Partito Comunista Internazionale
il Partito Comunista Internazionale N. 436 - anteprima

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Aggiornato 25 ottobre 2025

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DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: – la linea da Marx a Lenin, alla fondazione della III Internazionale, a Livorno 1921, nascita del Partito Comunista d’Italia, alla lotta della Sinistra Comunista Italiana contro la degenerazione di Mosca, al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani – la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario, a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco
PAGINA 1 Roma, 25 ottobre: Dinanzi alla crisi storica dell’economia capitalistica mondiale i lavoratori devono organizzarsi per la lotta di classe – con l’unità d’azione del sindacalismo conflittuale – per la rinascita del sindacato di classe
Rapporto sull'Indonesia
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Per il sindacato di classe  
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Roma, 25 ottobre
Dinanzi alla crisi storica dell’economia capitalistica mondiale i lavoratori devono organizzarsi per la lotta di classe – con l’unità d’azione del sindacalismo conflittuale – per la rinascita del sindacato di classe

La crisi economica del capitalismo continua la sua lunga marcia. In Italia la produzione industriale è in calo da oltre due anni. In tutti i paesi cosiddetti Occidentali – cioè di più vecchia industrializzazione – è dalla metà degli anni ‘70 che la crisi di sovrapproduzione ha iniziato a manifestarsi.

L’espansione e il parziale trasferimento della produzione industriale ai giovani capitalismi d’Asia, divenuti le “fabbriche del mondo”, ha rallentato per tre decenni – coi bassi salari della classe operaia di quei paesi – la caduta del saggio del profitto (la redditività degli investimenti) che, insieme alla sovrapproduzione, condanna l’economia capitalistica alla catastrofe. Ma la Cina ha seguito il percorso obbligato d’ogni capitalismo e anch’essa ormai affonda nella sovrapproduzione, costretta a inondare il mercato mondiale con sempre più merci esportate.

Sono questi giganteschi fattori economici, che nessuno domina, a spingere il capitalismo verso l’unica soluzione che esso ha alla sua crisi: la guerra. La distruzione della immensa quantità di merci che intasano il mercato – fra cui la merce forza-lavoro – è la folle unica via a disposizione del capitalismo per sopravvivere a sé stesso, necessaria a riavviare un nuovo antistorico e inumano ciclo di accumulazione, esattamente come fu solo la Seconda Guerra mondiale a far superare al capitalismo la crisi in cui si avvitava da inizio ‘900 e a permettere il cosiddetto boom economico dei tre decenni successivi.

Verso la barbarie di una nuova guerra mondiale il capitalismo marcia sia per via del tutto spontanea sia per l’azione cosciente dei regimi borghesi nazionali, siano essi in veste democratica o apertamente autoritari.

In modo spontaneo, perché la sovrapproduzione inasprisce la concorrenza economica internazionale facendola assurgere a guerra commerciale – ad esempio coi dazi – e a scontro militare, con guerre locali sempre più dure, durature, frequenti, che misurano il maturare del nuovo conflitto mondiale fra gli imperialismi.

In modo consapevole perché tutti i regimi borghesi fomentano il nazionalismo e si buttano nell’industria bellica, per prepararsi alla guerra sul piano militare, per irretire i lavoratori e portarli domani al fronte al massacro fratricida coi proletari degli altri paesi, e infine come palliativo alla sovrapproduzione: se non si vendono più automobili, che lo Stato venda e compri armi, indebitandosi fino al collo; sarà il proletariato – nelle intenzioni del regime del Capitale – a pagare il conto col massimo sfruttamento e con la vita!

Questo quadro – previsto solo dal marxismo rivoluzionario e che lo conferma contro ogni teoria riformista o conservatrice del capitalismo – mette a nudo l’impotenza della sinistra borghese, moderata o radicale, che in ogni paese balbetta la litania del “diverso modelli di sviluppo”. Come se il capitalismo potesse essere amministrato in modo diverso da come impongono le sue leggi economiche!

In questo scenario, ogni nuova manovra finanziaria sarà tendenzialmente peggiore delle precedenti perché si tratta di una crisi strutturale, a cui nessuna nuova politica economica può porre rimedio. Così, fra altri provvedimenti anti-operai, questa legge di bilancio innalza di altri 3 mesi la già altissima pensione di vecchiaia a 67 anni, prevedendo per tal via un risparmio annuo di 3 miliardi per lo Stato borghese, mentre si appresta a spenderne 3,5 in più per il riarmo nel 2026!

