Partito Comunista Internazionale
Il Partito Comunista N. 424 - Settembre-Ottobre

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Indice dei numeri

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Aggiornato al 21 novembre 2023

organo del partito comunista internazionale
DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: – la linea da Marx a Lenin, alla fondazione della III Internazionale, a Livorno 1921, nascita del Partito Comunista d’Italia, alla lotta della Sinistra Comunista Italiana contro la degenerazione di Mosca, al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani – la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario, a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco
PAGINA 1 – Ripercussioni africane della crisi della gerarchia imperialista
– Rovina delle dighe in Libia - La Razionalità del Capitale
Nuova combattività operaia negli Stati Uniti - Alla UPS - Votate NO con lo sciopero! Nessun lavoratore deve essere lasciato indietro! - La United Auto Workers - I lavoratori della UAW verso il sindacalismo di classe!
– Ferrovia Torino-Milano - Ancora operai immolati al Profitto
PAGINA 2 – Le ipocrisie dell’inquinante riformismo ecologista
Per il sindacato di classe L’attività sindacale del partito in Italia
Genova, allo sciopero della Fiom di venerdì 7 luglio - La madre di tutte le battaglie sindacali è la lotta per forti aumenti salariali! Per condurla occorre un Fronte Unico Sindacale di Classe!
In Venezuela lottare per il salario si paga col carcere - Il volantino che abbiamo diffuso in lingua spagnola
– In Brasile il tribunale blocca lo sciopero degli insegnanti
I siderurgici argentini lottano per un aumento salariale
Netturbini a Fiume scioperano e si organizzano
PAGINA 5 Riforma delle pensioni in Francia. La carota è marcia: cala il bastone
– 6 luglio - Avanti barbari! Al seguito della classe operaia guidata dal Partito Comunista
PAGINA 6 Riunione Internazionale del Partito, 26-28 maggio.  [R.G.146]. (in teleconferenza). Per far tornare le parole del comunismo nei cuori dei proletari di tutti i paesi [R.G.146]: La classe operaia in America Latina - La teoria marxista delle crisi. Le teorie sul plusvalore: David Ricardo - Origini del Partito Comunista di Cina: La sottomissione al Kuomintang al quarto congresso dell’Internazionale - La questione militare: La seconda campagna del Kuban
PAGINA 7 – Renitenza e diserzioni sul fronte ucraino. I proletari non vogliono morire per la patria borghese
PAGINA 8 L’esportazione del grano ucraino divide il fronte europeo antirusso





PAGINA 1


Ripercussioni africane della crisi della gerarchia imperialista

Un rapido susseguirsi di colpi di Stato negli ultimi tre anni ha ridisegnato il panorama politico dell’Africa subsahariana, interessando numerosi paesi di quella parte del continente nero, in cui era maggiore l’influenza economica, politica e culturale della Francia. Si parla in questi giorni di una probabile crisi mortale di quella che a metà degli anni ’50 del secolo scorso venne battezzata come Françafrique.

A coniare questo termine fu Félix Houphouët-Boigny, il quale ricoprì la carica di presidente della Costa d’Avorio per 43 anni a partire dal momento dell’indipendenza. Il leader africano più palesemente asservito alla vecchia potenza coloniale, con la quale volle mantenere stretti legami commerciali che propiziarono un periodo di relativa prosperità economica, passato sotto l’etichetta pubblicistica di “miracolo ivoriano”, intendeva dare al termine Françafrique un’accezione positiva.

Tuttavia questo concetto, inteso non erroneamente come un’eredità del dominio coloniale finita soltanto di recente (l’indipendenza della maggior parte dei paesi africani risale al 1960), acquisì col tempo connotati negativi che sovrastarono di gran lunga il servile ottimismo del presidente ivoriano, specialmente dopo che sul finire degli anni ’70, il piccolo “miracolo” della Costa d’Avorio si esaurì come conseguenza del rallentamento del ciclo di accumulazione capitalistica nella vecchia metropoli.

A evidenziare alcuni aspetti inconfessabili delle relazioni dell’Eliseo con i 14 ex territori d’oltremare in terra africana fu un saggio pubblicato nel 1998 dal titolo “La Françafrique, le plus long scandale de la République” dell’economista François-Xavier Verschave. In questo libro, al di là delle consuete geremiadi sulla mancanza di democrazia nei paesi africani, si individuavano piuttosto realisticamente alcune caratteristiche delle relazioni fra vecchie colonie ed ex metropoli. La Françafrique veniva definita in maniera abbastanza corretta come «una nebulosa di attori economici, politici e militari, in Francia e in Africa, organizzati in reti e lobby, e polarizzati sulla monopolizzazione delle due rendite: materie prime e aiuti pubblici allo sviluppo. La logica è vietare l’iniziativa al di fuori della cerchia degli iniziati. Il sistema si ricicla nella criminalizzazione».

Se sono molti anni che si assiste ai crescenti turbamenti dell’Eliseo per il destino della propria sfera di influenza africana, un punto di svolta in questo senso può essere stabilito con la guerra condotta nel 2011 in Libia dalla Nato e fortemente voluta dal presidente francese dell’epoca. Quello che venne percepito in maniera approssimativa come il primo passo di una campagna di riconquista coloniale (il termine “neocolonialismo” è per noi inadatto a descrivere il fenomeno dato che si tratta di ripartizioni delle sfere di influenza imperialistiche in cui prevale il movimento di capitali all’occupazione militare e alla presenza istituzionale delle metropoli coloniali), era già allora un segno della difficoltà per la Francia di sostenere la contesa fra potenze per il controllo dei mercati africani.

Un’interpretazione fuorviante vede nell’impresa libica un “errore” dal quale sarebbero derivate conseguenze gravi per la politica francese nel Nordafrica e nell’Africa subsahariana. Ma le premesse di quell’errore erano tutte nel declino relativo della Francia come potenza e dall’affacciarsi sulla scena di nuovi competitori la cui minore maturità capitalistica era compatibile con una maggiore vitalità economica.

Il rovesciamento del pluridecennale regime di Gheddafi era visto da Sarkozy come un tentativo di mettere le mani sulla rendita petrolifera libica battendo la concorrenza, nel caso della Libia in primo luogo quella italiana, e rafforzare il controllo sul vicino Niger, a quel tempo uno dei principali fornitori di uranio necessario all’industria nucleare francese.

D’altronde l’avidità delle metropoli imperialistiche tenta di appropriarsi del controllo delle materie energetiche, e della rendita connessa per compensare gli scarsi profitti, effetto del loro declino industriale, non risparmia neanche la Francia.

Se nella nostra visione marxista la politica si presenta come un concentrato di economia, non troviamo nulla di particolarmente strano nell’osservare come a economie deboli, nelle quali la modernità capitalistica ha scardinato l’organizzazione sociale tradizionale, a partire dall’introduzione dell’industria estrattiva, corrispondano forme politiche deboli.

Gli Stati dell’Africa subsahariana sono nati sulla base di confini disegnati arbitrariamente secondo gli interessi della vecchia potenza coloniale, su territori eterogenei da un punto di vista della geografia fisica, frammentati da quello etnico e linguistico, e caratterizzati da tradizioni storiche fra loro assai disparate.

La loro perenne instabilità politica pone un problema di comprensione e di analisi che non sembra alla portata della pubblicistica borghese. Prendiamo ad esempio l’imperversare negli ultimi quindici anni della guerriglia Jihadista.

La narrazione prevalente su questo persistente flagello nei paesi dell’Africa subsahariana vuol spiegare le difficoltà dei governi locali, e dei loro alleati occidentali, soprattutto in motivazioni religiose, con vasti territori caduti sotto il controllo militare di fedeli che sventolano la bandiera del fondamentalismo. Come al solito la rappresentazione del mondo borghese capovolge la realtà per poggiarla sulla testa. Si descrive l’affiliazione di facciata a sigle note a livello internazionale dell’islamismo radicale di individui provenienti da gruppi sociali marginalizzati e da comunità rurali periferiche, sottoposti a una feroce pressione economica e militare da parte di milizie armate o di truppe regolari di Stati che per altri versi si dimostrano fragili e malfermi.

Mentre la pubblicistica più triviale spiega tutto col “fanatismo islamico”, il proliferare dei gruppi armati si deve il più delle volte al tentativo delle comunità locali di organizzare l’autodifesa dall’atteggiamento predatorio dei gruppi paramilitari privati schierati in difesa delle concessioni minerarie e delle forze regolari dei vari Stati. Le imprese multinazionali per controllare le aree di estrazione delle ricchezze del sottosuolo si avvalgono in misura crescente di mercenari. Spesso l’affiliazione di gruppi armati locali al jihadismo internazionale arriva soltanto in un secondo tempo.

Ma spiegare questi aspetti della vita economica e politica dell’Africa subsahariana è troppo imbarazzante per l’informazione partigiana e menzognera delle metropoli capitalistiche: meglio una raffigurazione di comodo di un fanatismo plasmato nelle scuole coraniche e dai mullah predicatori, tutti elementi che, quando ci sono, si presentano come manifestazioni epifenomeniche delle devastazioni precedentemente sviluppate nella struttura sociale.

La guerra interna in Mali, scoppiata all’inizio del 2012 e da allora ancora in corso, ha avuto effetti catastrofici per la sfera d’influenza della Francia nella regione. In questo conflitto, che ha dilaniato il nord del paese e ha opposto le formazioni indipendentiste tuareg e le milizie jihadiste al potere centrale, si è potuta misurare tutta l’inefficacia di un intervento armato realizzatosi con due missioni militari a guida francese: le operazioni Serval e Barkhane.

Il fallimento francese è diventato manifesto con i due colpi di Stato in Mali a distanza di meno di un anno. Il primo risale all’agosto del 2020 quando il presidente maliano Ibrahim Boubacar Keita è stato rovesciato dall’esercito, che ha formato un Comitato Nazionale per la Salute del Popolo, il quale si è incaricato di gestire una “fase di transizione”. Nove mesi dopo, nel maggio del 2021, l’esercito, insofferente per la titubanza delle autorità di transizione nella gestione della guerra interna, ha effettuato un secondo colpo di Stato in un cui il colonnello Assimi Goita, già alla guida del primo golpe, ha assunto solidamente la guida del paese. La giunta militare ha fatto entrare nel Mali i mercenari russi del Gruppo Wagner, mentre le truppe francesi hanno dovuto lasciare il paese.

Un copione analogo si è svolto anche in Burkina Faso dove una altrettanto rapida successione di due colpi di Stato ha avuto come esito nel settembre del 2022 l’ascesa al potere del capitano dell’esercito Ibrahim Traoré che, come il suo simile maliano, aveva avuto un ruolo di primo piano nel primo golpe. A pretesto del secondo pronunciamento delle forze armate anche in questo caso viene indicata l’inefficacia della lotta per contrastare le milizie jihadiste.

In realtà, a motivare l’azione dei golpisti ha concorso il malcontento dovuto al drammatico aumento dei prezzi dei generi alimentari. L’instabilità sociale è determinata anche dall’alto numero di profughi interni provenienti dalle aree sotto il controllo dei gruppi jihadisti. Per sostenere lo sforzo bellico la giunta ha stretto accordi per l’acquisto di armi dalla Turchia per la fornitura di droni, e con la Corea del Nord, e ammette la possibilità di utilizzare le milizie del Gruppo Wagner.

Le relazioni con la Francia si sono deteriorate e Ouagadougou ha denunciato il trattato militare che dal 1961 la lega alla vecchia potenza coloniale.

Il bilancio statale non poteva sostenere gli impegni militari del regime contro le milizie jihadiste, e allora si è fatto ricorso a nuove tasse che hanno aggravato la condizione di un proletariato perlopiù costretto all’indigenza e che deve sostenere sempre più il peso della “guerra al terrorismo”.

Nel marzo scorso l’Unité d’action syndicale (UAS), che raggruppa i principali sindacati del paese, ha denunciato l’arruolamento obbligatorio nell’esercito di molti suoi iscritti e ne ha chiesto l’immediato rilascio. Intanto, da parte loro, le autorità affermano di avere reclutato 90.000 uomini per il corpo dei “Volontari per la difesa della Patria” (VDP).

Il nuovo uomo forte del Burkina Faso si atteggia a continuatore dell’opera di Thomas Sankara, il militare che negli anni ’80 fu per quattro anni alla guida del paese inalberando, in maniera a quanto pare alquanto velleitaria, la bandiera della sovranità nazionale, entrando in rotta di collisione con la Francia e finendo ucciso dal suo vice Blaise Compaoré.

La figura di Sankara viene ancora oggi fatta passare per una sorta di eroe popolare e il fatto che propugnasse un improbabile socialismo terzomondista, ha suscitato la simpatia di quanti, anche nei paesi di più antica industrializzazione, sono in cerca di succedanei del proletariato e arrivano alla somma baggianata di riporre le loro aspettative di cambiamento nella casta militare dei paesi periferici. Anche oggi c’è chi, in una logica del tutto estranea alla tradizione del movimento operaio, trova pretesti per apprezzare il militare di carriera di turno al potere purché disposto a lanciare parole d’ordine populiste e demagogiche.

Ibrahim Traoré ha fatto carriera nella “lotta al terrorismo” e sul piano interno spinge l’acceleratore sulla militarizzazione della società, consapevole che l’arruolamento di volontari esercita un forte richiamo sulle masse giovanili, che sono la grande maggioranza della popolazione e che hanno poche possibilità di trovare un’occupazione e vedono una prospettiva nel mestiere delle armi. Ancora una volta la guerra diventa un modo per scolpire la società a immagine e somiglianza del capitale, inquadrando la forza lavoro con la disciplina militare, creando eserciti proletari di riserva spopolando le aree rurali, intercettando investimenti e aiuti dalle potenze imperialiste esterne interessate a soppiantare gli imperialismi rivali.

Non a caso nel luglio scorso Traoré ha incontrato Putin nei pressi di San Pietroburgo, mentre lo stesso capo della giunta burkinabé a fine agosto ha incontrato una delegazione militare russa per rinsaldare la cooperazione fra i due paesi. Intanto la Russia si conferma come il principale fornitore di armi dei paesi del Sahel.

A completare il quadro del declino della Françafrique è intervenuto il colpo di Stato in Niger del 26 luglio. Il rovesciamento del presidente Mohamed Bazoum ancora una volta viene giustificato dai militari, che danno vita al “Consiglio nazionale per la salvaguardia della patria”, “in ragione del deterioramento della situazione securitaria e del malgoverno”.

Parlare di malgoverno in uno dei paesi più poveri del mondo in cui, per quello che valgono le statistiche borghesi, il tasso di analfabetismo fra la popolazione adulta supera il 70% e in cui l’aspettativa di vita alla nascita si attesta attorno ai 61 anni, suona come un eufemismo. Paese semispopolato fino a pochi anni fa, il cui territorio si estende per i due terzi nel deserto del Sahara, ha visto erodere progressivamente quel terzo di terre fertili o semifertili dove, a partire dagli anni ’70, gravi ondate di siccità hanno minato l’agricoltura determinando significativi contraccolpi sociali. In Niger oltre l’80% della popolazione vive ancora in aree rurali in cui prevale un’economia di sussistenza e nell’allevamento è diffusa la transumanza.

Nelle campagne non è mai esistita una proprietà definita della terra e il diritto di possesso si basava su un codice rurale consuetudinario in cui, fino a tempi recenti, era riconosciuto il cosiddetto diritto dell’ascia in base al quale il primo venuto su un terreno se ne impossessava solo per averlo dissodato. Nei molti decenni di storia del Niger indipendente i vari governi succedutisi non sono riusciti a istituire criteri certi per l’attribuzione del diritto di proprietà. Questo assetto proprietario indefinito delle terre, in un’epoca di siccità ricorrenti e di cambiamento climatico, ha reso più complessa e aleatoria la composizione delle controversie fra i confinanti e fra questi e gli allevatori nomadi.

A complicare le cose si aggiunge la dinamica demografica di un paese che del 1950 ha visto moltiplicata per dieci la popolazione, passata dai 2,46 milioni agli oltre 25 di oggi. Con il tasso di fertilità più alto del mondo, per quanto in lenta discesa, ancora superiore a 7 figli per donna, ai ritmi attuali gli abitanti del Niger entro il 2030 arriverebbero a 35 milioni. La popolazione del paese è oggi la più giovane del mondo, il 49% di essa ha meno di 15 anni.

La scarsa industrializzazione è attestata, oltre che dal basso tasso di inurbamento, da una rete elettrica che raggiunge meno del 20% della popolazione. Il mancato ammodernamento della rete viaria, specialmente nel Nord del paese, si deve anche alla mancanza di aiuti da parte dei donatori internazionali i quali, si dice, vorrebbero così non agevolare la traversata del deserto da parte dei migranti. Nelle difficili e insicure rotte che attraversano il deserto proliferano i traffici illegali di sostanze stupefacenti, fra cui la cocaina, la cannabis, gli oppioidi e il tramadolo, destinate, attraversata la Libia, all’Europa e al Medio Oriente.

La mancanza di investimenti nelle infrastrutture ha rallentato anche lo sfruttamento delle risorse minerarie del paese. Importantissime le aurifere. L’estrazione di uranio dell’area di Arlit, nella provincia di Agadez, da parte della compagnia francese Orano (ex Areva), dal massimo nel 2007 è diminuita per la minore domanda mondiale dopo il disastro di Fukushima. Un attentato compiuto da al-Qaeda nel Magreb nel 2013 ha imposto un dispendioso rafforzamento del dispositivo di sicurezza. Questi fattori hanno eroso la rendita mineraria e già da parecchi anni hanno indotto la Francia a differenziare le forniture di uranio necessarie alla sua possente industria nucleare accrescendo le importazioni dal Kazakistan, dal Canada e dall’Australia.

Che la borghesia francese negli ultimi anni abbia mostrato una scarsa propensione a investire nelle ex colonie si deve al fatto che il capitale, per sua natura anarchico, tradisce l’amore patrio appena in nuove terre si staglia il miraggio di maggiori profitti e rendite favolose. Questo spiega come la progressiva dissoluzione della Françafrique sia un processo al quale concorre anche la vecchia metropoli. Esemplare in questo senso la liquidazione nel 2022 dell’impero africano della logistica del gruppo francese Bolloré, con la cessione della Bolloré Africa Logistics al gruppo italo-svizzero Msc per oltre 5 miliardi di euro. La compagnia conta oltre 20.000 addetti, è presente in 46 paesi africani dove controlla 42 terminali portuali, ferrovie, magazzini, ecc.

In Niger la compagnia aveva preso parte a un progetto, mai portato a termine, dell’unica ferrovia del paese che avrebbe dovuto collegare la capitale Niamey a Cotonou, importante città portuale del Benin. Si trattava di un progetto faraonico che prevedeva oltre 1.050 chilometri di ferrovia, il più importante collegamento fra il Niger, paese senza sbocco sul mare, e il Golfo di Guinea. Ma il progetto è stato realizzato soltanto in piccola parte e si è arenato a metà della decade scorsa. Il Niger resta così sprovvisto di adeguati collegamenti verso il Mediterraneo e l’Atlantico.

Alla parziale perdita di interesse del capitale francese per l’Africa fa da contraltare la crescita della penetrazione della Cina, che nel frattempo è diventata il secondo investitore in Niger. Alla crisi del settore uranifero corrisponde una crescita dell’industria petrolifera, che vede la Cina fra i principali investitori. Fra i progetti del Dragone c’è un oleodotto di 2.000 chilometri che dovrebbe collegare i sottoutilizzati giacimenti di petrolio nigerino coi porti del Benin e dunque con i mercati internazionali.

Questo passaggio del testimone in Africa, e dunque anche in Niger, fra Francia e Cina è un processo che va avanti da parecchio tempo se già dieci anni fa in un articolo del nostro giornale, il n.358 del 2013, scrivevamo: «Nell’ultimo decennio tutti i paesi definiti come Africa francofona, la Franciafrica, hanno subìto la penetrazione economica della Cina, che ha approfittato del relativo ritiro del capitale francese, che ha preferito andare ad investire in aree a più alto margine di profitto, come l’Asia. La concorrenza cinese si è fatta sempre più pressante con investimenti di ingenti capitali, esportazione di merci a bassissimo costo e di squadre specializzate a comandare i cantieri delle ditte cinesi. Strade e ponti, ferrovie e infrastrutture varie hanno aperto la strada del “neo imperialismo” cinese in quelle terre per secoli esclusivo appannaggio delle potenze occidentali e in molti casi in modo esclusivo della Francia» (“Mali e Costa d’Avorio - Campo di battaglia economica e militare fra gli imperialismi”).

Il golpe del luglio scorso ha visto l’affermazione di militari formati da istruttori statunitensi, guidati dal capo della guardia presidenziale Abdourahamane Tchiani, i quali hanno rovesciato il governo civile in un momento in cui era molto accesa la lotta in seno all’establishment per la guida della PetroNiger, un’azienda a controllo statale creata di recente dal deposto presidente Bazoum che sembra avere buone prospettive future di sviluppo. Noi non sappiamo con precisione se esista un nesso stringente fra la contesa interna alla borghesia nigerina sul petrolio nazionale e la maturazione del colpo di Stato; resta tuttavia molto probabile che questo aspetto rappresenti almeno una motivazione di cui i militari golpisti hanno tenuto conto nel momento in cui si sono decisi all’azione.

La conseguenza del cambiamento di regime sui rapporti con la Francia non si sono fatte attendere. Sin dai primi giorni successivi al golpe, manifestazioni di sostegno ai militari, non sappiamo quanto orchestrate dal nuovo regime o quanto spontanee, hanno preso di mira le rappresentanze diplomatiche e gli interessi francesi in Niger. I soldati francesi si apprestano a lasciare il paese, mentre le relazioni diplomatiche fra i due paesi sono prossime alla rottura.

Questo non significa una rottura totale fra la giunta militare e tutte le potenze occidentali, così come le bandiere russe sventolate durante le manifestazioni di sostegno ai militari, dai forti toni antifrancesi, non necessariamente rappresentano una decisa scelta di campo, anche a causa della scarsa compattezza degli attuali schieramenti imperialisti in via di definizione.

