I punti fondamentali sono i seguenti.
Il requisito per accedere al pensionamento – che sia d’anzianità o di vecchiaia – rimane intatto: rispettivamente, 40 anni di contribuzione o sistema delle “quote” e 65 anni, se uomo, 60 anni, se donna. La legge insiste invece sullo slittamento delle “finestre”: il 1° giorno del 13° mese successivo a quello di maturazione del requisito, in presenza di solo lavoro dipendente; il 1° giorno del 19° mese successivo a quello di maturazione del requisito, in presenza di sola contribuzione delle gestioni speciali per i lavoratori autonomi o di contribuzione mista dipendente ed autonoma.
La perdita secca di salario è in media di 5-6 mesi di contributi. Con le nuove “finestre” un lavoratore sarà costretto ad andare in pensione con 41 anni di contributi o 66 anni d’età se uomo, e 61 anni se donna.
Inoltre il trasferimento dei contributi tra Istituti è diventato completamente oneroso; vengono, infatti, abrogati alcuni articoli (Legge 29/1979, Legge 322/1958...) che permettevano ricongiunzioni gratuite. Questa nuova norma renderà inevitabile il ricorso alla “totalizzazione”, che comporta una perdita del 40% in media sulla misura della pensione.
Di fronte a questo scempio la risposta dei sindacati di regime è stata confusa e disordinata, benché tante assemblee spontanee di lavoratori avessero immediatamente chiesto la cancellazione della manovra del 31 maggio.
Non ci perdiamo nel tecnicismo delle norme e ci attestiamo sulla matematica elementare. La Legge 122/2010 “costa” in media 5-6 mesi di contribuzione che, sommati alla previgente normativa, portano la perdita di salario ad 1 anno, o 1 anno e mezzo per i lavoratori autonomi.
Ma il peggio sta altrove: occorre tornare all’anno 1995, quando venne approvata la Legge 335/1995 di riforma complessiva del sistema pensionistico, che comportò il graduale passaggio dal calcolo della misura della pensione col sistema retributivo (introdotto nel 1969) al sistema contributivo. Allora le cifre della sconfitta proletaria furono ben più pesanti, quantificabili, in media, in una perdita netta del 30-40% nella misura della pensione.
Nel meccanismo di calcolo c’è inoltre un punto che è passato inosservato: il coefficiente di capitalizzazione è legato alla dinamica del PIL (la media degli ultimi 5 anni per ogni anno di riferimento). Questo testimonia come il processo d’integrazione della classe operaia sia giunto ad un punto di svolta. Da una parte si vorrebbe legare la dinamica salariale alla “produttività”, secondo la ideologia della partecipazione agli utili e del “capitalismo popolare”; in realtà si tratta di maggiore sfruttamento e di aumento della produzione a parità di lavoro. Un nuovo “corporativismo”, un ritorno al feudalesimo del capitalismo giunto alla fase imperialista.
Dall’altra si lega la dinamica delle pensioni all’andamento dell’economia generale, misurata con parametri borghesi (perciò distorti in quanto di classe). Da una parte si chiede ai lavoratori maggiore sforzo produttivo per recuperare qualche briciola caduta dal tavolo dove banchettano porci in smoking, dall’altra si dice ai pensionati che è la crisi che li riduce in miseria.
Il metodo di calcolo contributivo è l’emblema dell’individualismo borghese classico: ognuno pensi a sé stesso. I lavoratori in attività vengono scagliati contro i lavoratori in pensione, con lo scopo di dividerne il fronte. Al contrario il metodo di calcolo retributivo, più “razionale” anche per lo stesso capitalismo e fatto proprio già dalla socialdemocrazia e dal fascismo, permette d’unire quei due settori della classe: i pensionati hanno interesse a lottare a fianco dei lavoratori attivi perché questi strappino miglioramenti salariali; sono infatti i lavoratori in attività che “pagano” la pensione dei propri padri. Oggi la borghesia non riesce a mantenere il metodo anche per essa più efficiente, e passa ai calcoli individuali per nascondere in infiniti casi diversi il peggioramento che è per tutti.
Il capitalismo cerca di abbassare il prezzo della forza-lavoro, in modo
tale da poter aumentare la massa di plusvalore estorto alla classe operaia
e contrastare la tendenza a cadere del tasso medio di profitto. Questo
è quello che si è verificato con la Manovra del 31 maggio 2010. Quello
della previdenza è parte integrante e di prim’ordine del fronte della
lotta di classe; e questo in tutti i paesi. Come la riduzione dell’orario
di lavoro a 30 ore settimanali a parità di salario e sforzo, come rivendicare
un unico contratto collettivo di lavoro, con abolizione delle forme di
lavoro interinali ed a tempo determinato, va richiesto che la misura della
pensione sia proporzionale alle retribuzioni percepite e con un meccanismo
di rivalutazione legato alla dinamica salariale.
