Partito Comunista Internazionale
Il Partito Comunista N. 419 - dicembre 2022

anno XLIX - [ Pdf ]

Indice dei numeri

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Aggiornato al 24 febbraio 2023

organo del partito comunista internazionale
DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: – la linea da Marx a Lenin, alla fondazione della III Internazionale, a Livorno 1921, nascita del Partito Comunista d’Italia, alla lotta della Sinistra Comunista Italiana contro la degenerazione di Mosca, al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani – la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario, a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco
PAGINA 1 A cento anni dalla Marcia su Roma: “Solo un cambio di governo un po’ movimentato”
– In Russia e in Ucraina la guerra è contro la classe operaia
Alla politica xenofoba nazionalista militarista i lavoratori risponderanno con la lotta per i loro interessi uniti nel sindacalismo di classe
La polveriera cinese: Le proteste contro le norme Zero-Covid - Rivolta operaia alla Foxconn
PAGINA 2 Sulle basi economiche del conflitto in Ucraina
Per il sindacato di classe Roma, sabato 3 dicembre: lo sciopero generale e la manifestazione nazionale del sindacalismo di base
Affonda nel corporativismo la Cgil tricolore
Lavoratori d’Europa in lotta: Gran Bretagna - Francia - Germania
In Italia, la parola del partito ai lavoratori
PAGINA 5 Ripartizione delle produzioni e intensità industriale nei principali paesi del mondo
PAGINA 6 – Convergere nella Riunione Internazionale del Partito del lavoro di tutti i nostri gruppi [RG144] (in video-conferenza, 23-25 settembre): Origini del Partito Comunista di Cina: Le direttive dell’ECCI e il Plenum di agosto 1922 - La guerra civile in Italia: La classe operaia e il partito comunista contro il fronte di Stato fascismo e riformismo - L’attività sindacale del partito
PAGINA 7 USA: È tornato il circo elettorale
PAGINA 8 – Ancora sangue proletario in Perù versato per interessi borghesi







PAGINA 1
A cento anni dalla Marcia su Roma
“Solo un cambio di governo un po’ movimentato”

La vicenda storica dell’affermarsi del regime fascista in Italia è stata oggetto di costante travisamento da parte delle diverse correnti politiche e storiografiche borghesi. La buffonesca parata conosciuta come “Marcia su Roma” si volle far credere segnasse una frattura politica e sociale, la fine della fase liberale della storia d’Italia.

La nostra corrente non ha mai condiviso questa visione. Il cambiamento si manifestò solo nelle forme esteriori della vita nazionale, mentre le premesse del nascituro regime erano già tutte presenti nelle caratteristiche dello Stato unitario italiano sin dalla sua fondazione, accentratore, antiproletario, protezionista in economia.

L’Italia fu il paese in cui per primo il fascismo si manifestò come regime organico assolvendo quella funzione di “laboratorio politico” che più di una volta la storia le ha assegnato. Lo Stato nazionale unitario, nato in ritardo rispetto ad altri europei, assunse precocemente quei caratteri propri della fase dell’imperialismo che del fascismo sono la necessaria premessa.

La classe dominante italica, come quella degli altri paesi europei, aveva vissuto con terrore la disposizione alla lotta di un proletariato uscito dalla carneficina di una guerra mondiale che non aveva voluto e di cui non era disposto a pagare ulteriormente i costi, il carovita e la disoccupazione, per assecondare la ricostruzione e la crescita industriale. In Italia, come altrove in Europa, si sviluppò un’ondata rivoluzionaria in cui l’ordine borghese, già decrepito, si salvò a stento.

All’ordinamento borghese non bastavano i metodi legali per contrastare l’avanzata di una combattiva classe operaia. La borghesia dovette dotarsi di un partito come quello fascista che, con finalità opposte, ricalcava il modello organizzativo dei partiti operai, e di corporazioni di mestiere che si sostituissero ai sindacati dei lavoratori, al fine di impedire e soffocare sul nascere ogni manifestazione di indipendenza di classe.

Col fascismo la borghesia si dette un alternativo apparato di controllo sociale, incentrato sul Partito Nazionale Fascista che, apertamente armato contro la classe operaia, rimpiazzò quei partiti “flessibili” di orientamento liberale, i quali dall’inizio della storia unitaria del paese ne avevano segnato la vita politica, intonandola alla musica del trasformismo. Incapace di fare fronte all’ondata rivoluzionaria postbellica, la borghesia realizzò un capolavoro di inganno affidando le sorti del proprio Stato di classe a Mussolini, garantendo gattopardescamente la continuità del trasformismo senza darlo a vedere: tutto cambiava, facendo gettito dei riti della democrazia liberale, affinché nulla cambiasse e il regime sempre dittatoriale della classe dominante ne uscisse indenne e rafforzato. Per compiere questo passaggio, la borghesia dovette sacrificare qualche suo elemento e una parte del suo personale politico, un’altra componente la mise invece nel congelatore, conservata per il momento opportuno.

La sopravvivenza del regime borghese fu però possibile perché il proletariato non fu in grado di accentrare le proprie lotte, negli anni del dopoguerra assai estese e generose, e porsi l’obiettivo concreto del rovesciamento violento del potere della classe borghese. Nel “biennio rosso” 1919-1920 il proletariato fu frenato nell’affermazione dei propri interessi economici immediati e di quelli storici più generali dalla direzione politica traditrice delle correnti del riformismo e dal centrismo presenti nel Partito Socialista e nella Confederazione Generale del Lavoro, le quali collaborarono nell’opera di preparare le future sconfitte della classe operaia per opera delle forze congiunte di Stato e fascismo.

Infatti nella tarda estate del 1920 il vastissimo movimento di massa sfociato nell’occupazione delle fabbriche metallurgiche del Nord Italia, vide da un lato una compatta volontà di lotta del proletariato, dall’altro l’incapacità di porre la questione del rovesciamento della borghesia e della presa del potere. Lo denunciava la nostra corrente: “Prendere le fabbriche o prendere il potere?”. In maniera speculare rispondeva Giovanni Giolitti, il politico liberale allora a capo del governo, che ai capitalisti, i quali protestavano perché non aveva saputo reprimere la violazione della loro proprietà, rispondeva: «Ma ammettendo anche che io fossi riuscito ad occupare le fabbriche prima degli operai, ciò che sarebbe stato per lo meno assai difficile, considerata l’ampiezza e l’universalità del movimento; mi sarei poi trovato nella assai poco comoda condizione di avere pressoché la totalità della forza pubblica di polizia, Guardie regie e Carabinieri, chiusi nelle fabbriche; senza quindi i mezzi di mantenere l’ordine fuori delle fabbriche, cioè nelle strade e nelle piazze nelle quali gli operai si sarebbero rovesciati, ed avrei in tal modo fatto precisamente il gioco dei rivoluzionari, che non avrebbero domandato niente di meglio».

L’inevitabile rifluire di quel tipo di lotta operaia favorì l’affermazione dello squadrismo fascista, sovvenzionato da una borghesia impaurita e sempre più convinta dell’impossibilità di arginare l’ascesa del proletariato coi mezzi ordinari di una repressione affidata alle sole forze di polizia, peraltro già rafforzate a partire dal 1919 con l’affiancamento, all’ordinario apparato repressivo dello Stato, della Guardia Regia istituita da Francesco Saverio Nitti, presidente del Consiglio di orientamento liberale. Era necessaria la violenza illegale dello squadrismo fascista a coadiuvare e integrare la violenza legale degli apparati repressivi dello Stato.

Nei due anni che precedettero la Marcia su Roma il proletariato non era ancora vinto e dette prova di vitalità e di determinazione nella guerra civile. Vi sarà sconfitto, più che dalla violenza della classe nemica, legale e illegale, dalle titubanze e dai tradimenti della sua direzione politica socialista.

Quando nel gennaio del 1921 nacque a Livorno il Partito Comunista d’Italia l’ondata rivoluzionaria già rifluiva.

Fu in un clima segnato dal terrore fascista, con i suoi assassinii e linciaggi di operai e di comunisti, che i capi del Partito Socialista nell’agosto del 1921 consumarono il tradimento del “Patto di pacificazione” col fascismo. I parlamentari socialisti firmarono coi deputati fascisti una “pace”, destinata a rimanere soltanto sulla carta. La stipula dell’accordo avvenne nell’ufficio del presidente della Camera a Montecitorio, a ulteriore conferma della disponibilità dei capi opportunisti ad accettare una pace cartaginese sulla testa del proletariato consegnandolo alla pretesa neutralità dell’autorità statale.

Opposta era allora la via intrapresa dai comunisti. Mentre i fascisti continuavano imperterriti i loro interventi armati, incuranti di patti scritti su carta straccia, la corrente sindacale del PCd’I promuoveva la convergenza di tutti i sindacati operai in un’azione di lotta unitaria. Con un’azione sia interna sia esterna ai sindacati assecondò la nascita e lo sviluppo della “Alleanza del Lavoro”, che rappresentò l’unico tentativo di una certa efficacia di fronteggiare la dilagante reazione borghese. Nell’arco di un anno dalla sua creazione l’Alleanza del Lavoro riuscì a gettare un ponte fra le organizzazioni sindacali: la Confederazione Generale del Lavoro, l’Unione Sindacale Italiana e il Sindacato Ferrovieri Italiani.

Tale coordinamento fra le organizzazioni sindacali – il terreno ideale ove affermarsi l’influenza del Partito Comunista fra i lavoratori – permise al proletariato d’Italia di impegnarsi nelle lotte, dando prova di inusitata compattezza, in quello che fu uno dei momenti più gloriosi della sua storia e che più terrorizzò la classe borghese, la quale vide vacillare il proprio dominio come mai in precedenza, e come, purtroppo, non è ancora accaduto di nuovo. Fu lo sciopero generale dell’agosto del 1922 che paralizzò gran parte del paese. Scontri armati si verificarono in molte città, i proletari combatterono le squadre fasciste e le forze legali della repressione borghese a Milano, Torino, Genova, Roma, Parma, Ancona, Bari e in tanti centri minori.

Ma lo sciopero, iniziato la sera del 31 luglio, fu dichiarato sospeso dai capi opportunisti il 3 agosto. Tuttavia si protrasse in molte città, senza che venissero a cessare gli scontri armati. Il 6 agosto il governo guidato da Luigi Facta diramò un appello affinché si scongiurasse la guerra civile: «In quest’ora di così grave turbamento della pace interna, il Governo si rivolge al Paese, a tutto il Paese, senza distinzione di parte, per un diretto appello ai cittadini, perché cessino i contrasti sanguinosi, e gli spiriti si elevino in un sentimento di solidarietà patriottica ed umana. L’Italia chiede ai suoi figli di desistere dalle lotte che li dilaniano. La sua voce penetrerà certamente nell’animo generoso degli italiani: non è possibile che i cuori, già uniti nella magnifica vittoriosa difesa della Patria, non sentano lo strazio che ad essa viene dalle condizioni così turbate della vita pubblica e vi rimangano indifferenti».

Fra il 6 e il 7 agosto si spegnevano gli ultimi fuochi della generosa lotta operaia. Solo allora per il proletariato arrivò la consapevolezza della sconfitta, per la borghesia l’ora di preparare la sua vendetta di classe. Meno di tre mesi dopo le porte del Quirinale si spalancavano all’ “Uomo della Provvidenza”, a colui al quale la classe dominante italiana affidava il nuovo tipo di imbonimento e il controllo della pace sociale.

Le avvisaglie del cambio di governo si ebbero già in quell’agosto del 1922, quando si fecero circolare voci di un colpo di Stato. Nelle settimane seguenti le violenze squadriste si intensificarono contro le sedi dei partiti operai e le camere del lavoro. Il 24 ottobre a Napoli si svolse un congresso fascista preparatorio della pagliacciata della settimana successiva.

Circa 15.000 fascisti da tutta Italia accorsero a Roma per partecipare alla parata.

Non incontrarono alcuna resistenza dall’apparato militare dello Stato liberale, che lasciò le porte aperte a quelle bande vistose e rumorose ma militarmente impotenti. Re Vittorio Emanuele III non volle firmare lo stato d’assedio, sottopostogli dal presidente del Consiglio Facta, perché tutti i ceti delle capitaliste classi dominanti italiane ritennero di esonerare le esangui e sfilacciate camarille del ceto politico liberale dal compito e dalla responsabilità di celebrare e sanzionare la loro vittoria e vendetta sulla classe operaia e sul comunismo.

I fascisti trovarono resistenza solo nel quartiere proletario di San Lorenzo, dove il 30 ottobre la colonna fascista guidata da Giuseppe Bottai fu aggredita con colpi d’arma da fuoco. La battaglia si prolungò con scontri che lasciarono sul terreno sette morti. Lo stesso giorno Benito Mussolini era arrivato a Roma in treno da Milano, da dove era partito appena ricevuta la notizia della decisione del re di conferirgli l’incarico di formare un nuovo governo. Nacque così il governo più lungo della storia d’Italia, destinato a durare senza soluzione di continuità per oltre vent’anni.

A convalida della sua formazione arrivò poco più di due settimane dopo il voto di fiducia della Camera dei deputati. Il dibattito parlamentare incominciò il 16 novembre, quando Mussolini pronunciò il celebre discorso in cui si vantò che avrebbe potuto trasformare l’aula di Montecitorio in un “bivacco di manipoli”.

L’obiettivo del futuro duce era fare pressione sul centro liberale affinché votasse la fiducia al suo governo, il quale sulla carta contava soltanto su un piccolo drappello di deputati fascisti, 37 su 535. Ma, come questo striminzito gruppo era entrato alla Camera nelle elezioni del 1921 grazie all’alleanza con i liberali di Giolitti nei cosiddetti “Blocchi nazionali”, il partito fascista faceva assegnamento sul voto dei liberali. Così, quando i sacerdoti officianti della democrazia borghese giunsero alla conta, il nuovo governo ottenne una maggioranza schiacciante: 306 voti a favore, 116 contrari e 7 astenuti. Lunghissima fu la lista dei liberali e dei popolari che appoggiarono il nuovo governo. Come non ricordare, fra i primi, i nomi altisonanti di ex presidenti del consiglio Giovanni Giolitti e Antonio Salandra, fra i secondi, il futuro presidente del consiglio e grande arbitro della politica italiana postfascista Alcide De Gasperi e un presidente della repubblica democratica come Giovanni Gronchi.

A questi personaggi assai in vista della politica prefascista che composero la fitta schiera dei sostenitori del governo di Mussolini, si aggiunse l’ex socialista riformista Ivanoe Bonomi, espulso dal PSI insieme a Leonida Bissolati e Angiolo Cabrini nel 1912 per essersi recato al Quirinale per congratularsi con Sua Maestà Vittorio Emanuele III per lo scampato pericolo in occasione dell’attentato del 14 marzo di quell’anno. Ironia dei percorsi individuali: a pronunciare la requisitoria a favore dell’espulsione dei tre dal PSI fu proprio quel Benito Mussolini, ancora rivoluzionario.

Votando il governo fascista i politicanti di orientamento liberale, popolare e socialriformista, scelsero di “congelare” la propria carriera per il bene del capitalismo e certi del loro resistenziale e democratico “scongelamento” futuro.

La classe dominante italiana decise di presto trasformare il fascismo da movimento violento extralegale a partito legale e istituzionale. Questo non significò la rinuncia immediata alla violenza contro i proletari, e anche contro alcuni esponenti liberali recalcitranti. Il nuovo governo, un mese dopo la sua nascita, a dicembre, coprì gli autori della strage di Torino in cui gli squadristi uccisero platealmente a scopo intimidatorio undici lavoratori fra comunisti, socialisti e anarchici, dopo averli prelevati dalle loro case.

Questa minima rievocazione degli eventi di un secolo fa ci permette di ribadire il nostro punto di vista sull’avvento della dittatura guidata da Mussolini. Non risponde al vero l’affermazione che il fascismo “conquistò il potere”: in realtà il fascismo al potere fu chiamato da tutto il regime democratico borghese, a porte spalancate.

Ma, a ben studiare la cosa, al fascismo non fu concesso “il potere”, bensì gli venne affidata la gestione della macchina statale, insieme alla regia della sua rappresentazione spettacolare. In seguito quella regia, in una sola notte, 20 anni dopo, gli venne tolta, peraltro in modo indolore. Dei “dieci milioni di baionette” della propaganda fascista nemmeno una si levò a difesa del Duce. Quel trapasso pacifico che del fascismo segna l’epilogo dimostra che non si trattò affatto di una violenta discontinuità, così come non lo era stata la formazione del suo governo. Si trattò in entrambi i casi di commedie in seno alla classe dominante.

Nel luglio del 1943, caduto e incarcerato Mussolini, le premesse della futura repubblica democratica borghese furono gettate da coloro che del regime fascista erano stati i gerarchi lautamente beneficiati. Alla guida dell’esecutivo che manovrò il rovesciamento di fronte bellico venne posto un militare inetto e fascistissimo come Pietro Badoglio, il quale vantava una sequela interminabile di crimini infami nelle guerre e nelle avventure coloniali dello Stato capitalista italiano.

L’armistizio dell’8 settembre fu una transizione cruciale nella storia della lurida borghesia italiana: il tradimento dell’Asse nel conflitto mondiale e la belligeranza al fianco del fronte “antifascista”, con effetti significativi e duraturi nella Repubblica democratica. Una storia fin dall’inizio tutta all’insegna della continuità dello Stato borghese.






In Russia e in Ucraina la guerra è contro la classe operaia

Fin dai primi giorni di guerra le borghesie ucraina e russa hanno recitato la commedia di aprire a negoziati e l’ipotesi “trattativa” emerge di tanto in tanto. Se non è da escludere che possano trovare un accordo fra di loro, e i pennivendoli al loro servizio ne hanno fornito le più svariate ricostruzioni, i marxisti sanno che qualunque pace borghese resta pur sempre una tregua temporanea, volta alla preparazione di una nuova guerra.

Non ci sarà mai una tregua nella guerra di classe contro il proletariato. Per cui, senza rinunciare alla valutazione dei mutevoli rapporti inter-imperialistici, ben più importante risulta indagare se nella tragedia che si sta consumando sul suolo ucraino sia possibile intravedere uno spiraglio di reazione della lotta proletaria contro la nemica classe borghese e la sua guerra.

Il massacro di proletari ucraini e russi prosegue cruento e massiccio. Le proporzioni del macello in corso sono state fornite dalla maldestra “numero uno” della Commissione europea, Ursula von der Leyen, che a fine novembre ha parlato di 100.000 soldati ucraini uccisi. I governanti a Kiev si sono infuriati, vogliono nascondere questa ecatombe alle popolazioni degli Stati coinvolti nel sostegno economico e militare a Kiev, e soprattutto alla popolazione ucraina che subisce il martirio, con molti che non hanno notizie dai congiunti al fronte, molti dei quali morti, ma di cui nulla si ammette per evitare i risarcimenti ai familiari.

Le terribili cifre stridono con l’immagine della propaganda di guerra pro-Ucraina, tesa a narrare l’avanzata vittoriosa dell’esercito e le enormi perdite dei russi, descritti sempre sul punto del collasso. Oltre la propaganda bellicista queste cifre confermano quanto nei mesi scorsi rivelato dai soldati ucraini, che più volte denunciavano di essere sacrificati come carne da cannone. Le voci di protesta nelle trincee ucraine, almeno in questa fase, sembra siano state messe a tacere, ma non certo sono venute meno le condizioni che le hanno prodotte. Questo silenzio è dovuto alla repressione attuata dagli apparati militari e dalle formazioni nazionaliste inquadrate nell’esercito.

Infatti, nonostante gli spostamenti dei fronti, il massacro continua. Nelle ultime settimane una nuova località si è guadagnata la fama di divoratrice di vite di giovani soldati: Bakhmut, nel Donbass. La stessa stampa americana ha riportato che in un giorno di fine novembre in un solo ospedale della zona erano transitati ben 240 soldati, tra morti e feriti. Così ha descritto Bakhmut il capo dei mercenari del gruppo Wagner che opera nella zona fra i russi: «Bakhmut è un’area grande, fortificata, con strade, sobborghi e barriere d’acqua. L’esercito ucraino offre una resistenza valida. Il nostro obiettivo non è Bakhmut in sé ma distruggere le forze ucraine e ridurre il loro potenziale, cosa che ha un effetto positivo sul resto del fronte. Per questo abbiamo ribattezzato l’operazione “il tritacarne di Bakhmut”». Nel dire una bugia, cioè che Bakhmut non sia un obiettivo (la verità è che nonostante i ripetuti attacchi ancora non sono stati in grado di prenderla), ha detto la verità su una guerra che è un grande “tritacarne”!

Che la guerra in corso sia prima di tutto contro il proletariato lo si evince anche dalle condizioni dei proletari ucraini nelle retrovie. Da ottobre l’esercito russo in ritirata, prima da Kharkiv poi dalla regione di Kherson, ha iniziato a colpire massicciamente le infrastrutture ucraine, in particolare la rete elettrica, provocando interruzioni di corrente, acqua e riscaldamento, colpendo duramente la popolazione. Lo stesso sindaco di Kiev ha parlato di apocalisse, che però non riguarda la ricca borghesia ma i proletari che dovranno affrontare il rigido inverno, al freddo, al buio e senz’acqua.

Iniziano a manifestarsi le prime proteste spontanee, per esempio nelle strade di Odessa.

Inoltre la borghesia ucraina approfitta della guerra per schiacciare il proletariato e imporgli condizioni di lavoro più dure di quanto era riuscita a fare in pace. Ha iniziato a smantellare quanto era rimasto della vecchia legislazione introducendo lo scorso agosto un decreto che autorizza le imprese fino a 250 dipendenti, circa il 70% dei lavoratori ucraini, a non applicare più il codice del lavoro, al quale il padrone può derogare nei contratti. Quindi via libera ad aumenti della giornata lavorativa, fino a 60 ore settimanali, libertà di licenziamento, riduzione delle ferie e dei giorni di riposo, ecc.

L’attacco dei capitalisti colpisce non solo per le conseguanze della loro guerra ma anche nell’immiserimento generale dei proletari ucraini: dati della Banca Mondiale indicano che la povertà è salita dal 2% prima del febbraio 2022 al 25% e continuerà a crescere nei prossimi mesi; la disoccupazione si è impennata; i salari di alcune categorie hanno già avuto una forte riduzione. Le privazioni che devono sopportare i proletari ucraini non si vedevano in Europa dalla fine della seconda guerra mondiale, per la mancanza di beni essenziali e per l’aumento vertiginoso dei prezzi.

Massacrati al fronte, congelati in casa e sottomessi al lavoro! Questa è la condizione dei proletari ucraini.

Anche i proletari russi sono schiacciati dalla nemica classe borghese. Le loro condizioni al fronte somigliano a quelle dei loro fratelli di classe ucraini, e si è assistito alle medesime manifestazioni di protesta nei confronti della guerra, con video messaggi in cui denunciano la condizione di carne da cannone. Ad esempio in un video-messaggio si lamentavano di essersi ritrovati «in un edificio senza elettricità, niente finestre, freddo, fame, niente rancio; non sappiamo cosa accadrà; siamo abbandonati, mandati ad essere fatti a pezzi dal nemico». Altre testimonianze video giungono anche dai centri reclutamento. Come sul lato ucraino, alle proteste i comandi russi non fanno mancare una violenta repressione.