I lavoratori non devono essere chiamati a lottare per impossibili riforme – deviando e disperdendo la forza della loro lotta, nell’elettoralismo e nelle false alternative parlamentari – ma a difesa dei loro interessi immediati, elementari, economici, nella consapevolezza che il loro soddisfacimento diviene sempre più incompatibile con il capitalismo, nella misura in cui avanza la sua crisi, e che perciò questa lotta implica lo scontro con l’intero regime politico capitalistico, e naturalmente col padronato.

Oggi la Cgil chiama a una manifestazione nazionale contro la nuova legge di bilancio, in difesa di salari, pensioni, sanità e scuola, contro la precarietà e contro il riarmo. Tutti obiettivi corretti, a cui va aggiunta la rivendicazione della riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario.

Ma per ottenere queste rivendicazioni occorre una lotta molto dura, cioè un forte movimento di scioperi che confluiscano in uno sciopero generale di più giornate, senza un termine prestabilito. Per far questo occorre naturalmente la disponibilità alla lotta dei lavoratori. Questa – nella misura in cui non è stata annacquata dall’effimero benessere capitalistico che però va estinguendosi – va ricostruita riguadagnando la fiducia dei lavoratori combattivi dopo decenni di sindacalismo collaborazionista di Cisl, Uil e anche della Cgil, dalla “politica dei sacrifici” di Lama nel 1978, a quella “dei redditi” di Trentin del 1992, all’accettazione della riforma Dini delle pensioni (1995) alle incredibili 3 ore di sciopero contro l’attacco alle pensioni del governo Monti nel 2012 (legge “Fornero”).

Un passaggio decisivo in questa direzione sarebbe la rottura dell’unità sindacale collaborazionista con Cisl e Uil e la sua sostituzione con l’unità d’azione, di lotta, con il sindacalismo di base. Uno storico esempio di come ciò sia possibile e portatore di un’azione di sciopero forte e di successo è stato lo sciopero generale unitario di tutti i sindacati di base, e di questi con la Cgil, dello scorso 3 ottobre contro la guerra a Gaza.

Questo esempio non deve rimanere isolato, dimenticato, limitato alla gravissima questione della guerra, bensì deve divenire la condotta permanente anche nelle lotte di carattere più strettamente sindacale. I lavoratori combattivi iscritti nella Cgil, le correnti di minoranza conflittuali che sono ancora al suo interno, debbono battersi affinché questa condotta si imponga entro il sindacato. Ciò rafforzerà anche chi, entro i sindacati di base, si batte contro l’opportunismo delle dirigenze che sempre sono state ostili all’unità d’azione nello sciopero con la Cgil.

Lo sciopero generale del 3 ottobre – oltre che per l’unità d’azione di sindacati di base e Cgil – è stato di grande insegnamento anche per altri due importanti ragioni:

- ha avuto successo, soprattutto in alcuni settori del pubblico impiego, al pari di quello del 22 settembre, promosso dai sindacati di base, mostrando che è possibile dispiegare scioperi generali di più giornate, cosa che non era mai avvenuta in Italia in tutto il secondo dopoguerra!

- Si è svolto nonostante la Commissione di Garanzia lo abbia dichiarato illegittimo, dimostrando che se i sindacati lo vogliono si possono spezzare le leggi anti-sciopero (146/1990 e 83/2000) volute da Cgil-Cisl-Uil proprio contro gli scioperi dei sindacati di base e che impediscono a tantissimi lavoratori di scioperare efficacemente! Le sanzioni con le quali la Commissione di Garanzia vuole colpire l’Usb e la Cgil sono una ragione un più per rispondere a esse con uno sciopero unitario!

I drammatici eventi di guerra di questi ultimi anni sono il preludio di un prossimo e altrettanto drammatico precipitare e avvitarsi della crisi economica mondiale del capitalismo morente. Anche sul piano sindacale, cruciale per la classe operaia, si sta arrivando all’ora di prove decisive. L’unità d’azione della Cgil con il sindacalismo di base è uno dei banchi di prova da cui potrà nascere – attraverso una rottura con l’apparato irreversibilmente votato all’unità sindacale collaborazionista con Cisl e Uil – il futuro sindacato di classe, necessario a organizzare le vere lotte che attendono la classe operaia.







