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Sviluppo economico e sociale dei Paesi dell’Africa australe (Il Partito Comunista, n. 28 del 1976, 29, 30, 31, 32 e 33 del 1977) |
Il Partito Comunista, n. 28 del 1976
Il lavoro che segue – ripercorrendo il corso storico che dalla prima colonizzazione europea, vede il formarsi di un tessuto nazionale, sino all’odierno Stato sudafricano – vuol ridimostrare, non sulla base delle astratte idee, al contrario partendo dai dati inconfutabili della storia e dell’economia, la correttezza di quelle tesi e delle posizioni che da esse organicamente scaturiscono, le quali sole rendono oggi il Partito l’unico in grado di indicare senza incertezze e con chiarezza la via al proletariato colorato del Sud Africa. Tale strada, riconosciuto nello Stato il potere esclusivo della classe borghese e non quello di altre classi ad essa anteriori nel percorso storico, conduce il proletariato nero e le masse dei senza riserve dei ghetti, in nome della reale ed efficace difesa della loro esistenza, allo scontro frontale con il potere statale, senza niente concedere alla sirena democratica, pena lo smarrire la bussola di classe, premessa essenziale alla conquista del potere proletario.
Il lavoro, essendo noi dei comunisti e non degli storiografi borghesi, non ripercorrerà dottrinariamente tutto il periodo che corre dalle prime scoperte cartaginesi di questo territorio ai governi borghesi odierni, ma cercherà di tracciare una linea che ricolleghi i periodi essenziali in cui mutamenti economici e sociali conducono necessariamente ai mutamenti politici oggi culminati nella politica di apartheid. Questi periodi possono essere ricondotti a tre grandi momenti: il primo (1652-1867) che va dalla prima fondazione della Colonia del Capo da parte della Compagnia Olandese delle Indie Orientali alle scoperte minerarie; il secondo che arriva alla seconda guerra mondiale; il terzo che dalla guerra arriva ai giorni nostri.
Le popolazioni che vivevano nel perimetro sudafricano prima della colonizzazione europea sono divise in due razze: Ottentotti e Boscimani, mentre la Bantu – che oggi rappresenta una grossa percentuale della popolazione nera – emigrò dal Nordafrica in un lunghissimo periodo che, iniziato già prima della colonizzazione, arriva, come dimostrano gli scontri che i boeri dovettero sostenere, sino al 1800.
Ottentotti e Boscimani possedevano un’organizzazione sociale di tipo primitivo, su base tribale, che si fondava su bande di 50-100 componenti, completamente indipendenti e autonome l’una dall’altra. La vita della tribù era generalmente condotta dal più vecchio e sperimentato dei suoi membri, che non godeva però di un’autorità giudiziaria effettiva. I Boscimani traevano il proprio sostentamento dalla caccia e dalla raccolta, senza praticare né agricoltura né allevamento di bestiame ed erano dunque necessariamente nomadi. Per quanto riguarda gli Ottentotti, essi possedevano un più sviluppato grado di civiltà, allevavano bestiame e conoscevano la lavorazione del ferro; anch’essi praticavano il nomadismo. In entrambe le razze ogni banda si considerava proprietaria di un determinato appezzamento di terreno, di cui rispettava i confini, entro i quali era la sola ad avere il diritto di caccia e di allevamento. Queste popolazioni, già decimate dagli scontri fra loro, divise anche al loro interno, con uno sviluppo sociale così basso, vennero spazzate via dal colonialismo europeo e di esse si ritrovano soltanto pochissimi elementi nella odierna popolazione sudafricana.
I Bantu possedevano un’organizzazione sociale molto più sviluppata, basata sulle tribù, comunità altamente centralizzate con un proprio nome, un proprio territorio ed un proprio capo il cui potere si trasmetteva ereditariamente. La sua autorità era molto vasta e l’appartenenza alla tribù era determinata più dalla sottomissione al capo che dalla nascita. Le principali attività economiche erano l’agricoltura cui si dedicavano le donne e l’allevamento del bestiame cui si dedicavano gli uomini; la terra tribale apparteneva teoricamente tutta al capo tribù non però a titolo personale, ma perché egli la amministrasse per conto della comunità. Il capotribù suddivideva il territorio tribale in lotti assegnandoli ai capi-famiglia e riservandone una parte per i pascoli comuni. Era anche capo militare del gruppo e la massima autorità religiosa.
Dunque popolazioni, in minima parte stanziali, indipendenti tra loro, con economia di sussistenza, paragonabili grosso modo alle popolazioni indigene nordamericane, in parte immigrate da altri territori nella costante ricerca di terreni di caccia o di pascoli più fertili.
Ciò per una prima dimostrazione: la negazione cioè di una nazionalità sudafricana di queste razze, nel senso di un loro riappropriarsi, nella veste degli odierni proletari neri, della nazione, strappata loro dalla mano bianca. In effetti questa tesi è tanto fasulla quanto quella che vorrebbe “proprietari” degli Stati Uniti d’America i pellerossa delle odierne riserve. La tesi è fatta propria in parte anche dal governo di Pretoria che con l’apartheid, o politica dello sviluppo separato, esalta la “nazionalità” nera e la relega nei bantustans, cosicché possa “svilupparsi” pura da ogni scontro deleterio con la civiltà bianca secondo “l’ancestrale tendenza di razza”. Questa tesi pacchiana copre – e neanche con molto successo – l’interesse della borghesia sudafricana a relegare la manodopera nera in territori ghetto da cui prelevare al momento del bisogno forza lavoro per il suo apparato economico.
Per cntro, in ogni caso di Paesi dove effettivamente per interessi imperialistici si schiacciava una nazionalità, si è sempre negato da parte capitalista la sua esistenza, arrivando a negare la realtà più lapalissiana. Nel proseguo del lavoro stabiliremo che, al pari dei coloni dell’Ovest nordamericano, è merito dei colonizzatori Boeri la costituzione, in Stati indipendenti prima, in federazione poi, nello Stato moderno, della nazione Sudafricana nel senso della identità economica e della organizzazione statale.
Al tempo della scoperta da parte olandese delle terre sudafricane le difficoltà di ingaggio e la scarsezza di mano d’opera atta anche al mantenimento della base navale di appoggio, costrinsero la Compagnia a sciogliere dall’impegno contratto con essa alcuni dei suoi dipendenti e a rivedere la posizione che la voleva intransigente dinanzi ad ogni forma di colonizzazione. Infatti per un lungo periodo, olandesi prima, inglesi poi, osteggiarono apertamente una politica di colonizzazione che sembrava non dare immediati profitti, mantenendo il Capo e gli altri avamposti come punti di appoggio per i carghi diretti alle Indie. Da qui lo scontro costantemente presente tra coloni ed inglesi in particolare. I primi consideravano la terra loro patria e richiedevano la protezione dello Stato inglese dagli indigeni mentre questo era asserragliato dietro la politica della “non ingerenza” che gli permetteva di non impegnare forti capitali.