Tra i soldati russi c’è una totale mancanza di fiducia nel futuro e cresce l’irritazione contro i comandi militari e il potere politico. Come in Ucraina si tratta di manifestazioni istintive, che mancano di indirizzo politico, ma che rappresentano un primo segnale di indisponibilità dei proletari a morire per la patria borghese.

Arrivano anche notizie di scioperi in Russia, ancora isolati e non inseriti in un vasto movimento operaio ma che dimostrano la disponibilità dei proletari a battersi nonostante il clima da “unione sacra” del paese in guerra. A Sakhalin hanno scioperato per il mancato pagamento dei salari 1.500 lavoratori di un importante giacimento di gas. A Mosca e in altre città hanno scioperato i corrieri delle consegne a domicilio contro le dure condizioni di lavoro e la bassa retribuzione; hanno anche dichiarato solidarietà con i prigionieri politici, che affermano essere più di mille in Russia, tra i quali i capi del loro sindacato. A San Pietroburgo i dipendenti della IKEA hanno scioperato contro la minaccia di licenziamenti.

Queste opposizioni alla guerra, in Ucraina e in Russia, sono episodi isolati e restano schiacciati dalla soverchiante forza degli Stati borghesi. Ma, nonostante tutti i potenti mezzi materiali e ideologici della classe dominante, impiegati per spingere i proletari ucraini e russi a massacrarsi a vicenda, non può essere del tutto annichilito il movimento proletario contro la guerra, che, anche se non ancora organizzato e illuminato dalla direzione del partito comunista, fa sentire la propria voce.







Alla politica xenofoba nazionalista militarista i lavoratori risponderanno con la lotta per i loro interessi uniti nel sindacalismo di classe

L’ignobile politica xenofoba contro gli immigrati è rivolta contro tutta la classe lavoratrice, ingannando e dividendo i lavoratori per sfruttarli ancora di più. Essa si fonda sul dilemma falso e fuorviante tenuto in piedi dalla destra e dalla sinistra, fintamente contrapposte ed entrambe borghesi: assecondare il senso di umanità verso chi è più debole o il preteso realismo teso a difendere una condizione economica sempre più fragile, chiudendosi nei confini nazionali?

In verità, le condizioni dei lavoratori sono in peggioramento da decenni, in Italia e nei paesi di vecchio capitalismo, in conseguenza della crisi di sovrapproduzione dell’economia capitalistica mondiale. Questo processo ora sta investendo anche i giovani rampanti capitalismi, come quello cinese.

La crisi di sovrapproduzione è irreversibile e destinata a condurre al crollo l’intera economia mondiale. Di fronte a questo processo storico ineluttabile, rinchiudersi nei confini nazionali equivale a nascondersi in una cabina dentro al Titanic che sta affondando!

Le borghesie di tutti i paesi ne sono pienamente consapevoli: agitano la questione degli immigrati per confondere i lavoratori e convincerli che sia questo il problema che li minaccia, e non il capitalismo in crisi mortale.

Inoltre, in questo modo rinfocolano il nazionalismo che è un’ideologia tanto retrograda e antistorica quanto necessaria a tutti i regimi capitalisti per spingere i lavoratori verso la nuova guerra imperialista mondiale, che matura sotto i nostri occhi ogni giorno, come mostra da ultimo il conflitto in Ucraina.

La guerra imperialista, infatti, con le sue immani distruzioni di merci – fra cui la merce forza-lavoro – è la soluzione del capitalismo alla crisi di sovrapproduzione, l’unica che permette un nuovo ciclo di accumulazione del capitale, come già fu per la seconda guerra mondiale.

Nessuna borghesia nazionale crede alle fandonie sugli immigrati e al nazionalismo. Anche quelle che si atteggiano a più nazionaliste, mai cessano di condurre i loro affari miliardari nel capitalismo mondiale, sfruttando i proletari di tutti i paesi senza alcuna distinzione. Dei 6.500 operai morti nei cantieri per il giro di affari gigantesco dei mondiali in Qatar – quasi tutti immigrati – nessuna borghesia se n’è mai curata!

Non si tratta, nei confronti dell’immigrazione, solo di una questione di senso di umanità: opporsi alla propaganda xenofoba e razzista su un piano meramente umanitario, come fanno la Chiesa e la sinistra borghese, è una strada fallimentare perché non riconosce che il vero obiettivo della classe dominante è dividere la classe lavoratrice.

La realtà è che in tutti i paesi i lavoratori immigrati sono una parte fondamentale della classe salariata. Anche in Italia senza i proletari immigrati l’economia capitalistica e la società non potrebbero funzionare: agricoltura, edilizia, meccanica, tessile, magazzini logistici, trasporto merci, servizi di cura alle persone nella sanità e nelle famiglie, servizi di pulizia domestici e industriali.

I lavoratori immigrati quanto sono indispensabili al capitalismo, tanto lo sono a tutta la classe lavoratrice per difendersi e liberarsi dal capitalismo!

Mentre il governo alimenta l’ignobile campagna xenofoba, si appresta a colpire tutti i lavoratori: dismissione del reddito di cittadinanza, innalzamento dell’età pensionabile, taglio alle spese nella sanità, aumento delle spese militari e intervento – attraverso di esse – nel conflitto imperialista in Ucraina.

L’interesse dei lavoratori è rispondere alla politica borghese volta a distrarli, dividerli e sfruttarli lottando uniti per i propri interessi! A fronte dell’inflazione al 12% – maggiore per i prodotti alimentari ed energetici che incidono di più sui consumi della famiglie proletarie – bisogna lottare per forti aumenti salariali, delle pensioni, per un salario pieno ai lavoratori disoccupati, per la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario.

I sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil, Ugl) – legati mani e piedi al regime capitalista – si rifiutano di organizzare una lotta generale della classe salariata per questi vitali obiettivi. Sono i sindacati di base (USB, SI COBAS, CUB, Confederazione Cobas, SGB) che invece – sull’esempio di quanto già accade in Francia e nel Regno Unito – hanno promosso unitariamente uno sciopero generale per venerdì 2 dicembre e una manifestazione nazionale a Roma sabato 3: due giornate che tutti i lavoratori combattivi e i militanti del sindacalismo di classe devono sostenere per la loro migliore riuscita!

Per l’unità d’azione del sindacalismo conflittuale contro padroni, governo e sindacati di regime !

Per l’unità di lotta dei lavoratori per forti aumenti salariali !

Per l’unità dei lavoratori di tutti i paesi contro guerra, nazionalismo e xenofobia, contro il capitalismo !







La polveriera cinese

Nel mondo occidentale sono state accolte con entusiasmo le recenti proteste in Cina contro la politica anti-pandemica del governo fino a paragonarle ai fatti di Tienanmen del 1989, gonfiandone la reale portata. La Cina è una potenza capitalista che aspira a una nuova spartizione del mondo, e i rivali imperialisti, capeggiati dagli Stati Uniti, cercano di avvantaggiarsi di ogni sua difficoltà, dalle proteste ad Hong Kong, alla questione dell’oppressione nazionale degli Uiguri, a quella di Taiwan, che Pechino considera affari interni. Non a caso gli apparati di sicurezza cinesi sostengono che le proteste sono influenzate da forze straniere, una “rivoluzione colorata”, come quella ad Hong Kong, per insidiare il PCC al potere.

Fin dalla nascita della Repubblica Popolare, nel 1949, il nostro Partito ha prestato grande attenzione alle notizie dei movimenti sociali che hanno scosso l’immenso e popoloso paese, cercando di inquadrarli secondo la corretta dottrina marxista, nemica tanto dei falsificatori orientali quanto dei negatori occidentali.


Le proteste contro le norme Zero-Covid

Al recente congresso del PCC, dal 16 al 22 ottobre, il rapporto di Xi Jinping, passando in rassegna i risultati degli ultimi cinque anni, successivi al congresso del 2017, ha dedicato solo poche parole alla politica di contrasto alla pandemia per rivendicare che la “dinamica Zero-Covid” avrebbe permesso di salvare vite e prevenire la diffusione del contagio: “una guerra popolare a tutto campo per fermare la diffusione del virus”.

La politica Zero-Covid imposta dal governo, basata principalmente su test di massa, quarantene e isolamento, avrebbe dato migliori risultati nella lotta contro la diffusione del virus rispetto ad altri paesi, soprattutto i capitalismi d’occidente, ma nello stesso tempo ha colpito duramente l’economia cinese, tanto che per la prima volta dagli anni Novanta la crescita sarà inferiore a quella media asiatica. Il preoccupante andamento dell’economia nazionale spinge il governo a cambiare rotta. Ma un allentamento delle misure ha provocato una impennata dei contagi, particolarmente minacciosa in un paese con enormi concentrazioni della popolazione.

In tutto il mondo l’imperativo di non fermare l’infernale macchina della produzione capitalistica e l’esigenza di evitare una incontrollata diffusione del virus, che travolgerebbe i sistemi sanitari nazionali e provocherebbe un elevato numero di morti, hanno determinato le contraddittorie politiche dei governi. Anche in Cina dopo il XX Congresso del PCC sono emersi segnali di inversione nella politica di contenimento del Covid, mentre, da inizio novembre, sulla stampa del PCC i suoi sintomi erano descritti lievi e di breve durata. Si iniziava così a preparare la popolazione ad un alleggerimento delle norme Zero-Covid.

Ma l’allentamento delle misure di isolamento ha presto visto un aumento dei contagi; di conseguenza le autorità locali sono tornate ad imporre i cordoni sanitari ad una popolazione ormai stanca dopo quasi tre anni di queste dure costrizioni. Nel giro di pochi giorni nelle strade di diverse città sono andate in scena proteste contro le nuove imposizioni.

Il 5 novembre era stato introdotto l’isolamento in alcune zone di Guangzhou (Canton), come nel quartiere Haizhu, con 1,8 milioni di abitanti, soprattutto lavoratori emigrati; il 14 nel quartiere si hanno proteste di strada con i manifestanti che distruggono le barriere di isolamento. Il 22 protestano gli operai della Foxconn a Zhengzhou. Il 24 a Urumqi, nello Xinjiang, un incendio in un palazzo causa la morte di una decina di abitanti, provocando forte indignazione nella popolazione e, dal 26, manifestazioni poiché i blocchi di contenimento avrebbero ostacolato i soccorsi.

Dopo questi episodi le proteste si sono diffuse in tutta la Cina, coinvolgendo le principali metropoli: Pechino, Shanghai, Chengdu, Chongqing, Wuhan, Nanchino.

Il governo ha risposto con alcune concessioni. A livello locale sono stati aboliti degli isolamenti “non necessari”, introdotta la possibilità della quarantena domiciliare, una minore frequenza nei tamponi e altro. Nello stesso tempo sono stati intensificati gli arresti e lo schieramento delle forze dell’ordine contro gli assembramenti.

Le proteste sembrano rientrate, ma la situazione resta instabile. È da aspettare una contraddittoria gestione di questa fase di contenimento del virus, con il governo, incapace di conciliare le necessità economiche del capitale, che spingono alla eliminazione delle misure restrittive, e il rischio di generare una situazione sanitaria incontrollabile: nel giro di poche settimane decine di milioni di contagi, gli ospedali presi d’assalto, centinaia di migliaia di morti. Ciò che preoccupa i capitalisti non sono questi morti ma il possibile estendersi e generalizzarsi della rivolta della classe operaia.


Rivolta operaia alla Foxconn

Le proteste in Cina sono provocate sicuramente da un forte sentimento contro il governo, ma prevalentemente contro la politica anti-pandemia e per chiedere maggiore libertà individuale di spostamento, senza alcuna connotazione di classe, come d’altronde si è verificato in altri paesi dove il malcontento e il malessere sociale si sono espressi in un variegato movimento contro le linee sanitarie dei governi.

Ma nemmeno i capitalisti possono tollerare blocchi alla produzione e alla circolazione delle merci, e costringono milioni di proletari in tutto il mondo a lavorare senza le benché minime protezioni dal contagio.

È invece da attendersi il riemergere della lotta di classe del proletariato di Cina, di cui le recenti proteste alla Foxconn rappresentano un episodio significativo.

La Foxconn di Zhengzhou è un gigantesco stabilimento dove lavorano circa 200.000 operai, spesso denominata “Iphone City” per le dimensioni e per il fatto che la Apple vi fa montare circa il 70% dei suoi telefoni. Lo stabilimento è un inferno per i lavoratori, ulteriormente aggravatosi per i pericoli connessi alla diffusione del Covid. L’imperativo di non fermare la produzione ha prevalso anche di fronte al contagio. Il dispotismo padronale si è ulteriormente intensificato obbligando gli operai a non uscire dalla fabbrica nemmeno dopo il lavoro.

Nonostante ciò il virus si è diffuso tra gli operai.

Di fronte a queste condizioni, verso la fine di ottobre, c’è stata una fuga in massa di operai dalla fabbrica. Questa ha determinato una grave carenza di manodopera, mettendo a rischio la produzione proprio all’avvicinarsi dell’isteria consumistica del Black Friday e del Natale. Per mantenere i livelli di produzione, all’inizio di novembre la Foxconn ha promesso gratifiche per i lavoratori e ha avviato una campagna di reclutamento di nuovo personale.

La situazione è però precipitata perché, oltre alla diffusione dei contagi tra gli operai, l’erogazione di queste gratifiche è stata dilazionata di 30 giorni e tolta in caso di contagio. Inoltre i nuovi assunti erano fatti lavorare vicino ai vecchi, con pericolo di infezione.

Salari da fame, reclusione in fabbrica, vitto scarso e scadente, precarie condizioni igieniche, pericolo di contagio, mancato rispetto dei termini del pagamento dei premi, tutto questo ha fatto esplodere la rabbia operaia. Tra il 22 e il 23 novembre si sono scatenate le proteste. Prima fronteggiate dalle guardie della fabbrica, dopo, sopraffatte queste dall’assalto degli operai, a reprimere la rivolta è intervenuta in forze la polizia, anche da località vicine. Il 24 novembre la Foxconn rilasciava una dichiarazione che il ritardo nel pagamento era dovuto a un “errore tecnico”, lo stesso giorno offriva 10.000 yuan a chi fra i lavoratori appena assunti si dimetteva.

Per quanto la borghesia cinese provi a coprire il bestiale sfruttamento capitalistico con la bandiera rossa e il richiamo al socialismo, nella cosiddetta “fabbrica del mondo” che è la Cina vige la disciplina del capitale che impone la continuazione della produzione di merci a discapito della salute degli operai e per salari da fame. Gli inconciliabili interessi tra la borghesia e il proletariato determinano la collisione tra le classi, e la Cina, in cui il capitalismo è pienamente sviluppato, non può essere da meno. Dal paese che i falsi comunisti cinesi definiscono basato sul “socialismo con caratteristiche cinesi” non ci aspettiamo nessuna particolarità nazionale che renda il percorso del proletariato diverso da quello dei suoi fratelli di classe in altre parti del mondo. Ovunque ci attende la guerra di classe contro il dominio del capitale, per la dittatura del proletariato.








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Sulle basi economiche del conflitto in Ucraina

C’è, in tanti resoconti e studi dei pennivendoli delle borghesie occidentali, il timore che la pur auspicata vittoria della Ucraina sull’invasore possa preludere al collasso dell’Impero Russo, con la sua disgregazione in tante piccole unità statali prive di un controllo forte, come quello che gli Stati Uniti d’America esercitano tracotanti sul resto del mondo, in specie sugli Stati Europei. Collasso che, in questa temperie di guerra e crisi ricorrente del capitalismo mondiale, potrebbe indurre una situazione di caos sociale, con esiti imprevedibili. Gioia per la “vittoria”, ma nel contempo timore per le conseguenze. Fra l’altro l’immane arsenale atomico in mano allo Stato russo potrebbe disperdersi, in quella ipotesi, tra vari attori, con i terribili rischi del caso.

Ma siamo convinti che si temano anche i sussulti sociali che da tale smembramento possono derivare; e il potenziale contagio sulle popolazioni occidentali, fiaccate a loro volta dagli effetti della crisi del capitalismo, dal macello delle classi medie, dalla disoccupazione generalizzata.

Quindi, almeno per ora, da parte americana e dei reggicoda europei, la guerra non può essere estesa oltre un certo limite.

Di questa guerra se ne può dare una spiegazione su tre livelli, tutti validi e interconnessi.

Può essere letta come aggressione di uno Stato ad un altro, per motivi diversi e diversamente giustificati.

Uno è la difesa di una presunta componente nazionale che langue sotto il tallone dello Stato ucraino, che ha portato a una guerra mai apertamente denunciata, ma non più strisciante, combattuta da anni dalla componente russofona dell’est contro lo Stato centrale. Considerazione che è rovesciata attribuendo alla Russia il suo innesco e sviluppo, configurata come guerra civile, ma che è arrivata all’annessione della parte più sviluppata e ricca di materie prime.

Con altrettanta ragionevolezza storica si può considerare uno scontro inter-imperialistico tra NATO e Russia per interposta persona, col mandare al massacro i proletari ucraini in luogo dei cittadini degli Stati occidentali.

Infine come la rottura tra la Russia, con il suo straordinario patrimonio di materie prime, e la Germania, che avrebbe portato in dote a questo matrimonio il suo grande potenziale industriale. Con l’aggravante che la Germania è, o era, la capofila dell’Europa unita, quindi un potenziale competitore imperialista degli Usa, con Russia, e Cina.

Questi ultimi due motivi sono il punto cruciale del percorso dello scontro imperialistico che si presenta all’orizzonte di questo millennio.

Studi, previsioni ed indicazioni politico-militari di parte americana presentano senza vincoli di riservatezza indicazioni chiare su come il primo imperialismo del mondo si prepari allo scontro prossimo venturo e raccolga a questo scopo gli alleati.

La guerra ai confini europei ha una cifra globale ben più alta delle tante altre in atto nel mondo, anche più sanguinose di questa. È un evento cruciale nel processo della crisi mondiale. I suoi effetti sul capitalismo, in termini di produzione, commerci, consumi e dinamiche finanziare segnano un percorso irreversibile.

Dalla grande crisi del 2008, che le borghesie hanno saputo controllare e smorzare, a quella attuale aggravata da tre anni di pandemia, sono succedute fasi di ripresa e successiva ricaduta, sempre ad intervalli più ridotti, che si sono riflessi in una propensione bellica, quasi in preparazione dell’evento ultimo negli anni a venire. Dal 2014 la guerra si stava preparando in Europa, per dar sfogo alle tensioni imperialistiche che camminavano di pari passo con le crisi ricorrenti.

Parlare di “ragionevolezza”, di trovare accordi pacificatori tra i predoni imperiali, figurarsi che già dal 2008 la guerra avrebbe potuto essere evitata con i giusti trattati, come ad esempio quelli stilati a Minsk, significa non avere idea della forza mostruosa dei contrasti tra i capitalismi, che supera ogni volontà di uomo.

Solo il proletariato internazionale, con il suo partito, avrebbe potuto, e in futuro certamente ne avrà la forza, opporsi a questa follia della fase finale del capitalismo.

Alle condizioni presenti, parlare di “vittoria” per l’una o per l’altra parte è un puro non senso, uno slogan per confondere e ingannare il proletariato.

I dati economici e finanziari danno un’idea della strada che Russia ed Ucraina hanno percorso per giungere a questo punto, ed indicano lo sviluppo della situazione.

In Russia, con una popolazione di 143 milioni, in lento calo costante dagli anni ‘90, tra il 2019 e il 2020 il tasso di crescita del PIL ha avuto una brusca caduta, essenzialmente per gli effetti della pandemia, mentre nello stesso intervallo di tempo l’inflazione ha provocato un notevole aumento dei prezzi al consumo e un aumento del tasso di disoccupazione.

Gli anni dal ’21 al ’22 hanno visto un’apparente inversione, dove però l’inflazione ha mascherato la reale dinamica del PIL. Nel 2022 il PIL ha raggiunto il suo massimo con 1.930 miliardi di dollari: non certo un valore da grande potenza.

Per raffronto, il PIL della Germania nel 2021, espresso in dollari, quota circa 4.000 miliardi, gli USA sono al vertice con 18.000 e la Cina segue con 11.000. Questi numeri descrivono la dimensione economica della Russia rispetto agli altri predoni capitalistici.

Considerando che il PIL della UE nel 2021 ammontava complessivamente a 14.500 miliardi di dollari, si vede chiaramente come il potenziale legame Russia-EU, tramite il pivot Germania, era un pericolo da evitare assolutamente per gli USA.

In Russia il debito pubblico in percentuale sul PIL ha continuato a crescere: dal 2018 al 2022 è passato dal 10,3% al 19,9%; ma questo in perfetta linea con tutti gli altri Stati a capitalismo maturo.

Però malgrado la sua crescita, è sempre stato contenuto e, negli ultimi 20 anni, non ha mai superato il 40% del PIL. Inoltre il totale del debito sovrano russo si dovrebbe attestare, secondo le stime del FMI, sui 300 miliardi di dollari, con un costante surplus nel bilancio statale.

Altro dato positivo è la crescita dell’export totale, che dal 2018 è passato da oltre 380 miliardi di dollari a 467 nel 2022, mentre il volume di import totale ha avuto il suo massimo nel 2021 con 248 miliardi per poi crollare a 157 nel 2022, chiaro effetto delle sanzioni.

Al netto di queste rassicuranti considerazioni, va però considerato che le quote complessive di mercato sull’export mondiale, in percentuale, hanno sempre oscillato intorno al 2-2,5%, valori medio bassi, ove oltretutto si consideri che gran parte di quei volumi è prodotta dall’export di componenti energetiche.

Il saldo di conto corrente, di modesta entità ma sempre positivo, dà la chiara indicazione dello scarsissimo peso della Russia in termini di esportazione di capitali; è il suo un imperialismo “vecchio stile”, più legato ai territori che non al “moderno” imperialismo, che si basa principalmente sull’esportazione di capitale e “debito”.

Ma, almeno prima del deflagrare della cosiddetta “Operazione Speciale”, la Russia era considerata affidabile e il suo debito statale ben accettato dal mercato finanziario. In effetti il totale del debito russo è relativamente modesto. Al primo semestre del 2021 ammontava a meno di 500 miliardi di dollari, di cui circa 360 in valuta estera, di questo la maggior parte era stato acquistato dagli Stati Uniti.

La criticità è appunto che il debito privato e statale è denominato in divisa estera.

Sugli stessi livelli il saldo della bilancia commerciale che è cresciuto dai 165 miliardi di euro del 2018 ai 305 del 2022, con la flessione grave del biennio 2019-20, periodo di pandemia. Il dato interessante è che si è sempre mantenuto positivo: cioè la Russia è essenzialmente, rispetto al commercio, un paese esportatore. E, almeno prima dell’invasione e della sequenza di sanzioni, anche di buona affidabilità. Una situazione finanziaria che ha consentito in aprile, quando sono andati in scadenza gli interessi sul debito detenuto all’estero, di non far scattare il default apparecchiato dall’Occidente.

La prima reazione alle sanzioni sull’esportazione energetica è stata la richiesta di pagare il gas in rubli, una decisione che avrebbe obbligato gli importatori occidentali a vendere dollari, o euro, contro rubli, con l’effetto di sostenere il corso del rublo, che si era in effetti apprezzato dopo l’annuncio. Poi la progressiva stretta sulle importazioni dirette ha ridotto questo effetto.