Riunione generale del settembre 2025
Rapporto sull’Indonesia

 L’Indonesia è un paese transcontinentale fra il Sud-Est dell’Asia e l’Oceania, un’area geografica, a sud della Cina e a est dell’India, che comprende undici paesi sovrani: Brunei, Cambogia, Filippine, Indonesia, Laos, Malesia, Myanmar (Birmania), Singapore, Thailandia, Timor Est e Vietnam.

È la più grande nazione-arcipelago del mondo composta da oltre 17.500 isole di cui poco più di 2.300 abitate; con oltre 280 milioni di abitanti è la più popolosa al mondo, preceduta da India, Cina e Stati Uniti e davanti a Pakistan, Nigeria e Brasile. La sola isola Giava, la più popolata del pianeta, centro geografico ed economico del paese, ospita oltre metà della popolazione con circa 150 milioni di abitanti. La grande isola si estende per 129 km², come l’Inghilterra, che però ne ha solo 56 milioni.

La popolazione nell’arcipelago è estremamente diversificata, con centinaia di gruppi etnici e lingue parlate. Comprende la più numerosa comunità musulmana al mondo.


Nella sempre più aspra contesa imperialista

“Cancello dell’Oriente” strategico tra l’Oceano Indiano e il Pacifico e con un vastissimo potenziale mercato di consumatori, l’Indonesia è un obiettivo ambito dalle maggiori potenze imperialistiche. Stati Uniti e Cina se la contendono attraverso una rete di accordi e investimenti. Nonostante il peso sempre più consistente dei capitali cinesi, la borghesia indonesiana si mantiene, per ora, in equilibrio tra le due forze.

La partecipazione del presidente indonesiano lo scorso 3 settembre a Pechino alla parata militare per il “Giorno della Vittoria”, avvenuta quando la capitale indonesiana era praticamente in stato d’assedio, dimostra un avvicinamento strategico con la Repubblica Popolare e con gli imperialismi alternativi agli occidentali. A Pechino il presidente indonesiano avrebbe inteso rafforzare la cooperazione bilaterale su temi economici e di sicurezza. Ma l’espansione dei legami commerciali con la Cina non farà cessare gli attuali rapporti con Stati Uniti e Russia, principali fornitori di armamenti al grande arcipelago.

A gennaio 2025 l’Indonesia è stata ammessa a pieno titolo ai BRICS, la prima nazione del Sud-Est asiatico a far parte del blocco.

Parallelamente, dopo quasi un decennio di negoziati, si è arrivati a un accordo di libero scambio con l’Unione Europea, noto come EU-Indonesia Comprehensive Economic Partnership Agreement (CEPA), che prevede l’eliminazione di oltre il 98% delle tariffe doganali sul commercio bilaterale.

In sintesi, la classe dominante indonesiana prova a non allinearsi a non dipendere da nessuno degli imperialismi, in modo da poter trarne vantaggio, ovviamente sulla pelle, il sudore e il sangue della classe operaia.


La forza lavoro, formale e informale

Si stima che la forza lavoro, salariata e non, assommi a circa 150 milioni. Il tasso di disoccupazione negli ultimi dieci anni ha mostrato un andamento generalmente stabile, in media al 5%, tranne che durante il Covid-19.

Come in altri paesi dell’area, la forza lavoro si divide in due categorie principali. I lavoratori “informali” sono circa il 60% del totale, quindi preponderanti. Questi includono piccoli contadini e artigiani e i salariati “a giornata” o “a contratto” non-permanente. Questi sono impiegati per compiti specifici o su base temporanea, giornaliera, settimanale o mensile: edili, braccianti durante il periodo del raccolto, trasportatori, come i conducenti di taxi-moto (ojek).

La predominanza del settore informale è sempre stata una caratteristica strutturale dell’economia indonesiana, riflesso della sua base rurale e di piccolo commercio.

Fra i lavoratori “formali”, 60-65 milioni, i salariati sono in netta predominanza, in generale con regolare contratto. Nel pubblico impiego si trova il 3% circa della forza lavoro. I servizi ne impiegano oltre il 45%, vasta categoria che include commercio, finanza, servizi professionali, amministrativi e settore pubblico. La manifattura occupa il 25-30% della forza lavoro formale, motore fondamentale del capitalismo indonesiano. L’agricoltura, benché cruciale per il Paese, occupa meno del 15% dei salariati con contratto. Infine, il 5-7% è impiegato nelle costruzioni. La rimanente percentuale si distribuisce tra estrazione mineraria, trasporti e forniture pubbliche.