È di tutto questo periodo, sino alla scoperta delle miniere, l’atteggiamento puramente “difensivo” dei coloni rispetto agli autoctoni, ove difensivo si deve intendere nel senso di una costante difesa dei bianchi rispetto all’ambiente. Si scontrano insomma due modi di vivere, ma non esiste ancora assoggettamento dell’una razza all’altra, il burgher difende la propria terra, il proprio bestiame. È chiaro che lo scontro è il germe di quello tra due modi di produzione che vedrà il soccombere del più arretrato, il tribale, e che condurrà alle prime teorizzazioni di apartheid appena le pepite di minerale giallo saranno scoperte, con il conseguente schiacciamento dei colorati. Ma tutto questo nel ‘700, all’arrivo dei coloni ugonotti, è di là da venire e i rapporti con i neri per lungo periodo se non sono condotti alla pari, non sono troppo sbilanciati.
Questo primo periodo di vita della colonia del Capo è contraddistinto da notevoli difficoltà economiche. Se inizialmente, come stazione di rifornimento per le navi in rotta per le Indie, il Capo non riusciva a soddisfare la domanda, adesso, divenuto colonia, l’offerta superava la domanda e i coloni non riuscivano a trovare un mercato per i loro prodotti. La situazione era grave soprattutto per l’irrigidirsi della Compagnia sul monopolio commerciale dei tre prodotti principali del Capo: la carne, il grano ed il vino. Tentativi di introdurre altre coltivazioni erano tutti falliti. In seguito a ciò l’agricoltura finì per essere trascurata a favore dell’allevamento del bestiame, formando così la figura – di cui accennavamo – del trekboer, allevatore nomade che si spinge sempre più all’interno alla ricerca di nuovi pascoli, ignorando i limiti posti dal governo, scontrandosi con le tribù locali, formando un suo sistema militare (i commandos) indipendente dalle guarnigioni statali. È in questo periodo (1778) la prima guerra con le avanguardie Xosa dei popoli Bantu che, come accennavamo, emigravano da nord a sud.
Le difficoltà economiche e la guerra europea del 1794 minano il potere olandese e l’Inghilterra le succede nell’occupazione. Il leone britannico, non rappresentando più una Compagnia commerciale, poté concedere facilmente ai burghers la completa libertà di commercio all’interno del Paese e notevoli facilitazioni in quella con l’estero. La popolazione bianca del Capo era allora di 20.000 coloni, 25.000 erano gli schiavi, 15.000 circa gli Ottentotti al servizio dei coloni. I Boscimani sono già pressoché scomparsi. La politica inglese tende a concedere facilitazioni ai coloni e a stipulare patti con le popolazioni nere al fine di evitare scontri che la costringerebbero ad accrescere il proprio apparato militare, a investire senza profitti. Rendendosi sempre maggiormente conto dell’importanza strategica della colonia, che sino ad ora era stata considerata soltanto come avamposto e non come territorio da sfruttare sul piano economico, iniziarono una serie di cambiamenti, quale la distribuzione delle terre su base semi-permanente (sino a ora erano soltanto in concessione ai coloni che s’impegnavano a coltivarle) per quanto ad affitti più alti, stabiliti non in base all’estensione – per la quale fu fissato un massimo – ma in base alla fertilità. Questo, e l’arrivo di nuovi coloni britannici, allargò l’area colonizzata, aumentando la produzione stanziale e conseguentemente dando vita a una serie di cittadine che rappresentano la prima vera forma organizzata del movimento di colonizzazione.
Dal 1800 inizia il periodo che vedrà sempre più in contrasto i burghers con il potere britannico. Questi infatti, premendo per una legislazione che costringesse i neri a lavorare al loro servizio, fomentavano la rivolta delle tribù con le quali, al contrario, l’Inghilterra cercava di mantenere benevoli contatti. La Magna Charta degli Ottentotti (1809), che stabiliva particolari restrizioni alle popolazioni nere, fu nel 1826 abolita dall’autorità inglese, suscitando movimenti di rivolta tra i coloni i quali vedevano sfumare la possibilità di reclutare mano d’opera a buon mercato; si aboliva l’obbligo di residenza precedentemente stabilito e si concedeva agli Ottentotti il diritto di possedere terre. La legislazione sugli Ottentotti e l’eliminazione progressiva della schiavitù, fenomeno che peraltro poté considerarsi completamente estinto soltanto nel 1838, la negazione di aiuti militari da parte inglese ai coloni, la ricerca di nuove terre, l’insicurezza della frontiera orientale furono i motivi della grande emigrazione dei Boeri, che portò alla colonizzazione della parte settentrionale del Sud Africa.
Vogliamo qui
ribadire alcuni punti:
1) le popolazioni indigene sono nominalmente libere,
anche se sottoposte a una di sottomissione che vede le loro condizioni
economiche a livelli bassissimi;
2) la colonizzazione non s’impadronisce di un
tessuto economico preesistente;
3) il boero è realmente un colono e non un
colonizzatore.
Da questi dati possiamo già stabilire:
a) che il cammino
storico della nazione Sudafricana passa attraverso il riconoscimento della
nazionalità Sudafricana nella veste dei coloni europei, i quali fanno del Sud
Africa la loro vera e unica patria, combattendo successivamente l’imperialismo
britannico come estraneo ai loro interessi nazionali; quindi tale nazionalità
non viene per niente sottratta a chi questa non possedeva.
b) La condizione
del proletariato nero oggi non è determinata da una politica “schiavistica”
bianca, la quale releghi i neri al ruolo subalterno di plebe in virtù di una sua
pretesa “superiorità di razza”, al contrario, come i coloni bianchi del 1830
richiedevano legislazioni a loro favore al solo scopo di costringere la mano
d’opera a lavorare le terre, successivamente questa politica, allargata alla
scala industriale, permette al padronato bianco – si intenda, al padronato bianco –
non ai bianchi, di sostenere una politica economica altresì impossibile.
Riassumendo: la colonizzazione sudafricana non è del tipo Inghilterra-India, ma
del tipo colono nord americano-popolazione indigena. Le condizioni in cui oggi
vivono gli operai neri non sono quelle della nazionalità di colore vessata dalle
potenze coloniali; il “governo razzista” è il governo nazionale borghese e
questo non si rovescia chiedendo più democrazia, si tratta di muoversi come
proletariato sudafricano contro la borghesia sudafricana. Niente di più.
Il 1835 segnò l’inizio dell’espansione coloniale Boera che attraverso il movimento denominato del Grande Trek si spinse verso il Transvaal e fondò – seppure per due soli anni prima di ricadere sotto il controllo inglese – la prima repubblica Boera nel Natal. Ancora l’Inghilterra osteggiò apertamente la fondazione di Stati indipendenti e, attraverso una serie di patti stretti con le tribù indigene e alcune guerre, riconquistò la sua egemonia su tutto il territorio controllato dai coloni, estendendo la frontiera della colonia del Capo sino all’Orange e successivamente alla Transorangia. Si deve arrivare sino al 1852 perché l’Inghilterra, stretta da una parte dalla continua pressione indigena, dall’altra dall’insorgere di continue ribellioni dei coloni, conceda prima al Transvaal e poi all’Orange la possibilità di costituirsi in repubbliche libere.