PAGINA 4
Difendere il
posto o il salario ?
In questo quarto anno di crisi economica la situazione è di estrema gravità per la classe borghese e per il suo Stato: l’economia nazionale perde colpi, la produzione si contrae, le entrate fiscali diminuiscono. Ma è ben più grave per i lavoratori. Sono sempre più numerose le fabbriche che rischiano la chiusura. Una parte significativa degli operai ha già perso il lavoro o è in pericolo di perderlo: una volta esaurita la cassa integrazione si ritrovano senza salario.
Nei fatti la vicenda si presenta così.
Quando il padrone annuncia la sua decisione di chiudere la fabbrica, ovvero di trasferirla in un altro paese, i suoi dipendenti si rivolgono ai sindacati nella speranza di una qualche difesa. Il sindacalismo confederale intraprende allora una strategia ed una mobilitazione che si fondano sul salvataggio “dei posti di lavoro”, cioè della fabbrica, e sul mantenimento della sua continuità produttiva e commerciale.
Questo è anche il risultato di un lungo ciclo economico che ha visto in Europa ridursi di molto più che altrove e in altri tempi la tipica mobilità dei lavoratori e una eccezionale lunga permanenza delle maestranze nella stessa azienda. Per altro, oggi, che fuori dell’azienda il sindacalismo di regime ha accettato il precariato assoluto, la fabbrica appare, invece che una prigione, l’ultimo rifugio.
Per “salvare la fabbrica” si chiede quindi il sostegno di tutti, dagli enti locali, alla chiesa, al personaggio politico locale; si cerca di far pressione perché lo Stato, la Regione, il Comune intervengano per favorire la continuazione o la ripresa della produzione con incentivi fiscali, commesse pubbliche, ecc.
In questa impostazione succede che il mezzo dichiarato, la difesa della fabbrica per la difesa dei lavoratori, si capovolga nel fine, e i lavoratori “coerentemente” a quello siano sottomessi e, sovente, per quello accettino financo i licenziamenti di una parte di loro.
Nessuno dei sindacati confederali, perché estraneo alla loro natura borghese, chiede che sia assicurata la vita dei lavoratori e delle loro famiglie indipendentemente dalla fine che possa fare la fabbrica. Hanno infatti abbracciato il punto di vista borghese che considera il lavoratore solo come una delle tante merci necessarie nel processo di valorizzazione del capitale. Se il processo produttivo cessa, l’operaio diventa inutile, un disoccupato, passa nell’esercito industriale di riserva. Può cessare di vivere, basta sopravviva in attesa del prossimo ciclo espansivo del capitale.
Ma quella dei lavoratori è una classe sociale, tutti i lavoratori sono economicamente opposti a tutti i padroni, alla classe borghese. Sono una classe perché hanno interessi comuni, il primo dei quali è quello di vivere come uomini. Per questo sia il sindacato di classe (che oggi non c’è) sia il partito di classe (idem) si costituiscono ed intervengono dal di fuori delle fabbriche. In esse sono sì ben presenti e possono anche avere le loro roccheforti, ma in quanto rappresentano una classe che ne è fuori. Sono necessari proprio perché è in fabbrica che i lavoratori sono più deboli e ricattabili: la forza della classe operaia è di non avere nulla da perdere, se non le proprie catene, delle quali una delle peggiori è il “posto fisso”.
Troppo difficile? La scuola della crisi lo sta spiegando alla svelta.
Per questo il movimento dei lavoratori, il sindacato di classe, mette tra i suoi obbiettivi quello generale e intercategoriale del salario ai disoccupati.
Se la borghesia, classe che detiene ogni ricchezza, oggi non può o
non ha interesse ad assicurare la continuità delle sue produzioni, deve
però assicurare la vita ai lavoratori pagando con i profitti che ha accumulato
nei lunghi anni di sviluppo dell’economia! Che sia lo Stato borghese,
attraverso il prelievo fiscale alle classi ricche, ad accollarsi il carico
dei lavoratori costretti, non per loro colpa, all’inattività da questo
assurdo regime.