Gli Stati Uniti, che hanno una presenza militare nel paese, non sembrano in procinto di ritirarsi. L’amministrazione Biden non ha condannato esplicitamente il golpe e non lo ha neanche chiamato col suo nome per non essere costretta a emanare sanzioni contro il Niger. La base Usa di Agadez, una delle più importanti per il dislocamento di droni, probabilmente continuerà ad essere operativa e dovrebbe essere stata oggetto di trattativa durante gli incontri del vice segretario di Stato dell’amministrazione Biden, Victoria Nuland, con la giunta al potere a Niamey. Probabilmente gli accordi raggiunti prevedono la dislocazione dei 1.100 militari statunitensi nella sola base di Agadez dopo l’abbandono di quella di Niamey, tenuta dagli statunitensi insieme con i soldati francesi.

Intanto la presenza militare italiana con 350 soldati non sembra essere messa in discussione dalla giunta nigerina, così come quella degli istruttori militari tedeschi.

Ma il quadro determinato dall’ondata di colpi di Stato che ha turbato vecchi equilibri nell’Africa subsahariana appare ancora in evoluzione. Il progetto dell’Eliseo di riportare al potere il deposto presidente nigerino per mezzo di un intervento dei paesi dell’Ecowas, la Comunità Economica degli Stati dell’Africa dell’Ovest, è stato frustrato dall’opposizione del Mali e del Burkina Faso che hanno stretto un trattato di difesa comune col Niger.

Si tratta comunque di una frattura che avvicina il collasso definitivo della Françafrique, un evento che lungi da chiudere la lotta per la spartizione delle risorse e delle terre africane fra le maggiori potenze imperialistiche, non farebbe altro che intensificarla. Nell’evoluzione futura degli assetti politici e delle alleanze in questa regione del mondo, è sin troppo facile prevedere lo sviluppo di un’altra gigantesca zona di faglia in una area geostorica sempre più cruciale per le rivalità interimperialistiche.











Rovina delle dighe in Libia
La Razionalità del Capitale

Nella città libica di Derna, sulla costa Cirenaica, nella notte tra il 10 e l’11 settembre, a seguito del passaggio del ciclone tropicale mediterraneo Daniel, che ha infuriato con venti fino a 180 chilometri all’ora e provocato piogge di ben 414 millimetri in sole 24 ore, sono crollate due dighe poste a monte della città sul Wadi Derna, nella cui valle era situata, distruggendola per buona parte. L’alluvione di fango ha provocato, secondo stime non definitive dell’Ocha, un’agenzia dell’Onu preposta al coordinamento di questo tipo di emergenze, 11.300 morti e 10.100 dispersi.

Questa immane tragedia si aggiunge alla difficile situazione dovuta alla frantumazione nel 2011 e la dispersione dei centri di comando politici e economici della Libia post Gheddafi, che ha notevolmente peggiorato le condizioni di vita del proletariato autoctono, di quello immigrato e della gran massa dei profughi africani colà arrivati nella speranza di migrare in Europa.

Il passaggio dell’uragano non è ovviamente colpa di alcuno. Possiamo invece in Libia accusare e attribuire tutte le responsabilità del crollo delle dighe a quel particolare sistema, tipicamente capitalistico e che appesta tutti i paesi, di connivenze, intrise di interessi politici ed economici, tra gruppi di potere locali, principalmente intenti a spartirsi i proventi della produzione petrolifera. Questa è gestita dalla Noc, National Oil Corporation, agenzia che regola i contratti con le grandi compagnie petrolifere straniere, l’italiana Eni in testa seguita come quota di estrazione concordata dalla britannica Bp, a cui si aggiungono compagnie di altri paesi, tutte interessate all’ottima qualità del greggio e al gas libico.

In merito abbiamo già riferito in precedenti numeri di questo giornale.

Della Libia se ne occupano solo per mantenere la sicurezza dell’estrazione e del trasporto degli idrocarburi, non disdegnando accordi coi gruppi armati tribali locali. Il resto sono “danni collaterali”.

In questo contesto bisogna spiegare il crollo delle due dighe sul Wadi Derna.

Questo breve fiume di soli 75 chilometri è classificato ad alveo intermittente, cioè nella maggior parte del breve percorso al mare convoglia acqua solo a seguito delle forti e tumultuose piogge.

A seguito delle devastanti inondazioni del territorio intorno a Derna, importante città della Cirenaica, già avvenute nel 1941, nel 1959 ed infine nel 1968, le autorità libiche infine commissionarono uno studio per la sistemazione idraulica del bacino del Derna.

Fu deciso di affidare all’impresa iugoslava Hidrotehnika-Hidroenergetika, con sede a Belgrado, un insieme di opere idrauliche allo scopo di regolamentare le piene delle acque piovane provenienti dal bacino idrografico del Wadi Derna vasto 575 Km2. Queste comprendevano due dighe, necessarie anche a costituire sufficienti riserve d’acqua, più alcuni adeguati serbatoi minori, più le stazioni di pompaggio per l’irrigazione delle aree agricole attorno al fiume. Erano previsti anche 10 ponti. Il tutto avrebbe anche contribuito a ridurre l’erosione del suolo conseguente alle improvvise e violente inondazioni.

Dal sito dell’impresa costruttrice serba apprendiamo che tra il 1973 e il 1977 hanno costruito due dighe artificiali a terrapieno, cioè realizzate posizionando e compattando un tumulo di strati di terreno e roccia impermeabile e semipermeabile allo scopo di rendere la diga capace di resistere all’erosione superficiale e alle infiltrazioni, senza l’uso di leganti artificiali come il cemento. È un tipo di costruzione adottato ove è possibile trovare in loco il materiale roccioso necessario. La ditta appaltatrice vanta la realizzazione di analoghe dighe in Algeria e in Tunisia.

La diga maggiore, subito a monte di Derna, è alta 75 metri, lunga alla sommità 300 metri e larga 104 metri alla base, è stata prevista per poter contenere 18 milioni di m3 d’acqua, mentre quella più a monte, a 13 chilometri dalla città, aveva uno sviluppo minore, 45 metri in altezza, una larghezza alla sommità di 130 metri, una larghezza alla base della fondazione di 56 metri con la capacità di contenere 1,5 milioni di m3 d’acqua.

Le due dighe hanno retto bene alle forti precipitazioni del 1986 e la città non è stata inondata.

Ma tutte le dighe sono sottoposte ad infiltrazioni, sia sotto la fondazione sia attraverso il corpo della diga stessa, che possono compromettere la coesione tra i diversi strati di materiali che la compongono e alimentare una iniziale minima rimozione del materiale stesso, ma che può accrescersi rapidamente fino a distruggere la diga stessa. Il regolare controllo delle infiltrazioni è fondamentale per la sicurezza dell’opera.

Secondo recenti dichiarazioni del sindaco di Derna la manutenzione non veniva eseguita da oltre 20 anni e i fondi inizialmente loro destinati sono stati dirottati altrove. Di conseguenza la capacità delle dighe, specialmente quella superiore, a resistere anche alla normale spinta dell’acqua non era più garantita, come già aveva ben evidenziato uno studio pubblicato nel 2002. Inascoltati anche tutti i successivi richiami che proponevano almeno di ridurre la quantità d’acqua contenuta negli invasi.

Al degrado delle due strutture per mancata manutenzione si sono aggiunti anche i danni provocati dai bombardamenti sulla città, specialmente durante la seconda guerra civile libica dal 2014 al 2020.

Secondo una ricostruzione dell’evento, l’enorme massa d’acqua scaricata dalla tempesta Daniel sull’intero bacino idrografico ha riempito fino all’orlo l’invaso della diga superiore, determinandone il cedimento per le accresciute infiltrazioni. L’onda di piena ha provocato il collasso anche della inferiore, con conseguente distruzione di gran parte della città di Derna.

Un modesto intervento di manutenzione avrebbe evitato immani danni e lutti. Questa è la gran Ragione e Razionalità del Capitale. Dal Vajont al Polcevara.

Gli avvoltoi ormai fanno i loro giri sopra le macerie della città. Ma i peggiori sono quelli “umanitari” sul terreno, i politicanti che fingono di interessarsi alle sorti dei disgraziati abitanti mentre si adoprano a difendere questo modo di produzione folle e assassino.









Nuova combattività operaia negli Stati Uniti

Gli Stati Uniti da circa tre anni sono attraversati da un risorgente movimento sindacale, con scioperi più estesi, frequenti, duri e un numero crescente di lavoratori che torna a organizzarsi nei sindacati. Una situazione apparentemente lontana da quella che vive la classe operaia in Italia, che permane in uno stato di passività e rassegnazione. Ma anche negli USA il movimento sindacale viene da decenni di profondo declino, anche peggiore di quello a cui assistiamo in Italia, non avendo conosciuto i movimenti di lotta che in varie categorie – ferrovieri, aeroportuali, tranvieri, scuola, sanità, vigili del fuoco, metalmeccanici – hanno dato vita al sindacalismo di base, negli anni ‘80 e ‘90, e, dopo il 2010, nella logistica.

Ciò conforta i militanti del sindacalismo conflittuale, in quanto conferma che nel capitalismo la lotta di classe è insopprimibile e che anche dalle condizioni più difficili la classe proletaria sarà costretta a tornare a lottare e a organizzarsi, per la necessità stessa di difendere la propria vita, e su questa base materiale tenderà a conoscere e ad abbracciare, nella sua parte più avanzata, il partito del comunismo rivoluzionario.

Negli USA nei mesi scorsi il governo federale era intervenuto direttamente per imporre un accordo che scongiurasse lo sciopero dei ferrovieri (“Fra i ferrovieri Usa cresce la volontà di lotta”) e quello dei portuali. Ma sono molte altre le categorie che sono state o che sono tuttora in fermento: lavoratori della scuola, della sanità, facchini e corrieri di Amazon, ferrovieri, fabbriche metalmeccaniche (General Motors, Volvo, John Deere, New Holland, Ford, Stellantis), lavoratori delle strutture alberghiere, dei Mc Donals e della Wall Mart, fino ai lavoratori dell’industria cinematografica e televisiva.

L’epicentro di questo risorgente movimento operaio è la capitale della California, Los Angeles.


Alla UPS

Il primo agosto scorso avrebbe dovuto iniziare il più grande sciopero degli ultimi decenni negli Stati Uniti, quello degli oltre 300.000 lavoratori della UPS. Secondo alcuni commentatori della stampa borghese occorre risalire allo sciopero dei siderurgici del 1959 per riscontrare una mobilitazione di un numero simile di lavoratori. A giugno il 97% dei lavoratori UPS votanti, quelli iscritti al sindacato Teamsters, si era espresso a favore dello sciopero.

Per diffonderlo ai picchetti, i nostri compagni hanno scritto un volantino con debito anticipo, in modo da poterlo stampare e spedire nelle città in cui sono presenti, cosa non semplice soprattutto in quanto l’annuncio dello sciopero, in previsione dell’interruzione dell’attività, aveva avuto l’effetto di aumentare e intasare il traffico postale.

A Portland, nell’Oregon, dove nei mesi scorsi i nostri compagni hanno costituito, insieme ad altri militanti sindacali, un comitato per unire le lotte dei lavoratori denominato CSAN (Class Struggle Action Network, Rete d’Azione per la Lotta di Classe), si prevedeva un’azione di solidarietà anche presso la USPS, le poste statali statunitensi.

Ma sei giorni prima dall’inizio dello sciopero, fissato per il 1° agosto dal sindacato, UPS è tornata al tavolo delle trattative e un accordo è stato raggiunto. È stato così revocato, per la terza volta in un anno, lo sciopero nazionale. Il contratto è stato approvato attraverso un voto segreto dall’86,3% dei votanti, con una partecipazione del 58% degli aventi diritto.

La dirigenza della International Brotherhood of Teamsters – che dichiara 1,4 milioni di iscritti fra autisti, magazzinieri e altri mestieri nel settore logistico – l’ha definita una vittoria storica. Il contratto è migliorativo ed è stato conquistato senza un’ora di sciopero, solo con la minaccia di attuarlo.

Se si segue il principio del “massimo profitto col minimo sforzo” non si può che dar ragione alla dirigenza dei Teamsters. Ma questo principio è valido per la borghesia, non per la classe operaia, che sarà costretta sia a una lotta durissima per mantenere nel tempo i risultati acquisiti sia per liberarsi dalla sempre più intollerabile oppressione del capitalismo. Per questa ragione, per i lavoratori lottare è più importante persino dei risultati ottenuti – o non ottenuti – con la lotta, per quanto ovviamente questi non si possano trascurare.

Lo sciopero dei lavoratori dell’UPS non solo avrebbe potuto condurre a un risultato migliore di quello ottenuto con la sola minaccia dello sciopero, ma soprattutto avrebbe fornito ulteriore combustibile alla ripresa del movimento operaio negli Stati Uniti e a livello internazionale, dando l’esempio dello sciopero di centinaia di migliaia di lavoratori a decine di milioni di altri proletari, degli Stati Uniti, del Canada, del Messico e di tutto il mondo.

Certo, anche così, è stata dimostrata la forza della classe operaia, ma in termini assai minori.


UPS
Votate NO con lo sciopero!
Nessun lavoratore deve essere lasciato indietro!

Il 25 luglio il sindacato dei Teamsters ha raggiunto un accordo provvisorio con UPS. Questo tradisce i lavoratori UPS e non mantiene le promesse. La dirigenza opportunista della International Brotherhood of Teamsters (IBT) ha siglato un contratto che lascia indietro non solo i lavoratori part-time di UPS, ma anche i lavoratori dell’intero settore logistico, compresi i servizi postali, FedEx e Amazon.

L’IBT aveva la possibilità di elevare i livelli salariali e le condizioni d’impiego del settore e l’ha sprecata.

Il presidente dei Teamsters, Sean O’Brien, aveva promesso che nessun lavoratore, in particolare quelli part-time, sarebbe stato lasciato indietro. L’accordo provvisorio lascia oltre 180.000 lavoratori a tempo parziale senza la possibilità di passare a tempo pieno, col salario relativo. Solo in 7.500 passeranno a tempo pieno. Eppure il 16 luglio, nel webinar di aggiornamento per i membri UPS dei Teamsters, così si era espresso: «è inaccettabile, UPS non può dare ai nostri part-timers le briciole, deve ricompensare queste persone».

Quale è stata la causa di questo improvviso cambio di passo da parte della dirigenza dell’IBT? La risposta sembra coinvolgere il governo Biden che pare abbia fatto pressioni affinché il sindacato risolvesse la vertenza una settimana prima della scadenza per “evitare shock economici”. Se fosse vero, allora sarebbe la terza volta che l’amministrazione Biden è intervenuta per fermare scioperi importanti, dopo quello dei portuali della International Longshore and Wharehouse Union (ILWU) e quello delle ferrovie. Uno dopo l’altro i sindacati di regime stanno agendo come agenti del Partito Democratico all’interno del movimento operaio. Un partito che si proclama con orgoglio “il vero partito della legge e dell’ordine” (...)

Le concessioni sono davvero insoddisfacenti e, naturalmente, non sarebbero state ottenute senza le azioni preparatorie dello sciopero dei lavoratori, in particolare di quelli part-time. Sono proprio questi lavoratori part-time che, come diceva Sean O’Brien, son tanto numerosi che «l’UPS non può assolutamente assumere abbastanza crumiri» per sostituirli, a essere stati lasciati indietro dalla dirigenza della IBT. La richiesta di 25 dollari come paga base non è stata soddisfatta. Inoltre, nel contratto non c’è nulla che elimini gli straordinari forzati per i lavoratori part-time. UPS può ancora costringere i part-time a lavorare per 9 ore e mezza al giorno.

Cosa succederà ora? Con la SAG-AFTRA pronta a scioperare per i mesi a venire e gli scioperi minori che si diffondono a macchia d’olio in tutta la nazione, è il momento di battere il ferro finché è caldo. I lavoratori dell’UPS hanno l’opportunità di dare un esempio a tutti i lavoratori negli Stati Uniti. Per coerenza, ma anche dal punto di vista tattico, sosteniamo uno sciopero immediato, attraverso una energica campagna per scavalcare gli opportunisti e i loro metodi. Rimanere all’offensiva e utilizzare le stesse tattiche di trattativa dei padroni giocando duro non solo garantisce guadagni ai lavoratori ma costituisce anche un esempio di lotta per gli altri. In questo modo si costruisce l’unità della classe operaia e si stabilisce una forza maggiore.

Naturalmente, ci rendiamo conto che le condizioni del movimento operaio sono tali che è ancora prassi normale che uno sciopero sia sottoposto a votazione. Con il sistema attuale, il voto avviene online, dove l’elettore rimane anonimo e isolato.

Lavoratori, organizzatevi con i vostri compagni, chiedete che si svolga una discussione aperta sul posto di lavoro e che le votazioni si svolgano in assemblee. Fate tutto ciò che dovete fare, e fatelo in massa.

Ricordate che l’offerta “migliore e definitiva” è un bluff. Non condivideranno le loro ricchezze accumulate senza una lotta. Solo attraverso la lotta di classe, infatti, si è potuta concretizzare la vittoria dello sciopero UPS del 1997. Siete disposti a partecipare alla battaglia in cui si decidono le condizioni delle vostre vite e del vostro lavoro? O lascerete che l’UPS e la dirigenza sindacale opportunista vi tengano fermi al “vostro” posto?


La United Auto Workers

A metà agosto il 97% dei lavoratori votanti fra gli iscritti al sindacato degli operai dell’auto United Auto Workers (UAW), si è espresso a favore di uno sciopero di dieci giorni nelle fabbriche delle tre maggiori aziende automobilistiche negli USA – General Motors, Ford e Stellantis – a partire dal 14 settembre, se prima di allora non fosse stato raggiunto un accordo giudicato soddisfacente dal sindacato. L’accordo non è stato raggiunto, ma nei primi giorni la dirigenza della UAW si è limitata a chiamare in sciopero solo i 13.000 operai di 3 fabbriche: a Wentzille nel Missouri, Toledo nell’Ohio e Wayne nel Michigan.

Poi dal 25 settembre ha esteso lo sciopero a una quarantina di magazzini logistici delle tre case automobilistiche, portando il numero degli scioperanti a 18.300. Ma in totale, nell’intera industria automobilistica negli States, la UAW inquadra circa 146 mila lavoratori.

Le rivendicazioni del sindacato sono apprezzabili, ma non radicali come le vuol far apparire la stampa borghese: fra le altre il 46% di aumento salariale medio e la settimana lavorativa di 4 giorni.


I lavoratori della UAW verso il sindacalismo di classe!

Il Partito Comunista Internazionale saluta i lavoratori del sindacato United Auto Workers (UAW) che hanno deciso di scioperare contro i tre maggiori gruppi automobilistici presenti nel paese.

Nei primi tempi dalla sua fondazione, negli anni ‘30, l’UAW si distinse per i suoi scioperi radicali. Ricordiamo la lotta alla GM di migliaia di operai nel Michigan, che occuparono lo stabilimento Fisher Body di Cleveland, respingendo per settimane i crumiri. Quando lo Stato borghese inviò le forze armate, ondata dopo ondata gli operai le respinsero. Ma la loro vera forza è stata il contagio della lotta oltre i confini della fabbrica. Lo sciopero si estese a 17 stabilimenti GM nell’arco di 44 giorni. Come risultato di questa generalizzazione della lotta l’azienda fu costretta a capitolare.

Allora come oggi, la nostra forza sta nell’agire come classe unita, intraprendendo azioni al di là dei confini dei singoli luoghi di lavoro, delle aziende, dei mestieri, delle categorie. È con questi metodi che i lavoratori hanno strappato in passato dalle mani del nostro nemico di classe un tenore di vita decente.

Tuttavia, dopo la seconda guerra mondiale, le dirigenze sindacali opportuniste, in collaborazione con i padroni e lo Stato capitalista, hanno trasformato i sindacati in patetiche associazioni simili agli uffici risorse umane delle aziende.

Gli operai dell’industria dell’auto, un tempo presi a esempio della classe media americana, oggi sono stati ricacciati a condizioni di vita nettamente proletarie. Ovunque il vacuo “sogno americano” ha ceduto il passo alla deprimente realtà di una società capitalista in putrefazione.

La classe dominante spinge sempre più i lavoratori di tutto il mondo verso un nuovo bagno di sangue sciovinista, verso una nuova guerra mondiale, nel tentativo di salvare il suo ordine sociale e politico dalla crisi capitalistica sempre più profondo.

Nel mondo però la classe operaia sta cominciando a svegliarsi, a mettere in discussione le dirigenze sindacali collaborazioniste, riprendendo ad usare l’arma dello sciopero. Salutiamo gli oltre 18.000 lavoratori dell’UAW attualmente in sciopero.

Lo sciopero deve crescere per dare ai lavoratori la forza necessaria a vincere questa battaglia. Alcuni sindacati, come la Sezione 299 dei Teamsters, si sono impegnati a indicare ai loro membri di non violare i picchetti. I lavoratori della UAW devono chiedere, pretendere, imporre alla dirigenza del sindacato di chiamare allo sciopero tutti i suoi 146.000 iscritti nell’industria dell’automobile.

Invitiamo i lavoratori a non accettare un accordo di compromesso ottenuto senza la piena mobilitazione delle loro forze.

La dirigenza dell’UAW sostiene che i lavoratori dell’auto dovrebbero ricevere un aumento salariale del 46% in un periodo di quattro anni e mezzo, portando i salari a 47 dollari l’ora dagli attuali 32. Ma con un contratto così a lungo termine, considerato il tasso attuale dell’inflazione, al termine della sua validità il valore reale dei salari potrebbe essere nuovamente quello degli attuali 32 dollari. Per questo occorre rivendicare anche la riduzione della durata del contratto.

Per tutti gli anni ‘30 e ‘40 la UAW si è battuta per la riduzione della settimana lavorativa a 40 ore. Ora la dirigenza del sindacato rivendica una riduzione a 32 ore settimanali a parità di salario. Una settimana lavorativa ridotta e un aumento dei salari complessivi sono essenziali per i lavoratori per migliorare il loro tenore di vita. Ma affinché possano anche solo mantenere le condizioni di vita attuali, occorre dispiegare una lotta della forza adeguata, estendendo subito lo sciopero!

La classe operaia deve superare un sindacalismo che oggi negli Stati Uniti organizza solo il 10% dei lavoratori. La necessità di un sindacato di classe che unisca tutti i lavoratori nella difesa comune sotto un “unico grande sindacato”, al di là dei singoli mestieri e dei posti di lavoro, è stata la grande aspirazione del movimento operaio che ha riconosciuto la necessità di centralizzare i sindacati per poter vincere gli attacchi concertati della classe capitalista.