Da questo momento il Sud Africa fu diviso in due sezioni distinte: una settentrionale Boera e una meridionale britannica, contraddistinte da esigenze sociali diverse che portano ad intendere i rapporti con gli indigeni in maniera diversa: al Nord una politica basata sullo schiacciamento razziale, che permetteva di contenere al minimo le retribuzioni agli autoctoni impegnati nelle farms o al servizio dei coloni; maggiori libertà al Sud, che permettevano all’imperialismo inglese più libertà di movimento verso le tribù locali. Si deve notare che questa maggiore libertà arrivava sino a concedere il diritto di voto ai colorati, come dimostrano le elezioni del 1854. L’elevazione a colonia autonoma del Natal chiude un primo ciclo di formazione del tessuto nazionale che porterà inevitabilmente le varie Repubbliche, con interessi contrastanti a quelli imperialisti inglesi, alla ricerca di una federazione e, successivamente alle scoperte minerarie, alle guerre Anglo-Boere.
LE SCOPERTE MINERARIE
La scoperta di giacimenti minerari provoca, come è facile intuire, un mutamento radicale della politica britannica che, vista la possibilità di grossi proventi, mira – adesso sì – ad organizzare il sub-Continente sotto un unico governo. D’altro canto il nazionalismo delle varie repubbliche viene ad avere un terreno solido su cui poggiare. Anche varie potenze europee, tra le quali in primo luogo la Germania, furono attratte da quello che si presentava come un lucroso affare. Il governo di Bismarck attraverso l’azione commerciale di alcune Compagnie prese possesso delle Regioni ancora libere a nord-ovest della Colonia del Capo e lungo la costa atlantica.
Oro e diamanti oltre ad attrarre enormi masse d’immigrati aprirono le porte ai capitali europei, che permisero l’organizzazione su scala industriale dell’estrazione mineraria. L’improvviso impatto (1884) con il modo di produzione capitalista sconvolse il sistema economico delle Repubbliche ancora agricolo e pastorale.
Le maggiori Compagnie, per assicurarsi la stabilità del finanziamento, fattore che aveva portato al fallimento una miriade di Compagnie fittizie con conseguente perdita di fiducia e crollo delle azioni aurifere, per assicurarsi inoltre una maggiore efficienza dall’estrazione e alla ricerca del monopolio, si mossero verso la formazione di trusts, tra i quali nel 1892 assunse rilievo la Compagnia di Rhodes.
Questi, dal 1890 governatore del Capo, sull’onda dell’espansione della rete ferroviaria, forte del possesso di enormi capitali, si dette alla creazione di una grande federazione africana che si sarebbe dovuta estendere dal Cairo a Città del Capo. Tale progetto fu apertamente osteggiato dal Transvaal, geloso della propria indipendenza nazionale e soprattutto degli enormi giacimenti scoperti sul suo territorio. È in questo periodo storico che prende forma la nazione rhodesiana. Rhodes, basandosi sui contrasti che lo Stato del Transvaal aveva con i nuovi immigrati (di gran numero superiori alla popolazione Boera e ai quali non fu permessa la naturalizzazione se non dopo un periodo di 14 anni e che sotto ogni punto di vista venivano osteggiati) tentò l’annessione alla colonia del Capo della Repubblica, annessione che divenne reale nel 1900 dopo una guerra che aveva visto l’Inghilterra prevalere soltanto con l’impegno di tutta la sua forza imperiale. Il trattato del 1902 sanzionò formalmente la fine dell’indipendenza Boera e l’elevazione del Transvaal e dell’Orange in colonia britannica.
Le guerre Anglo-Boere rappresentano lo scontro tra due modi di produzione: quello capitalistico moderno e quello agricolo e pastorale. Il conflitto e la vittoria inglese rappresenta non tanto lo schiacciamento della nazionalità Boera a favore dell’imperialismo britannico, quanto la manifestazione del processo che vede la trasformazione dell’agricoltore Boero in commerciante e industriale, la nascita delle città, delle fabbriche, di un vero tessuto produttivo e mercantile nazionale. In breve il conflitto Anglo-Boero rappresenta la gestazione del moderno Stato Sudafricano.
LO STATO SUDAFRICANO
Il tessuto nazionale venutosi lentamente a creare attraverso l’opera delle Repubbliche era a questo punto completo. Sconfitto il sogno federativo di Rhodes, urgendo il problema della costruzione di un saldo sistema politico-economico, capace di evitare una nuova futura balcanizzazione del Sud Africa, si ripropose il nodo della creazione in Stato unitario delle varie colonie. Nel 1910 il nodo veniva sciolto e la formazione del nuovo Stato era reale; questo non era pur tuttavia completamente autonomo dall’Inghilterra, ma godeva di una larga autonomia interna.
Il formarsi del nuovo Stato, la produzione mineraria, la nascente industria manifatturiera mutano, come avevamo premesso, i termini del rapporto con le popolazioni indigene: mentre durante tutto il periodo precedente era stato soprattutto una questione di difesa territoriale contro le scorrerie delle tribù di frontiera, che si era tentato di respingere o nel peggiore dei casi di limitare in determinati territori, ma con le quali si cercava di mantenere rapporti di buon vicinato, adesso il problema diviene economico, per un reperimento e sfruttamento intensivo della mano d’opera. Fu proprio il democratico Partito Laburista che dette per primo forma alla politica di apartheid; spinto dalle determinazioni economiche, comprese immediatamente che lo schiacciamento del proletariato di colore era base necessaria e premessa di uno sviluppo minerario e industriale in grado di fornire profitti altrimenti impensabili. Soltanto con largo impiego di capitale variabile sottopagato si sarebbe resa possibile la messa a coltura della maggioranza delle miniere, come si sarebbe potuta impiantare una speculativa industria manifatturiera. Ecco ancora qui che non il problema “razziale”, ma quello economico pone le sue condizioni.
Dato che il problema della mano d’opera era legato a quello della proprietà terriera indigena, nel 1913 il governò varò una legge – il “Natives Land Act” – che divideva il Paese in zone riservate unicamente agli indigeni e zone unicamente riservate agli europei e stabiliva il principio che la residenza degli africani al di fuori delle aree loro assegnate potesse essere giustificata solo da un rapporto di lavoro con padroni e imprenditori bianchi. Quindi non più difesa della farm, ma stretto legame tra riserva – quale massa di potenziali proletari – e capitale; non più territori di caccia da concedere alle tribù in cambio della loro non belligeranza ma zone lontane dai centri minerari, non collegate alla rete ferroviaria, zone di scarto, paludose o desertiche.
LA PRIMA GUERRA MONDIALE
La prima guerra mondiale vede impegnata in prima persona la nazione sudafricana, che rinunciando alla guarnigione inglese si assunse direttamente l’onere della difesa. Si cercava naturalmente così di aumentare l’autonomia dall’Inghilterra e di fare dell’Africa del Sud Ovest, a guerra vittoriosa terminata, una quinta provincia dell’Unione. Lo scopo venne raggiunto solo parzialmente e il Sud Africa dovette accontentarsi di un mandato sul territorio. Torneremo ad occuparci più approfonditamente di questa area in prossimi lavori per dimostrare – ancora una volta partendo soltanto dall’analisi storica ed economica – se esiste realmente una questione nazionale dell’Africa del Sud Ovest (Namibia), oppure se i movimenti di liberazione nazionale che là agiscono non rappresentino altro che forze secessioniste.