In Gran Bretagna il recente Bilancio di Emergenza del governo, che prevede notevoli tagli nell’assistenza, nei servizi sociali e di altre spese statali, è appoggiato da una martellante campagna dei media borghesi, il cui solo argomento, ripetuto all’ossessione, si riduce al mantra: “i tagli sono necessari... i tagli sono necessari...”
Ancora una volta ci viene detto che bisogna ingoiare la pillola amara dell’austerità e dei sacrifici per “risanare” le “finanze nazionali”. Non tutti però divideranno il carico dei sacrifici, e suscita riprovazione che l’olimpo bancario, già recentemente rifinanziato con miliardi di sterline provenienti dalle casse dello Stato, si assicurerà anche in questa occasione molti milioni di bonus.
Data questa situazione e il palpabile senso di ingiustizia che ha provocato, forse il proletariato non sarà del tutto ben disposto a pagare nuovamente per la crisi. All’attacco diretto ai salari dei lavoratori occupati, che già hanno avuto decurtazioni rilevanti ed intensificazione dei carichi, si aggiunge ora l’attacco alla forza lavoro di riserva, i disoccupati e gli invalidi, già condannati ad una vita di miseria ai margini della società.
Un esempio degli attacchi che il governo sta preparando ai disoccupati è il taglio agli attuale sussidi per l’abitazione, fino alla misura del 90%, a chi per un anno non è riuscito a trovare un lavoro. Questo è un duro colpo che viene a ricattare il disoccupato costringendolo ad accettare qualsiasi lavoro, anche a condizioni e paghe terribili, pur di non restare senza casa e finire per la strada.
Inoltre, gli iscritti alle liste di disoccupazione saranno sottoposti a pressioni crescenti per accettare qualsiasi lavoro.
Un’altra imposizione che i disoccupati subiscono è il rischio di essere sanzionati, cioè vedere ridotti i contributi, qualora risulti che non è stato fatto ogni sforzo per ricercare lavoro, tentativi che il disoccupato deve documentare, oppure per non essersi presentato, seppure per motivi di forza maggiore, per il ritiro dei contributi al momento previsto, o per non dichiararsi in ogni momento “disponibile al lavoro”. La sanzione consiste anche in un taglio dei contributi per la casa e nell’esenzione alle tasse locali.
Inoltre anche molti degli enti di assistenza e carità, sovvenzionati ampiamente dallo Stato, che oggi aiutano i disoccupati a tirare avanti, che assistono i lavoratori semianalfabeti nella compilazione dei moduli delle domande di assistenza e ne seguono le pratiche, dichiarano che la loro sopravvivenza è minacciata dai nuovi tagli.
La campagna di Stato per i tagli all’assistenza si rivolge anche gli invalidi estendendo la definizione di “abile al lavoro” ad una gran parte degli affetti di varie patologie: il governo si pone l’obbiettivo di mandare a lavorare mezzo milione di invalidi. Il metodo è quello di incorporare l’Ente preposto per i contributi di malattia e l’Ente per l’invalidità in uno nuovo, al quale è obbligatorio tornare a chiedere l’iscrizione. Occorrerà ripresentare la domanda, produrre nuovamente le prove dell’inabilità ed essere sottoposti ad interrogatori ed esami sulla base di nuove procedure predisposte proprio in modo da escluderli dall’assistenza.
Questi lavoratori, definiti “ex-ammalati”, saranno d’ora in poi considerati e quindi trattati come comuni disoccupati.
Quindi i disoccupati, già in competizione fra di loro, si troveranno
anche a rubarsi il posto con ammalati ed invalidi. E coloro che riusciranno
a trovare un lavoro scopriranno molte volte che stanno lavorando per la
stessa somma di denaro che prima ricevevano come assistenza! A questi lavoratori,
dopo aver fatto salti mortali e teso ogni nervo per trovare un posto, non
sarà certo di sollievo scoprire che sono rimasti poveri come prima.
Il disinteresse delle Trade Unions
Il malcontento affiora in superficie. Tuttavia le recenti agitazioni dei lavoratori della metropolitana contro le riduzioni di personale e il crescente malcontento nel pubblico impiego non hanno trovato adeguata risposta al recente Congresso delle Trade Unions, che se la sono cavata con poche misure soporifere per cercare di contenere la situazione: il solito vecchio rimedio di fare affidamento sulla sua lobby parlamentare ed l’indizione della solita rituale manifestazione, stavolta rimandata di sei mesi, a marzo 2011 !. Nessuno potrà accusare il Tuc di voler battere il ferro quando è caldo.