Il panorama sindacale è molto frammentato, benché esistano alcune confederazioni principali che inquadrano la maggioranza dei lavoratori organizzati. A differenza di altri paesi dell’area, i loro legami con i partiti politici sono meno stretti e formali e più legati a coalizioni temporanee. Il KSPI (Konfederasi Serikat Pekerja Indonesia) è una delle maggiori confederazioni, si stima con oltre 2 milioni di iscritti, principalmente nelle miniere e nelle manifatture. Il KSPSI (Konfederasi Serikat Pekerja Seluruh Indonesia), una delle confederazioni storiche, ne conta intorno a 1,5 milioni.

Ma la grande maggioranza dei lavoratori indonesiani, in particolare nel vastissimo settore informale, non è iscritta ad alcun sindacato.


Industria e commerci

La produzione industriale indonesiana non è paragonabile a quella delle maggiori potenze globali. Tuttavia la sua costante crescita ne ha fatto una protagonista tra i capitalismi del Sud-Est asiatico.

Negli ultimi cinque anni i settori manifatturiero e minerario hanno registrato una crescita irregolare a causa della pandemia di Covid-19, ma hanno dimostrato una forte capacità di recupero: dopo la contrazione nel 2020 la produzione è tornata a crescere, trainata dalla domanda interna e dagli investimenti esteri. La crescita media della produzione industriale negli ultimi cinque anni è stata di circa il 4,3%.

L’industria si basa in particolare sulla estrazione e lavorazione del nichel, di cui l’Indonesia è il primo produttore mondiale, ma settori importanti sono il tessile e l’abbigliamento, fortemente orientati all’export, e altri in rapida espansione come auto e l’elettronica, sostenuti dai crescenti investimenti esteri.

La bilancia commerciale ha registrato un surplus negli ultimi anni, in gran parte per le esportazioni di minerali e prodotti dell’agricoltura: carbone, olio di palma, nichel e derivati, gomma naturale. Di prodotti manifatturieri: apparecchiature elettroniche, macchinari, tessuti e abbigliamento. Fra le importazioni: beni strumentali, macchinari industriali, veicoli, apparecchiature elettroniche e componenti; prodotti intermedi: chimici e plastica; beni di consumo: elettronica, farmaci e alimenti.

La Cina è il maggior partner commerciale, sia per le esportazioni sia per le importazioni. Grandi investimenti cinesi sono diretti verso progetti di infrastrutture, come la ferrovia ad alta velocità Giacarta-Bandung e il settore minerario, in particolare del nichel.

Seguono gli Stati Uniti, importanti soprattutto per le esportazioni. Il Giappone acquista prodotti energetici e minerali. Singapore è una piazza importante per il commercio e gli investimenti.


Il governo della borghesia indonesiana e le necessità del capitale

Il governo attuale è guidato dal presidente Prabowo Subianto, in carica dal 20 ottobre 2024, succeduto a Joko Widodo, imprenditore nel settore dell’arredamento, che aveva ricoperto la carica per due mandati. Ex ministro della Difesa, Prabowo è legato all’esercito e alla famiglia dell’ex “dittatore” Suharto, sotto il quale comandava le forze speciali. Prabowo oggi è il capo del partito del Movimento della Grande Indonesia, apertamente nazionalista e conservatore. Ma alle ultime elezioni presidenziali si è assicurato una vittoria schiacciante formando una ampia coalizione parlamentare, la Advanced Indonesia Coalition Plus, che include quasi tutti i partiti politici del paese compreso il Laburista, controllando 470 dei 580 seggi parlamentari.

Non essendo riuscito ad aumentare le entrate fiscali, il governo ha annunciando un taglio di quasi il 20% della spesa. Circa la metà di questo risparmio, 20 miliardi di dollari, sarà utilizzata per aggiungersi a un fondo sovrano, di recente creazione,  Danantara, un veicolo di investimento lanciato dalla borghesia indonesiana per raccogliere finanziamenti esterni. Con la sua enorme base patrimoniale - circa 900 miliardi di dollari - è il quarto fondo sovrano più grande al mondo, superando il PIF dell’Arabia Saudita e il Temasek di Singapore.