Nonostante l’avversione degli europei di origine Boera che si erano uniti nel partito nazionalista, fu la coalizione dei partiti filobritannici a guidare la nazione nel primo dopoguerra e ad iniziare il primo periodo di industrializzazione. Tale periodo, se vede sempre il maggior schiacciamento delle condizioni di vita delle popolazioni di colore, vede anche d’altra parte un irrigidimento statale verso la mano d’opera bianca, che dovette sottostare anch’essa alle ferree leggi dello sviluppo capitalistico. Mentre all’oggi – come confermerà la parte economica del lavoro – il proletariato bianco non esiste, se non come aristocrazia del lavoro, profumatamente pagata e legata a filo doppio agli interessi dello Stato padrone, in questo periodo dello sviluppo storico il proletariato bianco è una realtà (vedi immigrazione dei “poveri bianchi” dal Transvaal in seguito alla depressione economica), se pure a livelli comunque enormemente superiori, per condizioni salariali e di vita, al proletariato nero. La decisione della Camera delle Miniere di ridurre i salari e la sua proposta di fissare il rapporto razziale d’impiego in 1 bianco contro 10,5 Bantu per allargare la produzione con l’immissione di nuova mano d’opera facendo saltare il precedente rapporto che voleva 3,5 colorati per 1 bianco, provocò tutta una serie di sommosse, arrivando sino ad aspri scontri a fuoco nell’insurrezione dei lavoratori bianchi del Rand.
La lunga crisi del primo dopoguerra minò le basi del governo filobritannico e fece sì che Partito Nazionalista (a base sociale agricola e conservatrice) e Partito Laburista (lavoratori bianchi delle miniere e delle industrie), uniti nella formula di un completo autogoverno dell’Unione e per un maggior controllo dell’economia, potessero prevalere. Il governo Hertzog cercò di appoggiarsi ai colored nel tentativo di contrapporli alla maggioranza Bantu, che doveva rigorosamente essere separata dal resto della popolazione, privata del diritto di voto e relegata in particolari territori. In campo economico il governo incoraggiò l’industria manifatturiera; gli agricoltori ottennero maggiori facilitazioni di credito e furono incoraggiati, mediante la soppressione dei dazi, alla coltivazione del tabacco; in favore degli allevatori furono approvate leggi protezionistiche contro l’importazione del bestiame dalla Rhodesia; provvedimenti furono presi per evitare un abbassamento del prezzo dei diamanti attraverso il controllo dell’estrazione e della vendita. Questa politica interna corrispondeva a una sempre maggiore autonomia dall’Inghilterra.
Il 1929, anno della grande depressione economica mondiale, vede: la caduta delle quotazioni diamantifere per effetto del tracollo del mercato USA; il ribasso del prezzo della lana; un arresto generale dell’economia sudafricana. Le forti riserve auree e la giovane età dell’industria ancora forte nella spinta produttiva, unite allo sfruttamento forsennato della forza lavoro, permisero al Sud Africa di superare la crisi ed eliminare dal 1934 al 1938 il deficit della bilancia dei pagamenti arrivando sino ad una eccedenza di 19 milioni di sterline. Il Partito Nazionalista e il Sudafricano (di tendenza filobritannica) si fusero nel ’34 mentre nasceva il nuovo Partito Nazionalista di Malan, tutto proteso all’estensione delle leggi di separazione razziale.
L’APARTHEID
La seconda guerra mondiale, nella quale il Sud Africa appoggiò l’Inghilterra – peraltro tra dissidi tra la parte boera e quella inglese – provocò un allargamento della base industriale del Paese, spingendo nuove industrie alla produzione di merci che precedentemente venivano importate. È anche del ’45 l’inizio dello sfruttamento industriale dei giacimenti di uranio scoperti sin dal ’32.
È nel secondo dopoguerra, dopo 15 anni di permanenza del governo filoinglese, la vittoria del partito nazionalista e la codificazione della politica di apartheid. È chiaro che i due termini della questione sono strettamente legati: da una parte l’economia nazionale assume decisamente un carattere indipendente e conseguentemente una borghesia nazionale che tale indipendenza economica vuol difendere dall’imperialismo inglese, dall’altro, base di tale sviluppo economico, un maggiore ed “essenziale” schiacciamento del proletariato nero, che si vuole incatenare alla produzione concedendo il minimo vitale alla sussistenza. Unica differenza tra la politica di apartheid di questo periodo e le precedenti teorizzazioni sta nel fatto che essa è ora scientemente perseguita da un apparato statale «fermamente deciso ad applicarla coerentemente e totalmente» (Malan).
Prima mossa è lo scioglimento delle organizzazioni “sovversive” (messa fuori legge del PCSA nel ’51) e repressione di tutte quelle organizzazioni che fossero riconosciute come filocomuniste. Eliminati i “pericolosi focolai”, ci si dedica allo schiacciamento operaio senza il quale la borghesia si rende conto di non poter concretizzare il suo piano d’industrializzazione: (1955) le province, i comuni, i quartieri “bianchi” devono essere completamente evacuati dai neri; è vietato ogni spostamento delle genti di colore salvo specifica autorizzazione delle autorità bianche; esproprio delle terre possedute dai neri; esclusione anche di meticci e di indiani dalle liste elettorali; sostituzione dei Consigli rappresentativi degli indigeni con organi nominati dallo Stato; divieto di particolari occupazioni ai non bianchi; costituzione di sindacati riservati unicamente ai lavoratori di colore sotto controllo statale attraverso i quali si potevano imporre dati lavori ai negri (i lavori più pesanti, peggio pagati e in cui la mortalità è superiore, aggiungiamo noi!); proibizione di rapporti sessuali fra le due razze; imposizione da parte statale dei programmi nelle scuole per i negri; trasferimento forzato degli indigeni dalle zone di residenza a zone loro riservate.
Naturalmente si cerca di far passare tutto questo massiccio attacco alle condizioni dei proletari neri come “preoccupazione” da parte statale per un “vero e indipendente sviluppo della cultura e delle possibilità nere”: la spudoratezza borghese non ha certo limiti! Concedere possibilità peculiari ai neri significa in effetti concedere loro la possibilità di crepare nelle fabbriche o quella di crepare nelle riserve! Non tutti sono così larghi di manica.
La monopolizzazione da parte Boera delle decisioni politiche, economiche e sociali nella vita della nazione sudafricana non è dunque uno strano parto della storia, è semplicemente la codificazione del processo di formazione della borghesia nazionale, antagonista, per motivi di borsa, a una politica ancora legata agli interessi dell’Inghilterra.