Oggi dobbiamo promuovere un’unità d’azione pratica tra i sindacati esistenti per realizzare questo obiettivo. Abbiamo bisogno di un fronte unito di tutte le forze del sindacalismo di classe, che unisca le masse di lavoratori in una lotta comune, un passo necessario verso un futuro sindacato di classe.

Come passo pratico immediato, invitiamo i lavoratori a unirsi ad altri militanti del sindacalismo di classe all’interno della Rete d’Azione per la Lotta di Classe, nello sforzo per costruire un polo sindacale di classe all’interno del movimento sindacale.

Verso il sindacato di classe!







Ferrovia Torino-Milano
Ancora operai immolati al Profitto

Una nuova strage ha bagnato di sangue i binari nella notte del 30 settembre presso la stazione ferroviaria di Brandizzo, sulla linea Torino-Milano. Cinque operai dipendenti di una ditta di interventi ferroviari, intenti alla manutenzione di un tratto di rotaia, sono stati travolti da un convoglio di vetture sopraggiunto a 160 Kmh.

I cinque operai avevano 22, 34, 43, 49, 53 anni di età. Sfuggiti al massacro altri due lavoratori, finiti in ospedale insieme al personale di macchina del treno, tutti in stato di grave turbamento.

I rappresentanti delle istituzioni civili e religiose si sono immediatamente attivati con comunicati di circostanza, personaggi politici hanno mostrato in TV le facce addolorate e hanno scritto sui social parole di cordoglio. Hanno finto di essere sorpresi che “ancora” nel 2023 si debba assistere a tali tragedie.

Intanto l’inchiesta già individuava le cause della tragedia nell’“errore umano”, in difetti di comunicazione e segnalazione, mentre il ministro Salvini ha tenuto ad informarci che in Italia le leggi tutelano i lavoratori. Le organizzazioni sindacali estendono le responsabilità all’azienda ferroviaria RFI e alle ditte appaltatrici. Taluni lamentano l’utilizzo di procedure antiquate, risalenti al 1974, inadeguate a fronteggiare le nuove esigenze e tecniche della circolazione ferroviaria.

In realtà la maggior parte degli investimenti sono dirottati nell’Alta Velocità e non in sistemi di controllo della marcia treni, SCMT o analoghi, atti a bloccare i treni in caso di errore umano. Un tema questo della destinazione dei capitali nelle ferrovie in funzione del tasso del profitto che abbiamo affrontato nei numeri 400/2022 e 423/2023 di questo giornale.

Gli incidenti non sono affatto isolati ma si susseguano nel tempo con impressionante regolarità: Pioltello del 25 gennaio 2018 nella tratta Milano-Venezia, con tre morti e 46 feriti, e il disastro di Viareggio nella notte del 29 giugno 2009 con un bilancio di 32 morti. In questi episodi, se la giustizia borghese non ha potuto evitare di mettere sul banco degli indagati i vertici di RFI, li ha poi assolti o ha evitato che le pene irrogate vengano scontate, come nel caso dell’ex amministratore delegato Mauro Moretti. Nella generalità dei casi i processi si concludono con condanne che addossano la responsabilità agli operai stessi.

Per denunciare e contrastare questa ignobile pratica è stata convocata una giornata di mobilitazione per il 12 ottobre a Bologna dal Coordinamento Lavoratori Autoconvocati insieme al Coordinamento Macchinisti Cargo.

L’Unione Sindacale di Base ha dichiarato immediatamente in tutto il comparto RFI uno sciopero di 24 ore. Ma il livore contro la lotta operaia della famigerata Commissione di Garanzia è stato tale che i suoi componenti, pur di fronte a una simile strage, non hanno avuto vergogna a chiedere all’Usb di ridurre lo sciopero a 4 ore, onde evitare di danneggiare il traffico ferroviario messo in difficoltà dall’incidente!

Per altro, lo sciopero a seguito di incidenti gravi, che implichino una seria minaccia alla salute e alla sicurezza dei lavoratori, sarebbe l’unico caso, l’unico spiraglio lasciato aperto dalla legislazione antisciopero democratico-fascista (leggi 146 del 1990 e 83 del 2000) in cui i sindacati possono indirlo senza i termini di preavviso (di minimo 10 giorni) e l’ottemperanza delle regole della “rarefazione” (distanza fra uno sciopero e l’altro) imposta nell’insieme sempre più esteso dei settori che, operando una notevole forzatura, vengono fatti rientrare nella categoria dei “servizi pubblici essenziali” proprio allo scopo di rendere più difficile l’azione dei lavoratori.

L’”invito” della Commissione di Garanzia in questo caso non avrebbe perciò comportato alcuna conseguenza penale nei confronti di chi non lo avesse rispettato. È comunque da apprezzare che l’Usb abbia rigettato l’invito della Commissione mantenendo lo sciopero di 24 ore.

A Genova, sempre l’Usb, ha organizzato un presidio davanti alla stazione Principe, cui hanno partecipato una sessantina di lavoratori, attorno alle 18, un’ora in cui si assembra una folla di pendolari che tornano a casa. Un nostro compagno è intervenuto dal megafono messo a disposizione dei presenti ribadendo che solo la lotta, l’organizzazione e il rafforzamento del sindacalismo di classe possono offrire un argine a condizioni di vita e di lavoro sempre peggiori per la classe operaia, che inesorabilmente provocano morti, infortuni e infermità gravi ai lavoratori. Questo, anche per rispondere alla illusione sostenuta invece dalla dirigenza dell’Usb, promotrice di una legge d’iniziativa popolare per l’introduzione del reato di “omicidio sul lavoro”.

Il SI Cobas ha anch’esso appoggiato lo sciopero di 24 ore e ha fatto appello ad ampie mobilitazioni.

I sindacati concertativi Cgil, Cisl e Uil e l’Orsa hanno invece limitato l’astensione dal lavoro a solo quattro ore, non a caso in perfetta sintonia con la richiesta della commissione di controllo.

La causa del disastro di Brandizzo e della morte dei cinque operai è da rintracciare nella struttura che controlla il lavoro di RFI e della ditta appaltatrice. Per evitare che si verifichino ancora simili disastri una rivendicazione deve essere la disalimentazione della linea elettrica, con il blocco a monte e a valle dei convogli in entrambi i sensi di marcia durante tutto il tempo in cui si svolgono i lavori sulla rotaia.

Non si deve nutrire alcuna illusione circa le iniziative e le scelte dei vertici industriali e aziendali e quelle di governo e parlamento. Tra la sicurezza e l’integrità fisica dei lavoratori e le necessità e la convenienza del modo di produzione capitalistico – “ottimizzazione”, tagli dei costi e profitti – il piatto oscillerà sempre in favore degli interessi delle imprese, delle aziende, della borghesia. Il tributo di sangue versato al Moloch capitalistico sotto tutte le latitudini non cessa di alimentarsi di nuove vittime. Tante vite sono state sacrificate nella fase espansiva e riformatrice del capitalismo, così come oggi, nei tempi di crisi e di putrefazione della società borghese.

Soltanto nei primi sette mesi di quest’anno le statistiche ufficiali, sempre imprecise per difetto, indicano 599 omicidi sul lavoro in Italia con un incremento del 4,4% rispetto al luglio 2022.

Al proletariato resta una sola arma difensiva e controffensiva: l’arma dello sciopero che per essere efficace deve essere organizzata sindacalmente fuori e contro i sindacati di regime. Questo ci impone di lavorare per la rinascita del sindacato di classe e attraverso la lotta negli organismi che si richiamano al sindacalismo di classe – cioè nei sindacati di base e nelle aree conflittuali in Cgil - per imporre la loro unità d’azione favorendo la solidarietà dei lavoratori nella lotta sindacale.









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Le ipocrisie dell’inquinante riformismo ecologista

Il postulato della maggior parte degli ecologisti è che la crisi ambientale e del riscaldamento globale possa essere in qualche modo risolta nell’ambito del capitalismo. Questo avviene perché, in modo più o meno consapevole, hanno accettato l’idea che lo Stato sia un arbitro neutrale tra le classi. Tale mito venne propagato dalla borghesia nella sua fase rivoluzionaria, quando aveva interesse che le altre classi oppresse, principalmente la classe operaia e i contadini, combattessero al suo fianco contro le vecchie classi feudali terriere. Tale mito, ormai vetusto, si presenta oggi sotto forma di un timore superstizioso e quasi reverenziale per la “democrazia” e i “diritti dell’individuo”.

Oggi gli ambientalisti hanno dato vita a un dibattito causato da una spaccatura tra i loro ranghi: fra chi sostiene che in regime capitalistico investire in imprese “verdi” porterebbe a maggiori produzioni e maggiori profitti, e quanti invece appartengono al novero dei fautori della “decrescita”.

Ma anche chi si pone nel campo della decrescita corre sicuro sulla strada del riformismo, delle petizioni, delle lettere ai deputati, ecc., come se i vari partiti parlamentari potessero darsi un qualsivoglia programma di rovesciamento del capitalismo dall’interno.

Anche i comunisti marxisti sono a favore di una “decrescita”, cioè al disinvestimento, che solo può contrastare la tendenza alla mineralizzazione della biosfera provocata dalla superproduzione di una massa enorme di merci inutili, dannose e comunque rese presto inservibili dalla pressione della concorrenza. Ma questo superamento della patologia dell’investimento propria del capitalismo e il passaggio a una produzione finalizzata a soddisfare i bisogni dell’uomo e non quelli del mercato, può avvenire soltanto attraverso il passaggio al comunismo.

Viceversa il capitalismo ha bisogno di una crescita continua per sopravvivere. Una decrescita autentica, benefica e sostenuta non avverrà finché il capitalismo non sarà stato rovesciato con mezzi rivoluzionari e non sarà stato instaurato il comunista piano razionale sistematico per la specie. Tale società non sarà più basata sulla necessità dei capitalisti di assoggettare il lavoro, di produrre merci, di venderle per realizzare il plusvalore che il lavoro salariato ha incorporato in esse. La classe dei capitalisti, gli azionisti, tutto il servidorame amministrativo e intellettuale che li serve non possono rinunciare a che l’intero ciclo infernale della produzione si ripeta ancora e ancora all’infinito.

Solo il comunismo vedrà la produzione finalizzata all’uso, in una società senza classi, in cui si produce per i bisogni della specie, senza l’inutile intermediazione del capitalista. Il piano razionale, che deciderà su cosa, quanto, dove e come produrre, includerà necessariamente la protezione su un arco temporale molto lungo dell’ambiente e di tutte le forme di vita che abitano il pianeta. Queste nel capitalismo non hanno voce: o vengono considerate d’intralcio agli interessi delle grandi imprese o sono depredate per trarne profitti.

Fra i fautori di un cambiamento nell’ambito del capitalismo si segnala un gruppo di pressione ambientale chiamato “Global Justice Now” il quale di recente ha pubblicato un opuscolo che evidenzia come i capitalisti delle aziende produttrici di combustibili fossili non abbiano alcuna intenzione di sottostare a qualsiasi minaccia ai loro profitti. Dopo aver notoriamente riempito numerose sale di conferenze internazionali sul tema del cambiamento climatico, ora li si sente fortemente aggressivi anche contro le loro stesse istituzioni.

Citiamo dall’opuscolo:
«Le compagnie dei combustibili fossili dovrebbero pagare per risolvere la crisi climatica che hanno causato, invece chiedono un risarcimento. Stanno usando tribunali speciali, istituiti al di fuori dei sistemi legali nazionali, cui si appellano le corporazioni.
«RWE e Uniper hanno fatto causa ai Paesi Bassi per la riduzione graduale del carbone. L’azienda britannica Rockhopper sta facendo causa all’Italia per il divieto di trivellazione petrolifera offshore. Ascent Resources, anch’essa un’azienda britannica, sta facendo causa alla Slovenia che ha richiesto una valutazione di impatto ambientale sui progetti di fracking. TC Energy sta facendo causa agli Stati Uniti per la cancellazione dell’oleodotto Keystone dalle sabbie bituminose. Insieme stanno chiedendo risarcimenti per oltre 18 miliardi di dollari, ma questa potrebbe essere soltanto la punta dell’iceberg se altre aziende faranno lo stesso».

In conclusione il lettore dell’opuscolo è invitato a “firmare la petizione e unirsi al movimento per fermare i tribunali che bloccano l’azione per il clima”, dopo che lo si è illuso con la grottesca menzogna che i governanti siano sensibili alla minaccia del collasso climatico, di fronte al quale sono impotenti quanto lo è nel suo complesso l’intera società borghese. I capi mondiali sono solo pedine nello scontro fra le grandi compagnie per spartirsi mercati, rendite e profitti.

Noi continueremo a lottare per preparare il rovesciamento del capitalismo, un sistema che impedisce qualsiasi soluzione della crisi ambientale. E continueremo a riporre la nostra fiducia nella classe operaia, in quanto forza della società attuale che più ha da guadagnare dal rovesciamento del capitalismo, un sistema che non ha più nulla da offrire all’umanità se non insicurezza, sfruttamento sempre maggiore e continua incapacità di risolvere le grandi questioni che l’umanità sta affrontando, la povertà e la carestia, le guerre – tutte calamità che in ultima analisi hanno come prima vittima la classe operaia.








Per il sindacato di classe Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale

L’attività sindacale del Partito in Italia

Da inizio febbraio a oggi, l’attività sindacale in Italia ha continuato a svolgersi nelle differenti sfere che abbiamo già avuto modo di elencare nello scorso rapporto:
- la propaganda delle posizioni e dell’indirizzo politico-sindacale per strada, con volantinaggi e strillonaggi del giornale, privilegiando luoghi frequentati da lavoratori;
- la medesima propaganda davanti ai posti di lavoro;
- l’intervento in manifestazioni sindacali con volantini del Partito;
- l’attività entro l’organismo intersindacale denominato Coordinamento Lavoratori Autoconvocati, per batterci per l’unità d’azione del sindacalismo conflittuale;
- l’attività entro le organizzazioni sindacali di base;
- la redazione di articoli per la pagina sindacale del giornale del Partito.

Come già detto, si sale da un piano al massimo grado generale – la propaganda fra le masse per strada – via via a livelli sempre più caratterizzati e specifici, fino alla nostra stampa, dove la linea sindacale di classe viene esplicitata in tutti i suoi aspetti e nel suo collegarsi e discendere dal programma e dalla teoria comunista.

Abbiamo inoltre organizzato una riunione pubblica del Partito, a Torino, il 30 aprile, il giorno prima del Primo Maggio, nella sede della Confederazione Cobas, su un tema sindacale: “Gli scioperi in Francia, Gran Bretagna, Germania, Grecia sono l’inizio dell’inevitabile estendersi della lotta di classe internazionale. Presto anche in Italia i lavoratori si dovranno mobilitare. Quali le condizioni per dimostrare tutta la loro forza e determinazione?”.

In generale il movimento operaio in Italia permane in una condizione di debolezza e passività, e ciò si riflette sulla nostra attività negli ambiti sopra elencati.

Se diamo uno sguardo alla situazione complessiva della lotta di classe in Italia, gli ultimi movimenti generali di una certa forza – intercategoriali, coinvolgenti la generalità della classe – furono nel 1992, contro l’accordo che completava la revoca della “scala mobile” – che provocò una contestazione ai vertici dei sindacati di regime e un rafforzamento del sindacalismo di base – e quello del 1994, contro la prima riforma delle pensioni del governo Berlusconi.

L’ultimo forte movimento nazionale di sciopero di categoria, sviluppatosi spontaneamente con scioperi cosiddetti “selvaggi”, che violarono ripetutamente la legislazione anti-sciopero, fu quello dei tranvieri del dicembre 2002-gennaio 2003, anch’esso sviluppatosi fuori e contro i sindacati di regime e che rafforzò nel settore il sindacalismo di base (“Disamina e bilancio dello sciopero dei tranvieri”).

Per quanto riguarda gli scioperi di fabbrica, abbiamo avuto i 21 giorni alla FIAT di Melfi nell’aprile del 2004 (“Cobas e Fiom alla riprova di Melfi”), e dieci anni dopo i 35 giorni di sciopero alla Thyssen Krupp di Terni nell’ottobre-novembre 2014 (“Terni, Uno sciopero di 35 giorni tradito dai sindacati di regime”).

Dal 2011, si è avuto lo sviluppo di una riorganizzazione del sindacalismo di base nel settore della logistica, principalmente nel SI Cobas ma non solo. Tale movimento è stato considerevole, portando alla formazione di quello che è oggi il secondo sindacato di base, il SI Cobas appunto, con approssimativamente 20.000 iscritti, ma è rimasto confinato in questa categoria, con solo piccole eccezioni.

Il primo sindacato di base è divenuto l’Unione Sindacale di Base, nata nel 2010 dalla fusione delle precedenti Rappresentanze Sindacali di Base con parti della Confederazione Unitaria di Base e con il piccolo SdL (Sindacato dei Lavoratori). Si possono stimare gli iscritti intorno ai 40.000. L’Usb, rispetto alle sue origini nel 2010 e alla tradizione della principale organizzazione fondatrice – la RdB – ha cambiato parzialmente carattere in questi 13 anni, riducendo il numero degli iscritti nel pubblico impiego (scesi a circa 16.000), settore in cui era quasi solo organizzata la RdB, e crescendo nel settore privato.

In linea generale, di fronte all’incedere della crisi mondiale di sovrapproduzione del capitalismo, abbiamo assistito a un marciare del sindacalismo di regime verso un sempre più aperto corporativismo, con conseguente scoramento dei lavoratori, ulteriore individualismo e rassegnazione, e quindi con l’abbassarsi del livello di combattività della classe, progressiva dal finire degli anni settanta e giunto a un livello a cui forse non si era mai assistito nella storia del movimento operaio in Italia.

Sembrerebbe il trionfo della pace sociale sempre agognata dalla borghesia. Noi sappiamo essere invece il preludio a una nuova esplosione della lotta di classe, le cui condizioni materiali giorno dopo giorno la crisi avanzante del capitalismo prepara nel sottosuolo sociale e le cui prime manifestazioni sono già ben osservabili a livello internazionale, sia nei movimenti sociali di rivolta che, per ora, hanno mantenuto carattere interclassista – come in Cile, Colombia, Ecuador e Perù – sia nel rafforzamento del movimento di lotta sindacale in Francia, Gran Bretagna, Grecia, Turchia e negli Stati Uniti.

Tutti questi paesi hanno conosciuto lo stesso processo di indebolimento del movimento sindacale che abbiamo descritto per l’Italia, sia pure con forme e in misure differenti, ma in essi sembra essersi già verificata una cosiddetta inversione di tendenza, cosa invece non ancora manifesta in Italia.

L’indebolimento della lotta operaia si è riflesso sugli stessi sindacati di regime, che in Italia vedono sia diminuire i propri iscritti sia una crescente difficoltà a mobilitare i lavoratori nelle rare azioni che imbastiscono, per lo più manifestazioni invece che scioperi. Ma di ciò solo apparentemente le dirigenze di Cgil Cisl Uil si dolgono. La debolezza della classe operaia è infatti la miglior garanzia del loro controllo su di essa.

Nel complesso, il sindacalismo di base – sia per le avverse ragioni oggettive, sia per la dannosa azione delle sue dirigenze opportuniste – non è stato in grado di contrapporsi a tale progressivo indebolimento delle lotte operaie, e, al pari del sindacalismo di regime, ha subito un calo in termini di iscritti e di capacità di mobilitazione.

In quelle categorie in cui negli anni ottanta e novanta si era più affermato, sull’onda di movimenti di lotta fuori e contro i sindacati di regime, ha perso gran parte degli iscritti: scuola, ferrovieri, sanità, tranvieri, aeroportuali, vigili del fuoco.

Il quadro è però variegato fra le diverse organizzazioni sindacali.

I Cobas Scuola, e in generale la Confederazione Cobas di cui fanno parte, appaiono in grave declino.

L’offensiva della FIAT, iniziata nel giugno 2010 dall’allora amministratore delegato Marchionne, ha condotto alla quasi completa distruzione dello Slai Cobas, che si era sviluppato negli stabilimenti di Arese (chiuso nel 2005), di Termoli e di Pomigliano. Rimangono piccoli gruppi sindacali di base nelle fabbriche di Melfi, Termoli, Pratola Serra, Atessa.

La Cub, nata nel 1992 e presente allora in diverse categorie e industrie, e che aveva stretto un patto federativo con la RdB dando luogo alla RdB-Cub, ha anch’essa subito un forte declino, in particolare a seguito di due fattori: la nascita nel 2010 dell’Usb, che ha acquisito parti della Cub; l’accordo denominato Testo Unico sulla Rappresentanza del gennaio 2014 fra padronato e sindacati di regime, accettato prima dalla Confederazione Cobas, poi dall’Usb, poi da altri sindacati di base minori, e mai dalla Cub, che ha comportato la sua esclusione dalle Rsu (organi rappresentativi unitari sindacali votati entro le aziende).

La crisi di sovrapproduzione, in assenza di un già impiantato e robusto movimento sindacale di classe, ha avuto un effetto depressivo sulla combattività operaia, soprattutto nell’industria manifatturiera, comportando un retrocedere del sindacalismo di base dalle posizioni precedentemente conquistate.

Come detto, in controtendenza rispetto a quanto sin qui profilato, nel settore logistico si è sviluppato un movimento che ha dato luogo alla formazione del SI Cobas, e del più piccolo Adl Cobas. Anche l’Usb è in parte in controtendenza rispetto al generale arretramento del sindacalismo di base.

Dopo questa minima rassegna veniamo all’attività sindacale nello scorso quadrimestre. Si è confermata la bassa conflittualità. Come negli anni precedenti, consumate le mobilitazioni autunnali, già di per sé deboli, i mesi successivi hanno espresso sul piano delle mobilitazioni generali un livello ancora inferiore.

A ciò si è aggiunta la rottura della fragile unità d’azione del sindacalismo di base, fra dirigenze dell’Usb e del SI Cobas, nella manifestazione nazionale a Roma del 3 dicembre scorso, cui partecipammo compiendo il lavoro di propaganda e indirizzo.

Ciò ha condotto la dirigenza dell’Usb a proclamare uno sciopero generale per venerdì 26 maggio, convocato e organizzato senza coinvolgere nessun altro sindacato di base, il cui esito è stato, nonostante i proclami della dirigenza, negativo.

Ricapitoliamo la nostra attività da febbraio a oggi.