Anche se i paesi europei hanno ridotto fortemente la dipendenza dal gas russo via gasdotto, hanno per ora aumentato quella da GNL, che quota il 16% delle importazioni europee via mare, pagate in euro per circa 20 miliardi. Inoltre la UE importa ancora dalla Russia il 45% del gasolio. Almeno fino al prossimo “pacchetto” di sanzioni occidentali.

Questa, in termini stringatissimi, la posizione economica dell’invasore.

Poi si sono aggiunte le sanzioni, che un Occidente a guida USA ha imposto come arma di guerra alla Russia, e alle quali si sono piegati gli Stati che gravitano attorno. Sanzioni che però ancora non hanno dato i risultati sperati; il PIL non è crollato come i sanzionatori si aspettavano, benché si sia contratto. Però molti settori industriali hanno notevoli difficoltà a produrre senza la componentistica occidentale. Ma questo è un problema che la Russia avrà certamente nei prossimi mesi, se la guerra continuerà a consumare risorse come sta facendo.

Sanzioni talmente dure che, almeno in questa prima fase, hanno provocato più problemi ai sanzionatori di quanti non ne abbiano causato al sanzionato. Mentre l’imperialismo che le ha comminate ne ha tratto solo benefici: attualmente il 42% del gas per l’Europa proviene da forniture di GNL statunitense a costi 4 volte superiori di quello che veniva esportato con le condutture dalla Russia, con guadagni tanto notevoli che da parte di qualche governo europeo si è sentito il bisogno di protestare, con le dovute maniere, verso questo modo di punire l’aggressione che avvantaggia un sanzionatore a danno degli altri, prima ancora che il sanzionato.

Ma gli effetti di questa pratica potranno essere visti con precisione, tanto per la Russia quanto per l’Europa, con i dati dell’anno prossimo. Per ora la Russia è riuscita a compensare i danni finanziari sia col rialzo dei prezzi energetici sia con l‘apertura di altri mercati. E non sono mancati i modi di eludere i blocchi. E con una posizione finanziariamente buona.

Un dato significativo della gravità e profondità dello scontro in atto è invece il blocco dei beni mobili, fondiari e finanziari di proprietà della Russia e dei capitalisti russi collocati fuori dal territorio nazionale. Per quanto attiene i valori finanziari, si tratta di 300 miliardi di dollari congelati per ordine degli Stati Uniti, come avevano già fatto per Afghanistan, Iran, Siria, Venezuela. Oltre al blocco di beni personali per 20 miliardi. Il meccanismo di strangolamento finanziario si è poi completato con il blocco del canale SWIFT per i pagamenti internazionali, gestito totalmente dagli USA.

Ben più drammatici i valori economici e finanziari per l’Ucraina.

Secondo stime occidentali, l’Ucraina ha bisogno di 5-6 miliardi di dollari al mese per sostenere la guerra.

L’Ucraina aveva ereditato, in peggio, la stessa forma corrotta dell’economia russa. Un paese povero, malgrado le ingenti risorse naturali, con una struttura produttiva arretrata e una disoccupazione endemica che genera una forte emigrazione.

I dati economico finanziari vedevano una situazione abbastanza critica. Il debito estero ammonta a quasi 60 miliardi di dollari, circa la metà del PIL.

Su questa situazione si è abbattuto il colpo dell’invasione russa.

Il valore più alto del PIL è stato raggiunto nel 2021, alla vigilia dell’invasione, con 182 miliardi di euro, decisamente basso per un’economia capitalistica sviluppata. C’era stata una lieve recessione, da 135 a 132 miliardi nel biennio 2019-20.

L’inflazione al consumo è stata sempre presente, con punte più o meno alte, dal 14% del 2017 al 10% del 2021, il periodo forse migliore per l’Ucraina – pure durante una guerra civile che l’Occidente faceva finta di non vedere, anche se già operava attivamente per sostenerla – fino all’impennata del 2022, con aumenti del 30%.

Parimenti la disoccupazione, che si era mantenuta su un livello del 9-10%, dopo l’invasione ha raggiunto il 20%, oltretutto nel regime di mobilitazione generale che è in atto nel paese.

Il saldo della bilancia commerciale ha avuto sempre, dal 2017 ad oggi, valori negativi, con un massimo negativo nel 2019 del 12,5%; oggi è del 5,5%, ma è poco significativo per gli scarsi volumi in gioco.

Il debito pubblico quota quest’anno il 90% del PIL. Praticamente un fallimento. Certe percentuali se le possono permettere i grandi Stati imperialisti, non la derelitta Ucraina: Stati Uniti, anno 2021, debito pubblico/PIL 127%, ma tracotante disinteresse verso i traumi che questo provoca sulle economie nel resto del mondo; i problemi del dollaro sono i problemi degli altri, non degli USA.

In questa situazione ha poco senso parlare di prospettive e previsioni. Il volume degli aiuti, in termini di armamenti e sostegni finanziari, che consentono di prolungare la guerra, rendono inaffidabile qualunque proiezione.

Ma, come ha scritto “Il Sole 24 Ore”, le cose non vanno poi tanto male per l’Ucraina. La sua moneta, la grivna, non è diventata carta straccia, l’inflazione è al livello dei paesi baltici, che non sono in guerra – ma tutta l’Europa, in senso lato, è in guerra – le riserve valutarie tengono e il PIL non è collassato.

L’Ucraina ha ricevuto alla data di ottobre, ma altri versamenti sono in attesa di essere approvati dai governi occidentali, ben 23 miliardi di dollari, il 12% del suo PIL prebellico, oltre alle forniture di armi, e nel 2023 gli Stati Uniti si sono impegnati a versare mensilmente 1,5 miliardi. È evidente che non si possono ben valutare i dati in condizioni simili, artificialmente tenute in piedi.

Quanto poi sia possibile stimare una tenuta della componente industriale con il bombardamento delle infrastrutture elettriche non è dato sapere. Continua ad essere aperto il “corridoio del grano”, che ne permette l’esportazione, grazie ad accordi mediati con la Turchia. Questo fornisce per ora, almeno finché questo accordo regge, una buona sponda all’Ucraina.

La carità pelosa della finanza occidentale ha accettato il congelamento degli interessi sul suo debito con i paesi europei fino alla fine del 2023, per un importo di 3 miliardi di dollari, mentre con i fondi d’investimento americani, verso i quali Kiev deve il 75% del suo debito, la cifra è decisamente più alta, poco meno di 20 miliardi.

Cifre in sé non stratosferiche, ma quando sommate ai debiti per il mantenimento delle spese correnti, alle forniture continue e massicce di armi ed infrastrutture belliche, addestramento delle truppe, ricambi e così via, il carico fiscale diventa enorme.

Già nel 2015, durante il conflitto domestico nelle aree russofone, il ministro delle finanze era riuscito a posticipare il pagamento di 19 miliardi di dollari previsti negli anni 2015-22 al 2019-27. Anche questi sarebbero ora da pagare, in aggiunta a tutto il resto.

L’Ucraina è già fallita come Stato borghese, ed è in mano totalmente alla finanza occidentale, americana in particolare, che ne può disporre a piacimento. Per ora tutti gli aiuti si configurano come un Piano Marshall anticipato. Ciò che discrimina l’adesso dall’allora è la tragica differenza di fase storica: nel 1947 la ricostruzione dell’Europa distrutta dalla guerra fu un investimento americano in un ciclo impetuoso di ripresa capitalistica, oggi è una crisi generalizzata che più o meno velocemente si sviluppa verso un esito esiziale per il capitalismo.

Alla luce di questi sommari dati economici circa le condizioni dei due belligeranti diretti (quelli indiretti qui non li abbiamo considerati, anche se entrano in modo fondamentale in questa dinamica) è chiaro che per l’Ucraina il disastro è apparecchiato. Questo anche nel caso prevalga militarmente in qualche settore, che riesca a “liberare” i territori invasi e magari la Crimea.

Anche lo Stato russo si svena nell’approntare e nel mantenere la guerra.

Ma per i due Stati, dei quali uno finirà nelle braccia dell’Occidente americano, l’esistenza sarà comunque garantita.

Al contrario i veri sacrificati dalla guerra sono e saranno i proletari, fratelli di classe costretti su fronti contrapposti, su cui peserà, dopo l’improbabile pace, tutto il peso del dopoguerra. Per loro il mondo della pace borghese porta solo altre sofferenze e lutti, dopo quelli della guerra guerreggiata.







Per il sindacato di classe Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale

Roma, sabato 3 dicembre
Lo sciopero generale e la manifestazione nazionale del sindacalismo di base

Lo sciopero generale di venerdì 2 dicembre e la manifestazione nazionale a Roma del giorno dopo hanno mostrato in modo chiaro i limiti del corso unitario intrapreso da un anno e mezzo dalle dirigenze del sindacalismo di base, come esse – a causa del loro opportunismo politico – siano incapaci di seguire fino in fondo la direttiva, sempre più urgente e necessaria, dell’unità d’azione del sindacalismo conflittuale, e come di conseguenza tale corso unitario sia traballante, costantemente in pericolo, sempre revocabile.

Sabato 15 ottobre, nell’assemblea nazionale convocata a Milano da tutti i sindacati di base per promuovere lo sciopero, un nostro compagno, intervenuto a nome del Coordinamento Lavoratori Autoconvocati (CLA), aveva salutato con favore il nuovo sciopero generale unitario, che seguiva quelli del 18 ottobre 2021 e del 20 maggio 2022, e aveva fatto due proposte:

- che nel giorno dello sciopero si svolgessero manifestazioni regionali o interregionali, sia per concentrare le forze, sia per consentire una più facile partecipazione dei lavoratori in sciopero alle manifestazioni, meglio di quanto poteva accadere con una manifestazione nazionale;

- che la preparazione dello sciopero fosse unitaria, al pari della sua proclamazione, e che a tal scopo l’assemblea desse mandato di costituire in ogni città dei “comitati territoriali unitari di sciopero” – aperti a tutti i lavoratori e agli organismi sindacali che sostenevano lo sciopero – che si facessero carico di prepararlo con assemblee territoriali, affissioni, volantinaggi; ciò doveva servire anche ad allargare l’unità d’azione del sindacalismo conflittuale oltre il perimetro del sindacalismo di base, coinvolgendo i gruppi operai combattivi ancora inquadrati nei sindacati di regime e le aree sindacali di classe in Cgil.

Quasi tutti gli interventi successivi, fra cui quelli dei vari dirigenti nazionali, avevano respinto, esplicitamente o implicitamente, le due proposte. Non li preoccupa il problema, evidentemente cruciale in uno sciopero, di farvi aderire le più larghe masse salariate possibile, e in tal senso era stata ignorata la proposta di formazione di comitati territoriali unitari di sciopero. Lo sciopero sarebbe stato preparato “ciascun sindacato per sé”.

Nemmeno era stato preso in considerazione il problema del coinvolgimento dei lavoratori combattivi nei sindacati di regime e delle aree sindacali di classe in Cgil. Invece più rilievo era stato dato alla ricerca della partecipazione alla manifestazione – che sarebbe stata nazionale – dei movimenti cosiddetti sociali, interclassisti. L’obiettivo centrale era la riuscita, in termini numerici, della manifestazione nazionale, per ottenere “visibilità”.

Oltre a ciò, tutti i sindacati di base tranne il SI Cobas – quindi Usb, Cub, Confederazione Cobas, Sgb e altri minori – stabilivano di organizzare una manifestazione nazionale a Roma il giorno stesso dello sciopero, venerdì 2 dicembre. Il SI Cobas, invece, avrebbe organizzato una manifestazione nazionale, sempre a Roma, ma il giorno dopo.

L’assemblea, per promuovere lo sciopero generale, aveva poi dato indicazione di partecipare a due manifestazioni nazionali già programmate, il 22 ottobre a Bologna e il 5 novembre a Napoli.

Una settimana dopo, alla manifestazione di sabato 22 ottobre a Bologna, il partito è intervenuto distribuendo un volantino titolato “Per un fronte unico sindacale di classe! Per far convergere e unire le lotte della classe lavoratrice! Per un movimento generale per forti aumenti salariali contro il carovita! Primo passo, oggi, per opporsi domani alla guerra imperialista!”. Il corteo, di circa diecimila persone, con molti giovani, ha avuto un carattere interclassista e studentesco. SI Cobas, Confederazione Cobas e Sgb giustamente vi hanno partecipato con uno spezzone unitario, ben definito e delimitato, che invitava a sostenere lo sciopero generale del 2 dicembre.

Il Collettivo di fabbrica ex-Gkn, che aveva aderito alla manifestazione bolognese indetta da un comitato locale contro una grande opera cittadina, ha sfilato coi movimenti sociali, non con i sindacati di base, confermando in tal modo – ancora una volta – che il motto da esso lanciato di “unire e convergere” ha al centro, per i suoi capi, l’obiettivo di costruire un movimento interclassista, mentre quello di unire le lotte operaie per ridare forza al movimento operaio è messo in secondo piano ed è elusa la necessaria e coerente battaglia a questo scopo in seno alle organizzazioni sindacali.

Nelle settimane successive le dirigenze dei sindacati di base hanno cambiato parzialmente idea rispetto a quanto deciso nell’assemblea del 15 ottobre a Milano: da un lato hanno deciso di convergere sulla manifestazione nazionale indetta dal SI Cobas per il 3 dicembre, dall’altro di organizzare il giorno dello sciopero, il 2, manifestazioni locali. Questo cambio di direttiva era positivo, in quanto si eliminava la scellerata indizione di due manifestazioni nazionali separate in giorni diversi, convergendo in una unica, e perché si dava mandato di organizzare manifestazioni locali. Tuttavia, da un lato questi tentennamenti e cambi di indicazioni incidevano negativamente sulla già non facile preparazione dello sciopero, dall’altro la doppia giornata di mobilitazioni, locali e nazionale, ha finito per depotenziare un poco le une e l’altra.

Sabato 5 novembre i nostri compagni sono intervenuti in una manifestazione nazionale pacifista a Roma, a cui aveva dato adesione la Cgil, distribuendovi un volantino titolato “Solo i lavoratori, con la loro mobilitazione, possono fermare la guerra! Per un fronte unico sindacale di classe contro la guerra in difesa delle condizioni di vita e di lavoro!”.

In esso si chiamavano tutti i lavoratori allo sciopero generale indetto dal sindacalismo di base per il 2 dicembre e si invitavano i militanti sindacali delle aree di opposizione in Cgil a battersi per la più larga adesione a quello sciopero degli iscritti Cgil, nel segno dell’unità d’azione del sindacalismo conflittuale e dei lavoratori. Il partito, quindi, nei limiti delle sue forze, compiva verso i lavoratori combattivi in Cgil quell’azione che le dirigenze dei sindacati di base si rifiutano di compiere.

Sempre a questo scopo, pochi giorni dopo la formazione del nuovo governo e pochi giorni prima dello sciopero del 2 dicembre, un altro volantino è stato distribuito dai nostri compagni, intitolato: “Alla politica xenofoba, nazionalista e militarista i lavoratori devono rispondere lottando per i loro interessi, uniti e organizzati nel sindacalismo di classe” (In prima pagna).

Le manifestazioni locali nel giorno dello sciopero hanno avuto in genere un esito peggiore rispetto all’anno scorso, fatta eccezione per quella di Firenze.

Il SI Cobas – che ha svolto il maggior numero di assemblee preparatorie sui posti di lavoro – ha organizzato i picchetti dinanzi ai magazzini logistici e in altre aziende per impedire il crumiraggio, facendo in tal modo riuscire lo sciopero nella logistica, e non ha partecipato ai cortei cittadini, se non con delegazioni, ad eccezione di Viterbo dove si è unito al corteo unitario. A Roma invece i sindacati di base si sono divisi in diversi presidi sotto vari ministeri, senza organizzare un corteo unitario.

Lo sciopero è riuscito, come detto, nella logistica e parzialmente nei trasporti, dove hanno giocato a favore vertenze locali e di categoria già in essere: bene fra i ferrovieri nelle regioni del Nord, gradualmente meno scendendo nel centro Italia e nel meridione; riuscito a macchia di leopardo fra i tranvieri. Nel resto della classe lavoratrice è stato, come nei tentativi degli anni passati, largamente minoritario.

Nel complesso, ancora una volta i sindacati di base non sono riusciti a rompere la cappa della passività della classe lavoratrice – frutto di decenni di sconfitte orchestrate dal sindacalismo di regime e della loro quotidiana azione nei posti di lavoro – presentandosi come uno strumento credibile con cui agire collettivamente per manifestare e combattere i problemi che i lavoratori lamentano.

Determinano questa situazione, da un lato il malessere frutto delle condizioni di vita in peggioramento che non è ancora tale dallo scatenare lotte che spontaneamente rompano tale cappa, se non in modo sporadico; dall’altro le carenze e gli errori dei sindacati di base. Tuttavia, una buona base di lavoratori organizzati dal sindacalismo conflittuale esiste.

L’ha mostrato la manifestazione nazionale romana il giorno successivo. Si è trattato di un corteo dal netto carattere proletario, costituito al 90% da lavoratori, per un totale di almeno 8 mila persone (6 mila secondo la questura), che ha seguito il classico percorso dei cortei sindacali della Cgil, approdando nella grande Piazza San Giovanni, solitamente usata dal maggiore sindacato di regime per i suoi salmi finali, che però nella sua ultima manifestazione dell’8 ottobre ha invece scelto la più piccola Piazza del Popolo.

I nostri compagni vi sono intervenuti in buon numero per diffondere la stampa del partito e il volantino che invocava il “Fronte unico sindacale di classe”.

Fra i sindacati di base la parte largamente maggioritaria del corteo era quella dei due grandi spezzoni del SI Cobas, davanti, e dell’Usb, dietro. Fra i due quello più piccolo del SGB. Assenti la Confederazione Cobas, la Cub, l’Adl Cobas e il Collettivo di fabbrica della ex Gkn.

Questo buon risultato è stato purtroppo danneggiato, oltre che da quelle assenze, dalla condotta delle dirigenze del SI Cobas e dell’Usb, che i giorni precedenti la manifestazione si sono scontrate nulla di meno che su chi dovesse tenere la testa del corteo! Ne è risultato che lo spezzone dell’Usb è stato tenuto separato e ben a distanza da quello del SI Cobas. Inoltre, mentre questo è stato fatto entrare in Piazza San Giovanni, quello dell’Usb è stato fermato 100 metri prima. Si sono tenuti così due comizi separati e infine i manifestanti sono stati fatti defluire avviati lungo vie diverse!

I lavoratori hanno potuto così assistere a come in pratica le dirigenze sindacali opportuniste dividono la lotta operaia: vedere migliaia di operai da una parte e altrettanti, separati, dall’altra è stato doloroso e motivo di rabbia per ogni lavoratore cosciente. Se tutto il corteo fosse confluito in Piazza San Giovanni il risultato avrebbe retto il confronto con le mobilitazioni della Cgil di questi ultimi anni. A maggior ragione se avessero aderito i sindacati di base assenti. In questo modo le dirigenze di SI Cobas e Usb hanno danneggiato anche quello che era il loro proclamato obiettivo della visibilità mediatica.

In ogni caso, la stampa libera, democratica e... borghese ha calato la completa censura sul corteo di 8 mila lavoratori che ha attraversato Roma allo slogan “Abbassiamo le armi, alziamo i salari!”, a dimostrazione di come la democrazia sia il miglior involucro politico del regime borghese.

Una piazza piena, riempita non solo da metà corteo e, come era possibile, ancora alla luce del giorno, sarebbe stata più difficile da ignorare e nascondere e avrebbe avuto un effetto maggiore nel farne circolare la notizia con gli strumenti di cui dispongono i sindacati conflittuali, che oggi sono sostanzialmente i cosiddetti “social”.

La ragione di questa condotta delle dirigenze dei due maggiori sindacati di base sta nella loro azione politica e sindacale opportunista: se non hanno la garanzia di controllare o risultare la forza maggioritaria in un’azione di lotta, preferiscono spezzarla e indebolirla. È una condotta figlia della piccineria della loro concezione dello sviluppo del movimento di lotta della classe lavoratrice, tipica del gruppettarismo movimentista degli anni ‘70, da cui provengono i gruppi dirigenti, secondo cui l’organizzazione politica – ciascuno la sua – dovrebbe conservare la direzione del movimento sindacale, dai suoi primi passi fino al massimo della sua forza. Per ottenere questo obiettivo – impossibile e inconfessato – il movimento sindacale viene diviso, col risultato di danneggiarne e ritardarne lo sviluppo.

La concezione comunista della crescita della lotta della classe lavoratrice non segue una strategia così squallida e a corto respiro. Sappiamo che nel movimento sindacale si hanno inevitabilmente da combattere le direttive opportunistiche, che generalmente sono maggioritarie e la cui sconfitta sarà possibile solo approssimandosi alla fase rivoluzionaria della lotta fra le classi. Ma lavoriamo e ci battiamo nella sicura convinzione che più è forte il movimento di lotta economica della classe proletaria, più favorevoli sono le condizioni per lo sviluppo del partito e per la sua battaglia per la conquista della direzione del movimento sindacale, obiettivo che proclamiamo alla luce del sole e non perseguiamo con meschini mezzucci organizzativi.

Tutto va quindi subordinato al rafforzamento del movimento di lotta economico, sindacale, dei lavoratori. A fronte del miserabile tentativo di una dirigenza sindacale di pretendere la testa di un corteo sindacale, o di altre scelleratezze, noi, trovandoci alla direzione di un organo sindacale, non avremmo nulla da obiettare a queste risibili miserie, interessandoci l’unità dei lavoratori nella lotta, sicuri che questa porterà domani a scalzare dalla loro posizione quel gruppo di inadeguati dirigenti.

Queste due giornate di mobilitazione confermano che una vera azione unitaria del sindacalismo conflittuale è possibile solo organizzandone la base, unendo e coordinando i militanti sindacali consapevoli di questa necessità, per costringere le dirigenze, e si che si realizzerà in modo definitivo solo a loro dispetto.





Affonda nel corporativismo la Cgil tricolore

La settimana di scioperi generali regionali promossi da Cgil e Uil, dal 12 al 16 dicembre, e le manovre sindacali che l’hanno accompagnata hanno segnato un nuovo avanzamento del corporativismo politico e sindacale della Cgil nonché del declino nella capacità di mobilitare i lavoratori. Questo è confermato anche dalla bassa partecipazione degli iscritti alle assemblee di base del XIX congresso in corso.

La mobilitazione è stata organizzata in modo debole, non avendo la dirigenza interesse a contrapporsi a tale declino, dividendo lo sciopero generale per regioni e lasciando libertà di ridurlo a sole 4 ore, come accaduto in Lombardia, di modo che il cuore produttivo del capitalismo nazionale è stato lasciato il più indenne possibile.

Lo sciopero appare essere andato male – in linea generale – nelle fabbriche, nei trasporti, nella logistica, e anche per la consistenza dei cortei cittadini.

In alcune regioni nemmeno sono state convocate manifestazioni, come in Piemonte: in questa altra grande regione industriale sono stati organizzati solo una sessantina di piccoli presidi.

A Genova, città in cui la Cgil conserva ancora un buon radicamento – per la forte tradizione dell’opportunismo del PCI, presa in consegna e continuata da un gruppo politico che da anni dirige la Fiom provinciale e la cooperativa dei lavoratori portuali, che si presenta sindacalmente conflittuale ma ai congressi non vota per i documenti di opposizione – si è assistito al corteo più esile da essa mai messo in campo in occasione di uno sciopero generale cittadino, con soli duemila lavoratori, inferiore a quello del sindacalismo di base dell’11 ottobre dello scorso anno.