PARTITI INDIGENI
Un rapido sguardo anche a quei partiti indigeni i quali pretenderebbero di accollarsi la difesa degli interessi e delle aspirazioni dei colorati. Questo perché, premessa l’inesistenza del Partito Comunista, l’eventuale prolificazione di partiti o organizzazioni a carattere piccolo-borghese (vedi Black People’s Convention, ecc.) giocherebbero un ruolo fortemente negativo rispetto alla lotta che il proletariato nero, oggi, 1976, sta conducendo. Queste organizzazioni, e per entrare in merito, ad esempio, l’African National Congress, non rappresentano i neri dal punto di vista di classe, ma rappresentano al contrario spinte in senso democratico, per una liberalizzazione dei rapporti tra neri e bianchi, posizione che tende alla rivendicazione di una nazione nera nel rispetto “proporzionale” della conta delle teste.
Ora noi affermiamo che essendo il Sud Africa un Paese a carattere capitalista sviluppato, ove i rapporti di classe solo per condizioni peculiari di quella nazione passano attraverso il colore della pelle l’unica strada che il proletariato nero può seguire è quella che conduce all’abbattimento del potere statale borghese.
Non esiste qui il problema della doppia rivoluzione, della rivoluzione democratica, ove il proletariato – pur separato per programma e organizzazione – si affianca con il suo esercito a quello della borghesia per abbattere il potere feudale o coloniale. Qui i rapporti di classe hanno radice nella logica del più maturo capitalismo, che si mostra in ogni aspetto della vita economica e sociale. Dunque nessuna concessione operaia al nemico borghese; non due, duecento, duemila vie per raggiungere il potere ma una e una sola, la quale passa unicamente attraverso la lotta per l’abbattimento dello Stato della classe antagonista. Nel percorso che condurrà la classe lavoratrice dalla difesa delle sue condizioni di vita all’attacco contro l’ufficialità di Pretoria, dovrà riformarsi, perché questa lotta abbia prospettive di vittoria, il Partito che della classe sia vera ed unica espressione.
OGGI
Gli anni che corrono dal 1958 all’oggi vedono l’ulteriore sviluppo industriale del Sud Africa – pur ostacolato dalla crisi internazionale – l’estensione della “politica di sviluppo separato” e il risveglio della combattività della classe operaia nera. I fatti dell’ultimo anno e ciò che essi rappresentano sono già stati inquadrati dal Partito in articoli precedenti.
Vogliamo in chiusura di questa prima parte del lavoro, soffermarci soltanto sulla questione dei “Bantustan”. Questo perché il governo di Pretoria giusto un mese fa ha ufficialmente inaugurato questa politica riproponendosi di allargarla ad altre parti del territorio sudafricano. Questa iniziativa ha coinvolto proletari e sottoproletari colorati costretti a subire massicci trasferimenti nella zona loro assegnata. I “Bantustan”, oltre a rappresentare la codificazione giuridica delle riserve, essi rappresentano Stati-fantoccio a cui i lavoratori negri sono legati obbligatoriamente e con l’introduzione dei quali si sottrae – divenendo i proletari stranieri sul posto di lavoro – anche quella misera assistenza statale di cui fino ad oggi usufruivano.
Diamo alcuni dati sul Transkei – questo il nome del nuovo Stato-lager – come ennesima dimostrazione della politica di apartheid: il Transkei ha una popolazione di 1.700.000 abitanti più 1.600.000 che vivono nel cosiddetto “Sudafrica Bianco”. Della popolazione residente nel Paese il 46,5% è al di sotto dei quindici anni; il 63% della popolazione tra i quindici e i quarantaquattro anni è costituita da donne. Non esistono importanti agglomerati urbani, né porti, né centri industriali, ferrovie o miniere. Meno di 50.000 persone effettuano un lavoro retribuito e di queste circa la metà sono impiegate presso il “governo” (burocrati e poliziotti) mentre soltanto 4.050 persone lavorano nell’industria manifatturiera. La maggior parte della manodopera è costituita da “emigranti” nel Sudafrica Bianco; questi raggiungono la cifra di 257.000 e contribuiscono per il 70% alla rendita “nazionale”. Il Paese è così sterile e improduttivo che è costretto ad importare quasi tutti i generi alimentari, compreso il mais che è il cibo di base.
Nel 1972-73 il “governo” incamerò solo 9,1 milioni di rand, cioè il 32,3% del reddito complessivo, dalle proprie risorse (tasse, multe, etc.), mentre il governo sudafricano gli fornì 28,1 milioni di rand. Le stime per il 1974-75 indicano ancora 9,1 milioni di rand dalle risorse locali e 64 milioni di rand dal governo del Sudafrica. L’esercito è comandato da ufficiali sudafricani.
Questi i dati: niente altro che un grande campo di concentramento ove prelevare
manodopera sottopagata. Questa l’unica politica possibile alla borghesia
sudafricana.
Nel precedente articolo abbiamo tracciato, sotto un profilo storico, il processo di formazione della società sud africana.
Si è visto in particolare come, fin dall’inizio della colonizzazione si sia formata e consolidata una nazionalità sud africana, di razza bianca e di origine europea, ma che in breve tempo ha rotto tutti i legami con la madre patria. Questa nazionalità, i Boeri, è stata l’artefice della colonizzazione dell’attuale territorio e ha innalzato le basi della struttura economica e sociale del Paese, rappresentando l’elemento di aggregazione della moderna nazione del Sud Africa. All’inizio la società sud africana era di tipo agricolo-pastorale e i suoi rapporti con la popolazione nera erano prevalentemente impostati nel senso della difesa dei territori colonizzati o della conquista di nuovi, mentre solo una piccola parte di neri venivano inglobati dalle farms bianche.
Con la scoperta dei giacimenti minerari, attorno alla metà dell’800 prende avvio un ciclo di accumulazione capitalistica che vede il sorgere delle città, lo sviluppo delle comunicazioni e dei commerci, l’impianto di una solida struttura industriale. Nel corso di questa fase il rapporto fra la società sud africana e la popolazione nera prende un indirizzo opposto: il problema non è più quello di tenere alla larga bellicose tribù, ma di strappare masse sempre più numerose di Bantu dalla vita primitiva e tribale, proletarizzarle e inserirle nella produzione agricola, mineraria e industriale. Lo sfruttamento intensivo di questa forza lavoro a bassissimo costo è stata la molla del rapido sviluppo di un’economia di tipo capitalistico avanzato.
In corrispondenza si è formato, attraverso alterne vicende, il moderno Stato nazionale con la funzione principale di garantire, attraverso un mostruoso apparato repressivo, lo sfruttamento bestiale del proletariato negro, di difendere la società capitalista da questa gigantesca potenza antagonista che era “costretta a sviluppare nel suo seno”.
All’inserimento dei neri all’interno della società sud africana, non ha corrisposto l’integrazione delle due razze, ma la loro polarizzazione ai due estremi opposti, nel senso che, mentre la popolazione nera veniva a rappresentare la massa dei nullatenenti, del proletariato, la nazionalità bianca diveniva la classe dei padroni, dei capitalisti. Tal che oggi si può affermare, e lo vedremo nello svolgimento successivo, che alla divisione e alla contrapposizione razziale corrisponde esattamente la divisione e la contrapposizione sociale fra proletari e capitalisti, alle due razze distinte corrispondono le due classi distinte della società moderna.