Sabato 25 febbraio l’Usb ha convocato a Genova una manifestazione nazionale contro la guerra con lo slogan: “Abbasso le armi, alziamo i salari!” Dietro lo slogan, apprezzabile, vi è però la malcelata posizione filo-russa del suo gruppo dirigente.

Cinque giorni prima, lunedì 20 febbraio, abbiamo partecipato al Coordinamento confederale dell’Usb Liguria, in preparazione della manifestazione del 25. In essa abbiamo ribadito che la guerra in corso in Ucraina è imperialista su entrambi i fronti; che solo i lavoratori saranno in grado di impedire a fermare la guerra imperialista generale che sta maturando; che gli scioperi e la manifestazione contro la guerra e in difesa dei salari sono un primo passo su questa strada.

Due giorni prima, sabato 18 febbraio, eravamo intervenuti in una assemblea convocata dal SI Cobas genovese nella sala dei portuali. L’assemblea aveva per tema la guerra in Ucraina e vi si presentava un libro redatto dal fronte politico che dirige il SI Cobas. Si è trattato quindi di un utilizzo del sindacato per una funzione ad esso estranea, come strumento organizzativo di un gruppo politico. Sussistono malumori entro questo sindacato per tale condotta.

Siamo intervenuti spiegando che a livello sindacale è fondamentale l’unità d’azione dei lavoratori e, a questo fine, l’unità d’azione del sindacalismo conflittuale; invece l’opportunismo si caratterizza per agire in modo ribaltato: fa frontismo politico (la dirigenza del SI Cobas ha composto un fronte politico con gruppi stalinisti) e settarismo sindacale, dividendo e indebolendo le azioni di lotta dei lavoratori.

Sempre il 25 febbraio siamo intervenuti nella riuscita manifestazione nazionale contro la guerra indetta dall’Usb, diffondendo un volantino del Partito intitolato “Il massacro dei proletari ucraini e russi continua e prefigura quello mondiale cui il capitalismo vuol condurre l’umanità intera. Solo la rivoluzione internazionale dei lavoratori potrà impedirlo!”.

Con un militante sindacale dell’area di opposizione in Cgil, abbiamo distribuito il volantino di convocazione dell’assemblea nazionale del CLA (“Assemblea pubblica. Salute sicurezza repressione nei posti di lavoro e sul territorio”), programmata per domenica 3 marzo a Genova, che ha avuto una trentina di presenti. È stata l’occasione per esporre in modo un po’ esteso e circostanziato importanti questioni relative al rapporto fra sindacato e Partito e alla questione dell’unità d’azione del sindacalismo conflittuale. Ciò è stato fatto con l’intervento introduttivo, tenuto dal nostro compagno (“Questioni cruciali del sindacalismo di classe discusse ad una assemblea del CLA”). Il testo di questa relazione è stato tradotto dai nostri compagni in lingua inglese ed è prossimo alla pubblicazione. L’intervento è stato l’occasione per controbattere alle inconsistenti argomentazioni del relatore dell’assemblea del 18 febbraio organizzata dal SI Cobas genovese.

L’8 marzo a Genova siamo intervenuti alla manifestazione per la giornata internazionale della donna, diffondendo il volantino del Partito, tradotto sulla nostra stampa in 16 lingue (“È il capitalismo a impedire la liberazione della donna”).

Un’attenzione particolare abbiamo dedicato a seguire i movimenti di sciopero in Francia e nel Regno Unito, e a renderne conto sulla nostra stampa. Ciò è stato fatto nel numero di maggio-giugno con due articoli titolati: “In Francia la lotta generale di classe travolge i bonzi della Cgt” e “Nel Regno Unito scioperi e manifestazioni annunciano il risveglio della classe operaia”.

Quanto colà accaduto, e soprattutto in Francia, ha avuto un certo riflesso fra i militanti del sindacalismo conflittuale in Italia. Delegazioni, una dell’Usb una della Fiom, si sono recate – separatamente – a una delle manifestazioni a Marsiglia.

In Francia il movimento è stato diretto da una intersindacale includente tutti i sindacati, quelli apertamente collaborazionisti e di regime, come la CFDT, quelli nascostamente tali, sostanzialmente la CGT, e l’unico che può essere considerato di base, il SUD. Le parti più combattive della CGT, di Force Ouvriere e il SUD si sono distinte per non rompere l’unità degli scioperi convocati dall’Intersindacale, cercando di prolungarli nei settori e nelle aziende in cui erano in grado di farlo.

Questo esempio è stato da noi ripetutamente utilizzato – all’assemblea del SI Cobas genovese, al Coordinamento confederale dell’Usb Liguria, all’assemblea del CLA – per spiegare che in Italia era da indicare, non certo un fronte sindacale coi sindacati di regime, ma certamente un’unità d’azione del sindacalismo conflittuale, assolutamente necessaria. Tutto l’opportunismo politico-sindacale che dirige i sindacati di base ha ignorato questa necessità, nonostante si riempisse la bocca di frasi altisonanti del genere “fare come in Francia”.

Il 25 marzo, a Genova, abbiamo pubblicato un appello del CLA genovese affinché il sindacalismo di base nella città promuovesse un presidio unitario in solidarietà col movimento di lotta in Francia, che in quei giorni giungeva al culmine, affrontando anche alcuni episodi repressivi di una certa gravità (“Per un’azione unitaria del sindacalismo conflittuale in solidarietà con la classe lavoratrice in Francia”). Anche questo appello, inviato a tutte le dirigenze sindacali locali e fatto circolare fra i nostri contatti sindacali, è rimasto inascoltato.

Il 30 marzo a Roma l’Usb ha organizzato un convegno nazionale con al centro il tema del salario. Abbiamo seguito tutto il convegno, trasmesso sulla pagina facebook del sindacato. Ospiti e intervenuti, fra altri, l’ex presidente dell’INPS Tridico, vicino al Movimento 5 Stelle, il capo di questo partito borghese Giuseppe Conte e un professore universitario di economia in pensione. Il convegno ha mostrato le patenti contraddizioni della linea politico-sindacale della dirigenza Usb, tipiche dell’opportunismo.

Da un lato, infatti, correttamente i dirigenti dell’Usb affermano che quella in corso è una crisi “sistemica” del capitalismo, nonché di sovrapproduzione, e che l’unico strumento per difendere e aumentare i salari è la lotta. Dall’altro si illudono, e illudono i lavoratori, che la via d’uscita dalla crisi economica del capitalismo sia nel ritorno a una politica di forte intervento dello Stato, che per essi non è borghese ma democratico. Rivendicano, come fa anche una parte della sinistra in Cgil, la costituzione di un nuovo Istituto per la Ricostruzione Industriale, istituito nel 1933, durante il fascismo, nel pieno della Grande Depressione, e che nel dopoguerra allargò progressivamente i suoi settori di intervento giungendo a includere nel 1980 circa 1.000 società con più di 500.000 dipendenti.

Questa politica, che confida nelle nazionalizzazioni di aziende schiacciate dal peso della crisi, non ha nulla di anti-capitalistico; infatti fu intrapresa dal fascismo, così come dal nazismo e dalle democrazie anglosassoni. È una via praticata – e a posteriori giustificata con pezze ideologiche – da ogni Stato borghese di fronte alla catastrofica crisi per far per poco sopravvivere strutture produttive a spese dell’erario.

Le politiche di intervento in economia dello Stato borghese per “salvare le aziende strategiche per il paese” – come ripete tanto il sindacalismo di regime quanto l’opportunismo alla guida dei sindacati di base – attraverso le nazionalizzazioni, hanno la finalità di condurre il proletariato verso il macello della guerra imperialista, la sola politica-economica in grado di salvare privilegi e dominio borghesi. A tal fine è fondamentale, oltre che il mantenimento in funzione di determinate fabbriche e strutture produttive, il nazionalismo politico, alla cui base è il nazionalismo economico. La nazionalizzazione delle industrie in regime capitalista “nazionalizza” le masse proletarie, nel senso che le irreggimenta nell’ideologia nazionalista. Non ci avvicina al socialismo ma alla guerra imperialista.

La dirigenza dell’Usb se da un lato, quindi, rivendica correttamente forti aumenti salariali e indica la strada della lotta per conseguirli, dall’altro contraddice questa battaglia con un indirizzo politico che null’altro è se non quello classico della socialdemocrazia, fallito già con la prima guerra mondiale e con la seconda.

Il convegno romano dell’Usb, più che il tema di come ottenere aumenti salariali, ha posto al centro la questione del “salario minimo legale”, per ottenere il quale i dirigenti dell’Usb confidano non nella mobilitazione dei lavoratori ma illudendosi nei demagogici appoggi del politicantismo borghese. In questo senso si inquadrano gli inviti e gli interventi di Tridico e Conte.

Per questo sulla nostra stampa abbiamo pubblicato due articoli: il primo sul declino dei salari in Italia (“Il declino costante dei salari in Italia”), il secondo sul tema del “salario minimo legale”, che abbiamo definito un miraggio per sviare i lavoratori dalla necessaria lotta per il salario (“Miraggio del salario minimo per deviare la combattività operaia”).

In molti, anche dentro l’Usb, riconoscono che senza una lotta generale di tutta la classe lavoratrice, della forza adeguata, una legge sul salario minimo legale si risolverebbe in un compromesso al ribasso fra i partiti borghesi, che cavalcano questa utopia a mero scopo elettorale. Per altro, se vi fossero le condizioni per esprimere un movimento di tale forza, allora non converrebbe incanalarlo nella politica parlamentare da cui attendersi una tale legge, bensì lasciare al confronto diretto col padronato l’ottenimento degli aumenti salariali.

È vero ciò che sostengono i sindacati di regime, cioè che i livelli salariali debbano essere regolati non dalla legge ma dalla contrattazione. Ma costoro lo fanno perché, condotta a loro modo, cioè senza lotta, la contrattazione garantisce al padronato di pagare bassi salari. La soluzione però non sta nell’illusione che la contrattazione al ribasso dei sindacati di regime possa essere aggirata imponendo, con supposti appoggi di partiti della sinistra borghese, una legge a tutela del salario. Questa illusione, pienamente socialdemocratica, e fascista, riposa sull’idea che il capitalismo possa essere condizionato dalla democrazia, con regole che vengano a proteggere le condizioni di vita dei proletari e le loro organizzazioni sindacali di classe.

Su questo piano riposa l’altra erronea rivendicazione del ripristino della scala mobile, avanzata dall’Usb e da altre correnti sindacali, ad esempio quelle trozkiste di opposizione in seno alla Cgil. Altra ancora è quella di una legge sulla rappresentanza sindacale, suscettibile, secondo i dirigenti di Usb, di garantire al sindacalismo di classe il diritto di essere riconosciuto.

Queste correnti opportuniste perpetuano la falsità che la democrazia sia quel che dice di sé, e non invece una forma di dominio della classe borghese – “il miglior involucro politico del capitalismo” disse Lenin – complementare a forme di governo totalitarie e apertamente fasciste, e che non muta affatto la natura borghese dello Stato.

In risposta all’indirizzo della dirigenza Usb, manifestatosi da ultimo nel convegno del 30 marzo, abbiamo affermato che, se è vero che la sola via per difendere i salari è quella della lotta, allora quei partiti borghesi di sinistra che i dirigenti di Usb illudono possano aiutare i lavoratori, dovrebbero essere messi alla prova circa le loro reali intenzioni. E non con la rivendicazione del salario minimo ma con quella della abolizione delle leggi anti-sciopero, che impediscono a una parte cospicua della classe lavoratrice di lottare, nello specifico proprio a quelle categorie scese in lotta nei mesi scorsi in Francia e nel Regno Unito.

Nell’articolo sul salario minimo si è affrontato un altro diversivo utilizzato, in questo caso dal sindacalismo di regime, per non fare tornare i lavoratori alla lotta: quello della “riforma fiscale”. All’assise finale del XIX congresso della CGIL, a Rimini, il segretario generale Landini l’ha definita “la madre di tutte le battaglie”. Il principale esponente della frazione sindacale che dirige la Fiom Cgil di Genova, che si dichiara conflittuale e che a Genova a dicembre 2022 ha svolto il congresso sotto lo slogan “Per un sindacato di classe”, si è detto d’accordo con questa affermazione del grande bonzo. Nell’articolo abbiamo denunciato anche questo opportunismo che si ammanta di sindacalismo di classe.

Per il Primo Maggio a Torino abbiamo distribuito il giornale del partito alla corposa manifestazione torinese.

Il 13 maggio a Firenze abbiamo partecipato a una manifestazione convocata dal SI Cobas di Prato contro la repressione poliziesca che ha colpito i suoi due giovani dirigenti locali. Abbiamo distribuito un volantino appositamente redatto ai circa 600 partecipanti (“Per la rinascita di un forte movimento sindacale di classe contro sfruttamento e repressione”). Gli operai in corteo hanno dimostrato grande attaccamento e fiducia nel loro sindacato.

Nella logistica si sono verificati tre importanti scioperi. Uno il 7 aprile nei principali corrieri (Brt, Gls e Sda), aderenti all’associazione padronale Fedit, che è riuscito provocando consistenti ritardi nella loro attività. Un secondo si è svolto presso il magazzino della Coop a Pieve Emanuele, a sud di Milano. Un terzo importante sciopero è stato condotto dal più piccolo Adl Cobas, che affianca da anni il SI Cobas, presso il magazzino della Commit Siderurgica, un’azienda siderurgica di Veggiano, in provincia di Padova. Un quarto importante sciopero ha avuto luogo nello stabilimento Stellantis (ex Fiat) di Pomigliano d’Arco, in provincia di Napoli. Di queste lotte abbiamo riferito e commentato nel giornale di luglio-agosto (“Ultime dal sindacalismo di regime in Italia ”).







Genova, sciopero della Fiom di venerdì 7 luglio
   La madre di tutte le battaglie sindacali è la lotta per forti aumenti salariali!
   Per condurla occorre un Fronte Unico Sindacale di Classe!

A fronte dell’inflazione in forte crescita dalla fine del 2021, i salari nominali dei lavoratori sono rimasti fermi o hanno subito aumenti del tutto insufficienti a evitare la drastica diminuzione del loro potere d’acquisto. I profitti invece crescono. La classe lavoratrice è sempre più sfruttata.

Il 7 giugno il segretario nazionale della Fiom Michele De Palma ha affermato che “Il Ccnl metalmeccanico difende il potere d’acquisto dei salari” in virtù dell’aumento a partire da giugno di 6,6% in media. Ma l’aumento non è retroattivo, non recupera il salario perso da fine 2021 a maggio 2023, e l’indice IPCA è ben inferiore all’inflazione reale, ragion per cui il Ccnl metalmeccanico non difende affatto i salari. Certo si può pensare al classico “meglio che niente!”, che è la linea sindacale di Cgil Cisl e Uil che ha permesso il calo dei salari in atto dal 1975 per i giovani lavoratori fino ai 29 anni e dal 1990 per tutti gli altri.

Al congresso Cgil, il 16 marzo, Landini ha dichiarato che “il fisco è la madre di tutte le battaglie”. La Cgil pensa di aumentare i salari riducendo il cosiddetto “cuneo fiscale”. I provvedimenti del governo Draghi e di quello Meloni in tal senso hanno per ora portato poche decine di euro in tasca ai lavoratori. La Fiom è d’accordo con questa linea, tant’è che De Palma, dopo aver lodato il Ccnl metalmeccanico, ha dichiarato: “Il Governo deve (...) detassare il salario” e che nella piattaforma unitaria Fim Fiom Uilm dello sciopero odierno non si parla di “aumenti salariali” ma di “valorizzare e sostenere il reddito da lavoro”. Nemmeno hanno il coraggio di nominarlo il salario, che chiamano reddito come ciò che intascano le classi sociali parassite che vivono sulle spalle della classe operaia.

La madre di tutte le battaglie per i lavoratori non è il fisco, come affermato da Landini e dalla maggioranza della Cgil, escluse solo le sue aree conflittuali, ma la lotta per forti aumenti salariali da strappare agli industriali con gli scioperi, come avviene in questi mesi in Francia, Regno Unito, Stati Uniti, Grecia, Turchia, ecc.

Ma questo andrebbe a danno dei profitti, delle aziende, del sistema finanziario, dell’economia nazionale e quindi anche dei lavoratori, sostiene il sindacalismo collaborazionista rinnegatore della lotta di classe. Certo che gli aumenti salariali – come tutti i bisogni dei proletari laddove vengono soddisfatti – danneggiano i profitti, le aziende, le banche, insomma la borghesia, ma le sorti della classe lavoratrice non dipendono dal buon andamento dell’economia capitalistica, delle aziende, dei profitti, come sostiene il sindacalismo collaborazionista di Cgil Cisl e Uil, per il semplice fatto che essa è destinata a crollare per effetto della crisi di sovrapproduzione di merci e capitali, che affligge da 50 anni i cosiddetti paesi occidentali e ora ha fatto capolino anche in Cina.

Far dipendere le sorti dei lavoratori da quelle delle aziende, dell’economia del paese, del capitalismo – come insegnano i Landini, gli Sbarra, i Bombardieri – significa incatenarli a una nave destinata ad affondare e che per salvarsi ha solo lo strumento della guerra, per distruggere le merci che non riescono più a vendere, fra cui la merce forza lavoro! Significa far sgobbare i lavoratori oggi, in pace, per il bene dell’azienda e del capitalismo nazionale, per mandarli domani, in guerra, a massacrare i proletari di altri paesi per i profitti della classe borghese.

I lavoratori si possono difendere oggi solo con forti scioperi in difesa dei propri interessi, necessariamente a discapito di quelli delle imprese, dei profitti, del capitalismo, e domani – di fronte a un nuovo conflitto mondiale che ogni giorno vediamo maturare sotto i nostri occhi – affossando con la rivoluzione questa società morente e i suoi regimi politici nazionali, siano essi apertamente autoritari, mascherati di democrazia o verniciati di falso socialismo!

Ciò di cui hanno bisogno oggi i lavoratori è di un movimento generale di veri scioperi per conquistare forti aumenti salariali in tutte le categorie, maggiori per quelle peggio pagate. Cgil Cisl e Uil non vogliono condurre una simile battaglia, come dimostra ogni atto delle loro dirigenze. D’accordo con gli industriali e i banchieri, invocano la riduzione del cuneo fiscale.

L’Unione Sindacale di Base, nata insieme agli altri sindacati di base in reazione al tradimento degli interessi dei lavoratori da parte de sindacalismo collaborazionista, lo scorso 26 maggio ha convocato uno sciopero generale con al centro la rivendicazione di un aumento medio di 300 euro per tutti i lavoratori. Ma questa azione giusta, per una corretta rivendicazione, l’Usb l’ha organizzata senza coinvolgere le altre forze del sindacalismo conflittuale, per l’opportunismo della sua dirigenza, ed è quindi stata troppo debole.

I lavoratori più combattivi sono così stretti fra il sindacalismo collaborazionista di Cgil Cisl e Uil – che impedisce alle masse salariate di uscire dalla passività e dalla rassegnazione – e l’opportunismo delle dirigenze del sindacalismo conflittuale, dei sindacati di base e delle aree combattive in Cgil, che con le loro divisioni puntellano il controllo del sindacalismo collaborazionista sui lavoratori, invece di indebolirlo.

La linea sindacale per i lavoratori combattivi è chiara: nei sindacati di base, nelle aree conflittuali in Cgil, bisogna battersi affinché tutte le forze del sindacalismo di classe agiscano unite, promuovendo la lotta per i veri obiettivi della classe lavoratrice, che la unificano e soddisfano i suoi bisogni immediati: forti aumenti salariali, salario pieno ai disoccupati, riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario.

Le crisi aziendali saranno sempre più numerose quale conseguenza della crisi di sovrapproduzione. Cgil Cisl e Uil tengono isolata ogni vertenza, chiusa nei confini aziendali, logorando i lavoratori in inutili tavoli di negoziazione. La borghesia, al di là della guerra, non ha una soluzione politico-economica alla crisi capitalistica e certo non la possono avere i lavoratori: non si tratta di seguire le millantate soluzioni proposte dal sindacalismo collaborazionista che invoca impossibili diversi modelli politico-economici del capitalismo, ma di imporre con la lotta ai regimi politici borghesi di conferire il salario ai lavoratori anche a fabbriche chiuse. Solo la rivendicazione del salario pieno ai disoccupati unifica tutte le lotte contro i licenziamenti, e queste alle lotte dei lavoratori ancora occupati. Se il capitalismo marcia verso il crollo i lavoratori non devono salvarlo ma imporre la difesa dei loro bisogni a sue spese.

Solo l’unità d’azione del sindacalismo conflittuale – fra i sindacati di base e di questi con le aree conflittuali in Cgil – che conduca alla formazione di un Fronte Unico Sindacale di Classe, è in grado di aiutare il ritorno alla lotta generale della classe lavoratrice e di spezzare l’unità sindacale collaborazionista fra Cgil Cisl e Uil che è la pietra angolare su cui poggia il loro controllo sui lavoratori per impedire il riaccendersi della lotta di classe, che sta tornando in tutto il mondo e giungerà anche in Italia!

A Genova il congresso Fiom di dicembre scorso si è celebrato sotto lo slogan “Coscienza, lotta, organizzazione. Per un Sindacato di Classe”. Il marxismo rivoluzionario non è una teoria da tenere chiusa in una teca di vetro insieme alle immagini di Marx, Engels e Lenin ma è una guida per l’azione. La linea sindacale comunista è coerente e conseguente alle basi teoriche e agli obiettivi programmatici: l’azione sindacale dell’oggi si pone in modo coerente su una linea che conduce alla rivoluzione politica di domani. Essere per il Sindacato di Classe oggi significa battersi per l’unità d’azione di tutte le forze del sindacalismo conflittuale, contro l’unità sindacale collaborazionista di Cgil Cisl e Uil – per promuovere un movimento di sciopero generale per forti aumenti salariali, salario pieno ai lavoratori licenziati, riduzione dell’orario di lavoro.







In Venezuela lottare per il salario si paga col carcere

Agosto in Venezuela è iniziato con la notizia della condanna a sedici anni di carcere contro 6 dirigenti politico-sindacali con l’accusa di cospirazione terroristica. Uno di loro era stato coinvolto nella mobilitazione dei lavoratori dei tribunali dei mesi precedenti.