Nella campagna elettorale, Subianto aveva promesso di rilanciare l’economia e puntare a una crescita dell’8% entro cinque anni. L’obiettivo è attrarre investimenti e far divenire l’Indonesia la più grande economia del Sud-Est asiatico. Ma la Banca Mondiale stima che l’economia indonesiana fino al 2027 crescerà intorno al 4,8%.

Inoltre i recenti dazi del 19% imposti dal governo Trump sui prodotti indonesiani hanno colpito duramente settori chiave come l’elettronica, il tessile e l’agroalimentare, alimentando la reticenza dei possibili investitori.


Proletarizzazione e urbanizzazione crescenti

Negli ultimi decenni l’Indonesia ha assistito a un costante e significativo flusso di popolazione dalle zone rurali alle urbane. Gran parte di questi migranti è costituita da giovani di famiglie piccolo contadine che abbandonano la terra anche perché i lotti, divisi tra fratelli, sono troppo piccoli per sostenere la famiglia. I piccoli agricoltori oggi non riescono a competere con l’agricoltura su larga scala e ad affrontare i costi di fertilizzanti e sementi. Inoltre i prezzi dei prodotti agricoli (riso, caffè e olio di palma) sono spesso volatili, rendendo precario il reddito degli agricoltori.

Inoltre nelle aree rurali, trascurate dal capitalismo, spesso mancano l’assistenza sanitaria, i servizi di base, l’accesso all’istruzione e, non di rado, l’acqua potabile.

Dinamica comune a molti paesi dell’area è quindi migrare nelle grandi “luccicanti” metropoli in cerca di un salario fisso, sebbene basso e temporaneo. Veloce è la crescita della popolazione urbana: negli ‘50 anni viveva in città meno del 15% della popolazione indonesiana, oggi più del 50%, e con tendenza a crescere. È un riflesso della evoluzione della struttura economica indonesiana da una produzione di autosostentamento al mercantilismo e alla estrazione del plusvalore basata sulla vendita della forza lavoro.

Tuttavia queste città offrono alloggi cari e precari, condivisi con altri proletari. Non tutti riescono a trovare un lavoro formale e molti finiscono per lavorare, quando va bene, nel vasto settore informale: edili a giornata, fattorini, venditori ambulanti, un’enorme massa di lavoratori che, pur vivendo di un salario, non hanno alcuna protezione sociale o sicurezza del e sul lavoro. Altri tornano nelle campagne, magari non distanti dalle grandi città, dove cercano un lavoro nei campi come braccianti.


La rabbia esplode nelle piazze

È in questo scenario che da diversi anni un variegato movimento interclassista, formato da, studenti, giovani disoccupati e precari, ha iniziato a porsi contro la politica del governo. Disillusione e rancore covano tra queste nuove generazioni che, nonostante la crescita economica, non trovano una occupazione stabile e istintivamente capiscono che il mondo del capitale ha da offrirgli solo miseria, sfruttamento e guerra.

L’ondata di proteste, guidata da movimenti giovanili come “Indonesia Gelap” (Indonesia oscura), è iniziata un anno fa subito dopo l’insediamento del nuovo presidente. Si lamentava l’impennata delle tasse, la precarietà del lavoro, il nepotismo e la brutalità della polizia. I manifestanti chiedevano un non ben specificato aumento dei salari, oltre alla tutela delle comunità indigene e una maggiore trasparenza sugli stipendi dei funzionari.

A febbraio decine di migliaia di manifestanti sono scesi in piazza nella capitale per protestare contro le nuove misure di austerità del governo che prevedevano forti tagli allo stato sociale nei comprati dell’istruzione, la sanità e i servizi pubblici.

Dal 25 agosto le manifestazioni, che in precedenza si tenevano principalmente a Giacarta, sono dilagate in tutte le regioni del paese trasformandosi in un’ondata senza precedenti. A innescarle è stata la concessione di un bonus di 50 milioni di rupie (3.000 dollari) destinato ai 580 rappresentanti parlamentari per coprire, così si diceva, le spese d’affitto, premio difficile da digerire per dei lavoratori che ricevano un salario medio 4 milioni, circa 250 dollari.

A Giacarta manifestazioni oceaniche hanno percorso le grandi arterie della città. Sono state attaccate dalla polizia con idranti e lacrimogeni, ma anche armi da fuoco. I manifestanti hanno incendiato edifici pubblici, inclusa la sede del Parlamento.