Quanto alla loro nazionalità i neri l’hanno perduta nel momento in cui sono stati strappati dalla vita tribale, separata da quel modo di produrre, da quella cultura e da quelle tradizioni. Essi hanno, nella loro condizione di proletari, perduto definitivamente il naturale e organico attaccamento alle tribù mentre è proprio lo Stato che, a puro scopo di conservazione sociale, alimenta la divisione tribale, esalta le tradizioni, i costumi, le nazionalità della popolazione nera.
Questa situazione pone la questione razziale nera nei termini esclusivi della questione di classe fra proletariato e borghesia così come si pone nei Paesi più industrializzati. E, allo stesso modo, un analogo significato in questi Paesi assume la rivendicazione di tipo democratico o nazionale da parte del proletariato nero: mistificazione dei rapporti di classe, falso obiettivo su cui la borghesia tenta di instradare la classe proletaria.
Se infatti a tale rivendicazione abbiamo in alcune occasioni attribuito un significato rivoluzionario, ciò è stato quando la lotta del proletariato, affiancato dagli strati più radicali della borghesia, aveva ancora di fronte il potere delle vecchie caste feudali e del colonialismo, cioè compiti di tipo nazionale borghese da portare a termine.
Questa condizione non sussiste in Sud Africa. Infatti questa non è una nazione che subisce una oppressione di tipo coloniale, che quindi ha di fronte il problema della sua indipendenza. Inoltre, da quando si è costituito lo Stato nazionale, cioè da quasi un secolo e mezzo, la borghesia locale è saldamente al potere.
Tutto questo è già stato ampiamente dimostrato nella prima parte del lavoro. Inoltre la struttura economica e sociale è pienamente capitalistica e il sistema di apartheid non è una derivazione del sistema schiavistico o coloniale, ma lo strumento moderno ed efficiente con cui il capitalismo si assicura la mano d’opera a basso costo.
Tutto questo, come deriva anche dalla descrizione dell’evoluzione storica, lo dimostreremo, in questa seconda parte, prendendo direttamente in esame l’attuale assetto economico-sociale. Questo studio, che definisce con più precisione l’ambiente nel quale va svolgendosi la lotta di classe, ci permette di misurare il potenziale rivoluzionario compresso nel focolaio sud africano e di fornire le indicazioni che le sanguinose esperienze del proletariato negro forniscono e richiedono al Partito di classe.
ASSETTO SOCIALE PIENAMENTE CAPITALISTICO
La notevole dovizia di dati statistici sull’economia sud africana che si riescono a reperire dimostra già di per sé il suo carattere capitalistico. Infatti, a differenza delle economie precedenti, che godono di un sistema di autoregolazione spontaneo della loro produzione, il capitalismo evoca incessantemente forze produttive incontrollabili e sviluppa una economia anarchica, che disperatamente poi cerca di conoscere per controllare e pianificare, cercando di limitare gli antagonismi che in essa necessariamente si sviluppano.
La popolazione, di quasi 22 milioni di unità, è composta per il 71% di negri, per il 12% di meticci e asiatici, i cosiddetti “coloured”, e solo per il 17% di bianchi.
La stessa ripartizione la ritroviamo per la popolazione attiva. Come si vede la maggioranza è di razza nera.
Inoltre il 90% della popolazione attiva nera è proletarizzata mentre il restante 10% sono contadini che vivono dell’economia di sussistenza delle riserve e che, come vedremo, possono essere considerati l’esercito industriale di riserva necessario a mantenere a un livello minimo il costo della forza lavoro.
Riferendoci a tutta la popolazione attiva, compresi bianchi e coloured, possiamo affermare che circa il 70% è proletarizzata (in Italia solo il 51%).
Considerando poi la situazione per settore, vediamo che in agricoltura, dove generalmente il grado di proletarizzazione è minore, i proletari (salariati fissi e stagionali) costituiscono l’80% della popolazione attiva, mentre i lavoratori misti (lavoratori che ricevono in parte salario e in parte una concessione su un piccolo fazzoletto di terra) sono l’8% e i contadini solo il 7%.
Caratteristica qui anche la divisione secondo le razze: l’86% dei proletari sono neri e solo l’1% bianchi, mentre nessun nero è contadino coltivatore diretto né tantomeno proprietario di terra, e l’85% dei contadini sono bianchi.
Nelle miniere e nell’industria la stragrande maggioranza dei lavoratori sono neri e costituiscono la vera forza lavoro, mentre i bianchi svolgono mansioni specializzate e direzionali, ruoli che, addirittura per legge sono interdetti alla mano d’opera di colore.
Considerando le retribuzioni vediamo che nell’industria il salario medio di un negro è solo il 18% di quello di un bianco, nelle miniere solo il 6%. Come si vede in ogni settore non esiste una piccola borghesia né una aristocrazia operaia di razza nera o è in numero talmente esiguo da essere socialmente insignificante. Lo schieramento di classe è così perfettamente delineato, venendo a mancare quel folto strato di ceti medi che, specie in assenza dell’influenza del Partito rivoluzionario, ammorba l’atmosfera di classe del proletariato nei Paesi industrializzati. Non c’è barba di sociologo che sarà mai capace, giocando con le statistiche, di sfumare questi precisi contorni.
Esiste tuttavia una minoranza razziale, quella dei meticci e degli asiatici, che da secoli sono integrati nella società sudafricana e hanno potuto in parte sfuggire al taglio netto che il sistema di apartheid vi ha praticato. Infatti essi godono di alcune libertà come, in parte, quella di associazione sindacale e il loro salario medio è superiore a quello di un negro sebbene sempre di gran lunga inferiore a quello di un bianco. Tra essi si è pure sviluppata una piccola borghesia agraria (il 5% dei contadini sono coloured) e nelle città, soprattutto nel piccolo commercio e nell’artigianato. Lo Stato concede queste possibilità perché confida nel ruolo conservatore che questi ceti possono svolgere nei confronti del proletariato. Infatti, se Gandhi, il teorico della non violenza, ha potuto svolgere la sua azione nefasta anche fra le masse sud africane, è stato proprio perché aveva trovato appoggio e seguito in questi strati.
LA STRUTTURA ECONOMICA
Abbiamo affermato che la struttura economica del Sud Africa è di tipo capitalistico avanzato, malgrado gli squilibri e le arretratezze che presenta e che vedremo.
Un primo elemento a dimostrazione di questo assunto sono i dati sulla proletarizzazione sopra riportati, che indicano come il rapporto di lavoro salariale sia quello sul quale si basa la produzione in tutti i settori.
Un altro dato che indica il livello di industrializzazione è quello relativo alla produzione di acciaio globale e in particolare pro-capite. Il Sud Africa è l’unico produttore di acciaio di un certo rilievo in Africa; la sua produzione è di 5.628.000 tonnellate, esattamente quanto la Svezia, mentre la produzione di acciaio pro-capite, togliendo dal computo i sei milioni di abitanti delle riserve, che sono fuori dalla produzione ed esclusi dal circuito economico, raggiunge i 3,3 quintali pro-capite, contro i 3,8 dell’Italia.