Anche a Firenze, altra città in cui il declino della Cgil è meno marcato che nella media nazionale, il corteo è stato debole, di poco superiore a quello del sindacalismo di base del 2 dicembre scorso.

Altrove è andata peggio.

Ai cortei abbiamo distribuito un volantino titolato “Per l’unità d’azione di tutte le forze del sindacalismo di classe”.

Nel far confronti va tenuto conto della elefantiaca struttura stipendiata del maggior sindacato di regime d’Italia, assente nei sindacati di base, che va a costituire sempre una parte non trascurabile dei numeri in piazza.

Ma un debole e frammentato dispiegamento di forze era consono alla impostazione politico-sindacale che la dirigenza della Cgil si è data nei confronti della manovra finanziaria e del governo.

Il 5 dicembre, il segretario generale della Cgil Maurizio Landini rilasciava un’intervista a “il Fatto Quotidiano” intitolata: “Cosa han fatto di male i poveri a Meloni? Ora con Bonomi si dialoga”. In essa, elencati gli elementi avversi alla classe lavoratrice della nuova legge di bilancio – definiti “contro il Paese”, per non decampare dall’interclassismo e collaborazionismo di classe – il capo della Cgil tendeva una mano al capo della Confindustria, individuando nella principale associazione padronale un alleato nell’azione di opposizione alla manovra finanziaria, ciò per aver questa avanzato critiche alla manovra governativa in parte analoghe a quelle della Cgil. Il giorno dopo i quotidiani riportavano critiche alla manovra anche da parte della Banca d’Italia: “Bankitalia boccia la manovra su contante e stop al Reddito”, titolava il “Corriere della Sera” del 6 dicembre.

Ma gli industriali, checché ne dica la Cgil, hanno interesse al mantenimento della attuale “moderazione salariale” – come affermano a ogni passo – a cui sono funzionali sia la dismissione del Reddito di cittadinanza sia la precarietà lavorativa, incrementata ora con l’allargamento delle maglie all’utilizzo dei “Voucher” e con la liberalizzazione del sistema degli appalti.

La dirigenza della Cgil però tende la mano agli industriali proponendo un aumento salariale, corrispondente a una mensilità aggiuntiva, attraverso il taglio del cosiddetto “cuneo fiscale”, cioè abbassando le trattenute sul salario lordo (imposte e contributi). Gli industriali, senza scucire un soldo, vedrebbero diminuita la pressione dei lavoratori per aumenti del salario e allontanato il pericolo del riaccendersi della lotta di classe. Di fatto però quanto si appresta a fare il governo è un modesto taglio che nel migliore dei casi comporterà un aumento di 30 euro lordi al mese, 17 netti.

A scala sociale, per alzare la massa dei salari la forza da vincere è quella del capitale. Tutte le chiacchiere riformiste profuse quotidianamente dai caporioni politici e sindacali della sinistra borghese non possono nascondere il fatto che alzare i salari significa colpire il profitto, la rendita. Non solo gli industriali, quindi, ma tutta la classe borghese è contro gli aumenti salariali.

A novembre il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, seppure critico verso la Legge di bilancio, era stato chiaro: «L’inflazione non può essere eliminata attraverso vane rincorse tra prezzi e salari» (“Repubblica”, 16 novembre).

La politica sindacale della dirigenza Cgil invece invoca un’alleanza dei “fattori del lavoro” – imprese e lavoratori – per ridare salute e crescita all’economia nazionale. Una prospettiva fallimentare che accomuna il destino dei lavoratori a quello dell’economia capitalistica, che marcia inesorabilmente verso la catastrofe.

Mentre in Francia, nel Regno Unito, negli Stati Uniti si assiste in questi mesi a una ripresa di forti scioperi per aumenti salariali, in Italia la Cgil continua a tenere la classe lavoratrice incatenata al palo della collaborazione di classe. I bonzi del sindacalismo di regime non hanno scelta, vincolati a quella da tutta la loro precedente politica, che data oramai oltre un secolo.

Un’altra causa del cattivo andamento dello sciopero è stata indicata nella concomitanza con le assemblee congressuali del sindacato. Può darsi. Questa però non ha impedito alla dirigenza Cgil, tre giorni dopo la conclusione dei deboli scioperi regionali, un’azione davvero sorprendente: in cinquemila, fra delegati e dirigenti, per incontrare il papa hanno riempito a metà l’immensa sala Pio VI in Vaticano. Landini ha tenuto un breve discorso, cui è seguito quello del pontefice.

Tanto la Cgil ancora non era arrivata a fare una cosa simile e Landini può appendersi sul petto questa nuova medaglia d’infamia. Naturalmente, il sindacato dovrebbe essere aperto all’adesione di tutti i lavoratori a prescindere dalla loro fede politica e religiosa. Infatti molti lavoratori professano fedi diverse dalla cristiana, o nessuna fede, o sono apertamente anticlericali.

Ma, evidentemente, l’iniziativa ha lo scopo di sancire un patto con la Chiesa di Roma, individuata anch’essa come alleata dei lavoratori. Ha cioè un profondo valore politico antioperaio, giacché ogni chiesa nel capitalismo è un colonna ideale, morale e politica militante della conservazione e dello sfruttamento capitalistico del lavoro.

Giustamente, l’area di opposizione in Cgil “Riconquistiamo tutto” ha ricordato la posizione della Chiesa contro il diritto all’aborto, di grande importanza per le donne, specie della classe lavoratrice. Ma la componente di “Democrazia e Lavoro”, che con “Riconquistiamo tutto” e l’area “Le giornate di Marzo” sostiene nel congresso in corso il documento di minoranza, ha invece aderito e partecipato al pellegrinaggio in Vaticano.

Illuminanti sono state le parole di papa Francesco [i corsivi sono nostri]: «Cari amici, vi invito ad essere “sentinelle” del mondo del lavoro, generando alleanze e non contrapposizioni sterili. La gente ha sete di pace, soprattutto in questo momento storico… Educare alla pace anche nei luoghi di lavoro, spesso segnati da conflitti, può diventare segno di speranza per tutti… Vi affido alla protezione di San Giuseppe e alla sua capacità di educare attraverso il lavoro».

“Pace” ed “educazione attraverso il lavoro” – cioè sgobbare e non lamentarsi – per evitare “conflitti sui posti di lavoro”, qualificati come “contrapposizioni sterili”.

Queste parole si accompagnano bene a quanto affermato da Landini dal palco della manifestazione nazionale dello scorso 8 ottobre a Roma: «Non siamo qui contro qualcuno ma perché venga ascoltato il lavoro». A queste parole ha fatto eco la prima pagina dell’ultimo numero di “Sinistra Sindacale”, il periodico di “Lavoro e società”, la corrente di sinistra in Cgil allineata alla maggioranza, commentando la settimana di scioperi regionali: «Non una protesta contro, una protesta per».

La morale è sempre quella: non c’è per costoro una contrapposizione di interessi economici, e perciò politici, alla base della divisione in classi della società, e quindi non c’è un nemico di classe e un conflitto, una lotta da sostenere, organizzare. C’è da cooperare, collaborare, per far marciare bene il Paese, o se si preferisce la Nazione, parole che noi sappiamo essere solo maschere ideologiche della realtà concreta del Capitale, del privilegio sociale e del dominio politico della classe dei borghesi.

La Cgil, noi denunciamo dal 1945, è rinata “tricolore”, “dall’alto”, “già di regime”, in rottura con la Cgl “rossa”, “di classe”, senza la “I”, nata nel 1906 (non a fine Ottocento come ha affermato Landini di fronte al papa, dimostrando – oltre che di non aver letto Marx, come si è sempre vantato – di non conoscere nemmeno la storia del suo sindacato).

Ma la Cgil di oggi è diversa anche da quella dell’immediato secondo dopoguerra. Allora la parte più combattiva della classe operaia vi militava. Ciò giustificava la fiducia di noi comunisti nella possibilità di combattere al suo interno per levare dai piedi i bonzi, già legati allora mani e piedi agli industriali e al regime borghese, benché si fossero dati una nuova verginità ammantati di democrazia anti-fascista.

Quella dirigenza e stuolo di bonzi, di agenti della borghesia in seno al proletariato, ha lavorato decenni a sradicare dal cuore e dalle menti dei lavoratori i principi e i metodi della lotta di classe e a ficcarvi quelli della collaborazione di classe, della pace sociale e del nazionalismo. La visita in Vaticano è un nuovo atto degno di questa storia ignobile.

Nonostante l’incenso dei preti, schierati a braccetto coi sindacalisti di regime, i quali fingono di piatire un rimedio alle sempre più misere condizioni dei lavoratori raccomandando la pace sociale, continuano a maturare le condizioni che porteranno al riaccendersi della più genuina lotta di classe.







Lavoratori d’Europa in lotta


In Gran Bretagna il governo chiama l’esercito a sostituire gli scioperanti

I lavoratori di diverse categorie in tutta la Gran Bretagna stanno scioperando.

L’analisi delle statistiche ufficiali del Trades Union Congress ha rilevato che i salari reali sono diminuiti in media di 76 sterline al mese nel 2022 (circa 88 euro). Per i lavoratori del pubblico impiego la perdita è di 180 sterline al mese (circa 210 euro) rispetto a un anno fa.

È la più forte riduzione dei salari reali dal 1977 e la seconda peggiore dalla fine della seconda guerra mondiale. Molti salariati delle categorie peggio pagate sono costretti a rivolgersi alle mense e ai centri di distribuzione alimentare per i poveri.

A causa dell’inevitabile malcontento, dopo gli scioperi di ottobre numerosi settori della classe lavoratrice stanno riprendendo lo slancio alla lotta. Con una convergenza tra i diversi settori: infermieri, lavoratori delle ambulanze, personale di frontiera, ferrovieri, postali.

Gli infermieri hanno scioperato dal 15 dicembre, col sostegno dei farmacisti, che hanno dichiarato la loro intenzione di non essere utilizzati come infermieri sostitutivi durante lo sciopero. Gli operatori delle ambulanze dal 21 dicembre. Il personale di frontiera degli aeroporti e dei porti dal 23 dicembre al 25 e dal 28 a Capodanno. Anche i lavoratori delle ferrovie e della Royal Mail avevano in programma altri scioperi nel periodo natalizio.

Finora, le minacce del governo di introdurre una legislazione anti-sciopero ancor più severa di quella già in vigore – sul genere di quella introdotta in Italia nel 1990 con la legge 146 – non si sono concretizzate, ma l’esercito è stato chiamato a intervenire, insieme a settori del servizio civile, per operare come “blacklegs”, cioè crumiri. Ciò era già accaduto nel 1977 – altro anno di picco dell’inflazione – per sostituire i vigili del fuoco nel loro primo sciopero nazionale della storia inglese, che durò ben 9 settimane.

600 soldati hanno ricevuto una settimana di addestramento per coprire il personale di frontiera in sciopero nei porti e negli aeroporti durante il periodo natalizio. Altre centinaia di soldati hanno dovuto sostituirsi agli autisti delle ambulanze.

Ma il coinvolgimento dell’esercito non è privo di rischi. Il quotidiano inglese The Guardian del 12 dicembre ha commentato: «Con circa 1.000 uomini dell’esercito che dovranno saltare le vacanze di Natale per sostituire gli equipaggi delle ambulanze e il personale di frontiera, fonti militari e alti ufficiali in pensione hanno messo in guardia sul potenziale impatto sulle truppe che hanno anche visto diminuire la retribuzione in termini reali». Nella rubrica “Analisi” si legge inoltre che «l’anno scorso la retribuzione dei militari è aumentata del 3,75%, ben al di sotto del tasso di inflazione dell’11,1%; e i soldati non possono iscriversi a un sindacato per lottare per ottenere termini e condizioni migliori».

Il britannico regime borghese si aspetta che i soldati sostituiscano gli scioperanti mentre sono colpiti da un calo dei loro salari e dal peggioramento delle condizioni di lavoro, e in un momento in cui anche la cosiddetta “opinione pubblica” è dalla parte delo sciopero. È probabile che i soldati non siano così contenti di prestarsi al crumiraggio di Stato. Lord Dannatt, un ex capo dell’esercito, ha avvertito: «I soldati potrebbero decidere che ne hanno abbastanza di salvare il governo dai pasticci in cui si caccia. Potrebbero pensare: “Mi sono arruolato per fare il soldato, non per sostituire uno scioperante”».

Un settore coinvolto nell’attuale ondata di agitazioni comprende dei lavoratori che godono di simpatia nella popolazione: gli operatori del settore sanitario, autisti delle ambulanze e infermieri, i cui ranghi sono stati gravemente decimati durante la crisi del Covid a causa della esposizione al rischio di infezione, soprattutto nel periodo precedente allo sviluppo dei vaccini. La popolazione fu invitata allora ad applaudire questi lavoratori.

Che ora chiedono un aumento salariale del 17,6%. I salari e le condizioni nella sanità sono tanto pessimi che si sta verificando un esodo dal settore. Nel corso degli anni i vari governi hanno violentato e saccheggiato il sistema sanitario, analogamente a quanto avviene nei settori dell’istruzione e dei trasporti. Il servizio viene appaltato a imprese private e a società finanziarie al fine di generare il maggior profitto possibile, lasciando molti istituti con enormi difficoltà di bilancio. Il risultato è una situazione di profondo degrado, con gravissime carenze di personale.

È arrivato così il momento – anche nella società borghese britannica – in cui tutte le vecchie argomentazioni sull’incompatibilità dello sciopero con la “realtà economica” non convincono più, perché ai lavoratori semplicemente non interessa se lo sia o meno!

Quanto sta accadendo nel più vecchio capitalismo nazionale segna – nonostante le apparenze – quanto ineluttabilmente accadrà anche in Italia.


Le lotte operaie in Francia indicano la strada a tutti i lavoratori d’Europa e del mondo

A seguito dell’aumento dei prezzi al consumo, da settembre in Francia si è sviluppato un movimento di lotte operaie che, sebbene non abbia raggiunto per ora la forza di quello del dicembre 2019 contro la riforma delle pensioni, ha una estensione e intensità niente affatto trascurabili.

Gli scioperi sono tutti per ottenere aumenti salariali e quasi sempre a oltranza, in Francia li chiamano “rinnovabili” (reconductible), per il fatto che la loro prosecuzione è decisa dalle assemblee sui posti di lavoro. Di fatto in molti casi questi scioperi hanno imposto di anticipare nelle aziende quelle che in Francia sono chiamate le Negoziazioni Annuali Obbligatorie (NAO), riguardanti gli aspetti economici. Al di là dei risultati, in genere inferiori alle iniziali rivendicazioni, non c’è dubbio che essi abbiano dato una parziale protezione ai lavoratori dalla erosione del potere d’acquisto dei loro salari.

A guidarli sono stati in genere le strutture sui posti di lavoro della CGT – nel caso dei petrolchimici la federazione di categoria, la combattiva FSIC CGT – a cui in alcuni casi si sono affiancate quelle di Force Ouvrière e di Solidaire-Sud.

La tendenza al contagio degli scioperi fra aziende e categorie vi è stata ma per ora l’azione della dirigenza collaborazionista della CGT, quella dei sindacati apertamente filo-padronali quali CFDT, CFTC e CFE-CGC e quella repressiva dello Stato borghese francese sono state sufficienti a frenarla, impedendone il convergere e l’elevarsi in un movimento generale.

Lo sciopero più importante, quello dei petrolchimici delle Exxon Mobil e della Total, durato fra i 22 e i 35 giorni a seconda degli stabilimenti, è stato organizzato dalla FNIC CGT, mentre la CFDT – maggioritaria in entrambi i gruppi – lo ha sabotato fin dal principio, insieme alla CFE-CGC, sindacato dei quadri.

La FNIC CGT ha chiesto il sostegno della CGT confederale mediante l’estensione dello sciopero per aumenti salariali alle altre categorie, con la proclamazione di uno sciopero generale, che in Francia chiamano interprofessionale.

La dirigenza confederale della CGT non ha negato tale appoggio ma ha dispiegato mobilitazioni dal carattere più simbolico che di vere prove di forze. Ha proclamato una prima giornata di mobilitazione interprofessionale giovedì 29 settembre, altre due martedì 18 ottobre e giovedì 27 ottobre e una quarta giovedì 10 novembre.

La prima del 29 settembre è stata indetta oltre che dalla CGT, da Solidaires SUD e FSU (Fédération Syndicale Unitaire). A quella del 18 ottobre si è aggiunta Force Ouvrière. Quella del 27 ottobre, è stata indetta dalla sola CGT, così come quella del 10 novembre che, malgrado un riuscito sciopero nei trasporti, in particolare alla RATP, ha mobilitato pochi lavoratori.

I settori più combattivi della CGT hanno denunciato la mancata seria preparazione da parte della dirigenza e della maggioranza del sindacato di queste giornate di mobilitazione generale, incentrate sulle manifestazioni invece che sullo sciopero, con poche assemblee sui posti di lavoro e territoriali: un’azione di facciata che rientra nel quadro dell’idea di sindacalismo collaborazionista, pur dissimulata, che pone il tavolo di trattativa e non la lotta quale perno della sua azione. Inoltre, questi settori combattivi della CGT, correttamente sostengono la necessità che lo sciopero generale, per rafforzarsi, non debba limitarsi a una giornata ma essere anch’esso “rinnovabile”, cioè non con un termine prestabilito.

Ormai da tempo – dalla fine del controllo del falso Partito Comunista Francese (PCF) su questo sindacato, negli anni a cavallo fra il secolo in corso e quello passato – la CGT non ha più la caratteristica di una organizzazione centralizzata e alle strutture territoriali, aziendali e di categoria è lasciata ampia autonomia. Le decisioni prese dalla collaborazionista dirigenza confederale non sono in nulla vincolanti. Questo, se da un lato ha permesso lo sviluppo di gruppi e settori combattivi all’interno del sindacato, dall’altro impedisce l’organizzazione di reali azioni generali. La dirigenza collaborazionista della confederazione, con a capo dal 2015 Philippe Martinez, prima a capo della collaborazionista federazione dei metallurgici FTM CGT, convoca le azioni generali senza organizzarle, giustificandosi con l’affermazione che la spinta per la loro riuscita deve venire dalla base. Venuta meno la capacità della dirigenza di controllare saldamente la base attraverso una sufficientemente robusta tradizione e organizzazione politica falsamente operaia qual’era il PCF, questa disarticolazione della macchina del sindacato gioca a suo favore. Che si tratti solo di una strategia per mantenere il sindacato sui binari del collaborazionismo di classe lo conferma la vicenda della CGT PSA alla fabbrica di Poissy, di cui riferiamo più avanti.

In diversi casi – come alla Exxon Mobil e alla Total – lo sciopero è stato promosso dalla sola CGT pur essendo questa, in quanto a iscritti, minoritaria. Il primo sindacato nel settore privato, a livello nazionale, è la CFDT, apertamente collaborazionista.

Naturalmente il padronato, coi suoi organi di stampa, non si è lasciato scappare l’occasione di speculare su questo aspetto, additando i lavoratori in sciopero come una minoranza di estremisti che ledeva il “diritto al lavoro” della maggioranza dei lavoratori e teneva sotto scacco la società intera, laddove i settori economici colpiti dallo sciopero interessavano aspetti generali della vita sociale, come nel caso di quello petrolchimico.

Ma si è trattato comunque di minoranze consistenti di lavoratori, il che conferma come il principio democratico sia idealistico, estraneo e contrario alla lotta di classe, che si basa sul principio – non idealistico e proprio della reale vita sociale nel capitalismo – della forza: una minoranza sufficientemente organizzata e robusta di lavoratori può condurre scioperi vittoriosi, trascinarsi dietro parte dei compagni di lavoro indecisi e rendere impotenti i crumiri.

CFDT e CFE-CGC, alla Exxon Mobil e alla Total, hanno atteso che lo sciopero mostrasse segni di indebolimento e a quel punto hanno concluso accordi salariali inferiori alle rivendicazioni degli scioperanti, che però hanno di fatto posto fine allo sciopero nella maggior parte degli stabilimenti. Terminato lo sciopero si sono arrogati il merito degli aumenti salariali, sostenendo che essi fossero il risultato della trattativa e non dello sciopero. Una pratica analoga a quella osservata numerose volte anche in Italia, da parte di Cgil Cisl e Uil contro il SI Cobas, anche se con lotte a scala più ridotte.

Le differenze con la situazione in Italia sono notevoli. Lotte per aumenti salariali sono al di qua delle Alpi un fatto rarissimo, con la sola parziale eccezione di quelle condotte dal SI Cobas nel settore logistico. Lo stesso dicasi per la pratica degli scioperi a oltranza, assai diffusa in Francia e quasi assenti in Italia, dove è ormai radicata l’idea che lo sciopero debba durare un solo giorno, con un inizio e una fine annunciati con largo anticipo. Va da sé che questa pratica è stata inculcata fra i lavoratori dal sindacalismo collaborazionista e di regime di Cgil, Cisl e Uil. Ad essa ha contribuito, notevolmente, la legislazione anti-sciopero, con la legge 196 del 1990, resa poi ancora più restrittiva dalla legge 83 del 2000 e dalla sua applicazione ad opera della Commissione di Garanzia. Queste normative contro la libertà di sciopero furono invocate da Cgil, Cisl e Uil, introdotte da un governo democristiano, mantenute e aggravate senza soluzione di continuità dai governi della sinistra e della destra borghesi. Una simile legge non esiste per ora in Francia, dove la precettazione di pochi lavoratori durante lo sciopero dei petrolchimici ha sollevato proteste e agitazioni. In Italia il ricorso alle precettazioni sono un fatto normale, e sono fioccate a centinaia, ad esempio, durante l’ultimo sciopero di 5 giorni, quindi fuori dalla legge, degli autoferrotranvieri a Genova nel 2013.

Altra differenza fra i movimenti sindacali nei due paesi riguarda il carattere dei sindacati di regime. A promuovere gli scioperi a oltranza è stata quasi sempre la CGT, un sindacato di regime come la CGIL, ma in cui diverse strutture di fabbrica, d’azienda e anche di categoria sono in mano a lavoratori e militanti sindacali combattivi. La FNIC CGT ha esteso lo sciopero dalla Exxon Mobil alla Total, conducendolo sul piano nazionale a oltranza per oltre 20 giorni. In Italia, quando nel 2014 i metallurgici della Thyssen Krupp di Terni scioperarono per 35 giorni consecutivi, inquadrati nella Fiom, furono da questa isolati nella fabbrica, nonostante si fosse nel pieno del percorso di approvazione parlamentare del famigerato Jobs Act del governo Renzi.

In Francia quindi il sindacato di regime appare più permeabile al suo utilizzo da parte di settori combattivi della classe salariata, mentre in Italia la Cgil dalla fine degli anni settanta ha continuato ha mostrare la sua impermeabilità a questo riguardo, il che spiega la formazione dei sindacati di base, dai primi anni ottanta fino, ultimo caso, al 2010, con la nascita del SI Cobas nel settore della logistica.

Qui di seguito riportiamo brevi descrizioni dei principali scioperi.