Quali tentativi sono stati fatti dalle Trade Unions per organizzare i disoccupati? Una risposta rivelatrice viene dall’articolo, apparso su internet, intitolato: “Perché mi sono dimesso dal comitato di consulenza delle Trade Unions all’interno dei Centri per i Disoccupati”.
I Centri per i Disoccupati nacquero nel 1980, uno dei primi anni di forte disoccupazione, e raggiunsero in quel periodo il numero di 150 in tutto il paese, mentre nel 2009 si sono ridotti a sole 50 unità.
Questi centri furono utili per rompere l’isolamento e per la solidarietà, oltre che, nel migliore dei casi, a fornire utili consigli legali e assistenza per l’ottenimento di contributi. Ma non possono essere considerati una panacea. La nostra posizione è che il principale fattore di forza è quello che consente ai disoccupati di essere organizzati a fianco dei lavoratori alla produzione, il che dovrebbe essere un principio base e un impegno da parte di un sindacato che pretenda di avere una impostazione di classe.
La gestione dei Centri di Disoccupati è stata diversa nelle varie parti del Paese. Quello di Liverpool è stato condotto praticamente come una impresa commerciale e non certo a difesa dei disoccupati. Il brutale comportamento dei dirigenti ha perfino provocato uno sciopero del personale lì impiegato per le pulizie. Chi organizzava quei lavoratori fu cacciato dal Centro – e chiamarono la polizia per accompagnarlo fuori.
L’autore dell’articolo sopra citato riferisce di come i Centri per i Disoccupati furono costretti a rivolgersi alle agenzie governative con il cappello in mano alla ricerca di fondi e come questi fondi fossero concessi a condizione che essi rinunciassero a divenire delle “Camere del Lavoro disoccupato”. Lo Stato era cosciente del potenziale di questi Centri che potevano diventare luoghi di agitazione, di organizzazione e di lotta.
L’autore dell’articolo, che si dichiara segretario di un Centro per Disoccupati delle Trade Union, descrive come la loro attività fra i disoccupati fosse rappresentata da iniziative di poco conto, senza alcuna incisività e senza risposte critiche ai provvedimenti che via via il governo varava a riguardo dei disoccupati. E ciò aveva condotto alle sue dimissioni.
«Si potrebbe pensare che, con la disoccupazione che ora raggiunge i tre milioni di unità, il Comitato avrebbe colto l’urgenza dell’azione. Invece agisce secondo la coscienza dei capi del TUC che, più che altro, temono ogni movimento di auto-organizzazione dei disoccupati (...) Penso sia necessario mettere in evidenza che, mentre la disoccupazione incrementa rapidamente, i Comitati promossi dalle Trade Unions sono paralizzati dall’inerzia (...) È stata adottata una linea di silenzio nei confronti delle riforme proposte dal New Labour».
Questo il genere di appoggio che i disoccupati si possono aspettare
dal TUC. Al Congresso del settembre 2010 il tema dell’organizzazione
dei disoccupati è stato relegato ad un convegno a margine alla domenica
pomeriggio.
Far soldi con i disoccupati !
Così, mentre il TUC offre dei palliativi, a malincuore, ai disoccupati, mentre allo stesso tempo si disfa dei suoi precedenti Centri, altri vedono i disoccupati come una opportunità di guadagno!
Sebbene ci sia una generale unanimità all’interno della classe dominante circa la necessità dei tagli alla spesa dello Stato, è in discussione solo quanto tagliare e come affidare la “gestione” della cosa: le divisioni nascono quando si tratta di definire chi più si avvantaggerà dell’intera manovra.
La nuova strategia nei confronti dell’esercito dei disoccupati, ora enormemente aumentato, è far gestire da investitori privati l’intero progetto “Dall’assistenza al lavoro”. Un accordo fra i Ministeri del Lavoro e della Riforma assistenziale e le istituzioni finanziarie della City di Londra s’ingegna su come far funzionare la cosa, utilizzando i tagli all’assistenza per produrre un profitto per il settore privato, che trarrebbe un utile proveniente da una quota su quanto risparmiato in contributi alla disoccupazione.
I Centri per l’impiego del resto già oggi appaltano parte del loro lavoro ad un buon numero di compagnie private.