Potremmo riportare altri dati relativi ai prodotti chiave della produzione industriale, come ad esempio quello relativo alla energia elettrica, e tutti riconfermerebbero inequivocabilmente la caratteristica di una avanzata industrializzazione del Paese.
Altro dato importante è quello relativo allo sviluppo delle comunicazioni: in Sud Africa, nonostante la presenza di vaste aree paludose, impervie e desertiche, e delle riserve Bantu, dove non esistono sistemi moderni di comunicazione, vi sono 18 Km. di ferrovia ogni 1.000 Km2. di territorio, contro i 54 per l’Italia e i 75 per l’Inghilterra.
Considerando poi il prodotto nazionale lordo diviso per settori, riportato in
tabella, risulta evidente il notevole
incremento in percentuale della produzione industriale, verificatosi specie nel
secondo dopoguerra, a spese della produzione mineraria (e ciò tende a sottrarre
il Sud Africa dalla condizione di Paese principalmente produttore di materie
prime) e della produzione agricola, che in percentuale diminuisce, nonostante
l’incremento della massa di prodotto che passa da 58 milioni di Rand nel 1911-12
a 980 milioni nel 1964-65, fenomeno quest’ultimo tipico dello sviluppo della
produzione capitalistica.
P.N.L. % - per settori | ||||||||||||
SUD AFRICA | Paesi sviluppati |
Paesi arretrati |
||||||||||
Gran Bre- tagna |
Ita- lia |
Zaire | Ni- ge- ria |
|||||||||
1911 -12 |
1924 -25 |
1932 -33 |
1938 -39 |
1951 -52 |
1963 -64 |
1963 -64 |
1973 | 1973 | ||||
Fonti ufficiali sudafricane | BIT | |||||||||||
Agricoltura | 17,4 | 19,9 | 12,2 | 12,6 | 13,8 | 9,2 | 12 | 7,6 | 2,6 | 8,7 | 16,3 | 35 |
Miniere | 27,1 | 17,4 | 24,3 | 20,7 | 13,0 | 12,6 | 15 | 12,4 | - | 31 | - | - |
Industria | 6,7 | 12,4 | 13,6 | 17,7 | 25,0 | 27,8 | 23 | 21,6 | 26,2 | 7,8 | 6,6 | |
altri | 48,8 | 50,3 | 49,9 | 49 | 48,2 | 50,4 | - | - | - | - | - | - |
100 | 100 | 100 | 100 | 100 | 100 | 100 | 100 | 100 | 100 | 100 | 100 |
Confrontando poi i dati di oggi con quelli di alcuni Paesi industrializzati e di altri arretrati, si nota chiaramente come il Sud Africa si inserisce nel primo gruppo.
Riguardo alla popolazione attiva per settori, illustrata in tabella, si nota in quale misura la condizione del Sud Africa si discosta da quella dei Paesi arretrati. Tuttavia il dato relativo alla popolazione agricola, anche se va ragionevolmente ribassato fino al 22-23% escludendo la mano d’opera che lavora nell’economia di sussistenza delle riserve, è considerevolmente più elevato rispetto all’Italia, soprattutto in considerazione del fatto che la produzione agricola in Sud Africa incide meno che in Italia sul prodotto nazionale lordo.
Inoltre, se andiamo a considerare il PNL pro-capite, escludendo sempre la
popolazione delle riserve, ricaviamo che il dato relativo al Sud Africa non
raggiunge neanche quello relativo alla Spagna ed è inferiore di quasi la metà di
quello relativo all’Italia.
La ragione di questo è la relativamente bassa produttività del lavoro
agricolo causata, come vedremo qui di seguito, dai bassi investimenti di
capitale fisso in questo settore.
POPOLAZIONE ATTIVA PER SETTORI % | * Compreso riserve ** Escluse riserve | |||||||||||
SUD AFRICA | Paesi sviluppati |
Paesi arretrati |
||||||||||
Diviso per razze | In totale | Gran Bre- tagna |
Ita- lia |
Ni- ge- ria |
Al- ge- ria |
|||||||
1960 | 1972 | 1951 | 1960 | 1970 | ||||||||
bian- chi |
Non bian- chi |
bian- chi |
Non bian- chi |
* | ** | 1966 | 1971 | 1963 | 1966 | |||
Agricoltura | 7 | 93 | - | - | 33 | 30 | 24 | 28 | 3,1 | 16,4 | 55,7 | 50,4 |
Miniere | 10 | 90 | 9 | 91 | 11 | 11 | 11 | 8 | 2,3 | 31,2 | 0,1 | 0,9 |
Industria | 34 | 66 | 25 | 75 | 11 | 12 | 18 | 13 | 34,8 | 12 | 6,4 | |
Costruzioni | 26 | 74 | 20 | 80 | 5 | 1 | 6 | 7,8 | 10,2 | - | 5,0 | |
altri | 27 | 73 | - | - | 39 | 46 | - | 45 | 52 | 42,2 | 32,2 | 37,3 |
100 | 100 | 100 | 100 | 100 | 100 | 100 | 100 |
L’AGRICOLTURA SUD AFRICANA
Se ci dilunghiamo nella descrizione dell’economia non è per svolgere un erudito trattato ma nella considerazione, propria del marxismo, che la sottostruttura economica rappresenta il terreno in cui affondano le radici degli antagonismi di classe.
L’analisi marxista ha sempre dedicato una attenzione particolare alle caratteristiche dell’agricoltura, perché è il problema agrario uno dei nodi che la rivoluzione dovrà sciogliere, in considerazione del tipo di divisione della terra, del suo modo di conduzione, della struttura della proprietà e delle classi sociali che entrano in gioco.
Le caratteristiche del suolo e il regime pluviometrico sono poco favorevoli allo sviluppo dell’agricoltura in Sud Africa. Il territorio infatti è ricoperto oltre che da foreste, in larga misura dalla savana e da altre formazioni erbacee e non si adatta alla coltivazione; inoltre i pochi fiumi che lo attraversano hanno corso breve e, percorrendo zone impervie, si prestano difficilmente all’irreggimentazione. Principalmente le difficoltà di irrigazione non consentono una agricoltura di tipo intensivo su un terreno coltivabile che costituisce solo il 10% del totale del territorio.
A questa situazione si aggiunge il fatto che, dato il basso costo della mano d’opera nera, gli investimenti di capitale fisso (macchinari, impianti, sviluppo di nuove tecnologie) sono limitati, mentre si preferisce investire sul lavoro vivo, cioè forza lavoro. Infatti, nella logica del proprietario della farm è molto più redditizio prelevare un migliaio di negri dalle riserve e mandarli a dissodare la terra con strumenti rudimentali, per un salario di fame, piuttosto che acquistare costosi macchinari, impiantare complicate tecnologie, la cui spesa solo a lungo termine può essere reintegrata e risultare più redditizia. Questa è una delle contraddizioni del sistema di apartheid messa in rilievo dagli stessi economisti borghesi.