Erano già stati arrestati nel luglio del 2022, senza alcuna prova e sulla base di una testimonianza di un soggetto che nemmeno si è presentato a confermare la testimonianza. La sentenza non è accessibile né al pubblico né agli avvocati difensori. I precedenti di questi militanti sindacali e politici erano il coinvolgimento attivo nelle proteste di strada per ottenere aumenti salariali e il loro legame con un partito politico che fa opposizione al governo sul terreno elettorale.

Questo atto repressivo del regime borghese venezuelano giunge dopo una lunga lista di casi di incarceramento di dirigenti operai, molti dei quali sono stati reclusi nelle carceri per mesi o anni, senza alcuna sentenza o, peggio ancora, nonostante l’emissione di documenti di scarcerazione.

È lunga anche la lista di lavoratori con procedimenti aperti presso le Procure o in regime di libertà vigilata, sempre a seguito di azioni di lotta sindacale, qualificata come reato contemplato nel Codice Penale, nella Legge contro il Terrorismo e nella Legge contro l’Odio.

Solo un mese e mezzo prima di questa sentenza, l’apparato giudiziario e poliziesco borghese del Venezuela aveva arrestato due capi operai nello sciopero presso lo stabilimento siderurgico della Siderúrgica del Orinoco e altri 22 lavoratori. I due sindacalisti sono ancora agli arresti mentre i 22 operai sono stati liberati, sottoposti però a una sorta di libertà condizionale, nel senso che se dovessero partecipare a nuove lotte sindacali, verranno incarcerati.

La sentenza a 16 anni di carcere è un chiaro messaggio alla massa proletaria affinché non riprenda l’arma della lotta, degli scioperi per difendere e aumentare i salari. Accortamente, il governo ha colpito militanti sindacali non collegati alle ancora sporadiche imprese o settori nei quali i lavoratori sono in mobilitazione, in un contesto generale di completo assoggettamento delle dirigenze sindacali agli interessi del nemico di classe dei lavoratori.

Ben pochi nel movimento sindacale hanno denunciato questa sentenza e la catena di azioni repressive contro la classe operaia! E parte dei gruppi che l’hanno denunciato in realtà non sono a favore della lotta dei lavoratori, ma semplicemente lo hanno fatto strumentalmente ai fini della campagna per le prossime elezioni presidenziali.

A fronte di un 2023 iniziato con le importanti lotte dei lavoratori della scuola e dei siderurgici, lo Stato borghese cerca di sopprimere questi embrioni di lotta di classe non solo col diversivo alienante delle elezioni presidenziali e con le false contrapposizioni fra borghesi, ma anche con la repressione e il terrorismo contro la classe operaia.

I lavoratori hanno iniziato a mostrare disponibilità alla lotta per le loro proprie rivendicazioni, anche superando l’ostacolo della condotta traditrice, divisiva e disorganizzatrice delle dirigenze delle confederazione e federazioni sindacali. E il regime borghese inizia a mostrare il suo vero volto dietro la maschera della democrazia: la dittatura del capitale.


Questo un volantino che abbiamo diffuso in lingua spagnola
 
  
Per l’aumento generale dei salari e delle pensioni
   Per la riduzione della giornata di lavoro
   Sciopero generale - a oltranza - senza servizi minimi

Non cadiamo nella trappola e nell’inganno del voto e delle elezioni!

Battiamoci, organizziamo, promuoviamo un FRONTE UNICO SINDACALE DI CLASSE, con le organizzazioni sindacali locali, le assemblee e la più ampia partecipazione dei lavoratori di tutti i settori, delle imprese pubbliche e private, dei lavoratori pensionati e disoccupati.

Il governo e gli industriali mantengono i salari a un livello infimo. I pensionati sono minacciati della fame e delle infermità. Prosegue il pagamento attraverso buoni che non permettono comunque un livello adeguato di capacità d’acquisto dei beni essenziali e non contribuiscono in alcun modo al salario e quindi alla sua parte differita (innanzitutto i contributi pensionistici).

La politica borghese offre quale soluzione ai lavoratori l’illusione della via elettorale e li chiama a votare nelle elezioni per il nuovo presidente. In questo modo tengono lontani i lavoratori dall’intraprendere la strada delle lotta rivendicativa, dello sciopero per ottenere il soddisfacimento degli interessi immediati, elementari, economici.

La massima espressione dell’unità d’azione della classe lavoratrice è lo sciopero generale: l’unica via per sconfiggere la borghesia e i suoi governi.

Lo sciopero deve essere a tempo indeterminato, non con un termine prestabilito, e senza i cosiddetti servizi minimi.

Per far questo è necessario che i lavoratori si organizzino in un Fronte Unico Sindacale di Classe, che rompa le divisioni imposte oggi dalle dirigenze delle confederazione e federazioni sindacali di regime.

Il governo persegue e incarcera i lavoratori che lottano per difendere il salario, mentre lascia a piede libero malavitosi e capitalisti che accumulano ricchezze sfruttando la classe operaia!






In Brasile il tribunale blocca lo sciopero degli insegnanti

Dal 15 maggio, circa l’80% dei 60.000 insegnanti e 6.000 impiegati di 1.200 istituti scolastici di Rio de Janeiro erano entrati in sciopero a oltranza per ottenere un aumento salariale. Il 21 giugno, dopo 35 giorni di lotta, un’assemblea con centinaia di lavoratori aveva deciso la continuazione dello sciopero.

Ma il Tribunale di Giustizia (TJRJ) ha conferito mandato al governatorato dello Stato di Rio (il Brasile è composto da 26 stati federati) di sospendere lo sciopero sotto la minaccia di una multa giornaliera di 500.000 Reais – pari a circa 94 mila Euro – per il Sindacato dei Lavoratori dell’Educazione (Sepe-RJ).

Una nuova assemblea dei lavoratori svoltasi nel quartiere di Cidade Nova, sempre con centinaia di presenti, ha deciso per la sospensione dello sciopero, dopo 44 giorni di lotta, pur non avendo ottenuto alcuna soddisfazione alle loro rivendicazioni. Questo sciopero dimostra, ancora una volta, come anche in Brasile la democrazia sia una maschera della dittatura del capitale sulla classe proletaria.






I siderurgici argentini lottano per un aumento salariale

Il 14 luglio l’Unión Obrera Metalúrgica (UOM) aveva annunciato un piano di scioperi nazionali, dopo il fallimento delle trattative sul salario coi padroni metallurgici. L’organizzazione aveva deciso di indire tre scioperi nazionali: il primo il 18 luglio, dalle 10.00 alle 21; il secondo il 19 e 20 luglio di 48 ore; il terzo dal 26 al 28 luglio di 72 ore. Le azioni hanno avuto l’appoggio delle 54 segreterie delle sezioni sindacali e i lavoratori le hanno accolte con entusiasmo. La richiesta centrale della lotta è stata l’aumento dei salari.

«Per la prima volta negli 80 anni di storia del sindacato dei metalmeccanici, i lavoratori ricevono salari inferiori al paniere alimentare di base e appena superiori al salario minimo, vitale e mobile, dopo aver contribuito con 189 ore di lavoro al mese alla produzione industriale», ha dichiarato l’UOM. Nei quattro incontri con le associazioni padronali, l’UOM ha chiesto un ulteriore aumento salariale del 10% a quello del 18% stabilito dalla commissione paritetica per il trimestre precedente e un aumento salariale del 30% per il trimestre luglio-settembre.

Mentre il governo rimane fermo nella sua politica di riduzione del costo del lavoro, di rallentamento degli aumenti salariali e di aumento del tasso di sfruttamento dei salariati, la tendenza dei vertici sindacali è quella di concentrare i propri sforzi sulle trattative, mentre esitano e ritardano il ricorso allo sciopero.

I lavoratori hanno dimostrato la loro volontà di lottare, ma la linea seguita fin qui dalla dirigenza sindacale ci fa escludere che essa possa proclamare uno sciopero a tempo indeterminato, è prevedibile che cerchi di unire allo sciopero dei metallurgici altri settori di lavoratori che condividono la medesima condizione di immiserimento crescente dovuta alla caduta generalizzata dei salari reali.

In alcune aziende siderurgiche i dirigenti sindacali non hanno portato avanti l’azione di sciopero, nonostante la disponibilità dei lavoratori.

Che questa sia un’altra occasione per imparare dalle esperienze affinché il movimento operaio argentino prenda la strada della ripresa della lotta, della rinascita dei sindacati di classe, della costituzione di un fronte unito sindacale, dello sciopero come unica forma di lotta in grado di sconfiggere i padroni, i loro governi e i loro apparati parlamentari, giudiziari e di polizia.








Netturbini a Fiume scioperano e si organizzano

Anche se al momento la classe operaia in Croazia potrebbe sembrare passiva, come risultato di un’offensiva borghese durata decenni e del lungo tradimento dei suoi interessi di classe da parte delle principali dirigenze sindacali, alcuni fatti recenti dimostrano che è ancora in grado di prendere l’iniziativa.

Il 20 settembre i netturbini di Rijeka (Fiume) sono scesi in sciopero senza preavviso, a oltranza e fuori dal controllo del locale sindacato di regime, per ottenere un aumento salariale del 30%.

La raccolta dei rifiuti a Rijeka è affidata a un’azienda municipalizzata, la Čistoća (tanto per offrire una ennesima smentita ai fautori delle nazionalizzazioni in regime capitalista).

L’amministrazione socialdemocratica della città non ha fatto nulla per alleviare le pessime condizioni di questi operai, ulteriormente peggiorate a causa dell’inflazione crescente. I prezzi dei beni e dei servizi di base in Croazia sono aumentati del 7,8% tra agosto 2022 e agosto 2023; rispetto all’estate del 2020 i prezzi sono aumentati di quasi il 25%. Nel contempo gli aumenti salariali nel settore dei servizi pubblici di Fiume sono stati trascurabili.

Dopo il primo giorno di sciopero, quando montagne di spazzatura soffocavano già la città, il sindaco Marko Filipović ha dichiarato: «Si tratta di un’azione illegale in quanto per attuare uno sciopero sono necessarie delle preliminari formalità e un preavviso. I lavoratori hanno interrotto il lavoro spontaneamente, senza la mediazione dei sindacati». Poi la sera in TV ha accennato alla possibilità di ricorrere alla precettazione.

Ma il rischio era di accendere ancor più il fuoco della lotta, invece di spegnerlo, vista l’adesione completa allo sciopero di tutti i 440 lavoratori dell’azienda, compresi gli impiegati.

I netturbini di Rijeka si sono organizzati fuori dal sindacato di regime SPGK (Sindikat Primorsko Goranskih Komunalaca). Tuttavia, l’SPGK ha sostenuto pubblicamente lo sciopero e ha offerto consulenza legale ai lavoratori che eventualmente avessero subito ritorsioni.

Dopo le prime 24 di sciopero l’amministrazione comunale ha offerto un aumento immediato del 15% dei salari, con un altro 15% in attesa di un futuro voto del consiglio comunale. I lavoratori hanno capito che l’altro 15% non sarebbe mai arrivato e hanno così continuato lo sciopero.

Dopo altri due giorni di sciopero l’amministrazione è tornata con un’offerta migliore: un aumento immediato del 20% per gli operai e più graduale per gli impiegati, a loro volta divisi fra quelli con salari più bassi, che avrebbero ricevuto l’aumento più rapidamente, e quelli con salari più alti, che l’avrebbero ricevuto più gradualmente.

I lavoratori hanno accettato questa proposta che, anche se non è stato raggiunto l’aumento del 30% e operando la tipica divisione utile al padronato fra operai e impiegati, per quanto mitigato dal giusto criterio di trattamento migliore per i peggio pagati, è comunque una parziale vittoria.

Ciò che più conta, ad ogni modo, non è il risultato immediato, quanto la ritrovata fiducia nella lotta e nella loro forza da parte dei salariati.

Non è la prima volta che i netturbini scendono in sciopero a oltranza in Croazia. Uno sciopero simile è stato organizzato a Zagabria nello scorso gennaio, che ha portato a una rapida vittoria sulla giunta “sinistra verde” locale.

Sembra che i lavoratori dei servizi pubblici in Croazia stiano tornando a capire quale sia la forza della classe operaia e siano sempre più pronti a disfarsi dei sindacati collaborazionisti. Un esempio per le altre categoria della classe lavoratrice.







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Riforma delle pensioni in Francia
La carota è marcia: cala il bastone

In Francia una nuova tornata del carosello perenne del “dialogo sociale” è stata l’occasione per assistere al degradante spettacolo di una disciplinata sfilata di tutti i rappresentanti dei partiti politici e dei sindacati (nessuno escluso!) a Palazzo Matignon (la residenza del primo ministro) e per subire per notti intere i torrenziali concioni del presidente di questa decrepita repubblica borghese, il quale ha dato prova ancora una volta della sua consumata abilità nell’evitare ogni argomento spinoso.

Un volta sopita la lotta dei lavoratori contro la riforma delle pensioni, conclusasi con una amara sconfitta, le organizzazioni operaie sono tornate sulla via della cogestione, accettando che le rivendicazioni proletarie si perdano fra i fiumi di discorsi sulla necessità di peggiorare le condizioni della classe operaia al fine di salvare la borghesia dalla crisi economica che avanza.

Anche nei più potenti paesi imperialisti, il capitalismo ha sempre meno briciole da offrire alla classe operaia. Così, mentre va in scena il teatrino del “dialogo sociale”, la cui natura corporativa è una caratteristica propria dei regimi borghesi nell’epoca dell’imperialismo, la repressione si abbatte sui militanti sindacali che hanno partecipato alla lotta per le pensioni, e in primo luogo su quelli della CGT. A essere colpiti non sono stati soltanto i militanti di base ma anche dirigenti di federazioni di categoria.

Questo è il caso di Sébastien Menesplier, segretario generale della Federazione Nazionale delle Miniere e dell’Energia (Fnme), uno dei sindacati di categoria della CGT più combattivi durante la lotta contro la riforma delle pensioni. È stato citato in giudizio il 6 settembre per «aver messo in pericolo altri cittadini attraverso una violazione palesemente deliberata di un obbligo normativo di sicurezza o prudenza». Menesplier è passibile di una multa di 75.000 euro per un’azione sindacale compiuta l’8 marzo scorso da elettricisti e gasisti locali che ha provocato il blocco dell’erogazione dell’energia elettrica.

Sophie Binet, nuova segretaria confederale, ha dichiarato quello stesso giorno: «Stiamo subendo una repressione senza precedenti dagli anni ‘50, all’epoca della mobilitazione della CGT col rifiuto dei portuali di imbarcare le armi per la guerra in Indocina». Ha poi aggiunto che ben 400 iscritti alla CGT sono stati oggetto di denunce penali a seguito delle loro azioni sindacali, mentre oltre mille salariati hanno subito la repressione antisindacale all’interno e all’esterno dell’azienda.
I militanti della Fnme sono di fronte a perquisizioni, arresti e provvedimenti disciplinari da parte dei vertici aziendali. Nel mirino vi sono anche dirigenti, come i segretari generali della Fnme CGT di Marsiglia e Bordeaux, chiamati a comparire in tribunale il 15 settembre e il 21 novembre.

Enedis, l’azienda statale che gestisce la distribuzione dell’energia elettrica, ha dichiarato di aver presentato quasi 300 denunce contro altrettanti lavoratori per azioni sindacali svoltesi nel contesto della mobilitazione contro la riforma delle pensioni. L’amministratore delegato ha minacciato di «presentare sistematicamente una denuncia in caso di atti illegali contro le infrastrutture e le attrezzature» e che Enedis «rispetta ovviamente il diritto di sciopero, ma condanna fermamente qualsiasi atto illegale sulla rete pubblica di distribuzione elettrica che non riflette in alcun modo i valori del servizio pubblico».

Ben si vede come concetti quali quelli del “diritto di sciopero” e ancor di più di “servizio pubblico” facilmente si prestino a essere piegati a favore della borghesia, contro i lavoratori.

In luogo del “diritto di sciopero” il sindacalismo di classe propugna la piena “libertà di sciopero e d’organizzazione”: un elemento concreto, pratico d’azione, non “diritto democratico” – secondo l’impalcatura dell’ideologia borghese – bensì ambisce a rompere ogni vincolo alla lotta di difesa della classe salariata, nella sicura prospettiva della rivoluzione che la liberi dall’oppressione politica e sociale cui è soggetta nel capitalismo.

A essere colpito dalla repressione padronale è stato anche il segretario generale della CGT Poste del dipartimento numero 66 (Pirenei Orientali) che guidò con successo uno sciopero nel 2016. È stato convocato il 7 luglio per un colloquio disciplinare presso la sede nazionale dell’azienda conclusosi a fine agosto con la sanzione a 18 mesi di sospensione senza retribuzione.

Anche i sindacati FSU degli insegnati e Solidaires delle Poste denunciano consigli di disciplina e trasferimenti forzati.

Noi comunisti ci distinguiamo dall’opportunismo per non gridare allo scandalo né lagnarci a fronte della repressione che si abbatte sulla classe operaia ogni volta che essa si pone sul piano della lotta.
Certo denunciamo ogni attacco ai lavoratori, ma non per invocare il rispetto di regole di convivenza democratica, che valgono solo fintantoché il proletariato non scende in lotta. Queste regole sono valide soltanto fino a quando riescono a tenere immobile la classe operaia a beneficio dei padroni: sono inganni ideologici che mascherano la vera natura totalitaria del regime politico borghese. La nostra denuncia è volta a evidenziare questo aspetto cruciale, a far cadere la maschera democratica della dittatura borghese sulla classe lavoratrice, non a tentare di mantenerla come fanno invece i partiti operai opportunisti.

Addirittura noi comunisti consideriamo di buon auspicio il passaggio della borghesia dal menzognero canovaccio del dialogo sociale al meno ipocrita maneggio del bastone repressivo, perché sappiamo che questo è un passaggio ineludibile nella strada della lotta fra le classi ed è un passo in avanti verso quello scontro aperto in cui il proletariato risulterà vincitore. Quindi non invochiamo di “tornare indietro” al precedente periodo di imposta pacifica convivenza democratica fra regime borghese e classe operaia, ma indichiamo ai lavoratori di attrezzarsi al meglio per vincere nella lotta, finalmente divenuta più intensa e aperta. E per vincere gli strumenti essenziali della lotta operaia sono sempre due: il partito comunista e il sindacato di classe.






6 luglio
Avanti barbari!
Al seguito della classe operaia guidata dal Partito Comunista


L’omicidio di Nahel

La rivolta dei giovani francesi del dipartimento 93 (Seine Saint Denis) è iniziata subito dopo la morte violenta di Nahel, a Nanterre nello stesso dipartimento, giustiziato da un poliziotto nella notte di martedì 27 giugno. Le immagini che circolano sono inequivocabili. La rivolta si è estesa ad altre città della regione parigina, compresa Parigi, e in tutta la Francia (Grenoble, Lille, Lione, Marsiglia, Guadalupa), fino a scatenare manifestazioni in Belgio.

I giovani dei “quartieri” sono furiosi. Non possono accettare la morte di un altro dei loro per mano di un agente di polizia.

Spesso minorenni, a volte anche di 12-13 anni, questi ragazzi sono galvanizzati dalla dinamica di gruppo e si organizzano attraverso i social network. La rabbia suscitata dalla morte di Nahel è ovviamente aggravata dalla miseria sociale, dal deterioramento dei servizi pubblici, dall’aggravarsi della crisi economica con l’inflazione e dai soprusi vissuti quotidianamente dagli abitanti dei quartieri.

Come nelle tre settimane di disordini nelle “banlieues” del 2005, la causa della rivolta è stata l’intervento della polizia, ma questa volta non si è trattato di un inseguimento che ha provocato la morte di due adolescenti, bensì di un atto deliberato di omicidio, un colpo sparato per uccidere.

Nahel, 17 anni, era alla guida di un’auto a noleggio, accompagnato da due amici di 14 e 17 anni, quando è stato fermato per un controllo stradale della “polizia nazionale”. È stato giustiziato da un poliziotto, ex membro della Brav-M (Brigade motorisée de répression des actions violentes) nota per i suoi agenti in moto che aggrediscono la coda delle manifestazioni con i manganelli, e anche della CSI 93 (Compagnie d’intervention et de sécurisation de Seine Saint-Denis ou 93) anch’essa nota per la sua brutalità.

Il poliziotto è stato incriminato il 29 giugno e posto in custodia cautelare. Un fondo di “sostegno alla famiglia del poliziotto”, organizzato da un polemista di estrema destra, stretto collaboratore del politico pure di estrema destra Eric Zemmour e di Marine Le Pen, ha ricevuto donazioni per un totale di 1,6 milioni di euro, aumentando la rabbia dei rivoltosi.

Il 93° è il dipartimento più povero della Francia continentale (il 5° dopo Mayotte, Guyana francese, Riunione e Guadalupa). Nel 2019 il 28% della sua popolazione viveva al di sotto della soglia di povertà. Questo dipartimento, che ha anche pagato il prezzo più pesante durante la pandemia da coronavirus, è stigmatizzato per l’alto tasso di criminalità, con le sue bande di spacciatori, le risse sempre più mortali tra di giovani di diversi quartieri per la difesa del “territorio”, l’unica loro proprietà.

Buona parte degli abitanti provengono dall’immigrazione magrebina e africana. Non sono “poveri” a causa del colore della pelle, ma a causa del passato storico coloniale della Francia in Africa e della politica migratoria necesaria al padronato e al capitale. Rinchiusi in ghetti di “case popolari” sparsi in tutto il Paese, formano un serbatoio di manodopera di riserva e a basso costo. Il Dipartimento 93, che nel dopoguerra apparteneva alla cintura rossa del PCF, è ora preda e cantiere di costruttori di alloggi per gli strati salariati meglio pagati e di costruzioni faraoniche destinate ai futuri Giochi Olimpici del 2024.

L’adolescente Nahel aveva una vita simile a quella di molti altri giovani di questi ghetti. Abbandonata la scuola, appassionato di rapping e di moto, trascorreva il tempo nel quartiere; aveva avuto piccole noie con la legge per essersi rifiutato di obbedire agli ordini della polizia; i suoi genitori sono immigrati algerini, ma è stato allevato dalla sola madre, e viveva in un condominio di un complesso residenziale nella città di Nanterre, confinante con la capitale. Nahel stava seguendo un percorso di integrazione con un’associazione che sostiene i giovani attraverso lo sport.