Petrolchimici Exxon e Total

Alla Esso-Exxon Mobile lo sciopero è iniziato il 20 settembre, promosso dalla CGT, minoritaria nel gruppo. Il 27 settembre la federazione dei chimici, la FNIC CGT, lo ha esteso alla TotalEnergie, dove lo sciopero ha raggiunto il 70% di adesione dei lavoratori dei depositi di carburante e delle raffinerie, tra cui quella della Normandia, la più grande del paese. Si sono uniti anche i lavoratori delle ditte in appalto. I lavoratori hanno rivendicato un aumento del 10%, lo sblocco delle assunzioni e investimenti per manutenzione e rinnovo degli impianti ormai vetusti.

Negli ultimi 30 anni due terzi delle raffinerie in Francia hanno chiuso e ne sono rimaste solo sette. Gli impianti non sono stati rinnovati. Le aziende ottengono il massimo profitto nel processo di esplorazione-produzione sicché la maggior parte dei profitto sono destinati – oltre che a pagare i dividendi agli azionisti – a investimenti nell’esplorazione, in particolare in quella sui mari (offshore).

Lo sciopero si è ripercosso sulle forniture della raffinazione e delle stazioni di servizio e di conseguenza sull’intera economia nazionale. Di fronte alla carenza di carburante, il 12 ottobre il governo ha deciso di ricorrere alle precettazioni nei depositi Exxon Mobil, per sbloccare la partenza dei camion cisterna. Le precettazioni hanno suscitato proteste dei vertici sindacali della CGT e di FO, che le hanno denunciate come una violazione del diritto di sciopero. Se il lavoratore non rispettava la precettazione, si rendeva punibile con una pena fino a 6 mesi di carcere e una multa di 10.000 euro.

A questa azione repressiva dello Stato borghese si è accompagnata l’azione dei sindacati apertamente filo-padronali che hanno siglato con le aziende accordi al ribasso.

Il 10 ottobre, alla Exxon Mobil, CFDT e CFE-CGC hanno firmato un accordo salariale ben al di sotto delle richieste. Il 14 ottobre le assemblee hanno deciso di interrompere lo sciopero, durato ben 23 giorni.

Il giorno dopo, sabato 15 ottobre, i tribunali amministrativi hanno convalidato le precettazioni.

Il 13 ottobre, mentre lo sciopero continuava in tutti i principali impianti, la Total ha avviato le trattative con tutte le organizzazioni sindacali dando un peso maggioritario, nelle delegazioni, a quelli che non partecipavano al movimento di sciopero, cioè a CFDT e CFE-CGC. Il giorno dopo questi due sindacati hanno firmato un accordo al ribasso, con un aumento salariale del 7% per il 2022 e il 2023.

Il coordinamento dei delegati della CGT Total ha deciso di proseguire la lotta, rigettando l’accordo. Lo sciopero è proseguito sino al 18 ottobre – seconda giornata di mobilitazione nazionale proclamata da CGT, Force Ouvrière, Solidaire SUD e FSU – ma poi è stato interrotto nella maggioranza degli stabilimenti, tranne che nella raffineria di Gonfreville-L’Orcher, in Normandia vicino a Le Havre, la più grande del paese, e nel deposito di Feyzin, vicino a Lione, dove è proseguito fino al 2 novembre!


PSA Stellantis e la vicenda della CGT PSA di Poissy

Tutte le fabbriche del gruppo PSA (Pegeut, Citroën, Stellantis), comprese le due più importanti di Sochaux e Mulhouse – vicino al confine con Svizzera e Germania – il 27 e 28 settembre sono state colpite da scioperi che hanno coinvolto circa 4.300 operai. Era dal 1989 che le fabbriche automobilistiche francesi non vedevano scioperi analoghi. Le rivendicazioni erano anche in questo caso di aumenti salariali.

Mentre si compiva questo primo passo verso il ritorno alla lotta di questo settore importante della classe operaia, la dirigenza collaborazionista della federazione metallurgica della CGT, la FTM CGT, non esitava ad affondare un attacco – iniziato nel 2021 – contro un settore combattivo del sindacato, rappresentato dalla struttura di fabbrica della CGT alla PSA di Poissy.

Questa fabbrica, che si trova una trentina di km a Nordovest di Parigi, esiste da 60 anni, ha prodotto prima per Simca-Chrysler, poi per PSA Peugeot-Citroën, ora per Stellantis e impiega 3500 lavoratori.

La CGT di fabbrica dichiara di avere 270 iscritti – alcuni dei quali sono ex lavoratori della vicina PSA di Aulnay che guidarono uno sciopero di quattro mesi contro la chiusura dello stabilimento nel 2013 – e si è spesso scontrata con la dirigenza della FTM CGT.

Nel novembre 2021 la CGT PSA di Poissy ha convocato un congresso straordinario della struttura di fabbrica: 193 iscritti al sindacato e i rappresentanti di 12 delle 15 sezioni CGT di fabbrica del gruppo PSA Stellantis erano presenti ma la dirigenza della federazione non ha voluto inviare suoi rappresentanti. Il congresso ha confermato la fiducia ai delegati di fabbrica.

Un mese dopo, la dirigenza nazionale e la struttura territoriale (dipartimentale) della FTM CGT hanno organizzato un altro congresso a cui hanno partecipato 137 iscritti, tra cui 56 della CGT PSA di Poissy, che ha revocato il mandato al Delegato Sindacale Centrale della CGT di fabbrica Jean Pierre Mercier e, in aperta violazione con lo statuto della CGT, ha creato una nuova struttura di fabbrica del sindacato.

Sei mesi dopo, a giugno scorso, un’assemblea dei delegati CGT delle fabbriche PSA Stellantis che si è svolta presso la sede della FTM, nei locali della CGT confederale a Montreuil, vicino a Parigi, si è opposta a larga maggioranza – 223 voti a favore e 31 contrari – alla decisione di revocare il mandato a Jean Pierre Mercier.

La dirigenza della FTM ha deciso allora di risolvere la questione citando presso i tribunali amministrativi 16 delegati della CGT PSA di Poissy, chiedendone l’esclusione dal sindacato.

Il tribunale di Bobigny – vicino a Parigi – si è riunito il 20 ottobre per affrontare la questione. Fuori dal tribunale si è svolto un partecipato presidio alla presenza di 500 delegati e iscritti della CGT, a sostengo della sezione di fabbrica della PSA di Poissy. La decisione del tribunale sarà presa non prima dell’8 dicembre.

La FTM CGT dichiara 60 mila iscritti, è la terza federazione di categoria della CGT ed è una delle colonne della linea di collaborazione di classe di questo sindacato di regime. È stata una delle più timide ad aderire e organizzare gli scioperi interprofessionali del 29 settembre, 18 e 27 ottobre.


Airbus e subappaltatori dell’aeronautica

Giovedì 6 ottobre per la prima volta nella storia dell’azienda, sono scesi in sciopero gli operai della Sabena Technics, che opera in appalto per la Airbus. L’azienda si trova nel cosiddetto bacino aeronautico di Blagnac-Cornebarrieu, vicino Tolosa, uno dei principali distretti industriali in Francia.

Lo sciopero è stato promosso unitariamente da Force Ouvrière e CGT per ottenere una maggiorazione del bonus, in linea con gli altri subappaltatori aeronautici del bacino. Hanno aderito la totalità dei lavoratori, compresi gli interinali ed è durato quattro giorni, fino al 10 ottobre.

Gli scioperanti hanno potuto contare sull’esperienza degli ex lavoratori dell’ATE, un’azienda che aveva chiuso e da cui provenivano diversi operai, che avevano già scioperato contro la loro ex direzione. Questo ha permesso, ad esempio, di avere un picchetto ben organizzato fin dal primo giorno e di distribuire volantini ai lavoratori di questa grande concentrazione industriale.

Lo sciopero è stato così l’occasione per stringere legami con i militanti sindacali di altre aziende del settore, come Satys, AHG o la committente Airbus.

Mercoledì 12 ottobre, sono entrati in sciopero alcune decine di lavoratori della Daher Logistics di Tolosa, azienda logistica che lavora in subappalto per la Airbus, trasportando i pezzi da assemblare. Le rivendicazioni sono state di un aumento salariale del 10% e un bonus di 1000 euro e lo sciopero è durato tre giorni.

Martedì 18 ottobre è iniziato uno sciopero alla FAL A320 di Tolosa, lo stabilimento dove si realizza l’assemblaggio finale (Final Assembly Line) dell’Airbus 320, il modello di aeromobile più venduto dal costruttore europeo.

La rivendicazione è stata la stessa dei petrolchimici, un aumento del 10%. Allo sciopero ha aderito la maggioranza degli operai ed è stato sostenuto dalla CGT di fabbrica ma osteggiato dalla struttura di fabbrica di Force Ouvrière – maggioritaria fra i lavoratori dello stabilimento – da quella del gruppo (FO Airbus) e dalla federazione di categoria FO Metallurgy Federation.

Questo in apparente opposizione con la dirigenza confederale di Force Ouvrière che quel giorno aveva dato adesione allo sciopero interprofessionale insieme a CGT e Solidari SUD. Lo sciopero è durato tre giorni, interrotto dall’assemblea il pomeriggio di giovedì 20 ottobre.

Il 18 ottobre hanno anche scioperato i lavoratori dell’Atelier Industriel de l’Aéronautique (AIA) di Clermont-Ferrand, nel centro della Francia 159 km a ovest di Lione, che lavora per le forze armate francesi.

Da venerdì 21 ottobre, sono scesi in sciopero i lavoratori della Daher a Bordes, Tarnos, Le Haillan, St Médard en Jalles e Rosny sur Seine, chiedendo il 5% di aumento del salario. Mentre lo sciopero alla Daher Logistic di Tolosa aveva coinvolto alcune decine di operai ma era rimasto isolato, ora il movimento coinvolgeva centinaia di lavoratori su cinque siti, era a scala nazionale, ma abbassando la rivendicazione salariale dal 10% al 5%.

Lo sciopero è durato per 5 giorni. È stato particolarmente forte a Bordes, dove si sono uniti gli operai della Saran, dove sono assemblati elicotteri. Quasi 500 scioperanti si sono riuniti ogni giorno davanti lo stabilimento.

Martedì 25 ottobre è iniziato uno sciopero nello stabilimento di Villefranche-de-Rouergue (Aveyron) della Blanc Aéro, produttore di elementi di fissaggio per l’aeronautica, di proprietà della Lisi Aerospace, un gigante della lavorazione dei metalli presente con 21 siti produttivi in 9 paesi.

Dopo una riunione della NAO (Negoziazione Annuale Obbligatoria) organizzata il 18 ottobre, la CGT aveva indetto un’assemblea informativa per i lavoratori lunedì 24. Al termine di questa assemblea il 95% degli operai del turno serale alle 22.00 hanno abbandonato il posto di lavoro. Lo sciopero è stato poi esteso al turno del mattino e poi a quelli pomeriggio e della sera. Prima dello sciopero, la CGT aveva condotto una consultazione per chiedere un aumento di 220 euro lordi. Le proposte della direzione sono state ben lontane dalle aspettative dei lavoratori.

Queste diverse lotte hanno sollevato la questione dell’unità dei lavoratori dell’intera catena di produzione aeronautica, che negli ultimi decenni è stata divisa col sistema dei subappalti. Il sostegno reciproco tra gli scioperanti Daher e Safran a Bordes è stato un primo passo in questa direzione.


Altri scioperi

Dal 19 ottobre al 27 ottobre, uno sciopero ha colpito il gigante della panificazione industriale Neuhauser, prima nelle due fabbriche principali di Maubeuge, al confine col Belgio, e Folschviller, nel dipartimento della Mosella al confine con la Germania, poi estendendosi ad altri 4 stabilimenti, per un totale di sei fabbriche in sciopero su undici. Lo sciopero ha avuto ripercussioni sul settore della distribuzione, come ha denunciato il direttore delle risorse umane del gruppo Lidl in Francia. Gli operai infine hanno ottenuto un bonus di mille euro.

Dieci giorni di scioperi hanno colpito EDF, l’azienda statale di produzione e distribuzione dell’elettricità. Sono state interessate 14 delle 18 centrali nucleari, 24 dei 58 reattori. I lavoratori hanno infine ottenuto un aumento di 200 euro.

Martedì 25 ottobre è iniziato uno sciopero nella clinica privata di "Toutes Aures", vicino a Bordeaux, durato una settimana. La maggior parte di lavoratori sono donne e precarie, molto giovani, che hanno scioperano per la loro prima volta. Un’infermiera nel turno di notte si trova ad assistere da sola per 30 pazienti. Per lo sciopero è stato cancellato l’intero programma delle sale operatorie, vale a dire più di 300 interventi.

Sono entrati in agitazione anche diversi depositi della RATP nell’Île-de-France (la regione di Parigi), siti della SNCF (il sito del centro tecnico Landy, la Gare de Lyon). Worldline, la società specializzata in pagamenti elettronici che fa parte del CAC40, ha avuto molti siti interessati da scioperi. I lavoratori del centro logistico Geodis a Gennevilliers, vicino a Parigi, sono in sciopero a oltranza dal 17 ottobre.

Altri scioperi hanno interessato i lavoratori della Air Liquide (gas industriali), Leroy Merlin, Ponticelli Frères (tubazioni e caldaie industriali).


Anche in Germania il sindacalismo di regime sottoscrive aumenti salariali al di sotto del tasso d’inflazione

Diversamente da quanto accaduto in Francia e nel Regno Unito, in Germania i lavoratori non hanno dato luogo a un movimento di sciopero per difendere i salari dall’inflazione. Il più grande sindacato tedesco, quello dei metalmeccanici – la IG Metall – che conta 3,8 milioni di iscritti, principalmente nei settori automobilistico e delle macchine utensili, venerdì 18 novembre ha siglato un accordo salariale con gli industriali. Quello precedente risaliva al 2018. Questo vale per il Baden-Württemberg – il terzo Land (Stato) più popoloso dei sedici che compongono la Repubblica Federale Tedesca, in cui si trovano città quali Stoccarda, Mannheim, Karlsruhe, Heidelberg – ma è probabile che verrà esteso a livello nazionale.

L’accordo prevede un aumento salariale dell’8,5% in due anni: 5,2% l’anno prossimo e 3,3% nel 2024; più un pagamento di una somma una tantum esentasse di 3.000 euro. Questo aumento è al di sotto dell’inflazione, che attualmente in Germania è del 10,4%, ma con tassi più elevati per alimenti ed energia, beni che naturalmente incidono in modo maggiore sui consumi della classe operaia. L’inflazione dovrebbe calare nei prossimi due anni, ma non è certo. Inoltre il contratto rinnovato era scaduto a settembre e il primo aumento del 5,2% non arriverà che a fine giugno 2023.

Il 14 settembre la dirigenza della IG Metall – al primo incontro per la trattativa con l’associazione padronale Gesamtmetall – aveva presentato una richiesta per un aumento dell’8% per il solo 2023. «La nostra pazienza sta venendo meno. Gli industriali devono assumersi le loro responsabilità e presentare un’offerta concreta», tuonava Jörg Hofmann, segretario della IG Metall, dopo il fallimento del quarto incontro per le trattative, minacciando azioni di sciopero.

Ma al quinto incontro, svoltosi a Lud­wigsburg, vicino a Stoccarda, si è siglato un accordo al ribasso. Questo non dovrà nemmeno essere sottoposto al voto degli iscritti, giacché tale passaggio per lo statuto della IG Metall è obbligatorio solo se precedentemente i lavoratori sono stati chiamati al voto per decidere se procedere con un’azione di sciopero generale della categoria, cosa che non è avvenuta.

L’accordo ha fatto seguito a una serie di scioperi e manifestazioni a carattere locale. La dirigenza dell’IG Metall ha solo minacciato 24 ore di sciopero, senza però mostrare alcuna reale intenzione di unificare ed estendere il movimento, quando molti lavoratori chiedevano l’indizione di uno sciopero a tempo indeterminato e di rivendicare un aumento del 15%.

Il ruolo del sindacalismo di regime è stato candidamente descritto dal quotidiano per eccellenza della borghesia italiana – il “Corriere della Sera” – in un articolo del 27 novembre dedicato a un confronto fra la situazione dei salari in Italia e quella in Germania, con particolare riferimento all’accordo siglato dall’IG Metall. «Che cosa ci insegna la Germania? La concertazione è a tre. I sindacati contengono gli incrementi salariali, che sono più bassi dell’andamento dei prezzi, superiore al 10%. Le imprese assicurano occupazione e investimenti. Il governo agisce con la leva fiscale». Naturalmente gli unici obbligati fra i tre “concertanti” sono i lavoratori, mentre padronato e governo faranno solo il loro interesse.

Intanto il 12 ottobre il borghese governo di Berlino ha aumentato il salario minimo a 12 euro l’ora e i lavoratori statali della pubblica amministrazione hanno ottenuto in alcuni Länder un aumento del 10,5% più un bonus anti-inflazione di 500 euro.

La forza dell’imperialismo tedesco – fra i più potenti del mondo – permette ancora alla sua classe dominante, coadiuvata dal sindacalismo di regime, di mantenere la classe lavoratrice pacificata. Una situazione destinata a non perdurare, per l’inesorabile avanzare e approfondirsi della storica crisi economica di sovrapproduzione del capitalismo mondiale. Anche la classe operaia in Germania tornerà a lottare al fianco dei suoi fratelli di classe di tutto il mondo.






In Italia
La parola del partito ai lavoratori

All’aeroporto di Milano, l’azienda SEA – con proprietario di maggioranza il Comune di Milano – ha appena affidato in appalto parte dei suoi servizi – denuncia la Cub – a un’impresa che applica il contratto “istituti di vigilanza sezione servizi fiduciari”, firmato da Cgil e Cisl: paga lorda 4,56 euro l’ora.

Lo stesso contratto è applicato nei cantieri navali della Fincantieri – altra azienda di proprietà statale – a lavoratori che, in appalto, svolgono attività di guardiafuochi e primo intervento antincendio e soccorso. Questo da anni e in un cantiere in cui una corrente combattiva della Fiom – che però al congresso non vota il documento di opposizione! – vanta il controllo della Rsu.

A Prato continuano le coraggiose lotte di primi gruppi di operai nelle fabbriche tessili che si ribellano allo sfruttamento bestiale cui sono sottoposti da decenni, senza che la Cgil abbia mai mosso un dito. Organizzati nel SI Cobas e bastonati dalle forze dell’ordine con l’aperto sostegno della giunta comunale locale guidata dalla sinistra borghese.

Negli ultimi 12 anni è purtroppo quasi solo nella logistica che si è assistito allo sviluppo di un movimento di lotte operaie, che ha portato a vittorie e condizioni migliorative. Questo movimento in Italia si è organizzato fuori e contro la Cgil, innanzitutto nel SI Cobas, poi nell’Adl Cobas e più di recente anche nell’Usb.

Questi elementi, anche in una fase di bassa combattività operaia, ci confermano che il sindacato di classe in Italia non potrà più nascere, come era lecito sperare nel 1945, riconquistando la Cgil, anche “a legnate”, ma fuori e contro di essa, come affermiamo dal finire degli anni ‘70.

Tuttavia, non ci stanchiamo di insistere su un’altra indicazione pratica ai lavoratori e al movimento sindacale: quella dell’unità d’azione dei lavoratori e del sindacalismo conflittuale. A questo riguardo sono stati redatti e diffusi gli ultimi tre volantini del Coordinamento Lavoratori Autoconvocati:

- il primo distribuito ai delegati in entrata dei congressi provinciali Filt Cgil e Flc Cgil a Genova: “Contro l’unità sindacale collaborazionista per l’unità d’azione del sindacalismo conflittuale”;

- il secondo rivolto al sindacalismo di base, affinché partecipasse – nel segno dell’unità d’azione dei lavoratori – agli scioperi generali regionali indetti da Cgil e Ui;

- il terzo che riprende il primo, con lo stesso titolo, e distribuito alle manifestazioni Cgil e Uil per gli scioperi generali regionali.

L’indirizzo “Contro l’unità sindacale collaborazionista per l’unità d’azione del sindacalismo conflittuale” è necessario a favorire la ripresa del movimento difensivo della classe lavoratrice. Sarà questa ripresa della lotta a portare a ulteriori verifiche empiriche circa la natura irrevocabilmente di regime, corporativa, della Cgil, e a far quindi maturare la rinascita fuori e contro di essa del sindacato di classe.










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Ripartizione delle produzioni e intensità industriale nei principali paesi del mondo

Abbiamo aggiornato le tabelle sul peso e l’intensità industriale dei principali Paesi imperialisti, a cui abbiamo aggiunto alcuni Paesi in via di sviluppo.

Non disponendo di dati sufficienti della produzione di un insieme di prodotti di base, abbiamo calcolato il peso per ogni Paese basandoci sulla produzione di energia elettrica. Il risultato non è perfetto. Alcuni Paesi sono avvantaggiati, come la Francia, la cui produzione di elettricità è superiore a quanto ne consuma, grazie alle centrali nucleari; l’Italia invece ne importa. Tuttavia, nel complesso, l’utilizzo della produzione di energia elettrica fornisce un quadro abbastanza vicino alla realtà.

Un altro criterio che potrebbe essere utilizzato è il consumo di energia delle industrie. Cercheremo di comporre anche una tabella simile.

Ovviamente, la produzione di elettricità, a differenza dell’indice della produzione industriale, che è un indice composito, non comprende l’intero spettro della produzione industriale.

Lo sviluppo del capitale in Cina ha salvato il capitalismo mondiale, prolungando il suo ciclo di almeno trent’anni. Ma i flussi di capitale provenienti da Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia, ecc. non sono andati solo in Cina. Possiamo aggiungere India, Vietnam, Turchia, Messico, ecc. Abbiamo quindi aggiunto ai Paesi che solitamente seguiamo Sudafrica, Brasile, Messico, Turchia, India, Iran e Indonesia, che, in base al loro peso industriale, sono tra i primi venti Paesi nel 2018. Seguiti immediatamente dal Vietnam, destinato a diventare un nuovo Giappone.


I cicli industriali

Produzione lorda di elettricità
nei cicli brevi

Incremento % medio annuo
  1960-
1973
1973-
1979
1979-
1989
1989-
2000
2000-
2007
2007-
2018
Mondo 8,0 4,7 3,9 2,3 3,6 2,7
senza Cina 7,9 4,6 3,7 1,9 2,3 1,4
Stati Uniti 6,7 3,1 2,9 2,4 1,0 0,2
Russia 9,2 5,2 3,6 -1,9 2,1 0,9
Giappone 11,3 3,9 3,1 2,7 1,0 -0,6
Germania 9,4 3,8 1,8 0,3 1,5 0,0
Francia 7,4 4,7 5,3 2,7 0,8 0,2
Regno Unito 5,7 1,0 0,5 1,7 0,7 -1,6
Italia 7,5 3,7 1,5 2,7 1,8 -0,7
Belgio 7,9 4,2 2,6 2,1 0,8 -1,5
Spagna 11,4 5,6 3,5 3,9 4,5 -1,0
Portogallo 8,8 8,7 4,7 5,0 1,1 2,1
Sud Corea 19,8 15,7 10,2 10,8 5,7 3,0
Cina 11,5 9,1 7,6 7,9 13,5 7,4
India 8,7 7,6 9,1 6,9 5,4 5,9
Argentina 6,2 5,9 3,0 5,3 2,7 3,2
Messico 9,3 9,0 6,6 5,2 3,7 2,8
Brasile 10,3 11,9 5,7 4,2 3,5 2,8

La prima tabella riporta gli incrementi medi annui della produzione lorda di energia elettrica. Copre il periodo dal 1960 al 2018. Si divide in sei periodi, secondo i cicli del capitalismo. Da un ciclo all’altro si verifica un rallentamento generale dell’incremento della produzione industriale.