Il Direttore esecutivo del “progetto” all’interno della società G4S, “Gruppo per Servizi di Sicurezza e Assistenza”, che fornisce già prestazioni allo Stato, tipo il trasferimento dei carcerati dalle prigioni ai tribunali, ritiene che «la scommessa di questo modello è che agli investitori, che hanno anticipato i pagamenti in scadenza, rientri il flusso di denaro risparmiato col riavvio al lavoro della gente. Noi crediamo che possa funzionare». Il settore privato, di fronte alla crisi dei mercati, è sempre in ricerca di nuovi imbrogli per far soldi, ed ha odorato l’opportunità qui di farlo perfino sulla parte più sfortunata del proletariato.
L’obbiettivo di arrivare ad un taglio del 25% sul bilancio dei principali settori dello Stato crea molte preoccupazioni nel Paese. I corpi di polizia, per i quali si prospettano tagli per 40.000 posti, rispondono prospettando terribili scenari per spaventare la borghesia e far sì che receda dal proposito. Recentemente una Associazione di poliziotti ha ricordato che un corpo di polizia “forte e affidabile” sarà necessario per fronteggiare le tensioni sindacali e sociali che si prospettano a causa dei tagli; tensioni che potrebbero ulteriormente complicarsi con 40.000 sbirri licenziati!
Vengono a questo proposito richiamati alla memoria i recenti movimenti di protesta dei ranghi più bassi delle forze di polizia; e degli scioperi che si ebbero nel dopoguerra quando fu vietato ai poliziotti di organizzarsi in sindacato. Ricordiamo che durante questi scioperi fu chiamato l’esercito a mantenere l’ordine nelle strade. Oggi sembra che anche lo stesso esercito, già ridotto enormemente di effettivi, subirà ulteriori pesanti tagli... Difficile prevedere cosa porterà il futuro!
Di fronte a tutto questo il TUC è stato costretto ad assumere un atteggiamento apparentemente più combattivo e a dichiarare la necessità di un indefinito piano di “azione comune” fra i vari sindacati. Questo piano, quando e se si realizzerà, sarà effettivo solo se sfuggirà al controllo delle gerarchie sindacali, la prospettiva delle quali, se l’esperienza del passato significa qualcosa, è strettamente connessa alla promessa di una poltrona in parlamento, in lauti stipendi premio di una mentalità strettamente “unionjackista”, fedele alla bandiera, in tutto disposta ad appoggiare qualsiasi misura nell’interesse dell’economia nazionale e il cui motto rimane “Prima il Paese, poi la classe operaia”.
I lavoratori, assieme ai disoccupati, per scendere in lotta dovranno superare gli steccati di categorie e luogo di lavoro, e costruire organizzazioni sindacali sempre più ampie. Questa alleanza fra occupati e disoccupati, dovrà alla fine uscire dalle strutture sindacali ufficiali con azioni fuori della legalità sindacale e non regolamentate. Solo per questa via il proletariato potrà dispiegare una forza sufficiente ad agire come classe e costringere la borghesia ad allentare i suoi attacchi sfrenati, misurando e predisponendo in tal modo il potenziale di forza che sarà necessario per la finale ed inevitabile battaglia contro il capitalismo.
Militanti sindacali! La difesa di tutti i membri della classe consiste
nell’appoggio concreto e duraturo ai disoccupati e ai disabili al lavoro,
e non con innocue risoluzioni o trovate pubblicitarie. I padroni auspicano
disporre di una massa di lavoratori “flessibili”, il che significa
che si vendano quasi per niente, pronti ad ogni cenno del padrone. Organizzare
i non organizzati è il modo più diretto per proteggere chi è ancora
al lavoro. Difendere tutti i lavoratori, non solo quelli iscritti alle
Unions! Procedere così è particolarmente importante nel settore pubblico,
minacciato da tagli generalizzati, con migliaia di lavoratori che rischiano
di finire nelle file dei disoccupati.
In occidente l’ideologia dominante porta ad esempio ai lavoratori italiani quelli di Cina, che sarebbero da sempre incapaci di lotta di classe e passivamente pronti a sottomettersi allo sfruttamento per “una ciotola di riso”. È questo, semplicemente, un falso post-coloniale, che si sta ancora una volta smascherando all’evidenza quando, dall’inizio di quest’anno, sono filtrate fin qui notizie di innumerevoli scioperi e risoluti episodi di lotta degli operai cinesi.
È normale che, per oscurare completamente queste orgogliose manifestazioni dei salariati, i buffoni di corte e i media della classe dominante si occupino invece delle lotte intestine (letterale) del penoso teatrino della politica borghese nostrana.