Questi complessi residenziali “popolari” ospitano lavoratori precari, salariati non qualificati, disoccupati e giovani che hanno abbandonato la scuola, comunità tenute in ostaggio dagli spacciatori e dalle incursioni repressive e indiscriminate della polizia. Nonostante gli eroici sforzi di numerose associazioni di “reinserimento sociale” con devoti “fratelli maggiori” che percorrono in lungo e in largo queste periferie, perlopiù escluse dalle “ricchezze” della Repubblica, questi giovani hanno perso ogni fiducia nel sistema educativo, spesso carente sotto molti aspetti, e nel sistema sociale e rappresentativo, incapace di offrire loro prospettive per il futuro.

A parte qualche caritatevole sussidio pubblico, l’unica risposta alla delinquenza offerta dal governo è la repressione, con i suoi controlli quotidiani, spesso violenti e insultanti, su individui selezionati in base al volto di immigrato, giovani apertamente ostili a questi poliziotti il cui arrivo nei quartieri suscita solo sospetto, disgusto, odio e comportamenti ribelli. Il rapporto con la polizia è di vecchia data; non hanno aspettato i gilet gialli per sperimentare la repressione. Per loro il nemico è la polizia, strumento di repressione, impotente ad aiutarli a sfuggire dagli spacciatori, che li attirano nei loro piccoli affari con promesse di guadagni favolosi.

Il loro odio si rivolge oltre che alla polizia contro tutte le istituzioni che la sostengono e la giustificano, anche quelle portatrici del miraggio di una “integrazione” sociale, nella quale non credono più. Dalle stazioni di polizia e dai municipi ai servizi sociali, agli asili nido, alle scuole, ai trasporti e alle biblioteche, rivolgono la loro rabbia con la distruzione di infrastrutture, di cui la popolazione del quartiere sarà la prima a soffrire.

La repressione giudiziaria nei confronti degli arrestati è dura e inflessibile.


Cosa è cambiato dalla rivolta del 2005

Non è un caso che i media e i rappresentanti della repubblica borghese al servizio del capitale usano il termine “tumulti” (“émeutes”), evidenziando le distruzioni e i saccheggi, senza accennare alla rabbia di una gioventù sacrificata sull’altare dello sfruttamento capitalista e condannata a fare i conti con le crescenti disuguaglianze.

Lo spettro della rivolta delle periferie del 2005 perseguita ancora la borghesia internazionale. Anche se molti dei manifestanti di oggi sono nati dopo il 2005, la violenza della polizia negli ultimi 15 anni ha plasmato la loro percezione della realtà e i loro sentimenti. Le rivolte, descritte come disordini o come “eccessi”, sono una lunga serie, con quelle dei difensori della ZAD di Notre Dame des Landes, quella dei gilet gialli nel 2018, le ripercussioni in Francia della rivolta negli USA con il movimento Black Lives Matter, senza dimenticare quelle che hanno accompagnato il movimento dei lavoratori contro la riforma delle pensioni da gennaio a giugno 2023, queste con la partecipazione di gran numero di manifestanti, non provenienti dai quartieri della periferia ma da quella “gioventù dorata” dalla sorte un poco migliore, ma altrettanto disperata e in rivolta.

Se confrontiamo la rivolta del 2005, durata tre settimane e mezzo, con quella di oggi, questa si caratterizza per la violenza più organizzata e distruttiva e per la portata della repressione messa subito in atto dallo Stato borghese sotto la sferzante guida del Ministro degli Interni Darmanin. In una settimana il numero di arresti è stato sproporzionato rispetto alle tre settimane di violenza del 2005: 3.486 in 7 giorni secondo il Ministero degli Interni, e 374 processati immediatamente secondo il Ministero della Giustizia; nel 2005, in 4.728 erano stati arrestati in tre settimane e mezzo di violenza (terminate il 20 novembre) e 1.328 successivamente.

Anche i danni agli edifici e alle automobili sono stati più numerosi: 5.892 veicoli incendiati e 1.105 edifici assaltati, secondo il Ministero dell’Interno. Nella sola regione dell’Île-de-France, un centinaio di edifici pubblici è stato lesionato o distrutto e più di un comune su dieci è stato assaltato, secondo quanto afferma l’entourage di Valérie Pécresse, presidente della regione, del gruppo politico di destra LR. Nell’autunno 2005 erano stati incendiati 10.346 veicoli, compresi gli autobus urbani, e 233 edifici pubblici e altri 74 di proprietà privata erano stati distrutti o danneggiati.

Rispetto al 2005 è stato coinvolto un più cospicuo dispositivo di poliziotti, dei quali molti di più sono rimasti feriti. Dopo una settimana, 808 membri delle forze “di sicurezza” sono stati feriti, mentre secondo il Ministero dell’Interno sono stati attaccati 269 locali della polizia e della gendarmeria. Ma non si parla di “insurrezione”!

I danni saranno maggiori: gli assicuratori hanno stimato un costo di 280 milioni di euro, rispetto ai 160 del 2005.
Secondo fonti di polizia, a differenza del 2005, i giovani ribelli erano meglio organizzati, con la polizia che ha dovuto mobilitarsi in più luoghi: i giovani hanno infatti utilizzato sistemi di messaggistica come WhatsApp e Telegram per comunicare tra loro, con funzioni di geolocalizzazione, agendo in modo rapido e preciso in piccoli gruppi mobili di 30-50 che si spostavano ogni 10 minuti da un punto all’altro. Nel 2005 Facebook era ancora agli albori, Twitter, Instagram, Snapchat e TikTok non esistevano e gli scontri non venivano trasmessi sui social network come oggi.

Alcuni dei giovani del 2023 sorvegliavano gli ingressi dei quartieri su scooter con targhe camuffate per avvisare dell’arrivo della polizia. Questi gruppi di giovani, con i volti spesso nascosti da sciarpe o fazzoletti – anche se i giovanissimi più spesso senza maschere – si scontravano con la polizia utilizzando tubi pirotecnici di cartone e i botti dei fuochi d’artificio, lanciati anche contro gli odiati edifici del potere e della ricchezza, causando danni e persino incendi. L’uso di fuochi d’artificio come arma è una novità. Per acquistarli in Francia è necessario un patentino, ma è facile ottenerli su Internet, spediti per posta. Queste “bombe” possono essere acquistate a partire da dieci euro.

Quindi ci vuole un po’ di organizzazione e anche denaro per rifornire i “quartieri”. Della rivolta potrebbero aver approfittato pure bande di spacciatori, disturbate dalle incursioni della polizia nei loro quartieri, e potrebbero aver foraggiato i ribelli.


La risposta della borghesia: repressione

I media e il governo hanno messo in atto una propaganda per delegittimare le proteste e preparare il terreno a una ondata di repressione e per terrorizzare la popolazione parlando solo di saccheggi e distruzione di edifici pubblici da parte di un’orda di rabbiosi. Mentre le forze di destra e di estrema destra e i sindacati di polizia esacerbano gli animi e fomentano lo scontro, l’indebolito macronismo si prepara a rafforzare i dispositivi della repressione.

Per sedare le rivolte lo Stato ha messo in atto un’incredibile dispiegamento di 45.000 poliziotti e gendarmi, e in alcuni quartieri corpi speciali come la BRI (Brigata anti-gang) e la RAID (unità d’élite della polizia nazionale per l’assalto militare), il GIGN (gruppo d’intervento della gendarmeria nazionale). Ora non manca che l’esercito! Nel 2005, al culmine delle violenze, furono coinvolti fino a 11.700 agenti di polizia e gendarmi, 224 dei quali, oltre ai vigili del fuoco, rimasero feriti. Alcuni sono finiti sotto il fuoco (di munizioni vere o di piccolo calibro), in particolare il 6 novembre del 2005 a Grigny (Dipartimento 91 a sud di Parigi), sono stati colpiti dieci agenti di polizia, due dei quali ricoverati in ospedale.

Coprifuoco locali, blocco serale a Parigi degli autobus e dei tram, minacciato lo stato di emergenza e la chiusura dei social network... si sta sperimentando l’intera gamma di misure. Va ricordato che l’impiego di forze speciali nell’ambito di operazioni di ordine pubblico era già stato utilizzato nella Guadalupa nel novembre 2021 e più recentemente a Mayotte durante l’operazione di pulizia delle baraccopoli nota come Operazione Wuambushu (“ripresa del controllo” in lingua maorese)! Per non parlare del dispiegamento di 12.000 agenti di polizia e gendarmi il 23 marzo contro la protesta per la riforma delle pensioni! Con le randellate sui manifestanti, la precettazione degli scioperanti, i divieti di manifestazione, lo scioglimento del movimento ecologista “Soulèvements de Terre”, la feroce repressione delle rivolte dei giovani nei quartieri e così via.

Di pari passo è in corso l’offensiva giudiziaria: centinaia di giovani saranno processati e si prevede che riceveranno condanne molto pesanti. Molti avvocati hanno denunciato l’illegalità della situazione, soprattutto per i ragazzi di 12-13 anni! Ma il ministro della Giustizia, l’avvocato Dupont Moretti, sta inviando circolari ai giudici per chiedere pene molto severe!


La risposta dei partiti e dei sindacati collaborazionisti

Cosa possiamo aspettarci dall’Intersindacale nazionale, quella che ha ripreso i negoziati con il governo senza aver ottenuto nulla dopo lo straordinario movimento che si è sviluppato da gennaio a giugno?

Prevale la moderazione, persino il silenzio, mentre ci si affretta a scrivere comunicati, alcuni molto eloquenti. Il 29 giugno, la CFDT si è detta “soddisfatta della diligenza dei tribunali”. «Devono continuare a lavorare con calma per fare piena luce sulle cause di questa tragedia. Non è il momento di sfruttare la morte di Nahel per alimentare la rabbia. Ora è il momento di placare gli animi. Il comitato esecutivo della CFDT saluta il lavoro dei dipendenti pubblici che si stanno impegnando per raggiungere questo obiettivo nonostante le attuali tensioni».

Mentre la CGT, la CFDT e la FSU hanno denunciato l’uso di armi da fuoco da parte della polizia, l’UNSA, la FO e la CFE-CGC si sono astenute dal reagire per non offendere i loro sindacati di categoria della polizia.

La CGT non sembra essere molto più combattiva. Sebbene la CGT ricordi l’uccisione di 13 persone nel 2022 per il rifiuto di obbedire agli ordini della polizia, il suo tardivo comunicato confederale si è concentrato principalmente sul richiamo «alle autorità pubbliche». Il 4 luglio il sindacato dei servizi pubblici CGT ha pubblicato un comunicato stampa in cui denuncia «la spirale distruttiva» e saluta «l’azione dei funzionari e dei dipendenti pubblici che sono attualmente in prima linea, dimostrando quotidianamente la natura indispensabile dei servizi pubblici».

I sindacati erano in gran parte assenti dalla “marcia bianca” per ricordare Nahel di giovedì 29 giugno a Nanterre, così come lo saranno il successivo venerdì sera. Erano presenti alla manifestazione i ferrovieri di Sud Rail, gli attivisti del partito trotzkista Révolution Permanente e i lavoratori dell’energia. Tra questi, Cédric Liechti della CGT énergie Paris ha insistito sull’importanza di un legame tra il movimento operaio e i giovani dei quartieri popolari: «I giovani hanno esercitato una pressione così forte sui quartieri popolari che il governo è stato costretto a condannare a metà l’omicidio di Nahel. Ora tocca a noi, al mondo del lavoro, unire le forze con questi giovani che attaccano il nostro stesso nemico».

Mentre Solidaires ha diffuso comunicati stampa più espliciti – sollevando la questione della violenza strutturale della polizia e del razzismo di Stato, e ha chiesto la convocazione di una marcia bianca, la costruzione di una mobilitazione seria, attraverso azioni di sciopero – queste proposte sembrano lontana dall’essere all’ordine del giorno per i dirigenti sindacali.

Per France Insoumise LFI, le dichiarazioni iniziali di Mélenchon sono state all’insegna dell’empatia, di un soggetto “rivoluzionario”, di un recupero dei “benefici” della rivolta. Poi, di fronte al “caos preannunciato” e al disconoscimento mediatico e politico, l’opportunismo ha mostrato il suo vero volto e sono riapparsi suoi sentimenti per il mantenimento dell’ordine: dopo aver finto il rifiuto di invitare alla calma nei media, LFI ha virato di 180°. Di fronte alle pressioni del governo Macron, che denuncia violentemente il suo sostegno alle rivolte, France Insoumise ha infine scelto di allinearsi, presentandosi a diversi raduni del ceto politico a sostegno delle istituzioni repubblicane in pericolo. A Saint-Denis, il deputato di LFI Eric Coquerel è intervenuto a fianco dell’esponente della destra Valérie Pécresse e dei prefetti impegnati nella repressione in corso. E la famosa coalizione di sinistra NUPES (LFI, PS, PCF ed Ecologie) lunedì 3 luglio si è schierata con il governo.

Infine le organizzazioni “cittadine”, i sindacati e i partiti politici hanno deciso di “passare all’offensiva”. 90 organizzazioni, tra cui LFI, NPA, Partito ecologista, CGT, Solidaires e FSU, hanno indetto marce popolari in tutto il Paese a partire dal 5 luglio, sull’esempio della marcia organizzata dal comitato “Verità per Adama” (Adama Traoré, 24 anni, fu ucciso dalla polizia 7 anni fa durante un fermo, e il Comitato Adama, legato al movimento Black Lives Matter, ha guidato le storiche mobilitazioni del giugno 2020 contro la violenza della polizia e il razzismo sistemico in Francia), sabato 8 luglio a Beaumont sur Oise (il luogo dove Adama è stato ucciso), ma anche in tutto il Paese, e quella organizzata dal Coordinamento nazionale contro la violenza della polizia sabato 15 luglio.

Il comunicato stampa condanna l’abbandono e la discriminazione di chi vive nei quartieri, gli appelli dell’estrema destra alla guerra civile contro queste aree e chiede una modifica delle norme che regolano l’uso delle armi da fuoco da parte delle forze dell’ordine, nonché una riforma della polizia. Vedremo se questo appello verrà ascoltato dai “cittadini”, ma in ogni caso lo Stato sarà ancora una volta sordo.


Solo il movimento operaio impegnato nella lotta di classe può dare uno sbocco alla rivolta

Queste rivolte, che esprimono angoscia, impotenza e rifiuto di questo mondo chiuso e spietato, possono solo scontrarsi con le armi violente della repressione nelle mani di una classe che vuole mantenere i suoi privilegi di avido sfruttamento delle forze vive dell’umanità.

La crisi economica si sta diffondendo in tutto il mondo e la distruzione operata da questo modo di produzione è sempre più evidente; la parte viva ma sofferente dell’umanità, i giovani diseredati e i lavoratori sfruttati di ogni tipo in questo momento non dispongono il più delle volte di altra risorsa che non sia la violenza per esprimere la loro rabbia.
Noi, Partito Comunista Internazionale, salutiamo questi “barbari”. Sappiamo che in tutto il mondo il movimento operaio risorgerà dal filo rosso della lotta di classe, l’unico in grado di farsi valere su questa crosta terrestre sempre più devastata. Purtroppo è ancora in gestazione una spinta radicale e decisiva che si lanci sulla via della rivoluzione per la distruzione del capitalismo, ormai totalmente parassitario.

Avanti, barbari! Ma con le organizzazioni operaie, guidate dal Partito Comunista, unico depositario della coscienza storica degli oppressi.







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Riunione internazionale del partito
Per far tornare le parole del comunismo nei cuori dei proletari di tutti i paesi

(26-28 maggio, in videoconferenza) [RG146]



 


La classe operaia in America Latina

Per il Primo Maggio, dal Messico alla Patagonia abbiamo assistito alle tradizionali sfilate di lavoratori che si sono piegati alle politiche demagogiche dei governi, o che erano nell’attesa illusoria dei possibili annunci di aumenti salariali o di “miglioramenti” delle condizioni di lavoro, aspettando che cadessero le briciole dalla tavola del banchetto padronale. In ogni Paese il demagogo al governo ha fatto le sue promesse con l’appoggio delle imprese e delle varie centrali sindacali sottomesse al capitale.

Se escludiamo paesi come Venezuela e Cuba, dove i salari nominali sono prossimi allo zero, Colombia, Brasile e Perù si distinguono per i salari minimi più bassi. Tuttavia, sappiamo che anche in Uruguay, Ecuador, Cile, Argentina e Paraguay, che hanno i salari minimi più alti della regione, i lavoratori sopravvivono a costo di molte privazioni, per nutrirsi, curare la salute e l’igiene. D’altra parte, gli schemi salariali prevalenti nei diversi Paesi tendono ad abbassare a livelli infimi quanto viene corrisposto a pensionati e cassaintegrati e deprivano di ogni risorsa le ampie masse di disoccupati e di disoccupazione nascosta: lavoratori dell’economia informale, “autonomi”, lavoratori a giornata, ecc.

I salari reali sono erosi dall’inflazione e dalla rapacità padronale, alla ricerca di massimizzare lo sfruttamento dei lavoratori. Tutto questo sta portando a un deterioramento delle condizioni di vita, di alimentazione e di salute delle famiglie proletarie.

In Colombia non ci sono state promesse governative di alcun tipo per i lavoratori. Le centrali sindacali hanno riservato ai lavoratori il ruolo di comparse, per farli confluire nell’evento organizzato dal presidente Petro, che aveva bisogno di mostrare il “sostegno popolare” alla sua politica antiproletaria. Petro ha invitato “i cittadini colombiani” a mobilitarsi a sostegno delle riforme che il suo governo ha proposto al Congresso della Repubblica. Il malcontento dei lavoratori è stato incanalato verso i meccanismi istituzionali della democrazia borghese, spingendo la lotta operaia in secondo piano rispetto ai suoi progetti di riforma del lavoro.

In Brasile le centrali sindacali hanno mobilitato i lavoratori ottenendo dal governo Lula solo il ritocco del salario minimo da 1.302 a 1.320 reais (circa 267 dollari, un aumento dell’1,38%) e l’esenzione dall’imposta sul reddito per chi guadagna fino a 2.640 reais. Gli insegnanti hanno iniziato uno sciopero con la richiesta di un aumento salariale. Denunciano che l’applicazione della tabella annunciata dal governo ridurrà la retribuzione totale, con ripercussioni sul calcolo della pensione. Ad esempio, se un insegnante con 40 ore di lavoro guadagna 3.529,74 reais al mese come stipendio base, con i bonus la sua retribuzione è di 4.500 reais (circa 911 dollari): questo lavoratore non riceverà alcun aumento. Allo stesso modo, l’adeguamento salariale del governo non ha portato benefici al personale amministrativo della scuola.

Lo sciopero è iniziato il 4 maggio, con 5 anni di ritardo. Ma il potere giudiziario ha ordinato la sua interruzione pena una multa di 300.000 reais per ogni giorno di sciopero. Il Governatore del Distretto Federale ha chiesto alla Magistratura di raddoppiare la multa a 600.000 reais al giorno e il blocco del conto bancario del sindacato.

Lo sciopero nel Distretto Federale si è concluso dopo 21 giorni con un accordo per il pagamento di uno stipendio più alto nel secondo semestre di quest’anno, e non nel 2024 come previsto in precedenza.

In Messico il presidente si è incontrato con i pagliacci dei sindacati centrali per pranzare e condividere discorsi demagogici privi di qualsiasi riferimento a possibili aumenti salariali. I sindacati indipendenti si sono mobilitati per le richieste operaie.
In Argentina si sono tenute importanti manifestazioni di piazza in cui le organizzazioni sindacali hanno respinto gli accordi del governo con il FMI e hanno chiesto misure per controllare l’inflazione. L’Argentina è tra i Paesi con il più alto aumento del costo della vita al mondo. A marzo l’aumento dei prezzi è stato del 7,7% e su base annua ha raggiunto il 104,3%.

In Bolivia il presidente Luis Arce ha guidato la marcia dei lavoratori insieme alla Central Obrera Boliviana, dove ha annunciato un aumento dei salari del 5% che porterà il salario minimo a 2.362 bolivianos, equivalenti a 340 dollari USA. Il ministro del Lavoro ha dichiarato che l’aumento cerca di compensare l’inflazione dello scorso anno che è stata del 3,2%. Ma la realtà è che questo stipendio è insufficiente a soddisfare le esigenze di base dei lavoratori. In una frase che chiarisce come le principali centrali sindacali siano integrate allo Stato borghese, il demagogo Arce ha affermato che il suo governo “è forte perché i sindacati sono forti”. In effetti i diversi governi che si sono succeduti sono riusciti a promuovere e mantenere le loro politiche antioperaie grazie all’infido lavoro delle centrali sindacali.

Nello stesso tempo gli insegnanti statali, in conflitto con il governo da metà marzo, hanno manifestato al di fuori del corteo ufficiale. Gli insegnanti statali chiedono stipendi migliori e maggiori assunzioni, ma il dialogo con il Ministero dell’Istruzione è stato finora infruttuoso. Nonostante siano affiliati alla Central Obrera, gli insegnanti hanno denunciato che questa organizzazione non li rappresenta. Intanto, da parte loro, gli imprenditori hanno affermato che l’aumento dei salari disposto dal governo aumenterà la disoccupazione.

In Venezuela, dopo mesi segnati dalla dura lotta dei lavoratori della scuola, che chiedevano aumenti salariali, il governo è riuscito a capitalizzare la finta marcia del 1° maggio, mobilitando soprattutto i lavoratori delle aziende e delle istituzioni statali grazie anche ai trasporti pubblici forniti dal governo. Mobilitazioni alternative a quella del governo, che chiedevano aumenti salariali, si sono svolte in diversi Stati del Paese, ma con una bassa partecipazione. Nella capitale Caracas si è svolto un importante tentativo di corteo alternativo, con una grande partecipazione di lavoratori, che si è diluita lungo il percorso, in parte a causa del forte assedio della polizia che l’ha rallentata, in parte per l’assenza di una direzione sindacale di classe che avrebbe fornito l’orientamento necessario.

Il governo ha annunciato un aumento dei bonus, ma ha mantenuto il salario minimo a 130 bolivar (circa 5 dollari al mese). Con la politica dei bonus il governo diminuisce il costo del lavoro (le ferie e le indennità sono calcolate sulla base del salario minimo) e inoltre può ridurre i costi di licenziamento dei salariati.