La prima riga si riferisce al Mondo nel suo complesso: l’aumento medio annuo della produzione di energia elettrica tra il 1960 e il 1973 è stato dell’8%, per poi scendere gradualmente da un ciclo all’altro fino al 2,3% tra il 1989 e il 2000. Risale al 3,6% tra il 2000 e il 2007 per tornare al 2,7% tra il 2007 e il 2018. Gli incrementi per il Mondo senza la Cina tra il 1960 e il 1973 sono del 7,9%, rispetto all’8,0%, poi la diminuzione dell’incremento è più forte: tra il 1989 e il 2000 otteniamo l’1,9% rispetto al 2,3%. La differenza non è trascurabile, poiché si tratta di una media mondiale. Nel ciclo successivo, tra il 2000 e il 2007, c’è stata una ripresa: 2,3%, e 3,6% con la Cina. Nell’ultimo ciclo, 2007-2018, che comprende la grande crisi globale del 2008-2009, il calo è più netto: 1,4% contro il 2,7%. È chiaro come l’accumulazione di capitale in Cina abbia tirato avanti il capitalismo globale.

Gli altri Paesi, come Brasile, Messico, Turchia, Vietnam, India, Indonesia, ecc. hanno partecipato alla ripresa dell’incremento mondiale, come si vede perché i loro incrementi sono superiori a quelli dei vecchi Paesi imperialisti; nel periodo 2000- 2007 si va dal 3,5% del Brasile al 5,4% dell’India, contro, per esempio, lo 0,7% del Regno Unito e il 2,1% della Russia. L’incremento degli Stati Uniti durante lo stesso ciclo è stato dell’1,0%. Sono quindi la Cina, in misura preponderante, e gli altri Paesi in via di sviluppo ad aver spinto l’accumulazione di capitale su scala globale.

Grazie a questa “globalizzazione” e alle “delocalizzazioni” le nostre borghesie sono riuscite a limitare i danni e ad evitare il crollo in seguito alla recessione deflazionistica del 2008-2009! L’intervento delle banche centrali, che non hanno esitato a stampare moneta, e degli Stati, che si sono indebitati come non mai, non sarebbero stati sufficienti.


Ripartizione dell’industria

In queste tabelle, i Paesi sono in ordine decrescente del loro peso relativo nella produzione mondiale di elettricità nel 2018.
PESO RELATIVO DELL’INDUSTRIA
Calcolato dalla produzione lorda
di energia elettrica
(fonte ONU)
  1960 1973 1979 1989 2000 2007 2018

PESO INDUSTRIALE IN PERCENTUALE
MONDO 100 100 100 100 100 100 100
CINA 2,1 2,7 3,4 4,9 8,7 16,5 26,9
USA 36,6 31,4 28,7 26,0 26,1 21,8 16,7
EUROPA 24,5 24,2 22,9 20,0 18,9 16,2 11,8
INDIA 0,9 1,2 1,4 2,2 3,6 4,1 5,7
URSS/RUSS. 12,7 14,6 15,0 8,2 5,7 5,1 4,2
GIAPPONE 5,0 7,4 7,1 6,6 6,9 5,7 4,0
GERMANIA 5,1 6,0 5,7 4,6 3,7 3,2 2,4
BRASILE 1,0 1,0 1,5 1,8 2,2 2,2 2,3
SUD COREA 0,1 0,2 0,4 0,8 1,9 2,1 2,2
FRANCIA 3,1 2,9 2,9 3,4 3,5 2,9 2,2
MESSICO 0,5 0,6 0,8 1,0 1,3 1,3 1,3
GR.BRETAG. 5,9 4,5 3,6 2,6 2,4 2,0 1,2
IRAN 0,1 0,2 0,3 0,4 0,8 1,0 1,2
TURCHIA 0,1 0,2 0,3 0,4 0,8 1,0 1,1
INDONESIA 0,1 0,0 0,1 0,2 0,6 0,7 1,1
ITALIA 2,4 2,3 2,2 1,7 1,8 1,6 1,1
SPAGNA 0,8 1,2 1,3 1,2 1,4 1,5 1,0
SUD AFRICA 1,0 1,0 1,1 1,3 1,4 1,3 1,0

POPOLAZIONE IN PERCENTUALE
MONDO 100 100 100 100 100 100 100
USA 6,0 5,2 5,0 4,6 4,6 4,5 4,3
EUROPA 11,8 9,6 8,8 7,7 7,1 6,8 6,2
URSS/RUSS. 7,1 6,0 5,7 2,6 2,4 2,1 1,9
GR.BRET. 1,7 1,4 1,2 1,0 1,0 0,9 0,9
GERMANIA 2,4 1,9 1,7 1,4 1,3 1,2 1,1
GIAPPONE 3,1 2,7 2,5 2,3 2,1 1,9 1,7
FRANCIA 1,5 1,3 1,2 1,1 1,0 1,0 0,9
ITALIA 1,7 1,3 1,2 1,0 0,9 0,9 0,8
CINA 22,0 21,6 21,5 21,1 21,0 20,0 18,8
INDIA 14,4 14,5 14,9 15,6 17,2 17,6 17,8
INDONESIA 3,1 3,0 3,2 3,3 3,4 3,5 3,5
BRASILE 2,4 2,5 2,6 2,7 2,8 2,8 2,8
MESSICO 1,2 1,4 1,4 1,5 1,6 1,6 1,7
SPAGNA 1,0 0,9 0,8 0,7 0,7 0,7 0,6
TURCHIA 0,9 0,9 0,9 1,0 1,0 1,0 1,1
SUD COREA 0,8 0,8 0,8 0,8 0,8 0,7 0,7
IRAN 0,7 0,8 0,8 1,0 1,1 1,1 1,1
S. AFRICA 0,6 0,6 0,6 0,7 0,7 0,7 0,8

Nel 1960 un peso schiacciante lo hanno gli Stati Uniti: 36,6% contro il 24,5% dell’Europa, il 12,7% dell’URSS, il 5,1% della Germania, il 5,0% del Giappone, il 3,1% della Francia e il 2,4% dell’Italia. In una tabella che calcolammo allora (“Il corso del capitalismo mondiale”, p.83) sulla base dei dati delle Nazioni Unite, nel 1956 gli Stati Uniti rappresentavano il 40% e l’URSS il 19%. Un peso così schiacciante per l’imperialismo dominante ha dato grande stabilità al capitalismo mondiale, perché nessun altro imperialismo, nemmeno l’URSS, poteva sfidare il dominio statunitense.

Oggi le cose sono cambiate perché è apparso sulla scena mondiale un altro mostro imperialista che si sta preparando attivamente a sfidare il dominio americano e a prendere il suo posto, o almeno a spartirsi il mondo a suo favore. Si tratta della Cina, che ha superato gli Stati Uniti in termini di peso industriale lordo.

Un altro elemento che emerge chiaramente, di ciclo in ciclo, è il continuo declino relativo di tutti i vecchi paesi imperialisti. Gli Stati Uniti, ad esempio, hanno visto il loro peso relativo diminuire costantemente dal 36,6% nel 1960 al 16,7% nel 2018. Nello stesso periodo il vecchio leone britannico ha visto il suo peso scendere dal 5,9% all’1,2%. Il Giappone è sceso dal 5,0% al 4,0%, una cifra comunque rispettabile. La quota della Germania è scesa dal 5,1% al 2,4%. Il peso relativo della Francia è sceso al 2,2%, al pari della Corea del Sud, ma viene superato dal Brasile, il cui peso è passato dall’1,0% nel 1960 al 2,3% nel 2018, ma con una popolazione più che tripla rispetto a quella francese.

Per quanto riguarda l’URSS, il suo peso relativo è aumentato progressivamente fino al 1979, quando ha raggiunto un picco del 15,0%, per poi scendere lentamente al 14,6% nel 1989, prima del crollo. La nuova Federazione Russa ha visto il suo peso ridursi dall’8,2% del 1989 al 4,2% del 2018, quasi al pari del Giappone, la cui industria manifatturiera ha però un peso molto maggiore di quella russa ed è più sviluppata tecnologicamente.

L’altro cambiamento spettacolare è l’avanzata fulminea della Cina, che nel 1960 occupava il nono posto della classifica, dietro all’Italia, con il 2,1%, per passare al primo posto davanti agli Stati Uniti, con il 26,9%, contro il 16,7% di questi ultimi e l’11,8% dell’Europa, scesa dal secondo al terzo posto. Il progresso della Cina è stato inizialmente graduale, ma ha subìto una forte accelerazione a partire dalla fine degli anni ‘90 grazie al notevole flusso di capitali provenienti da Stati Uniti, Giappone, Germania, ecc. Mentre gli Stati Uniti e l’Europa sono in recessione a causa della crisi del 2008-2009, la produzione industriale continuerà a crescere in Cina, anche se a un ritmo molto più lento rispetto a prima del 2008, tanto che il suo peso industriale supererà quello degli Stati Uniti a partire dal 2011.

Il fatto che la Cina sia diventata la prima potenza industriale è confermato da diversi criteri, tra cui i dati grezzi: la produzione di acciaio nel 2018, a 928 milioni di tonnellate, contro i circa 82 milioni degli Stati Uniti, la produzione di cemento 2207 milioni di tonnellate, contro 84 milioni, ecc. Il mercato automobilistico cinese è diventato il più grande del mondo, con oltre 26 milioni di veicoli venduti nel 2021, rispetto ai poco più di 17 milioni degli Stati Uniti. Nel 2015, la Cina ha prodotto 24 milioni di auto contro i 12 milioni degli Stati Uniti. Gli Stati Uniti sono ancora in vantaggio nei settori della tecnologia e degli armamenti. Ma tra 10 anni la situazione, almeno per quanto riguarda gli armamenti, sarà ribaltata.

I progressi di altri Paesi in via di sviluppo sono meno spettacolari, ma non per questo meno evidenti: il Brasile, che era al decimo posto con l’1,0%, è salito di due posizioni, vedendo il suo peso relativo salire al 2,3%, davanti a Francia e Corea del Sud. L’India sta chiaramente faendo meglio, visto che nel 1960 era al dodicesimo posto con un peso relativo dello 0,9%, ma nel 2018 è balzata al quarto posto con il 5,7%, davanti alla Russia, che ora è solo al 4,2%, e al Giappone con il 4,0%. Iran, Turchia e Indonesia non sono da meno: questi Paesi, che nel 1960 rappresentavano ciascuno solo lo 0,1%, nel 2018 sono subito dopo il Regno Unito con l’1,1%.

Il relativo declino di tutti i vecchi Stati imperialisti è storicamente inevitabile con l’industrializzazione di altri Paesi, ma non per questo meno spettacolare.


Il peso demografico

Anche in questo caso, con la diffusione del capitalismo nel mondo, il peso demografico dei Paesi imperialisti è diminuito. Prendiamo gli Stati Uniti, la cui popolazione è scesa dal 6,0% nel 1960 al 4,3% nel 2018. Si tratta comunque di una cifra rispettabile rispetto all’1,9% della Russia.

Dopo la terribile crisi di sovrapproduzione, che ha portato alla disgregazione dell’URSS, che non era altro che un conglomerato di nazioni mantenuto artificialmente dal pugno di ferro del Cremlino, la popolazione russa è diminuita drasticamente fino al 2008, per poi risalire gradualmente, senza però tornare al picco del 1993 di 148 milioni di abitanti.

Anche il nuovo grande Paese, la Cina, sta vedendo diminuire relativamente la propria popolazione: dopo aver raggiunto il picco nel 1973 con il 21,6% della popolazione mondiale, il suo peso sta lentamente ma costantemente diminuendo, raggiungendo il 18,8% nel 2018.

Un altro fatto degno di nota è che l’India, che nel 1960 rappresentava il 14,4% della popolazione mondiale, sta vedendo il suo peso demografico aumentare costantemente fino a raggiungere il 17,8% nel 2018. Di questo passo, entro sette anni supererà la Cina.

Come previsto i Paesi in via di sviluppo vedono aumentare il loro peso demografico. Ad esempio, la popolazione dell’Indonesia è aumentata dal 3,1% al 3,5%, quella del Brasile dal 2,4% al 2,8%, quella del Messico dall’1,2% all’1,7%, ecc.


L’intensità industriale
DISTRIBUZIONE % PROD.INDUSTRIALE NEL MONDO
Il Programma Comunista 22/1957, pag.3
Il Corso del capitalismo mondiale 1750-1990, pag.85
Periodi Gran
Bret.
Fran-
cia
Ger-
mania
USA Giap-
pone
Rus-
sia
Ita-
lia
1870 43,2 14,4 17,0 17,9     2,4
1881-1885 29,7 10,8 16,3 22,9     2,4
1896-1900 19,6 7,7 17,3 25,8 0,6   2,7
1906-1910 14,7 6,3 16,3 34,9 1,0   3,1
1913 14,0 6,4 15,7 35,8 1,2 4 2,7
1926-1929 9,2 4,4 10,2 46,3 2,4 5 2,7
1936-1938 9,8 3,0 8,8 36,8 3,6 10 2,5
1947-1950 8,3 2,4 4,3 53,6 1,4 14 2,1
1956 6,1 2,2 6,9 41,5 2,6 16 2,3
1964 4,6 2,0 6,6 32,7 4,4 18 2,5
1974 2,9 1,8 5,4 27,2 6,0 20 2,4
1985 2,2 1,3 4,3 24,4 6,2 20 1,9
1937 - %Pop. 2,2 1,9 3,1 5,9 3,2 8,6 2,0
- Rapporto 445 158 284 624 113 16 125
- Rango
1956 - %Pop. 1,9 1,6 1,8 6,1 3,3 7,4 1,8
- Rapporto 321 138 383 680 79 216 128
- Rango

È calcolata dividendo il peso industriale per il peso demografico. Questo parametro mostra quanta strada devono fare i giovani paesi capitalisti e, per i paesi imperialisti, quanto il capitalismo sia in stato di putrefazione.

Tutti i vecchi Paesi imperialisti, dopo aver raggiunto un massimo, stanno regredendo, conseguenza del declino relativo del loro peso industriale. Gli Stati Uniti, che nel 1960 avevano un’intensità di 614, sono regrediti a 389, il che è ancora onorevole, perché dominano ancora tutti gli altri Paesi. La Cina, che ha visto aumentare vertiginosamente il proprio peso industriale, è riuscita a superare il Regno Unito con un indice di 143 nel 2018, rispetto a 141, ma dietro alla Spagna, che ha un indice di quasi 168. In questo la Cina è ancora molto indietro rispetto agli Stati Uniti.

Al contrario, il capitalismo britannico è ben oltre il suo tempo e si è trasformato in un cadavere che continua a camminare grazie ai trucchi dell’imperialismo. E ciò che vale per la Gran Bretagna vale anche per i vecchi imperialismi europei, americani e russi. Gli imperialismi francese, giapponese, tedesco e russo sono praticamente alla pari in termini di intensità industriale. I capitalismi francese e russo sono avvantaggiati dalla loro sovrapproduzione di elettricità nucleare, che esportano. Diciamo che la Francia dovrebbe essere dietro la Germania e non davanti, con un’intensità non di 247, ma piuttosto intorno a 200-210. E anche la Russia dovrebbe scendere di una tacca, tra i 170 e i 180, invece che essere a 190.

Tutti i Paesi in via di sviluppo hanno fatto progressi, ma hanno ancora molta strada da fare prima di raggiungere il livello dei vecchi Stati imperialisti. Speriamo che la rivoluzione comunista internazionale venga ad arrestare questa corsa demente.

L’Iran e la Turchia, dopo aver moltiplicato la intensità industriale rispettivamente per 9,7 e 8,0, sono ora a pari con 107 e 106. Anche Brasile e Messico si trovano in parità, ma dopo essere partiti da un indice molto più alto, circa 40, e si trovano dietro a quelli con un’intensità di solo 80. Sebbene abbiano un peso industriale più elevato, ciò si spiega con un peso demografico molto maggiore rispetto a Iran e Turchia.
INTENSITÀ INDUSTRIALE
secondo la produzione
di elettricità

Fonte ONU
  1960 2018
STATI UNITI 614 389
COREA D.SUD 9 329
FRANCIA 207 247
GIAPPONE 161 240
GERMANIA 210 221
URSS/RUSSIA 179 218
EUROPA 209 191
SPAGNA 80 168
CINA 10 143
REGNO UNITO 344 141
ITALIA 147 136
SUD AFRICA 170 126
IRAN 11 107
TURCHIA 13 106
BRASILE 41 82
MESSICO 38 81
INDIA 6 32
INDONESIA 2 31

Vale la pena notare che l’indice dell’India è molto basso, 32, alla pari con quello dell’Indonesia, il che si spiega anche con l’enorme peso demografico, nonostante il suo peso industriale relativamente elevato.

Questo panorama ci mostra quanto l’Europa e gli Stati Uniti siano andati indietro nel loro ciclo controrivoluzionario su tutti i piani, mentre altri capitalismi stanno avanzando e sviluppando le basi economiche che permetteranno loro di passare a una società comunista, che ovviamente richiederà una rivoluzione.

Possiamo anche notare come l’equilibrio di potere inter-imperialista sia profondamente cambiato. La Russia è diventata una potenza secondaria, come il Giappone, che può allinearsi solo con uno dei due colossi rimasti in pista. L’ascesa dell’imperialismo cinese ha profondamente cambiato la situazione internazionale.

Potremmo azzardare di calcolare quanto tempo ci resta prima che scoppi il terzo conflitto mondiale, calcolando quanto tempo impiegherà la Cina a superare gli Stati Uniti in termini di armamenti. Con questo criterio avremmo ancora una decina d’anni davanti a noi. Speriamo che la crisi tanto attesa scuota nel frattempo il proletariato internazionale dal suo stato di disarmo.

Tutto dipende dalla Cina, che finora ha ampiamente salvato il capitalismo mondiale. In Cina, tuttavia, non c’è solo un forte rallentamento dell’accumulazione, ma anche una crisi di sovrapproduzione in diversi settori chiave, come quello delle costruzioni. A ciò si aggiunge un notevole indebitamento delle imprese e un accumulo di crediti inesigibili nelle banche. In breve, in Cina ci sono tutti gli ingredienti per una terribile crisi di sovrapproduzione.

Questa coinvolgerebbe inevitabilmente l’intera economia capitalistica mondiale aprendo la strada alla ripresa della lotta rivoluzionaria di classe. Dobbiamo solo avere la pazienza di aspettare.










PAGINA 6

Convergere nella riunione internazionale del partito del lavoro di tutti i nostri gruppi

In video-conferenza, 23-25 settembre
[RG144]
(Continuazione e fine del resoconto della Riunione Generale)



Origini del Partito Comunista di Cina
Le direttive dell’ECCI e il Plenum di agosto 1922

Il secondo congresso del Partito Comunista di Cina nel luglio del 1922 aveva recepito quanto stabilito al Secondo Congresso dell’Internazionale sulla tattica da adottare nella questione nazionale e coloniale, con la quale i comunisti cinesi avevano potuto familiarizzare soltanto con la partecipazione di propri delegati al Congresso dei comunisti e delle organizzazioni rivoluzionarie dell’Estremo Oriente di inizio 1922.

Tuttavia, non mancavano ancora pro­fonde divisioni sulla questione della tattica da seguire rispetto al movimento nazional-rivoluzionario, in particolare sulla questione della collaborazione con il Kuomintang. Il Partito prevedeva di marciare a fianco del Kuomintang, ritenuto comunque un partito nazional-rivoluzionario. Ma al suo secondo congresso non discusse della formula proposta da Maring di un “blocco interno” al Kuomintang, con i comunisti che sarebbero dovuti entrare nel partito nazionalista per svolgervi il lavoro rivoluzionario dall’interno, andando, nell’idea di Maring – che si rifaceva evidentemente all’esperienza che aveva maturato in Indonesia – di formarvi un’ala di sinistra.

Quindi, nonostante la questione della tattica rispetto al movimento nazional-rivoluzionario fosse tutt’altro che definitivamente stabilita, la conclusione del secondo congresso non lasciava dubbi sulla proposta caldeggiata da Maring, che semplicemente non fu adottata.

Maring aveva, però, ottenuto a Mosca dall’ECCI una sorta di via libera alla sua linea. Il 18 luglio 1922, infatti, l’ECCI aveva formalmente fatto proprie alcune raccomandazioni di Maring sulla Cina in un documento, probabilmente redatto da Radek, col quale i comunisti cinesi furono incaricati di spostare la loro sede a Canton e di svolgere il loro lavoro a stretto contatto con Maring, mentre un altro documento individuava Maring come il rappresentante del Comintern e del Profintern nella Cina meridionale, con validità fino a settembre del 1923.

Lo spostamento della sede del Partito a Canton, se poteva trovare a fondamento il fatto che nella Cina meridionale vi era una minore repressione, andava sicuramente incontro alle dichiarazioni di Maring, che nel rapporto presentato all’Internazionale sulla situazione in Cina aveva indicato nell’area cantonese un ambiente più favorevole per lo sviluppo del movimento rivoluzionario data la presenza e la forza che vi esercitava il Kuomintang. Per cui tale decisione assumeva anche il significato di una scelta politica a favore di una più stretta collaborazione con il Kuomintang.

Tuttavia non ci fu una dichiarazione scritta nella quale l’Internazionale accettasse e indicasse alla Cina la tattica dell’ingresso dei militanti comunisti nel Kuomintang.

L’ECCI però, produsse un ulteriore documento, le “Istruzioni per il rappresentante dell’ECCI nella Cina meridionale”, col quale stabiliva la linea che i comunisti cinesi avrebbero dovuto adottare. Il documento contiene anche le seguenti indicazioni:

«II) Il Comitato Esecutivo vede il partito del Kuomintang come un’organizzazione rivoluzionaria, che mantiene il carattere della rivoluzione del 1912 e che cerca di creare una repubblica cinese indipendente. Pertanto il compito degli elementi comunisti in Cina deve essere il seguente: a) l’educazione di elementi ideologicamente indipendenti, che dovrebbero costituire il nucleo del Partito Comunista cinese in futuro; b) Questo partito crescerà in accordo con la crescente divisione tra borghesi- piccolo borghesi e elementi proletari. Fino a quel momento i comunisti sono obbligati a sostenere il partito Kuomintang e specialmente questa ala del partito che rappresenta gli elementi proletari e i lavoratori manuali.

«III) Per l’adempimento di questi compiti i comunisti devono organizzare gruppi comunisti di seguaci nel Kuomintang e anche nei sindacati».

Le indicazioni dei vertici dell’Internazionale, se non un esplicito avallo alla linea di Maring, contengono non pochi elementi di ambiguità rispetto alla corretta impostazione rivoluzionaria che era stata stabilita al Secondo Congresso dell’Internazionale, e­le­menti che, però, una volta sviluppati aprivano la strada all’opportunismo.

Addirittura dal documento dell’ECCI sembrava emergere la convinzione dei vertici dell’Internazionale della inconsistenza del giovane Partito cinese, tanto che era individuato tra i principali compiti dei comunisti in Cina quello di educare degli elementi che in futuro avrebbero costituito il nucleo del PCdC, praticamente come se il Partito fosse ancora da formare. Da ciò si arrivava alla decisione di obbligare i comunisti a sostenere il Kuomintang, e si introduceva una formula che nel corso degli eventi successivi sarà in più circostanze nefasta per le sorti della rivoluzione in Cina che consisteva nel sostenere quella “ala” del Kuomintang che si riteneva rappresentasse gli “elementi proletari”. Per la prima volta si faceva strada la teoria per cui all’interno del partito della borghesia cinese potesse essere individuata una “sinistra”, una fazione disposta a rappresentare le aspirazioni del proletariato, che andava sostenuta e rafforzata con il lavoro dei comunisti.