A nessuno sfugge il significato profondo della lotta di questa importante porzione della classe internazionale dei lavoratori. In quest’immenso paese, nelle zone più industrializzate, dalle quali solo possono giungere notizie, centinaia di fabbriche hanno interrotto la produzione per giorni e giorni, con storie e modalità diverse, una lotta operaia che spesso è riuscita ad inceppare gli ingranaggi del capitale, rompendo le catene del sindacalismo di regime ed ottenendo quasi ovunque significativi aumenti salariali. I casi sono così numerosi da far prevedere una generale mobilitazione proletaria di tipo difensivo nel cuore di quell’aggressivo e rampante capitalismo, che solo per necessità di confondere l’orientarsi della classe operaia verso la sua emancipazione non si vergogna (per adesso ancora) a denominarsi comunista. Il termine appropriato sarebbe fascista, nota sottospecie della dittatura borghese ormai esportata dall’Italia, ove ebbe il collaudo, in tutto il mondo.
Centinaia di fabbriche sono state investite da questa ondata di scioperi: Brother Industries - Foshan Fengfu Autoparts Atsumitec- Honda Auto Parts Manufacturing - Honda Lock Factory - Foxconn - Mitsumi Electric - Foxconn - Merry Electronics- Smartball Inc -Kok International Etc - Omron Automobile Electronics - Toyoda Gosei, etc. etc. «Ogni giorno dai nostri dipendenti ci arrivano richieste di aumenti salariali fuori da ogni logica», queste le parole di un frustrato imprenditore straniero del settore tessile.
Va ricordato che in Cina gli scioperi sono vietati dallo Stato comunista; i sindacati sono “proprietà statale“, e non hanno aderito a nessuna di quelle mobilitazioni. Sappiamo però che gli operai ad essi iscritti vi hanno partecipato con coraggio.
Tra gli scioperi più significativi quello ad oltranza indetto a Tianjin, città portuale a un centinaio di chilometri da Pechino, dalla totalità dei tremila dipendenti della Mitsumi Electric, fabbrica giapponese di prodotti elettronici. Numerose altre fabbriche giapponesi in territorio cinese, per esempio quelle dell’indotto di Honda e Toyota, hanno subito dagli inizi di maggio un’inaspettata forte ondata di lotte. Alla Honda di Foshan dopo decine di giorni di sciopero gli operai hanno ottenuto un aumento di stipendio del 24%, dichiarando che la loro battaglia, dopo una pausa, sarebbe continuata fino al raggiungimento del 50% di aumento salariale. Gli scioperi, sempre illegali, si sono poi estesi a molte delle zone industriali del paese e a numerosi settori industriali.
Il governo cinese per porvi un argine, agli inizi di giugno, ha annunciato l’innalzamento del salario minimo in 30 grandi città. A Pechino per esempio, l’aumento è stato di 160 yuan, corrispondenti a 23,5 dollari, circa il 15% in più, poco rispetto a quanto ottenuto in quelle fabbriche dove gli operai hanno scioperato per giorni.
Dopo trent’anni di sconvolgente nuova urbanizzazione e proletarizzazione il dragone operaio torna ad imporre la sua forza ad una classe borghese che si è enormemente arricchita. Oggi l’operaio che trova lavoro nelle varie industrie ha un’età compresa tra 18 e 25 anni, non gli basta risparmiare per mandare i soldi a casa come faceva suo padre, abitando gli squallidi dormitori racchiusi nel muro di cinta della fabbrica. Anche per gli effetti della politica del figlio unico, varata da Mao a metà degli anni 70, la giovane forza lavoro inizia a essere molto richiesta per le catene di montaggio; questo permette un potere di contrattazione della forza lavoro senza precedenti nella storia dei rapporti di forza tra le classi in Cina.
La sottomissione degli operai ai borghesi è un fatto economico e non di tipo culturale, secondo presunti opposti moduli di mentalità e civiltà fra occidente ed oriente.;
Le convulsioni del capitale mondiale e la lotta di classe, vero motore della storia, determinano condizioni fino a ieri imprevedibili: già oggi per alcune merci da vendere sul mercato statunitense è più conveniente produrre in Messico che in Cina. Considerazioni che si possono applicare anche in Europa, visti gli stipendi dei lavoratori di alcuni paesi dell’Est europeo. La lotta di classe con la sua forza, la sua irruenza, la sua inevitabilità busserà a breve alle porte di questi salariati e dei loro padroni. Altrimenti la “ciotola di riso” la daranno presto ai proletari di occidente, in mancanza della loro vera e risoluta mobilitazione di classe a fianco dei lavoratori del mondo intero.