Dopo gli annunci del Primo Maggio, sono aumentate le manifestazioni di malcontento dei lavoratori e la loro opposizione nei confronti delle confederazioni e federazioni sindacali. Nella regione della Guyana, con un ampio sviluppo di aziende di lavorazione del ferro, dell’alluminio, dell’acciaio e di altre lavorazioni, ci sono state importanti manifestazioni di ostilità da parte dei lavoratori nei confronti dei rappresentanti regionali della CBST (Central Bolivariana Socialista de Trabajadores). Ci sono state segnalazioni di proteste negli stabilimenti industriali CBST nella Corporación Venezolana de Guayana (CVG), SIDOR (acciaio), ALCASA (alluminio), FERROMINERA (ferro) e VENALUM (alluminio). A seguito di queste proteste alcuni settori del movimento sindacale in queste aziende stanno promuovendo lo svolgimento di elezioni sindacali, dove da circa 8 anni non si tengono per il rinnovo dei vertici sindacali.

* * *

Gli opportunisti e i sindacalisti riescono ancora a mantenere i lavoratori smobilitati, disorganizzati, divisi e sottomessi alla politica di conciliazione di classe con i padroni capitalisti e i governi del momento.

In generale, il movimento operaio è privo di riferimenti sindacali di classe. Si registrano sporadiche iniziative combattive a livello sindacale che ancora non riescono a crescere in termini di influenza, anche a causa della confusione dovuta alla presenza di posizioni nazionaliste, di difesa della sovranità nazionale e delle inclinazioni alla partecipazione elettorale e al parlamentarismo. Le grandi centrali sindacali dell’America Latina, vecchie e nuove, mantengono una politica di conciliazione di classe, lontana da qualsiasi appello alla lotta.


La teoria marxista delle crisi
Le teorie sul plusvalore - David Ricardo

Riprende l’esposizione del capitolo delle teorie delle crisi riguardante Ricardo, che si addentrerà nello studio della concezione borghese della caduta del saggio di profitto, dell’accumulazione e conseguentemente delle crisi da sovrapproduzione, orrore massimo di ogni apologeta prezzolato per negare la catastrofe a cui costantemente tende l’abominevole ultimo modo di produzione classista.

Il linguaggio utilizzato in questo frangente da Marx è tutt’altro che semplice e lineare, ma ogni grande traguardo scientifico è doverosamente preceduto da una buona dose di fatica e questa noi richiediamo al lettore comunista, i cui muscoli cerebrali devono allenarsi ad apprendere la teoria della liberazione del proletariato.

L’ampiezza dello spazio che viene dedicato a Ricardo nelle Teorie sul Plusvalore consente di riprendere continuamente i medesimi principi così da avvicinarsi per gradi al nocciolo della questione.

Uno dei punti più importanti nel sistema ricardiano è la scoperta che il saggio di profitto ha la tendenza a cadere.
Secondo Smith ciò avverrebbe in seguito alla crescente accumulazione e alla crescente concorrenza dei capitali che l’accompagna. Ricardo replica a questa tesi affermando che la concorrenza può perequare i profitti nelle differenti branche produttive; però non può abbassare il saggio generale del profitto.

La tendenza alla caduta del tasso del profitto viene derivata anche dall’aumento nel saggio della rendita fondiaria, ma questa tendenza della rendita in realtà non sussiste, e con ciò cade il suo effetto sulla caduta del saggio di profitto.

In secondo luogo la ricerca poggia sull’erroneo presupposto che saggio del plusvalore e saggio del profitto coincidano, e che quindi una caduta nel saggio del profitto corrisponda a quello del plusvalore.

La teoria ricardiana poggia quindi su presupposti errati: 1) che l’esistenza e la crescita della rendita fondiaria siano condizionate dalla fertilità decrescente dell’agricoltura; 2) che il saggio del profitto sia uguale al saggio del plusvalore e possa salire o cadere solo in proporzione inversa a come diminuisce o aumenta il salario.

A questo punto è necessario spostare l’attenzione nell’arena in cui tutte le contraddizioni e le antitesi della produzione borghese vengono ad esplosione: il mercato mondiale. Proprio perché tutti gli elementi contraddittori raggiungono qui l’apice, l’apologetica scatena le sue armi peggiori e, anziché indagare in che cosa consistano gli elementi contraddittori che esplodono nella catastrofe, si accontenta di negare la catastrofe e di insistere, di fronte alla periodicità regolare delle crisi, sul fatto che se la produzione si conformasse ai libri scolastici non arriverebbe mai la fine della prosperità. L’apologetica consiste allora nella falsificazione dei più semplici rapporti economici e specialmente nel tener ferma l’unità di fronte all’antitesi.

Per dimostrare che la produzione capitalistica non può portare a crisi generali, vengono negate tutte le condizioni e le determinazioni di forma, tutti i principi e le differenze specifiche, in breve la stessa produzione capitalistica, e di fatto viene mostrato che se il modo di produzione capitalistico, anziché essere una forma specificamente sviluppata, peculiare, della produzione sociale, fosse un modo di produzione rimasto dietro alle sue più rozze origini e le sue antitesi, le sue contraddizioni proprie, e perciò anche le sue esplosioni nelle crisi, non esisterebbero. Le crisi vengono eliminate mediante un ragionamento che nega i primi presupposti della produzione capitalistica, l’esistenza del prodotto come merce, lo sdoppiamento della merce in merce e denaro, i momenti da ciò risultanti della separazione nello scambio di merci, infine il rapporto fra il denaro o la merce e il lavoro salariato.

Quali sono quindi le condizioni che rendono possibili le crisi?
     1. La possibilità generale delle crisi nel processo della metamorfosi del capitale è data, doppiamente: in quanto il denaro funge da mezzo di circolazione, separando la compra dalla vendita; in quanto funge da mezzo di pagamento, dove opera in due momenti differenti, come misura dei valori e come realizzazione del valore.
     2. Crisi che risultano da variazioni di prezzo non coincidenti con le variazioni di valore delle merci.
     3. La possibilità generale della crisi è la metamorfosi di forma del capitale, cioè la separazione temporale e spaziale di compra e vendita.
     4. Le crisi possono anche essere generate da trasformazioni sproporzionate del pluscapitale nei suoi diversi elementi.
     5. Crisi derivanti da trasformazione perturbata delle merci in denaro.

Il capitolo finale ha affrontato il tema della contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e limitatezza del consumo.

Ricardo crede che la forma-merce sia indifferente per il prodotto; inoltre che la circolazione di merci sia solo formalmente diversa dal baratto; che il valore di scambio sia qui soltanto una forma transeunte dello scambio materiale; che quindi il denaro sia semplicemente un mezzo di circolazione.

È costretto a credere che il modo di produzione borghese sia quello assoluto, quindi senza una precisa determinazione specifica. Non può dunque neanche ammettere che il modo di produzione borghese implichi un limite per il libero sviluppo delle forze produttive, limite che viene alla luce nelle crisi.

Viene alla luce, fra l’altro, nella sovrapproduzione, fenomeno fondamentale delle crisi, che Ricardo è costretto a negare. Le difficoltà che Ricardo e altri sollevano contro la sovrapproduzione poggiano sul fatto che considerano la produzione borghese come un modo di produzione in cui o non esiste differenza fra compra e vendita. O come produzione sociale, tale che la società, come secondo un piano, ripartisca i suoi mezzi di produzione e le sue forze produttive nella misura in cui sono necessari al soddisfacimento dei suoi diversi bisogni, così che ad ogni sfera di produzione tocchi la quota del capitale sociale richiesto al soddisfacimento di quel bisogno.

Questa finzione scaturisce dall’incapacità di comprendere la forma specifica della produzione borghese. E questa incomprensione deriva dall’essere sprofondati nella produzione borghese, intesa come la produzione semplicemente, così come qualcuno che crede a una determinata religione vede in essa semplicemente la religione e fuori di essa solo false credenze.

 


Origini del Partito Comunista di Cina
La sottomissione al Kuomintang al quarto congresso dell’Internazionale

L’orientamento del Quarto Congresso dell’Internazionale Comunista sulla questione cinese, favorevole alla cooperazione del Partito Comunista di Cina con il Kuomintang, mentre i comunisti iniziavano ad entrare nel partito nazionalista, venne formalizzato con una risoluzione dell’Esecutivo dell’Internazionale del 12 gennaio 1923:

«1. La sola seria organizzazione nazional-rivoluzionaria in Cina è il Kuomintang, che ha la sua base in parte nella borghesia e nella piccola borghesia democratico-liberale, in parte fra gli intellettuali e nei lavoratori.

«2. Poiché nel paese il movimento operaio indipendente è ancora debole, poiché il compito centrale per la Cina è la rivoluzione nazionale contro gli imperialisti e i loro agenti feudali all’interno del paese, poiché inoltre la classe operaia è direttamente interessata alla soluzione di questo problema rivoluzionario-nazionale, pur restando ancora differenziata in misura insufficiente in quanto forza sociale pienamente autonoma, il CEIC ritiene che il KMT e il giovane PCC debbano coordinare la loro azione.

«3. Di conseguenza, nelle condizioni presenti, è opportuno che i membri del PCC rimangano nel Kuomintang».
In tal modo l’Internazionale recepiva la proposta caldeggiata da Maring, che già nella prima metà del 1922 aveva provato a spingere i comunisti cinesi ad iscriversi al Kuomintang. L’indicazione che la risoluzione dava al PCdC, quindi, andava oltre la necessità di “coordinare l’azione” del partito con quella che era considerata l’unica vera organizzazione nazional-rivoluzionaria, e formalizzava quanto nei fatti era già iniziato, con i primi comunisti che dalla seconda metà del 1922 avevano iniziato ad entrare individualmente nel Kuomintang.

Tale tattica, come è suggerito anche al primo punto della risoluzione, partiva da un fraintendimento circa la natura del Kuomintang, che avrebbe avuto come “base” in parte la borghesia e la piccola-borghesia democratico-liberale, in parte gli intellettuali e i lavoratori.

Soffermandosi solo sulla provenienza sociale dei membri del partito nazionalista, non veniva considerata la sua politica, borghese, tendente al compromesso sia con le classi possidenti cinesi sia con gli imperialisti stranieri.

Svanivano, quindi, le critiche che solo un anno prima, al Congresso dei Toilers di inizio 1922, lo stesso Zinoviev e anche Georgy Safarov avevano mosso nei confronti del Kuomintang, commettendo inoltre il grave errore di mettere da parte quanto le Tesi del Secondo Congresso avevano indicato sulla necessità di «conservare sempre il carattere indipendente del movimento proletario anche nella sua forma embrionale». Si muovevano così i primi passi verso l’abbandono della difesa del partito e della sua autonomia programmatica e organizzativa, come chiaramente stabilivano le tesi del 1920.

I legami con il Kuomintang andavano oltre l’aspetto interno della cooperazione con il PCdC, interessando anche il piano diplomatico dei rapporti con lo Stato sovietico. Verso la fine del gennaio 1923 a Shanghai ci fu un incontro tra Joffe, a partire dall’agosto del ’22 capo della diplomazia sovietica in Cina, e Sun Yat-sen che, dopo la sua cacciata da Canton, si dimostrava ben disposto a spostare il suo partito “a sinistra” e a ricevere l’aiuto sovietico contro i suoi rivali interni e stranieri.

Da parte sovietica, dopo che negli anni passati erano state tentate senza successo trattative con il governo di Pechino e si era mostrata anche una certa apertura verso il signore della guerra Wu Peifu, che si era imposto nella Cina centrale e il cui iniziale atteggiamento antigiapponese si era risolto in un avvicinamento agli imperialisti anglosassoni, si iniziò a puntare sempre con maggiore convinzione su Sun Yat-sen quale aspirante al potere in Cina. Per arrivare ad un accordo con Sun Yat-sen la diplomazia sovietica fece intravedere al capo del nazionalismo cinese il vantaggio di un’alleanza con il debole PCdC ma con la forza dello Stato sovietico. Anche al prezzo di una momentanea rinuncia degli obiettivi comunisti e rivoluzionari in Cina. Così, il 23 gennaio 1923 Joffe e Sun Yat-sen stilarono la seguente dichiarazione:

«Il dottor Sun Yat-sen sostiene che né l’ordine comunistico, né il sistema sovietico possono attualmente essere introdotti in Cina, perché non esistono quivi le condizioni necessarie per una riuscita istituzione del comunismo o del sovietismo. Questa opinione è interamente condivisa dal signor Joffe, il quale pensa inoltre che il supremo e più urgente problema della Cina sia di realizzare l’unificazione nazionale e di raggiungere la piena indipendenza nazionale; e, in relazione con questo grande compito, egli ha assicurato il signor Sun Yat-sen che la Cina ha la più calda simpatia del popolo russo e può contare sull’appoggio della Russia».

Gli iniziali rapporti tra lo Stato proletario russo e quelli che erano i governi della borghesia cinese, in un contesto politico caratterizzato dalla divisione del paese, divennero a partire dal 1923 una alleanza. Partendo dal pretesto che la Cina non era matura per il comunismo e il sistema dei soviet, cioè per la dittatura del proletariato, si arrivava a circoscrivere i compiti della sua rivoluzione all’interno di un quadro compatibile con un ordine borghese, di cui Sun Yat-sen era il principale protagonista.

Si sanciva nei fatti una politica menscevica in quanto dal punto di vista economico la Cina di allora non era molto più arretrata della Russia del 1917, dove i bolscevichi si erano invece battuti, dapprima, per una rivoluzione radicale, seppure democratica, condotta dai proletari e dai contadini poveri, contro tutti i partiti delle altre classi borghesi e piccolo borghesi. Capovolgendo gli insegnamenti di Lenin sulla tattica nelle cosiddette rivoluzioni doppie e le indicazioni dell’Internazionale per il proletariato delle colonie e semicolonie, la nuova rotta spingeva il partito del proletariato a sottomettersi alla direzione borghese.

I rapporti tra la Russia sovietica e Sun Yat-sen si svilupparono ulteriormente non appena nel febbraio 1923 Sun riprese le redini del governo di Canton.

In quel febbraio del 1923 si ebbe la repressione dello sciopero dei ferrovieri della linea Pechino-Hankow, l’ultimo dell’ondata di scioperi iniziata nel 1919 che aveva raggiunto il suo apice nel 1922. Questo evento fu letto come una conferma della debolezza del PCdC e della necessità di legarsi al Kuomintang.

In realtà questa pretesa debolezza del Partito Comunista di Cina non corrispondeva del tutto alla situazione reale in quanto, se all’inizio del 1923 i membri del Partito erano effettivamente poco numerosi, era anche vero che il Partito aveva assunto la direzione di tanti sindacati che proprio nel corso del 1922 avevano avuto un grande sviluppo, stabilendo così fin da allora una notevole influenza sulla giovane classe operaia cinese, ancora incontaminata dal contagio di quel riformismo ed opportunismo che si erano già saldamente radicati in Europa. Inoltre nel corso del 1922 il movimento proletario aveva dimostrato una grande capacità di lotta e la repressione del febbraio 1923 aveva causato solo una momentanea interruzione della vigorosa azione di classe che di lì a poco sarebbe ripresa con forza superiore, culminando nel grande movimento degli scioperi del 1925-1927.

Ma il Partito Comunista arriverà a questa importante fase dello scontro di classe in Cina con un’organizzazione legata mani e piedi dall’alleanza con il Kuomintang.

Con la tesi che il Partito Comunista fosse poco sviluppato in Cina, la stessa che fu adoperata in Europa per spingere i partiti comunisti verso la tattica del “fronte unico”, gli si negava la possibilità di qualunque azione autonoma all’interno del processo rivoluzionario cinese. Di più, secondo l’Esecutivo dell’Internazionale Comunista solo il dissolvimento nel Kuomintang avrebbe potuto portare al successo la rivoluzione della imbelle borghesia nazionale.

Il Terzo congresso del Partito Comunista di Cina, tenutosi nel giugno del 1923 a Canton, lanciò quindi la parola: «Tutti al lavoro per il Kuomintang. Il Kuomintang deve essere la forza centrale della rivoluzione nazionale ed assumerne la direzione». Approvò, inoltre, basandosi sulla risoluzione di gennaio dell’Esecutivo, la tattica dell’ingresso individuale nel Kuomintang.

Tale impostazione significava l’abbandono della corretta indicazione di una rivoluzione radicale, e, in prospettiva, comunista, e la capitolazione dinanzi alla borghesia cinese che avrebbe portato alla sanguinosa sconfitta della classe operaia nel 1927.


La questione militare
La seconda campagna del Kuban

Denikin, dopo la conquista di Ekaterinodar, decise di oltrepassare il fiume Kuban e conquistare la strategica Stavropol al limite della steppa dei Calmucchi. Contava sul sostegno economico delle forze antibolsceviche, sulla possibilità di gestire le spinte autonomiste dei vari gruppi cosacchi, ma soprattutto sulla crisi dell’Armata rossa del Caucaso, più volte sconfitta anche se numericamente superiore. Questa, al comando di Sorokin, disponeva di 75.000 effettivi distribuiti su diverse armate separate e indipendenti di cui solo l’Armata di Taman, affidata a Matveev, la più esperta e combattiva, era ritenuta la sola in grado di riprendere l’iniziativa. Mosca si preoccupò maggiormente per il nuovo fronte di Caricyn contro i cosacchi del Don e per quello del Volga attaccato dall’armata cecoslovacca, per cui considerò questo del Kuban un fronte secondario.

Matveev intendeva unire la sua armata con quella di Sorokin attraverso una lunga marcia dalle coste del mar Nero verso Armavir. Si unirono ai rossi anche 25.000 sfollati in fuga per paura delle feroci rappresaglie dei bianchi. Denikin, intuito il pericolo del congiungimento, inviò adeguate forze della cavalleria cosacca ad interporsi tra le due armate rosse nel distretto di Majkop. Si attardarono però in feroci e immotivate repressioni di 2.000 operai della zona trucidati in quanto ritenuti bolscevichi. Rimasero però schiacciati tra l’Armata di Taman e quella di Sorokin, che l’11 settembre 1918 iniziarono una serie di attacchi ai bianchi, che furono costretti a ritirarsi, lasciando libero ai bolscevichi il percorso verso Armavir, dove poterono così ricongiungersi. Per vendetta i cosacchi rientrati a Majkop uccisero 4.000 civili, ritrovati poi in fosse comuni.

Le unità di Sorokin e Matveev furono riorganizzate nella XI Armata, posta sotto il comando del poco disciplinato Sorokin. A questi venne affiancato il neoeletto Comitato militare rivoluzionario del fronte (RMSR), secondo le recenti indicazioni di Trotzki sulla riorganizzazione dell’esercito bolscevico. Ne facevano parte membri militari dell’esercito e membri politici eletti dai soldati dell’unità in azione, tale comitato aveva autonomia decisionale in tutte le questioni di carattere operativo-strategico. A tale proposito è stato citato il seguente passo dagli scritti militari di Trotzki: «Il comando, dunque, era in qualche modo sdoppiato. Il comandante conservava la semplice direzione militare; il lavoro di educazione politica era concentrato nelle mani dei commissari. Ma il commissario era soprattutto il rappresentante diretto del potere sovietico nell’armata. Senza intralciare il lavoro propriamente militare del comandante e senza diminuire in nessun caso l’autorità di quest’ultimo, il commissario doveva creare condizioni tali che questa autorità non potesse mai agire contro gli interessi della rivoluzione».

Denikin, per annientare definitivamente la XI Armata, reagì impostando da 5 direttrici un accerchiamento dei bolscevichi trincerati tra i fiumi Laba e Kuban con lo scopo di tagliare loro ogni possibilità di rifornimenti e di vie di fuga. Un piano ambizioso per le sue limitate forze, che si risolse in tre settimane di duri scontri alla fine dei quali il contrattacco di Sorokin obbligò i bianchi a desistere e ritirarsi.

I mai sopiti contrasti sulla conduzione delle operazioni tra Sorokin e Matveev si riaccesero quando da Mosca giunsero precise direttive di muoversi immediatamente verso Caricyn per portare soccorso alla X Armata; mentre Matveev proponeva l’immediato trasferimento via ferrovia su Caricyn, al contrario Sorokin intendeva scendere ad est per controllare Stavropol, poi a sud su Groznj e i giacimenti petroliferi contro i cosacchi del Terek, e infine dirigersi verso Caricyn.

Sorokin fece adottare il suo piano nonostante le proteste di Matveev, che nei giorni seguenti si rifiutò di eseguire i suoi ordini in merito. Sorokin convinse il Comitato militare rivoluzionario del fronte (RMSR) a farlo arrestare e fucilare.
Il 7 ottobre, lo stesso giorno dell’esecuzione di Matveev, iniziava l’articolata manovra voluta da Sorokin per conquistare Stavropol, alla cui difesa Denikin inviò adeguati rinforzi. Anche il comandante della Divisione di ferro, Žoloba, non condividendo la decisione di Sorokin, disattese i suoi ordini e si diresse per il percorso più rapido a difesa di Caricyn. Quest’altra disobbedienza scatenò forti contrasti interni, al punto che alcuni membri del Comitato militare, accusati falsamente da Sorokin di tradimento, vennero arrestati e fucilati. L’intero Quartier generale cadde nel caos più completo al punto di non essere in grado di emettere ordini sicuri e precisi e di non conoscere nemmeno l’esatta ubicazione delle sue forze e l’esito delle battaglie.

Denikin approfittò dell’immobilismo della XI Armata rossa e dell’indebolimento di alcuni settori ed occupò Armavir. Per paura delle sicure rappresaglie cosacche crebbe il numero dei volontari che si inquadrarono nell’Armata rossa, peggiorando però il problema dei rifornimenti e la qualità delle truppe.

Ciò nonostante il 28 ottobre l’attacco della fanteria rossa di Taman a Stavropol determinò la ritirata dei bianchi di oltre 30 chilometri dalla città, ma il Quartier generale rosso, ancora nel caos, non approfittò della favorevole situazione per disperdere le formazioni di Denikin, che ricevettero nuovi rifornimenti militari dagli alleati che permisero così un ampio contrattacco per la riconquista della strategica Stavropol, ultimo punto di rifornimento per la XI Armata. La situazione peggiorò per i bolscevichi quando i membri superstiti del Comitato militare dichiararono Sorokin traditore; questi cercò rifugio tra i soldati di Stavropol che riteneva essergli fedeli. Il 2 novembre, caduto nelle mani degli ex combattenti di Matveev fu subito fucilato.

Nei giorni seguenti la cavalleria bianca di Vrangel in ripetuti attacchi durati giorni riuscì ad occupare la città mentre quanto rimaneva della XI Armata, il 20 novembre iniziò una lunga marcia attraverso le steppe che la separavano da Astrakhan. La cavalleria bianca mandata al suo inseguimento dovette desistere, impantanata nel fango.