In ogni caso, già a metà del 1922 l’Internazionale dava ai comunisti cinesi l’indicazione di “organizzare gruppi comunisti di seguaci nel Kuomintang”, che in sostanza era quanto proposto da Maring e rifiutato dai comunisti cinesi, in quanto poteva essere portata avanti solo con un lavoro dei militanti comunisti nel partito nazionalista.

Per superare le resistenze all’interno del Partito Comunista di Cina Maring convocò il Plenum di Hangzhou, probabilmente tra il 28 e il 30 agosto 1922.

Su questa importante riunione alcuni dei partecipanti hanno fornito ricostruzioni diverse. Con molta probabilità Maring avrebbe utilizzato le “Istruzioni per il rappresentante dell’ECCI nella Cina meridionale” come un avallo da parte dell’Internazionale alla sua tattica. Per schiacciare l’opposizione, Maring avrebbe invocato l’autorità dell’Internazionale Comunista, esortando i partecipanti a sottomettersi alla sua disciplina. Sotto tale pressione i dirigenti del PCC votarono all’unanimità per la tattica di entrare nel Kuomintang.

Solo imponendo la disciplina dell’Internazionale Maring riuscì a far cambiare la posizione precedentemente assunta dal PCdC e a far loro abbracciare la borghesia in un’alleanza tattica che si realizzava con la formazione di un “blocco interno” comunista nel Kuomintang.

Il Plenum di Hangzhou segna quindi l’avvio di quel periodo decisivo per le relazioni tra il Partito Comunista di Cina e il Kuomintang, al termine del quale, al terzo congresso del partito, i comunisti cinesi cederanno definitivamente la bandiera della rivoluzione in Cina al Kuomintang, che diventerà quindi la forza centrale della rivoluzione nazionale. I comunisti andranno a lavorare per il partito della borghesia cinese, rinunciando all’indipendenza politica e organizzativa del Partito, e finendo legati alla direzione e alla disciplina borghese del Kuomintang.

Questo, che dopo averli utilizzati, passerà alla brutale liquidazione delle forze proletarie e comuniste.


La guerra civile in Italia
La classe operaia e il partito comunista contro il fronte di Stato fascismo e riformismo

Il rapporto iniziava riportando alcuni brani di un documento interno del movimento fascista emiliano che, con lucidità analizzava lo stato delle forze sociali in campo mettendo in evidenza il ruolo controrivoluzionario svolto dal PSI e dalla CGL. Documento che sarà interessante leggere per intero nella pubblicazione estesa del rapporto.

In questo documento si evidenziava come la campagna antimilitarista del PSI, per la smobilitazione, così come l’altra, quella elettorale, fossero solo servite a disarmare e distrarre le masse proletarie impastoiandole nel gioco illusorio delle conquiste democratiche. Di fronte a questa completa disgregazione della classe operaia i fascisti si sentivano certi della loro prossima, inevitabile vittoria. Interessante questa affermazione che, anche se da lati opposti della barricata, combaciava con le nostre tesi: «Quattro milioni di soldati irrequieti erano temibili, sette milioni di elettori operai e contadini non sono da temersi».

La tattica del fascismo era chiara: «Bisogna colpire nel modo più rapido e più sicuro, dare impressione di terrore in modo che lo stordimento avvilisca e sottometta le folle ubbriacate di canti e di parole grosse fino ad oggi. Le notizie dei colpi inflitti man mano alla demagogia rossa varranno come la migliore propaganda per rialzare lo spirito patriottico.» A questo si aggiunga il belare pacifista dei santoni socialdemocratici e dei falsi rivoluzionari massimalisti.

La lettura di questo documento ci dimostra che furono i fascisti, per primi, a riconoscere l’opera di disgregazione delle forze del proletariato svolta dal Partito Socialista e dalla Confederazione Generale del Lavoro. Non a caso fu lo stesso Ludovico D’Aragona, segretario generale della CGL e deputato socialista, che a settembre 1922 ammetteva: «Resta tuttavia onore e vanto nostro l’aver impedito lo scoppio di quella rivoluzione che dagli estremisti si meditava...» Ed infatti, mantenendosi sulla medesima linea politica, poche settimane dopo D’Aragona & C. dichiararono la loro disponibilità alla partecipazione attiva nel governo Mussolini.

Il rapporto passava poi ad esporre l’attività pratica svolta dal Partito Comunista fin dai giorni successivi alla sua fondazione e come esso, in un tempo brevissimo fosse riuscito ad imporsi sulle masse operaie grazie alla sua molteplice opera di propaganda e agitazione politica, ma furono soprattutto le giuste direttive sindacali del partito a conquistare sempre maggiori consensi tra le fila proletarie.

Già nell’agosto 1921 il partito lanciava l’appello per il Fronte unico sindacale e per lo sciopero generale in difesa della classe lavoratrice. I capi della CGL che avevano definito la proposta comunista come pazzesca e demagogica, anziché il Fronte unico attuarono la tattica del “caso per caso”: contro le unite forze della reazione borghese e padronale gli operai venivano mobilitati in modo disorganico e frammentario. Ossia si metteva in atto proprio ciò che faceva il gioco del fascismo, che temeva di essere sopraffatto da una eventuale, contemporanea azione nazionale in ogni città e regione d’Italia. Però, anche se osteggiato dai bonzi sindacali di tutte le tinte e gradazioni, il piano d’azione comunista conquistava sempre maggiori masse proletarie.

Al Consiglio Nazionale di Verona il PCd’I ebbe una grande affermazione, raccogliendo circa mezzo milione di voti.

Ma fu dopo Verona che la piattaforma comunista venne conosciuta, dibattuta ed accolta con sempre maggior favore dalle masse proletarie.

Si giunse al febbraio 1922; i dirigenti sindacali non potendo più apertamente schierarsi contro il fronte unico, perché rivendicato in tutte le assemblee e convegni dalla totalità degli operai, decisero di dar vita ad una sua mascheratura: l’Alleanza del Lavoro stretta tra le dirigenze burocratiche delle varie organizzazioni sindacali nazionali.

Nessuna rappresentanza proporzionale negli organi direttivi venne concessa alle minoranze presenti nei vari sindacati; nessuna preparazione; nessun programma; nessun congresso nazionale dell’Alleanza per fissarne gli scopi e l’azione. E come vedremo, diretta da coloro che l’avevano sempre combattuta, doveva ingloriosamente vivere e morire.

Nel frattempo il proletariato italiano veniva sottoposto ad un massiccio e feroce attacco padronale, al terrore fascista ed alla repressione statale. La tattica del caso per caso serviva solo a facilitare l’azione terroristica del fascismo che poteva concentrare in un determinato punto tutta la forza della sua organizzazione militare contro la quale le eroiche resistenze proletarie locali solo raramente potevano riuscire vittoriose.

Intanto il Partito comunista intensificava la sua battaglia a favore del fronte unico e dello sciopero generale. Sulla spinta della base sindacale ai primi di luglio venne convocato a Genova il Consiglio nazionale. Anche qui i comunisti ebbero un’ottima affermazione. All’indomani del Consiglio nazionale gli avvenimenti precipitarono. Di fronte al dilagare della violenza fascista, la CGL e l’Alleanza del Lavoro chiudevano gli scioperi in corso lasciando i proletari indifesi in balia del terrore delle squadre nere.

Poi, dopo avere ripetutamente sabotato ogni azione di difesa proletaria, l’Alleanza del Lavoro, inaspettatamente e senza avere operato una minima preparazione, proclamava, ad agosto, lo sciopero generale nazionale “in difesa della legalità”, ossia per aprire la strada del governo ai socialdemocratici.

Nei giorni dello sciopero il proletariato si comportò in modo magnifico; il fascismo impegnato su tutto il territorio nazionale visse momenti di sconfitta. Se le forze della classe lavoratrice scese in campo fossero state meglio dirette e utilizzate, la controffensiva proletaria, di cui molte manifestazioni si ebbero, si sarebbe verificata.

Il Comitato Esecutivo del PCd’I dichiarava: «Con speciale compiacimento constatiamo come tutte le forze del partito hanno assolto il proprio compito con mirabile compattezza e disciplina, dimostrando come la nostra organizzazione acquisti la capacità di rispondere alla sua missione: porsi alla testa del proletariato italiano, libero da tutti i capeggiatori poltroni e inetti, nelle immancabili battaglie di domani.»

Tradito dai dirigenti sindacali, socialdemocratici e sedicenti rivoluzionari, abbandonato a se stesso, sul proletariato italiano si abbatté l’ultima ondata di violenza e terrore. Le cittadelle proletarie non ancora capitolate vennero messe sotto assedio, e al ferro e al fuoco, delle congiunte forze militari fasciste e statali. Ad una ad una venivano attaccate e molte delle quali conquistate solo dopo accaniti combattimenti. In altre il proletariato riuscì comunque a mantenersi vittorioso. Memorabili furono le battaglie di Novara, Ravenna, Ancona, Savona, Forlì, Bari, Roma, Torino, Milano, Parma e tante altre le descrizioni delle quali rimandiamo alla futura pubblicazione in esteso sulla stampa di Partito. Allora, oltre alle imprese gloriose del proletariato verranno descritti gli ignobili patteggiamenti con il nemico di classe operati da bonzi confederali e dirigenti socialisti. Però vedremo anche che il proletariato, sconfitto sul campo, continuò a mettere in pratica la parola d’ordine comunista di “non rinunciare di vibrare nessun colpo al nemico”, e certi tipi di guerriglia non cessarono mai.

Successivamente il rapporto ha posto l’attenzione sulla struttura clandestina del PCd’I che, dopo l’avvento al potere del fascismo, grazie alla sperimentata attività del suo Ufficio Illegale, seppe conservare quasi intatto il proprio impianto organizzativo.

Ci siamo avvalsi della relazione, presentata all’Internazionale in data 16 maggio 1923 da Bruno Fortichiari, responsabile dell’Ufficio Illegale del PCd’I.

«Tutto il lavoro del partito, - si legge nella relazione - tranne il giornale e la frazione parlamentare, è diventato clandestino [...] Tutte le comunicazioni sono rimaste intatte; solo alcune organizzazioni locali hanno subito gravi perdite. La polizia ha preso molto materiale criptato, ma non ha ottenuto la chiave e non è riuscita a decifrarla [...] Ora la corrispondenza è stata ridotta al minimo e viene conservata solo in casi eccezionali [...] Un “ufficio commerciale” è stato creato per coprire l’Ufficio illegale». La relazione passava poi ad analizzare nel dettaglio la struttura organizzativa che il Partito si era dato per operare nella completa clandestinità. Per quanto concerne l’attività illegale si legge:

«Pubblicati illegalmente: (dopo la presa del potere fascista) 160.000 copie di un manifesto (stampate in una tipografia legale, ma illegalmente); 100.000 copie del Manifesto del 1° maggio (stampate in tipografia legale), 20.000 copie del volantino per i soldati, 12.000 copie di volantini di partito (tutti stampati illegalmente in tipografia legale). Il partito ha acquisito un poligrafo [ciclostile – N.d.r.] illegale a Milano e anche a Torino. A Roma c’è un funzionario che aiuta il partito a stampare sul poligrafo. L’acquisto di 10 macchine tipografiche in Germania saltò per mancanza di fondi [...]

«Le organizzazioni militari sono state sciolte. Le armi sono disponibili presso i singoli compagni e in piccoli magazzini [...] In generale, gli operai e i contadini in Italia possiedono armi in quantità abbastanza elevate.

«I compagni italiani possono facilmente ottenere e stampare carte di identità.»

II passaporti per l’estero « non si possono stampare [ma] i libretti vuoti vengono acquistati e poi compilati. Ci sono timbri ufficiali, ecc. Le falsificazioni hanno un certo successo.»

Dal verbale della riunione della commissione illegale del CEIC [22 maggio 1923], traiamo anche queste altre interessanti notizie. «L’ufficio illegale effettua anche ricognizioni in altre organizzazioni e partiti. Le informazioni vengono ottenute attraverso simpatizzanti o compagni inviati lì di proposito. A questo scopo, i compagni vengono inviati alle organizzazioni fasciste, massoniche, ecc. L’ufficio illegale ha una persona anche nel ministero. Il comp. Martini dice che si è cercato di mandare i suoi uomini nella polizia segreta. Due compagni sono stati inviati lì, ma sono stati rimossi a causa dei tagli al personale. D’altra parte è abbastanza facile ottenere vari materiali segreti in cambio di denaro».

Queste brevi notizie danno il quadro di un partito costretto al lavoro nella completa clandestinità, ma pienamente attivo e vitale.

Attività e vitalità che pure il Duce del fascismo era costretto a confessare pubblicamente. Il rapporto, iniziato con un documento fascista del 1920, terminava riportando l’intervento di Mussolini alla Camera del 7 luglio 1924. Noi non possiamo che ringraziare Benito Mussolini per l’ottima illustrazione dell’attività clandestina del Partito Comunista d’Italia!


L’attività sindacale del partito

L’attuale attività sindacale del partito in Italia può essere suddivisa in quattro ambiti: il lavoro redazionale di note, articoli e volantini; la partecipazione diretta in manifestazioni e scioperi; l’intervento in seno alle organizzazioni sindacali; la collaborazione al Coordinamento Lavoratori Autoconvocati (CLA).

Da quasi 10 anni – dal numero del gennaio 2013 – il partito è tornato a inserire nel giornale italiano una pagina fissa “di impostazione programmatica e di battaglia”, titolata “Per il sindacato di classe”.

Nel numero del giugno scorso, a corredo del volantino che abbiamo diffuso alle manifestazioni per lo sciopero generale contro la guerra del 20 maggio, convocato da tutto il sindacalismo di base, abbiamo pubblicato un commento circa il suo andamento e la sua preparazione.

Ne abbiamo potuto seguire da vicino la preparazione attraverso il Coordinamento Lavoratori Autoconvocati (CLA), che è stato invitato a partecipare alle riunioni organizzative preparatorie, così come tutti gli organismi – anche non di classe – che ne hanno sostenuto la promozione, fin dalla prima assemblea nazionale a Milano il 9 aprile, in cui siamo intervenuti sia diffondendo volantini del partito sia con un discorso a nome del CLA.

Va ricordato che del CLA fanno parte militanti sindacali di diversi organismi del sindacalismo conflittuale: dei sindacati di base e di aree di opposizione in Cgil. Molti appartengono a diversi gruppi politici, fra i quali il nostro partito è nettamente minoritario. Il CLA si è costituito e lavora su un piano politico-sindacale, non politico-partitico, sulla base di un indirizzo condiviso dal nostro partito, e che anzi lo caratterizza, che è quello dell’unità d’azione del sindacalismo conflittuale e dei lavoratori. Pur ravvisando i limiti nella preparazione dello sciopero del 20 maggio contro la guerra, e la bassa adesione ad esso, il nostro giudizio non è stato negativo, in quanto abbiamo dato importanza:

- al valore del tentativo di organizzare un’azione della classe lavoratrice contro la guerra imperialista in corso in Ucraina, a fronte della canea bellicista dispiegata dal regime borghese in Italia e in Europa, e dell’immobilismo dei sindacati di regime volto a impedire qualsiasi reazione in tal senso dei lavoratori;

- al fatto che, pur fra tentennamenti e esitazioni, infine tutto il sindacalismo di base ha aderito allo sciopero.

Questo giudizio, analogo a quello riguardo il precedente sciopero generale unitario dell’11 ottobre 2021, ci distingue, nel campo dei gruppi e dei partiti operai che agiscono nel movimento sindacale, la cui maggior parte o ha espresso un giudizio negativo o svaluta l’importanza di questa azione intrapresa dal sindacalismo di base contro la guerra. Infatti, diversamente da noi, danno eccessiva importanza alla debolezza numerica delle mobilitazioni attuali e troppo poca ai caratteri che le rendono suscettibili di più ampio sviluppo futuro.

Il primo fattore di questa sfiducia è la scarsa considerazione in cui è tenuta l’azione autonoma della classe lavoratrice, frutto della impostazione politica opportunista che considera di maggior valore un movimento popolare, interclassista, che – nella migliore delle ipotesi – abbia la classe operaia “al centro”. Noi invece affermiamo che le mezze classi e gli strati sociali non proletari possono al più accodarsi a un movimento autonomo della classe lavoratrice, impossibile senza la sua identità, la sua distinta e separata organizzazione e capacità di movimento.

Secondo questa impostazione, ad esempio per ciò che riguarda l’opposizione alla guerra imperialista, buona parte di questi gruppi operai opportunisti dà assai più valore a grosse manifestazioni pacifiste a carattere interclassista che a scioperi di una parte pur minoritaria della classe operaia. Noi invece sappiamo che solo la mobilitazione della nostra classe è in grado di impedire o fermare la guerra imperialista.

Quindi un primo tentativo di mobilitazione dei lavoratori sul piano sindacale, cioè di classe, contro la guerra ha una grande importanza, nella prospettiva certa del crescere dei contrasti inter-imperialistici e della pressione del regime borghese sulla classe operaia per piegarla al militarismo.

Il secondo fattore di sfiducia – alla base del giudizio diverso da quello espresso dal nostro partito nel merito dello sciopero contro la guerra e di quello precedente dell’ottobre 2021 – è la scarsa importanza conferita al carattere unitario di queste mobilitazioni, cioè al fatto che ad esse hanno aderito tutte le organizzazioni del sindacalismo di base. Questo carattere unitario non appare nell’immediato condizione tale da aver portato a sostanziali avanzamenti nella partecipazione agli scioperi in tal modo convocati.

Come spieghiamo nei nostri articoli e volantini, l’azione unitaria degli organismi del sindacalismo conflittuale – sindacati di base e opposizioni di classe in Cgil – non è di per sé la soluzione taumaturgica allo stato di attuale passività della classe lavoratrice. Questa è frutto di una serie di complessi fattori che riguardano il secolare ciclo della controrivoluzione iniziato a metà degli anni ‘20 del secolo scorso.

L’azione unitaria degli organismi del sindacalismo conflittuale, perseguita in modo costante e organico, cioè a tutti i livelli dell’azione sindacale – aziendale, territoriale, categoriale, nazionale e confederale – è la condizione soggettiva tale da favorire il più rapido ritorno alla lotta dei lavoratori, allorquando le condizioni oggettive diverranno favorevoli in tal senso.

Viceversa, il persistere delle condotte opportuniste che dividono l’azione dei sindacati di base è fattore di freno, di mantenimento del controllo dei sindacati di regime sui lavoratori e dello stato di passività di questi.

Inoltre, l’indirizzo dell’unità d’azione del sindacalismo conflittuale, agitato alla base dei suoi organismi, è utile a sostenere e organizzare la lotta contro le dirigenze sindacali e il loro opportunismo, nella prospettiva secondo cui quell’unità d’azione permanente e organica, che porti a un fronte unico sindacale di classe, potrà aversi solo contro e a discapito di esse.

Negli ultimi due anni abbiamo assistito a un parziale cambio di rotta da parte delle dirigenze dei sindacati di base. Esso si è manifestato prima con lo sciopero nazionale unitario nella logistica del 18 giugno 2021. Va rammentato che proprio in questa categoria vi fu pochi anni addietro lo scontro più duro fra SI Cobas e Usb. Poi il corso unitario ha portato allo sciopero generale dell’11 ottobre 2021, una mobilitazione ancora lontana dall’essere un vero sciopero generale ma la meglio riuscita rispetto alle analoghe azioni degli anni precedenti. Quindi vi è stato lo sciopero generale contro la guerra del 20 maggio. Infine la manifestazione unitaria a Piacenza del 23 luglio scorso, in risposta agli arresti dei dirigenti di Usb e SI Cobas.

Questo corso unitario è avvenuto, e verosimilmente proseguirà, fra limiti, tentennamenti, retromarce.

Non crediamo che sia il risultato diretto dell’azione di battaglia sindacale in tal senso portata avanti dal nostro partito, anche attraverso il CLA. È l’effetto del maturare delle condizioni della lotta fra le classi che, inasprita, rende sempre più necessario l’indirizzo dell’unità d’azione del sindacalismo conflittuale da noi anticipato e indicato, e quindi vulnerabili le dirigenze opportuniste dei sindacati di base alla critica del nostro partito e alla proposta del giusto indirizzo.

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Nel numero di giugno di questo giornale abbiamo pubblicato il commento ad una assemblea nazionale convocata a Firenze il 15 maggio dal Collettivo di fabbrica della ex Gkn, a cui abbiamo partecipato in qualità di rappresentanti del CLA. Questa assemblea ci ha così consentito di ribadire alcuni importanti punti del nostro indirizzo sindacale, quali siano i veri caratteri di un movimento di classe e il rapporto fra lotta economica e lotta politica della classe operaia.

Qui aggiungiamo solo una considerazione, che si collega a quanto sopra esposto. Il Collettivo di fabbrica della ex Gkn è riuscito ad aggregare attorno alla sua lotta contro la chiusura dello stabilimento un movimento di una certa consistenza, tale da dispiegare diverse manifestazioni, ben partecipate, quella meglio riuscita con oltre diecimila partecipanti. Anche l’assemblea del 15 maggio è ben riuscita, con oltre trecento presenti. Questi numeri hanno – giustamente – attirato le attenzioni di tutto il sindacalismo conflittuale, dei suoi militanti, e anche del CLA.

Tuttavia, a dispetto delle partecipate mobilitazioni, nella misura in cui i capi del Collettivo di fabbrica della ex Gkn hanno dato più importanza all’unione della loro lotta coi movimenti interclassisti – come quello studentesco o ambientalista – rispetto all’unione con le altre lotte operaie e, in modo ancor più marcato, rispetto all’unità d’azione del sindacalismo conflittuale, le prospettive del piccolo movimento cui essi hanno dato vita sono di più corto respiro rispetto a quelle delle azioni unitarie del sindacalismo di base, per quanto per ora meno eclatanti sul piano della partecipazione.

Il lavoro, l’insistenza, da parte del nostro partito, ha teso a spiegare come la capacità di mobilitazione del Collettivo di fabbrica ex Gkn abbia avuto origine nel lavoro sindacale svolto negli anni passati, sino all’annunciata chiusura della fabbrica da parte della proprietà, e come l’unica prospettiva futura sia sì fuori dalla fabbrica, ma nella classe salariata, lavorando per l’unione delle lotte operaie e del sindacalismo conflittuale, e non per la costruzione di un movimento vagamente popolare.

Gli impegni assunti dal Collettivo ex Gkn per manifestazioni in programma nei mesi a venire, a carattere interclassista, e l’assenza di una seria e determinata iniziativa volta a indirizzare e rafforzare il movimento di lotta sindacale di classe, confermano ciò che si era già delineato osservando l’evolversi dei caratteri delle manifestazioni e delle rivendicazioni dagli inizi della vertenza nel luglio 2021 ad oggi.

A disperdere queste energie di lotta operaia nella palude del generico interclassismo, ancora una volta a discapito del necessario lavoro di ricostruzione della forza sindacale di classe, hanno contribuito l’impostazione politica opportunista dei capi operai del Collettivo e la loro appartenenza alla Cgil. Si svaluta la potenzialità dell’azione autonoma della classe operaia e non la si potenzia promuovendo l’unità d’azione del sindacalismo conflittuale.