Il 28 agosto diverse sigle sindacali hanno indetto uno sciopero generale. Sarebbe meglio dire si sono associate: in Indonesia infatti gli scioperi generali coinvolgono più classi sociali, oltre ai lavoratori salariati.

Tra le rivendicazioni delle organizzazioni dei lavoratori era il ritiro della Legge Omnibus sul Lavoro (Job Creation Law) che, approvata nel 2020, facilita i licenziamenti e di fatto abbassa i salari minimi. Scioperi si sono verificati a Giacarta ma anche in importanti aree industriali come Bekasi, Karawang e Tangerang, dove la concentrazione di fabbriche è molto alta.

Subianto pochi giorni dopo si è visto costretto a revocare l’indennità di alloggio e a sospendere i viaggi all’estero per i membri del Parlamento. Tuttavia ha dichiarato che non avrebbe tardato nell’affrontare e punire i responsabili dei disordini.

Il 29 agosto durante una manifestazione un fattorino rider di vent’anni sul lavoro è stato investito e ucciso da un blindato della polizia. Il video dell’evento diffuso sui media sociali ha alimentato l’indignazione nazionale. Le reti sociali sono state utilizzate da strumento di informazione e organizzativo, molti lavoratori vi hanno denunciato le loro misere condizioni di vita e di lavoro, e invitando allo sciopero e alle mobilitazioni. Il governo non ha indugiato a limitare o rendere inutilizzabile la rete.

Nei giorni seguenti l’ondata di scontri con le forze dell’ordine ha causato la morte di altri manifestanti. A Makassar, sull’isola di Sulawesi, una folla inferocita ha appiccato il fuoco al parlamento locale causando la morte di tre persone all’interno. Anche i parlamenti di Pekalongan, nella Giava Centrale, e Cirebon, nella Giava Occidentale, sono stati dati alle fiamme e saccheggiati. Mobilitazioni si sono svolte persino nella famosa meta turistica di Bali, dove è stato preso di mira il comando di polizia.

Il bilancio delle vittime è salito rapidamente a otto morti. Difficile quantificare gli arresti, ma diverse fonti parlano di migliaia di fermi solo a Giacarta, per un totale di oltre tremila arresti.

Le manifestazioni sono continuate ancora per qualche giorno, per poi gradualmente affievolirsi, riportando il paese a una apparente, temporanea, normalità.


Comunismo unica prospettiva

Le proteste sono espressione di una sofferenza e di un malcontento profondi a causa delle condizioni materiali della popolazione. Nonostante l’economia continui a crescere, i lavoratori accusano un deterioramento del potere d’acquisto dei salari mentre si esasperano le disuguaglianze sociali.

Sempre più giovani lavoratori sono super-sfruttati, privi di qualsiasi diritto, pedine indispensabili per garantire la flessibilità e le esigenze del giovane capitalismo indonesiano. Un milione di laureati e 1,6 milioni di diplomati delle scuole professionali risultano disoccupati. Questi giovani, fulcro delle recenti manifestazioni, hanno una generale sfiducia nella politica borghese e nei sindacati del regime e una sempre più marcata disillusione verso le prospettive della società capitalista.

In questo scenario, fertile per il comunismo e la rivoluzione, occorre che venga in primo piano la classe lavoratrice, presente nelle sue organizzazioni formali, esplicitamente in lotta disciplinata e centralizzata contro la propria borghesia. Anche in Indonesia molti lavoratori hanno partecipato alla rivolta, spesso, in maniera non coordinata, ci sono stati scioperi. Ma le centrali sindacali si sono dimostrate non all’altezza della situazione, accodandosi passive al movimentismo interclassista, e non ordinando lo sciopero generale con rivendicazioni sentite e condivise di classe. I lavoratori per imporre la loro difesa dovranno prendere la direzione di questi sindacati, o organizzarsi fuori e contro se necessario, per arrivare ad impugnare l’unica vera loro arma davvero efficace, lo sciopero.

Il movimento operaio, liberato dai partiti opportunisti e dai sindacati di regime, riconoscerà il suo programma di classe come espresso dal partito comunista. Prenderà allora in mano la dirigenza della sua lotta senza compromessi. Sarà così riconosciuto da tutti gli oppressi, anche dai piccoli contadini e dai giovani precari, rivolto ad un domani di riscossa contro le sempre più mostruose barbarie del regime del capitale.