Le cause della sconfitta di quella valorosa armata furono due: mancanza di rifornimenti e caos dovuti a dissidi interni.
Raggiunte le città del basso Volga la ex XI Armata iniziò a riorganizzarsi dovendo prima battere la febbre spagnola e il tifo.


Fine della campagna del Kuban

Anche le truppe bianche di Denikin patirono forti perdite, e fra i loro migliori comandanti, in combattimento e per malattie, ma erano ancora sufficienti a controllare il nord del Caucaso. Al loro contrasto le forze rosse in tutta quella vasta regione erano ben 150.000, di cui però solamente 60.000 erano disponibili al combattimento. L’unità principale era costituita da quanto rimaneva dell’esercito di Sorokin, dell’Armata di Taman e di nuovi volontari della regione per un totale di 88.000 uomini e 75 cannoni. Questa si trovava disposta su una linea di 250 chilometri, lontana sia da Astrakhan sia da Caricyn, il suo fianco meridionale era protetto dalla debole XII Armata stanziata ai piedi della catena del Caucaso.

Il comando strategico del Caucaso-Caspio organizzò un’offensiva volta alla riconquista delle posizioni perdute.
Il 28 dicembre 1918 la XI Armata attaccò il centro dello schieramento della Armata dei Volontari, composta da un insieme di forze controrivoluzionarie, allo scopo di tagliare in due il fronte nemico per poi aggirarne l’ala settentrionale alle spalle e impedirgli ogni collegamento con Ekaterinodar e il Don. Altre unità attaccarono e aggirarono lo schieramento meridionale con una manovra simile; altre ancora erano destinate alla riserva e alle retrovie.

Dopo scontri violenti e dispendiosi l’Armata dei Volontari arretrò fino a Stavropol; nella confusione dell’attacco una divisione di Taman lasciò un pericoloso varco che permise alla cavalleria di Vrangel di attuare un devastante contrattacco che obbligò le forze sovietiche di quel settore a ritirarsi. Lo schieramento iniziale si disgregò, altri gruppi rimasti isolati furono attaccati alle spalle e costretti a ritirarsi. Anche nel settore meridionale l’offensiva rossa fallì lasciando la XI Armata rossa con gravi perdite di effettivi e di materiale. demoralizzata e circondata su tre lati dal nemico con alle spalle il mar Caspio, impossibilitata a raggiungere Astrakhan in inverno, decise di fortificarsi su posizioni sicure e riorganizzarsi per riprendere l’iniziativa.

La cavalleria di Vrangel con continui attacchi su diverse direttrici impedì queste manovre al punto che alla fine di gennaio nel Caucaso non esisteva più un fronte sovietico unico ma spezzoni isolati di quella che era stata la valorosa XI Armata.
Il Quartier generale rosso decise quindi di ripiegare sulle montagne del Caucaso contando sull’appoggio dei bolscevichi locali. La ritirata fu duramente ostacolata dalla cavalleria di Vrangel che con nuovi attacchi riuscì a spezzare l’armata in vari tronconi che si diressero su località diverse. Decisa a dare il colpo finale ai rivoluzionari in ritirata, la cavalleria bianca tra il 27 gennaio e il 6 febbraio 1919, attaccò i gruppi minori che furono sconfitti e catturati.

Ai comandanti rossi fu proposto di passare coi bianchi e al loro rifiuto furono subito impiccati; di norma, tutti i commissari politici bolscevichi fatti prigionieri venivano fucilati immediatamente.

Il 6 febbraio 1919 le truppe di Vrangel, conquistate le città maggiori, raggiunsero il mar Caspio con 31.000 prigionieri, 8 treni blindati e 200 cannoni. I sopravvissuti della XI Armata, ormai senza alcuna possibilità di sostenere adeguati scontri, intrapresero il difficile cammino verso Astrakhan in terribili condizioni fisiche e atmosferiche per il freddo, la neve e con un’epidemia di tifo che uccise anche il comandante in capo Levandosvskij.

Degli 80.000 componenti iniziali della XI Armata, soltanto 13.000 raggiunsero Astrakhan. Di fatto un intero gruppo di armate bolsceviche cessò di esistere dopo questa che fu considerata la sconfitta più pesante di tutta la guerra civile.

Le Armate del Caucaso furono riorganizzate e dislocate. La XII Armata fu inviata in direzione della Cecenia, dove si era rifugiata la direzione bolscevica della ex XI Armata. Ad eccezione della Cecenia e del Daghestan tutto il Caucaso era ormai sotto il controllo dei controrivoluzionari.

Questa vittoria, con le retrovie ben assicurate, permise ai controrivoluzionari di portare soccorso ai cosacchi del Don in difficoltà a Caricyn.

 

FINE DEL RESOCONTO




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Renitenza e diserzioni sul fronte ucraino
I proletari non vogliono morire per la patria borghese

Un aspetto della guerra in corso in Ucraina che quasi sfugge alla grancassa mediatica della propaganda di parte, tramutatasi ormai a quasi 20 mesi dall’inizio delle ostilità in rumore di sottofondo, è il moltiplicarsi degli effetti indesiderati per entrambe le parti in lotta. Se infatti di una guerra si può pianificare per grandi linee l’esordio, un po’ come avviene col lancio di un nuovo prodotto industriale, in seguito diventa assai più difficile dirigere l’andamento del conflitto verso gli obiettivi di partenza. Poi col tempo diventa assai arduo anche soltanto tentare di rallentare il corso degli eventi una volta che essi mostrano di essersi avviati verso la rovina totale di uno o entrambi i contendenti.

Se a distanza di alcuni mesi la tanto sbandierata offensiva ucraina incominciata in primavera ha ottenuto soltanto risultati assai modesti, al prezzo della vita di molte migliaia di soldati, viene naturale interrogarsi sul realismo degli obiettivi perseguiti e sull’adeguatezza dei mezzi per ottenerli. Si diceva che l’obiettivo principale fosse quello di sfondare le difese russe e puntare con decisione sul Mar d’Azov al fine di separare la Crimea dal resto dei territori ucraini occupati dalle truppe di Mosca. Ma alle porte dell’autunno questo obiettivo è ancora lontano e la stagione è oramai poco propizia per il passaggio dalla guerra d’attrito alla guerra di movimento.

Negli ultimi tempi sulla pubblicistica per aspiranti esperti di politica internazionale e di questioni strategiche fanno capolino affermazioni preoccupate come: “la guerra non sta andando secondo i piani di nessuno” o addirittura “questa guerra non conviene più a nessuno”. Siamo gli ultimi che possono stupirsi di fronte a tali constatazioni, per noi tanto realistiche e plausibili da essere quasi scontate.

Come potremmo noi marxisti meravigliarci se nelle guerre cui assistiamo in molte aree del pianeta ravvisiamo tutta l’irrazionalità della produzione capitalistica? Cosa avremmo mai da obiettare alla constatazione che la guerra è diventata sempre più inseparabile dall’economia borghese al punto che la sovrapproduzione si fonde senza soluzione di continuità con la distruzione di tutto ciò che frena la prosecuzione del ciclo di accumulazione? Noi sappiamo che, date certe premesse inerenti il modo di produzione capitalistico, la bancarotta dell’economia borghese in tempo di “pace” e la sua fatale trasformazione nella catastrofe della guerra, per il prevalere di elementi deterministici, è un processo non governabile né contenibile, anche se la borghesia si illude che non sia così.

Nel luglio scorso il summit della Nato tenutosi a Vilnius aveva dimostrato la riluttanza degli Stati Uniti ad aprire le porte all’adesione all’alleanza militare dell’Ucraina, un’eventualità finora sempre scartata per i paesi in guerra dato che farebbe scattare l’articolo 5 del patto di mutua assistenza collettiva che finirebbe per scatenare una guerra su scala planetaria.

Anche limitando la guerra all’attuale estensione territoriale, gli esiti possibili tendono a escludere una soluzione negoziale a breve termine. Il partito della trattativa non è forte, né in Russia né in Ucraina, se l’arco delle forze politiche che sui due lati dei confini ha scommesso sulla guerra ha messo sul piatto la propria sopravvivenza politica e probabilmente anche fisica. Per questo alcuni osservatori affermano che allo stato attuale le soluzioni del conflitto si riducono sostanzialmente a questi tre scenari: collasso del fronte interno russo, collasso del fronte interno ucraino, o accordo in extremis fra le parti in conflitto a causa dell’esaurimento di entrambi i contendenti.

Su queste ipotesi si misura quanto le potenze coinvolte a vario titolo abbiano interesse a far proseguire la guerra.

Gli Stati Uniti hanno ottenuto: l’affossamento dei rapporti commerciali fra la Russia e i paesi dell’Unione Europea (in primo luogo la Germania), i quali hanno dovuto rinunciare alle importazioni di prodotti energetici a buon mercato, subendo così una perdita di competitività della propria industria; il rafforzamento della loro egemonia politica e militare sul Vecchio Continente; la sottrazione alla Cina di uno dei terminali della Via della Seta alle porte dell’Europa Centrale.

Gli Stati Uniti nemmeno sembrano interessati a una improbabile vittoria dell’Ucraina tale da provocare un collasso del fronte interno di Mosca che, al di là della eventuale sostituzione dell’attuale governo, potrebbe portare a scenari catastrofici, come la dissoluzione incontrollata della Federazione Russa, con la conseguente predazione delle spoglie del defunto da parte dell’Europa, sotto l’egemonia germanica a Occidente e della Cina a Oriente.

Allo stato attuale delle operazioni belliche corrisponde una difficoltà ad uscire da una situazione di sostanziale impasse in cui la questione della mobilitazione delle forze necessarie per dare una svolta alla guerra risulta di primaria importanza.

Anche i media generalisti evidenziano la difficoltà per l’Ucraina di reperire nuove truppe da dispiegare al fronte. Si dice che, mentre sul piano degli armamenti le forniture di tanti paesi della Nato hanno permesso un certo riequilibrio di forze fra la Russia e l’Ucraina, Kiev possa contare solo su un numero limitato di uomini da mandare ad affrontare il fuoco nemico. Il fronte interno appare sottoposto a forti tensioni in entrambi i campi in lotta e i fenomeni di diserzione e di renitenza alla leva sono diffusi tanto fra gli ucraini quanto fra i russi. Se da parte del Cremlino non è mai stata proclamata la mobilitazione generale è perché se ne temono gli inevitabili contraccolpi sociali, dunque si preferisce continuare ad approvvigionare il fronte con un numero di soldati compatibile con il mantenimento di una parvenza di normalità nella vita quotidiana delle grandi masse, nelle immense retrovie del paese-continente.

Per Kiev invece la situazione sembra, almeno nell’immediato, più complicata. Le ingenti perdite subite nell’infruttuosa controffensiva non sono state compensate da truppe di rincalzo sufficienti di numero, ben addestrate e pronte a combattere, mentre la stanchezza si fa sentire in un paese la cui vita sociale è stata fortemente perturbata dalla guerra, al di là del numero enorme di lutti (assai ingente anche per i russi) e che ha visto migrazioni di profughi e sfollati interni che hanno coinvolto circa un terzo della popolazione. L’effetto combinato delle difficoltà militari e degli sconvolgimenti sociali mettono a dura prova la stabilità politica interna e minano il consenso al governo. In molte regioni del paese si fanno sempre più frequenti le manifestazioni spontanee delle madri e delle mogli dei soldati che chiedono di avere notizie sulla sorte dei loro congiunti.

Non tutti i proletari ucraini sono disposti a farsi ammazzare per il feticcio bugiardo della patria borghese se, come scriveva il Financial Times l’11 agosto scorso, almeno 13.600 uomini in età di arruolamento erano stati fermati dalle guardie di frontiera mentre tentavano di lasciare clandestinamente il paese.

Un falso certificato di inabilità alle armi poteva venire a costare fino a 6.000 dollari. La corruzione nei centri di reclutamento militari era già un fenomeno vistoso quando, a metà agosto, è emerso l’ennesimo caso di un commissario militare che, nell’oblast centro-occidentale di Chmelnyckyj, aveva intascato una tangente di 4.500 dollari da un coscritto per dichiararlo inabile. La dilagante corruzione aveva costretto anche lo stesso presidente Zelensky a rilasciare dichiarazioni demagogiche e a denunciare i casi di “arricchimento illegale”, dovuti al rilascio di certificati di inabilità, e alle malversazioni legate alla destinazione degli aiuti militari occidentali.

Noi comunisti siamo ben coscienti di come l’ordinario sudiciume della società borghese si disveli palese nel corso di una guerra, che impone ai proletari di versare il sangue combattendo i fratelli di classe. In tali circostanze anche i lavoratori maggiormente soggetti all’ideologia dominante devono fare i conti col fatto che la guerra, con le sue privazioni e i suoi lutti, non è uguale per tutti. “I figli dei politici non vanno a morire al fronte ma sono a studiare nelle università all’estero”, è la denuncia sulla bocca di molti, mentre gli effetti della guerra si fanno insopportabili.

È certo vero che la grande borghesia dai traffici di guerra ha accumulato delle fortune, custodite ben al sicuro all’estero, e predisposto sicure vie di fuga, in barba a chi dovrebbe restare a difendere “i sacri confini della Patria”.

Ma la macchina della repressione non consente ancora alle masse proletarie di esprimere il rifiuto della guerra. Così il serpeggiante malcontento viene indirizzato verso la valvola di sicurezza della legalità. Nei primi giorni di settembre una petizione diretta al presidente con molte decine di migliaia di firme chiedeva di ripristinare l’accesso pubblico online alle dichiarazioni dei redditi dei funzionari, pretendendo una maggiore “trasparenza” in tempo di guerra: “In questo momento, nascondere le dichiarazioni dei governanti agli ucraini significa coprire la corruzione totale del paese”.

Non sarà questa petizione a cambiare il corso delle cose e a imprimere una svolta politica. Eppure essa è l’indizio di una crisi del fronte interno, che in breve tempo, con la possibilità di sommosse di massa, potrebbe costringere la borghesia in Ucraina a chiudere la partita sul fronte militare.

E noi ci auguriamo che altrettanto accada in Russia.






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L’esportazione del grano ucraino divide il fronte europeo antirusso

Il 22 luglio 2022, a guerra iniziata da sei mesi, fu siglato un accordo tra Turchia e Nazione unite con Russia ed Ucraina per ridurre, fu detto, la crisi alimentare che con la guerra avrebbe colpito soprattutto i paesi più poveri. La Federazione Russa, prima di siglare l’accordo di proroga, pose come vincolo l’eliminazione delle sanzioni al proprio comparto agricolo e dei fertilizzanti, a scadenza nell’agosto 2023. Questo vincolo non è stato poi rispettato, per le “esigenze belliche” dettate dalla volontà di mantenere il fronte delle sanzioni.

Parlare di crisi alimentare per l’aumento del prezzo delle granaglie dovuto alla guerra è tuttavia un argomento debole o parziale. In realtà l’aumento era iniziato prima della guerra. Nel 2021 i prezzi erano già aumentati del 30%, tanto per i cattivi raccolti in Canada, uno tra i principali esportatori, a causa altrove delle difficili situazioni climatiche, quanto per la spinta all’accumulo da parte dei paesi più sviluppati, e poi per la crescita dei prezzi dei fertilizzanti indotta dalla ripresa post covid e dai prezzi crescenti degli idrocarburi.

Naturalmente la speculazione internazionale ha giocato anch’essa un ruolo importante per la forte variabilità, in crescita, delle quotazioni.

Secondo il rapporto commerciale del Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti (USDA) di luglio, i principali paesi esportatori di grano sono Argentina, Australia, Canada, UE, Ucraina, Russia e Stati Uniti. Nell’anno precedente, 2022, le esportazioni di grano dell’Ucraina sono state di 16.800 milioni di tonnellate Usa (USton, corrispondenti a 2.000 libbre, poco più di 907 kg), mentre gli Stati Uniti hanno esportato 21.000 milioni di USton. Anche l’UE ha esportato di più, con 34.000 milioni di USton. Rispetto ai dati di quest’anno, questo include una perdita di 500 milioni di USton sia per gli Stati Uniti che per l’UE.

Nel 2021 i primi 7 esportatori avevano coperto, da soli, il 90% del commercio internazionale; la Russia figurava seconda e l’Ucraina sesta per volumi di export, rispettivamente con il 15% ed il 10%. Numeri non da poco, un peso notevole sul rifornimento mondiale.

Il conflitto ha ovviamente acuito la crisi dell’export dall’Ucraina, veicolato oltretutto via nave dai terminali marittimi sul Mar Nero, che imbarcavano circa il 90% del volume complessivo.

Gli “aiuti” occidentali all’Ucraina sono anche consistiti, a guerra già in corso, nell’eliminazione dei dazi imposti sull’export di granaglie, che non sono stati tranquillamente accettati dai paesi confinanti, i più sensibili al differenziale di prezzo rispetto alle loro produzioni del grano ucraino.

Per allentare il divieto unilaterale, decretato da Polonia, Slovacchia, Ungheria, Romania e Bulgaria, all’importazione di cereali e altri prodotti agricoli dell’Ucraina, esentati per motivi “di solidarietà” dall’imposizione dei normali dazi, la Commissione Europea aveva deciso fino al 15 settembre 2023 di introdurre un blocco locale, concedendo solo il transito di quattro tipi di cereale e semi oleosi dall’Ucraina.

Naturalmente il transito e le esportazioni delle armi per sostenere lo sforzo bellico attenevano a tutt’altro ambito, e quello non era messo in discussione.

Alla scadenza del blocco, quando lo Stato russo ha dichiarato che avrebbe annullato la partecipazione all’iniziativa per il trasporto del grano dal Mar Nero uscendo dall’accordo extra bellico che permetteva il libero transito del grano via nave, le nazioni confinanti con l’Ucraina hanno assunto una posizione ancora più rigida verso la nuova necessità di esportare il grano ucraino via terra nel continente europeo. Polonia, Slovacchia, Ungheria, Romania e Bulgaria, in barba al sostegno militare a Kiev nell’impegno bellico, hanno dichiarato che non venderanno cereali provenienti dall’Ucraina sui loro mercati nazionali. Si sono solo dichiarati disponibili ad autorizzarne il trasporto verso gli altri paesi europei, che assorbono da tempo immemorabile la maggior parte del grano ucraino.

Se per qualche Stato europeo questo potrebbe portare dei vantaggi temporanei in termini di prezzo, il meccanismo internazionale della loro formazione rimane non governabile, come accade per le merci strategiche, derrate, materie prime, energia.

La Polonia non può permettere la rovina dei propri agricoltori e, di concerto con gli altri Stati, ha deciso di difenderli in ogni modo, incassando così una denuncia da parte dell’Ucraina, che contesta quella decisione unilaterale. A questa denuncia il governo di Varsavia ha risposto dichiarando che non avrebbe più fornito i propri armamenti all’Ucraina, anche se ha assicurato che avrebbe continuato il tramite degli invii internazionali di armi per la guerra in corso. In seguito le posizioni polacche si sono ammorbidite ed è stato raggiunto un compromesso temporaneo col quale i due paesi hanno accettato formalmente la definizione di un corridoio terrestre, il quale tuttavia non può sostenere lo stesso volume del trasporto marittimo e pone alcune difficoltà tecniche dovute ai diversi scartamenti ferroviari nei due paesi. La Polonia continuerà l’invio dei vecchi armamenti, ma permane la sospensione della fornitura di quelli di ultima generazione.

Gli interessi del capitale nazionale travalicano spesso quelli comuni a più Stati, e le borghesie li devono difendere anche contro coloro che dichiarano di voler aiutare. Nella profonda crisi militare il nazionalismo del commercio si mostra in modo aperto, senza i moralismi sulla cooperazione e sugli aiuti.

Le borghesie occidentali hanno reagito alla decisione con le consuete querimonie sulla Russia che affama le popolazioni più povere, anche se, dati alla mano, la percentuale di grano ucraino che va all’Africa è minima rispetto a quella che i paesi europei usano, almeno nominalmente, per mangime animale.

Le nazioni della UE affermano che “il grano in Ucraina non deve marcire nei silos”, ma va tenuto presente che l’Unione, che pure ne è una consumatrice, nel suo insieme non ha una necessità pressante specifica di importare grano ucraino, considerato un prodotto di bassa qualità secondo gli standard europei. Peraltro questo argomento della qualità viene anche utilizzato dagli Stati dell’Europa orientale per vietare le importazioni e giustificare così un atteggiamento di sostanziale protezionismo a difesa dell’agricoltura locale. È significativo che anche nei paesi in cui il grano ucraino ha già trovato un mercato, monti una sorda protesta contro gli effetti di dumping che l’eccesso di grano avrà sui mercati agricoli nazionali, dal momento che per l’export del grano ucraino non è previsto alcun dazio. L’Unione Europea ha dato il suo consenso e pagherà il conto delle “corsie della solidarietà” stradali e ferroviarie.

Nel frattempo, la lentezza nell’apertura di un corridoio via terra aumenta la probabilità che il grano continui a navigare attraverso il Mar Nero. L’Unione Europea, infatti, parla di scortare le navi ucraine che trasportano il grano attraverso quel mare fino nel Mediterraneo. La Russia ha già dichiarato che tratterà tutte le navi come combattenti.

Di recente sono state, da parte dell’Ucraina, individuate rotte lungo le coste della Romania, al coperto nelle acque territoriali. Altra via è quella sul Danubio.

La pace per il mondo borghese è soltanto un intervallo, più o meno lungo, tra una guerra e l’altra, guerre prodotte dal capitalismo imperialista. Non esiste nel mondo borghese la guerra giusta, le frontiere sono una protezione per i capitali nazionali e nel contempo uno strumento di divisione dei proletari. Lo scontro tra imperialismi è inevitabile e necessario all’infame regime del capitale.

La guerra esaspera tutte le miserie, i lutti e la fame che colpiscono gli strati più miseri delle popolazioni e le nazioni più deboli. Ma anche nelle metropoli del capitalismo i proletari sono i primi ad essere investiti dall’aumento dei prezzi delle derrate.

Il sistema del profitto affama l’umanità, aggravato dai tanti meccanismi speculativi che ne incrementano i danni per la classe lavoratrice. Soltanto con la sua sparizione l’umanità, finalmente libera senza né classi, né Stati, né guerre, né confini, potrà nutrirsi secondo i suoi bisogni.