Perseguire davvero e sino in fondo l’unità d’azione del sindacalismo conflittuale infatti non può che condurre le aree di opposizione in Cgil a rompere con la disciplina interna a quel sindacato, palesando l’impossibilità del prevalere di un indirizzo classista al suo interno e la necessità di organizzarsi fuori e contro di essa.

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Dopo lo sciopero contro la guerra del 20 maggio, vi sono state altre riunioni fra le dirigenze sindacali ma questa volta riservate solo a loro, a cui dunque né il CLA, né i nostri compagni, hanno potuto partecipare.

Vi è stata confusione circa le iniziative generali da promuovere nei mesi autunnali. Risultava registrata presso la Commissione di Garanzia la convocazione di uno sciopero generale da parte di Si Cobas Usb e Cub per il 21 ottobre; comunicazione inviata il 15 luglio ma non propagandata fra i lavoratori dai sindacati promotori.

Domenica 18 settembre, il SI Cobas ha svolto un’assemblea nazionale a Bologna, titolata “Rilanciamo l’opposizione proletaria ai piani di miseria, al militarismo e alle politiche di macelleria sociale dei padroni”, da cui ha lanciato uno sciopero generale per il 2 dicembre.

Infine il 24 settembre tutti i principali sindacati di base hanno inviato alla Commissione di Garanzia la comunicazione della proclamazione di uno sciopero generale unitario venerdì 2 dicembre.

Verosimilmente in questa confusione e attesa hanno giocato un ruolo le elezioni politiche borghesi del 25 settembre, analogamente a quanto accaduto con la Cgil, la cui dirigenza ha deciso di sospendere per esse il congresso del sindacato.

Questi tentennamenti non sono positivi, anche considerato che, in vista dell’affermazione dei partiti borghesi “di destra”, la Cgil presumibilmente, come sempre ha fatto, si darà a un certo attivismo nelle mobilitazioni, il cui primo segnale è stato la convocazione – senza attendere il passaggio delle elezioni – di una manifestazione nazionale a Roma per l’8 ottobre.

Ma il dato più importante, e positivo, è che per il secondo anno consecutivo il sindacalismo di base convoca unitariamente lo sciopero generale: il problema consisterà ora nella sua adeguata preparazione.

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Fra lo sciopero contro la guerra del 20 maggio scorso e i tentennamenti di parte delle dirigenze dei sindacati di base nelle settimane precedenti le elezioni, a luglio vi è stata la vicenda dell’arresto a Piacenza di 8 dirigenti locali e nazionali del SI Cobas e dell’Usb. L’arresto è avvenuto nel quadro di una inchiesta della procura di Piacenza. È il terzo tentativo – almeno limitandosi a quelli principali – di attacco sul piano giudiziario al movimento sindacale di classe nella logistica, due volte dalla procura di Piacenza, una di Modena.

Nei primi due casi, tutte le accuse sono cadute lungo il procedimento processuale. In questo terzo tentativo, che per la prima volta vede coinvolta non solo il SI Cobas ma anche l’Usb, l’accusa più grave e centrale, quella di “associazione a delinquere”, è venuta a cadere nemmeno dopo due mesi dal suo avvio.

A leggere gli stralci dell’inchiesta redatti dalla procura, effettivamente sembra palese come si caratterizzi in un attacco meramente strumentale, con finalità antisindacali, per porre un freno agli scioperi nel settore della logistica e distruggere i sindacati di base che li organizzano.

La reazione agli arresti è stata abbastanza positiva in termini di partecipazione alle manifestazioni locali e a quella nazionale del 23 luglio a Piacenza, considerato che si sono svolte in pieno periodo estivo. Aspetto positivo è stato la reazione unitaria di SI Cobas e Usb: a Piacenza i lavoratori dei due sindacati hanno sfilato mischiati nello stesso corteo, non divisi in due spezzoni. Ma alla manifestazione del 3 agosto dinanzi al tribunale di Bologna l’Usb era assente.

Siamo intervenuti alla manifestazione del 23 luglio a Piacenza diffondendo un volantino che è stato prontamente tradotto in quattro lingue.

Anche il CLA è intervenuto con un volantino titolato “Unire con la lotta e l’organizzazione ciò che lo Stato vuole dividere e intimidire con la repressione”.

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Il Coordinamento Lavoratori Autoconvocati, oltre che alla manifestazione nazionale di Piacenza del 23 luglio, nei mesi estivi è intervenuto con due volantinaggi.

Il primo il 2 agosto alla Piaggio di Pontedera, dove il 27 luglio vi è stato uno sciopero cui hanno aderito compatti gli operai, con un corteo in fabbrica, a seguito di un grave infortunio occorso ad una operaia.

In questa fabbrica opera da tempo un gruppo di delegati dell’area di opposizione in Cgil, metalmeccanici inquadrati nella Fiom. Diversi anni fa questi delegati erano stati sospesi dalla Fiom Cgil ma non avevano abbandonato il sindacato di regime, e infine vi erano stati riammessi. Sei anni fa una minoranza di questi delegati ha lasciato la Fiom per aderire all’Usb. Fra i delegati dell’area di opposizione in Cgil rimasti in quel sindacato, e quelli passati a Usb vi è stato sin dal principio un clima di discordia. Alcuni mesi fa, anche i delegati dell’area di opposizione in Cgil che erano rimasti in quel sindacato di regime hanno deciso di abbandonarlo, e sono passati a un piccolo sindacato di base, denominato Sial Cobas. Quindi ora nella Piaggio di Pontedera vi sono due sindacati di base.

Nella vicina fabbrica della ex Continental, ora denominata Vitesco, alcuni anni fa una parte dei delegati Fiom, anche qui aderenti all’area di opposizione in Cgil, aveva lasciato il sindacato di regime per aderire all’Usb. Questi delegati sono però pervenuti a un duro scontro col gruppo dirigente locale dell’Usb, fra cui i delegati Usb alla Piaggio. Insieme a un membro dell’esecutivo provinciale dell’Usb infine hanno deciso di abbandonare quel sindacato di base e hanno aderito anch’essi al Sial Cobas.

Il secondo volantinaggio effettuato dal CLA è stato il 9 settembre presso un centro postale a Ponsacco (Pisa) dove pochi giorni prima era morto un lavoratore.

Infine, il 12 settembre è stato pubblicato un documento, redatto da un nostro compagno e solo in piccola misura modificato, intitolato “Contro il carovita è necessaria un’azione unitaria del sindacalismo conflittuale per la costruzione di un movimento generale per forti aumenti salariali”.

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Il 1° settembre, ad una assemblea nazionale dell’Usb contro la guerra svoltasi a Genova, abbiamo distribuito un volantino titolato “Il primo passo per fermare la guerra imperialista è scioperare per rifiutare di pagarne i costi”.

Questo volantino e quello del CLA sono stati distribuiti a Roma sabato 17 settembre ad una “Assemblea proletaria anticapitalista”. Ad essa erano presenti due nostri compagni e due militanti sindacali del CLA. Questa assemblea, che vorrebbe essere un organismo a carattere permanente, è ciò che resta di quel Patto d’Azione Anticapitalista creato tre anni fa dalla dirigenza del SI Cobas, trovando principalmente l’appoggio, al di fuori del sindacato, in un gruppo politico giovanile stalinista. Questa operazione della dirigenza del SI Cobas è stata da noi duramente criticata, perché tesa a creare un organismo ibrido fra partito e sindacato. Da noi era stato espresso il facile pronostico di una rapida fine di tal Patto d’Azione, cosa che si è verificata, per volontà delle principali forze che lo avevano promosso, fra cui la stessa dirigenza del SI Cobas. Alcune organizzazioni minori che vi avevano aderito hanno voluto non abbandonare il progetto, e con forze più esigue rinominarlo “Assemblea proletaria anticapitalista”. Questa quindi si caratterizza per avere lo stesso difetto del Patto d’Azione promosso dalla dirigenza del SI Cobas. Un nostro compagno è intervenuto ribadendo, con un discorso molto ben articolato, la necessità di mantenere distinti i due ambiti, sindacale e partitico.

(Fine del resoconto della riunione generale dello scorso settembre)







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U.S.A.
È tornato il circo elettorale

L’8 novembre i cittadini americani sono stati chiamati a votare i loro rappresentanti a livello federale, statale e locale nelle elezioni di medio termine. Letteralmente “chiamati”: da ogni direzione la voce della società borghese ha intimato ai cittadini di adempiere al loro “dovere civile”, da volontari in rete agli incontri nelle comunità. I familiari, il capo sul lavoro, il padrone di casa, oltre che ovviamente i partiti e i sindacati del regime insistono che tu eserciti il “diritto di voto”. Scuole, università e chiese si uniscono al coro. Ti assilla ogni forma di comunicazione, televisione, radio, internet, ovunque insegne pubblicitarie, poster su muri e pali, cartelli sugli autobus, spot dagli altoparlanti della metropolitana, giornali, riviste, Facebook, Twitter. Anche Google martella “Vai a votare!”.

Tuttavia i lavoratori negli Stati Uniti – in particolare quelli con salari più bassi – si sono sempre dimostrati assai refrattari a questo imbonimento, e quando consultati affermano di non credere di poter migliorare realmente la loro vita con il voto.

Invece per la borghesia tanto maggiore è la partecipazione alle elezioni meglio è. Ma meglio per chi?

Da un secolo e mezzo per il nostro movimento le presenti istituzioni democratiche sono divenute solo una macchina per trattenere il proletariato.

Il problema principale dei lavoratori è la miseria del salario, stretti tra il crollo del potere d’acquisto delle paghe e la disoccupazione incombente. La politica borghese ignora del tutto tali questioni “banali”.

Il voto è un assegno in bianco concesso alla borghesia per mantenere lo status quo, e le elezioni non sono altro che un modo per indurre il “popolo” a consentire all’oppressione e allo sfruttamento.

Quindi per noi comunisti non è ovvio che un’alta affluenza sia un fatto positivo, al contrario, crediamo che meno lavoratori votano meglio è. Quando la classe operaia cesserà di credere all’illusione della democrazia borghese e sentirà la necessità dell’azione rivoluzionaria non avrà alcun interesse certo ad organizzare elezioni.

Ma c’è chi sostiene che dovremmo usare il voto per creare condizioni migliori per un’azione rivoluzionaria, per eleggere il governo con cui preferiremmo lottare.

A parte la contraddizione tra far votare per un governo per poi chiedere di rovesciarlo, concediamo che alcuni governi sono più facili da abbattere di altri, anche se probabilmente non per le stesse ragioni dei sostenitori del voto.

La borghesia sa come difendere i suoi interessi: non è così facile opporsi a un governo che finge benevolenza verso i lavoratori, che concede alcuni diritti e miglioramenti nelle condizioni di vita e di lavoro, ma solo per dividere la classe operaia e privarla di combattività e indipendenza. I comunisti considerano fatto positivo che la democrazia si sfili il guanto di velluto e riveli il pugno di ferro del fascismo perché allora i lavoratori vedono chi è il vero nemico, e lo possono combattere.

Questo non vuol dire che oggi acconsentiamo all’allarmismo dell’ala sinistra della borghesia, che assimila la competizione tra repubblicani e democratici negli Stati Uniti ad una guerra tra fascismo e democrazia. Da un lato perché il populismo di destra negli Stati Uniti è più una reazione di alcune sezioni della piccola borghesia e del proletariato contro la globalizzazione e la modernizzazione piuttosto che una offensiva contro il capitale. Dall’altro perché il contenuto essenziale del fascismo – unificazione della borghesia e eliminazione dell’indipendenza della classe operaia – è già stato abbracciato da entrambe le parti.

Quindi il voto perpetua illusioni tra la classe operaia e devia energie preziose e potenzialmente pericolose verso canali innocui, distraendo i lavoratori dall’organizzazione di una vera lotta. Questa è la democrazia che funziona proprio come previsto dalla borghesia che la alimenta. La moderna classe dominante sa a mente un’importante lezione della classe dominante dell’antichità: dare panem et circenses alle masse per evitare la rivolta.

Ma il pane sta diventando scarso, man mano che progredisce la crisi del capitale, e l’inganno teso alla classe operaia si va esaurendo, come conferma la sua diffusa e spontanea astensione.

Presto, quando interverrà il Partito comunista internazionale, gli innumerevoli semplici atti di singoli lavoratori, spinti all’indifferenza, si volgeranno ad una azione positiva della classe operaia. Allora, organizzati nel sindacato di classe, i lavoratori potranno rivendicare le concessioni possibili sotto il capitalismo. Con la forza degli scioperi, estesi al di sopra delle divisioni di nazione, di industria, di mestiere, diretti dal partito comunista e, svelati tutti i sui inganni e denunciati tutti i compromessi, si lanceranno all’attacco del capitalismo.





Perù
Ancora sangue proletario versato per interessi borghesi

In Perù, l’aggravarsi della crisi economica del capitalismo e il suo impatto sulle masse salariate e sugli strati oppressi, il cui tenore di vita si sta deteriorando, alimenta uno scontro continuo tra i diversi partiti borghesi che in parlamento rappresentano gli interessi di settori dell’economia e di gruppi padronali. Che questi partiti si definiscano di sinistra, di destra o di centro, sono tutti senza eccezione tentacoli politici delle classi dominanti. Ma queste contraddizioni inter-borghesi nascono solo per il controllo degli affari e degli appalti e per spartirsi i frutti della corruzione.

Si tratta anche della lotta fra partiti, istituzioni e sindacati per individuare il metodo più efficace per mantenere smobilitato, disorganizzato e diviso il proletariato, che porta sulle spalle il pesante fardello della fame, della malnutrizione, della disoccupazione, dei bassi salari e delle mancate cure sanitarie.

Ma la borghesia non troverà mai un partito o un fronte di partiti capace di incanalare e placare il malcontento delle masse. Ne è un esempio il Perù, dove si sono succeduti 6 presidenti negli ultimi 4 anni. Per questo la borghesia è sempre pronta all’alternativa del colpo di Stato e della dittatura aperta.

Stavolta i partiti in parlamento sono riusciti a far decadere il presidente Pedro Castillo, accusato di ribellione per aver manifestato l’intenzione di sciogliere il parlamento. Castillo è stato posto in detenzione preventiva, che potrebbe essere prolungata per 18 mesi, indagato per abuso di autorità. La vicepresidente Dina Boluarte è stata nominata nuovo presidente e ha immediatamente nominato i suoi ministri.

Tuttavia accesi scontri all’interno del Congresso hanno costretto la nuova presidente a indire nuove elezioni per l’aprile 2024, al fine di fare spazio alle altre forze politiche.

Le strade si sono però riempite di manifestanti che chiedevano il reintegro di Castillo. In risposta Boluarte ha immediatamente dichiarato lo stato di emergenza dove le proteste erano più forti, denunciandole come facenti parte del piano di “autogol” tentato da Castillo. Secondo i manifestanti, invece, il colpo di Stato sarebbe stato compiuto dal Congresso e dai partiti di opposizione a Castillo. Gli scontri si sono intensificati e centinaia di manifestanti sono rimasti feriti e decine uccisi.

Prima del tentativo di “autogol” di Castillo il Congresso, a maggioranza Fujimori, aveva discusso l’introduzione di una “carica presidenziale vacante”, ma non ha avuto abbastanza voti per approvarla.

La banda politica Fujimori fin dal primo giorno della sua presidenza ha attaccato Castillo e cercato di rimuoverlo. In un anno e mezzo tre mozioni hanno cercato di dimostrare la sua “incapacità morale e fisica” a ricoprire la carica. E tutte le concessioni politiche fatte agli avversari, sia a livello nazionale sia internazionale, non sono servite. Infine Castillo, il 7 dicembre, in un messaggio televisivo ha annunciato che avrebbe sciolto il Congresso e formato un governo di emergenza, imposto il coprifuoco notturno e governato per decreto. La Costituzione peruviana conferisce al Presidente il potere di sciogliere il Parlamento. Subito i media fedeli alla banda Fujimori hanno fatto passare l’opinione che Castillo avesse attuato un “colpo di Stato”.

Pedro Castillo non è stato che un altro amministratore degli interessi della borghesia, un rappresentante di gruppi economici di aziende, e nulla cambia se in precedenza era un sindacalista o un insegnante. È stato un altro degli infiniti tentativi della borghesia di trovare qualche imbroglione, un “pifferaio magico”, per illudere le masse e sottometterle alla politica borghese.

Ma i vari rappresentanti della borghesia in parlamento non riescono nemmeno ora a trovare un accordo su un minimo di stabilità istituzionale. Pedro Castillo non rappresentava una minaccia per gli interessi della borghesia, ma è stato comunque vittima delle contraddizioni fra borghesi.


Quali interessi si scontrano

I consorzi minerari internazionali lottano a morte per il controllo delle concessioni di estrazione di litio, uranio e altro, nelle miniere esistenti e in nuovi territori, dai quali la popolazione rurale è espulsa. Una lotta che genera anche una larga corruzione di funzionari e parlamentari.

La legislazione predisposta da Fujimori ha reso più facile per i consorzi minerari operare a basso costo, tutte le spese sostenute dalle società minerarie per consentire la produzione e per i macchinari sono rimborsate dallo Stato peruviano e detratte dalle tasse: in pratica queste società finiscono per non pagare alcuna imposta.

Le operazioni minerarie, siano esse di grandi imprese o di piccole o informali hanno un elevato impatto ambientale e inquinante. Ad esempio la regione La Concepción (Cuzco), interessata all’attività mineraria, è altamente inquinata; lo stesso a Cerro de Pasco, la “capitale mineraria” del Perù. Pesanti le conseguenze sulla fauna e sulla flora locali e sulla salute della popolazione. Nella indifferenza dei vari governi borghesi, piombo, arsenico e cadmio si diffondono nell’aria, nei fiumi, nei laghi e nei terreni.

Evidentemente quello sulle concessioni è uno scontro inter-imperialista tra Cina, Stati Uniti e altre potenze. Altro conflitto è per l’assegnazione dei contratti di telefonia e di estrazione del gas naturale.

I cinesi stanno proponendo un loro progetto per la costruzione di una ferrovia continentale da Tumbes, porto sul Pacifico, a Tacna, da lì a Cuzco e Puno, e da Puno all’Argentina e al Brasile. In Perù la ferrovia proseguirebbe verso sud fino a Chancay, dove i cinesi stanno costruendo un grande porto, che consentirebbe loro una presenza politica e strategica in tutto il Sud America. Anche questo progetto è fonte di scontro tra Cina e Stati Uniti, entrambi cercano di imporre in Perù un governo favorevole ai propri investimenti e affari.

Questi enormi interessi in gioco si riflettono nella contesa fra le varie logge che controllano il Parlamento e il Governo.


Cosa fare

I lavoratori non hanno nulla da guadagnare innalzando i vessilli della difesa della democrazia o chiedendo la reintegrazione di Pedro Castillo alla presidenza. Queste illusioni solo inducono i lavoratori a difendere il regime capitalista che li sfrutta.

La Confederazione Generale dei Lavoratori del Perù (CGTP) ha dimostrato di essere un organismo del padronato, inserito nello Stato borghese, quando ha invitato i lavoratori a rifiutare “l’offesa alla democrazia” e a mobilitarsi per una “riforma politica”, una nuova costituzione ed elezioni generali anticipate. La dirigenza della CGTP, mentre dichiara cinicamente che “il Congresso non risponde agli interessi della classe operaia e del popolo” e che l’attuale parlamento non serve a nulla, invita i lavoratori a sperare nell’elezione di nuovi deputati e senatori, come se questo potesse fermare il processo di sfruttamento e impoverimento della maggioranza della popolazione.

Il Parlamento non rappresenta e non rappresenterà mai gli interessi della classe operaia. Il Congresso, in Perù e in tutto il mondo, è una delle istituzioni che compongono la democrazia borghese, la dittatura di classe della borghesia sul proletariato. È una delle istituzioni che devono essere spazzate via dalla rivoluzione proletaria, attraverso la lotta di classe, e non attraverso la sacra “via costituzionale”, le elezioni e le leggi, come proclamano i traditori e i politici della CGTP e di tutti i partiti che vivono in Parlamento o cercano voti per entrarvi.

Il Fronte Agrario e Rurale del Perù (FARP), che raggruppa organizzazioni contadine e indigene, ha indetto uno sciopero nazionale dichiarandolo “insurrezione popolare”, avanzando le stesse richieste della CGTP; in più ha chiesto la libertà di Castillo, la chiusura del Congresso e l’insediamento di un’Assemblea Costituente. Questa “insurrezione popolare”, che innalza bandiere democratico-borghesi, trascina i lavoratori in un programma poli-classista, pienamente borghese, in cui le rivendicazioni dei salariati sono diluite al punto da essere totalmente accantonate.

Intanto i proletari muoiono o sono feriti sulle barricate, nelle strade, nell’occupazione di infrastrutture, in scontri violenti con l’apparato militare e di polizia dello Stato borghese peruviano.

Il Partito “Comunista” del Perù ha invece subito riconosciuto il nuovo sovrano, allineandosi alla banda Fujimori e ai governi di Spagna e Stati Uniti. Al contrario i governi di Venezuela, Cuba, Messico e Bolivia hanno espresso il loro sostegno a Castillo e hanno denunciato il colpo di Stato. Questi schieramenti sono solo espressioni dei fronti politici che tradizionalmente si contendono il ruolo di amministratori degli interessi della borghesia nei vari Paesi.

Qualsiasi risultato ipotizzabile: consolidamento del nuovo governo, reintegro di Castillo, Assemblea Costituente, elezioni anticipate, ecc. sono tutte soluzioni borghesi che non rompono con l’ordine capitalista, che danno continuità allo sfruttamento salariale, al dominio del mercato.

Quindi nessuna riforma politica, nessuna nuova costituzione, nessuna elezione generale anticipata! La parola deve essere sciopero generale per l’aumento dei salari e delle pensioni, per la riduzione dell’orario di lavoro, per la riduzione dell’età pensionabile, per il pagamento del salario pieno ai disoccupati, per il miglioramento delle condizioni e dell’ambiente di lavoro, contro la repressione delle lotte dei lavoratori!

È necessario che i lavoratori, nel vivo delle lotte, si riapproprino di un vero sindacato di classe, che riunisca tutti i lavoratori salariati senza distinzione di mestiere, sesso, nazionalità o razza, organizzato fuori dal luogo di lavoro, a livello territoriale. Il sindacato di classe adotta lo sciopero come principale forma di lotta, pronto ad affrontare le leggi del parlamento borghese e la repressione governativa. Intraprende scioperi a tempo indeterminato, senza preavviso, senza servizi minimi e al di fuori dei meccanismi di concertazione imposti da tutti i governi con il sostegno del borghese Ufficio Internazionale del Lavoro.

È indispensabile per un salto di qualità nelle lotte del proletariato la guida dell’autentico partito comunista, unica vera espressione di ogni individuale volontà rivoluzionaria.

Noi comunisti seguiremo l’evoluzione del movimento operaio augurandoci la trasformazione di tutte le lotte unitarie per le rivendicazioni della classe operaia in lotta politica, per la presa del potere, per la distruzione della democrazia borghese e del suo regime parlamentare, per l’instaurazione della dittatura del proletariato e l’attuazione piena del programma comunista.