Infatti, se questo sistema, assicurando mano d’opera a basso costo, da un lato ha consentito di marciare avanti nella fase di accumulazione capitalistica, dall’altro ha introdotto nell’economia delle tare endemiche e degli elementi di arretratezza con cui il capitalismo si trova oggi a fare i conti e da cui difficilmente, mantenendo in piedi questo mostruoso edificio, può sottrarsi.
Il Sud Africa, nonostante possieda il 47% del totale dei trattori di tutto il Continente africano, e nonostante il numero di questi sia passato da 1.302 nel 1926 a 119.196 nel 1960, impiega tuttora solo 0,9 trattoti per ettaro, contro i 3 per l’Italia. Il secondo è quello relativo alla produttività del suolo: prendendo a riferimento il mais, principale prodotto agricolo del Sud Africa, la sua produzione si limita a 10 quintali per ettaro, contro i 57 per l’Italia.
D’altronde però la condizione descritta perdura particolarmente nelle regioni interne, coltivate principalmente a mais e a frumento, mentre nella fascia costiera si vanno sviluppando culture specializzate di tipo intensivo e con impiego di capitali, come quella della vite, degli agrumi e della frutta.
Il principale settore della produzione agraria rimane quello dell’allevamento: il Sud Africa produce il 4% della lana mondiale, il secondo prodotto di esportazione dopo l’oro.
Come si vede, nonostante le considerazioni sugli squilibri e sugli elementi di arretratezza che viziano l’agricoltura sud africana, le sue condizioni sono estremamente floride rispetto a quelle di un Paese sottosviluppato in cui l’economia agraria riesce a mala pena a sottrarsi dai limiti della semplice sussistenza.
Si possono comunque distinguere con chiarezza due tipi di economia agricola:
1) l’agricoltura capitalistica o orientata verso il mercato delle imprese
bianche;
2) l’agricoltura di semplice sussistenza delle riserve.
Riguardo a questo secondo tipo di economia, cui non si riferiscono le considerazioni finora svolte, abbiamo già portato una descrizione parlando della riserva del Transkei. Queste aree sono costituite da territori semi desertici, paludosi, senza strade etc. e vi sopravvivono in condizioni di tremenda miseria gli africani non immediatamente utilizzati nella produzione, oltre alle donne, i bambini e i vecchi che, sfruttati in tutte le loro energie nelle imprese bianche, attendono la fine della loro miserevole esistenza nei relitti della vecchia economia tribale. In queste aree il 95% della produzione, ottenuta con mezzi primitivi, viene consumato in loco e di conseguenza non hanno alcun interesse dal punto di vista dell’economia e della produzione nazionale.
Il primo tipo di economia, cioè quello delle imprese bianche, rivolge invece il 90% dei suoi prodotti verso il mercato e la loro conduzione si svolge su basi capitalistiche. Infatti, come dai dati precedentemente riportati, (l’85% sono i proletari e solo il 7% i contadini che lavorano in proprio la terra) il rapporto nettamente prevalente è quello che si basa sul lavoro salariato con un incremento della proletarizzazione che va da 488.000 operai nel 1918 ai 1.025.000 nel 1962. Inoltre, seppur con i limiti prima descritti, tali aziende fanno impiego di macchine e di attrezzature, sollecitate dalle ampie sovvenzioni che lo Stato elargisce nel tentativo di promuovere lo sviluppo dell’agricoltura su basi moderne.
Riguardo alla concentrazione si ha che i ¾ del numero totale delle aziende coltivano meno di 840 ettari (qui si parla sempre di grandi estensioni essendo le culture a carattere estensivo), ma rappresentano solo il 23% dell’area totale messa a cultura, mentre il rimanente ¼ di queste, sopra 840 ettari, occupa il 77% dell’area totale. Quindi la produzione è prevalentemente concentrata in aziende di grandi dimensioni.
In merito ai rapporti di proprietà notiamo che i proprietari sono generalmente anche i gestori delle aziende, mentre il solo 22% delle imprese sono in affitto.
Come si vede non esiste la condizione da cui prende tradizionalmente alimento la rivendicazione rivoluzionaria di tipo democratico borghese della spartizione delle terre, la situazione cioè tipica che vede grossi latifondi frammentati in miriadi di appezzamenti condotti a mezzadria o in forme miste di affittanza da parte di piccoli contadini, o altre forme di proprietà e di conduzione di diverso tipo ma comunque caratteristiche di economie pre-capitalistiche. La struttura è quella invece di grosse aziende condotte su basi capitalistiche e orientate verso il mercato. Inoltre l’assetto sociale vede assente la piccola borghesia agraria, il tradizionale contadiname, sempre presente e con un ruolo di primo piano nella rivoluzione di tipo democratico borghese.
In scena si trovano soltanto la classe dei capitalisti agrari, dei “farmers”,
e quella dei salariati agricoli. La condotta che questa situazione impone al
proletariato è in linea di massima quella di rivendicare non una spartizione
delle aziende, ma la loro gestione collettiva, ciò che sarà possibile solo
attraverso la vittoria della rivoluzione sociale e l’instaurazione del potere di classe. Sola è necessaria la suddivisione temporanea di talune aziende
più improduttive in piccoli appezzamenti da assegnare in gestione a singoli
produttori.
L’industria mineraria (oggi il principale prodotto di estrazione è l’oro) è stata la base dell’espansione economica del Sud Africa.
Attorno ad essa si è per la prima volta sviluppato un mercato nazionale, sono sorti i primi veri centri urbani e si è intessuta una rete di comunicazioni. Inoltre le miniere hanno fatto nascere la moderna classe operaia: migliaia e migliaia di Bantu che, strappati da una economia primitiva, rendevano le loro braccia disponibili sul mercato della forza lavoro. Essi hanno così rappresentato l’impulso alla accumulazione primitiva capitalistica, attirando verso il Sud Africa forti investimenti esteri e restituendo una rendita che, se pure in parte, veniva immediatamente rinvestita in loco.
Fino al 1950 la produzione mineraria ha rappresentato la maggior percentuale del prodotto nazionale lordo rispetto agli altri settori e a tutt’oggi rappresenta un fattore di primo ordine per la solidità e lo sviluppo dell’economia, sia per gli effetti benefici che produce sulla bilancia dei pagamenti, data anche la relativa stabilità del prezzo dell’oro, sia perché costituisce la più importante fonte per le risorse finanziarie dello Stato. È vero che lo sfruttamento delle miniere è in mano a Compagnie straniere, tuttavia la produzione è sottoposta a forti tassazioni e inoltre lo Stato, proprietario di una porzione del capitale, partecipa direttamente agli utili.
Lo straordinario sviluppo dell’industria estrattiva in Sud Africa è stato reso possibile non tanto dalla eccezionale ricchezza del sottosuolo, ma da un sistema che ha permesso lo sfruttamento delle miniere in modo produttivo da un punto di vista capitalistico. Si sa che il Sud Africa è ricchissimo di oro, quello che si sa meno sono le difficoltà geologiche e tecniche che comporta la sua estrazione. Queste difficoltà non sono sormontabili che nella misura in cui si può utilizzare a discrezione la mano d’opera negra costretta a lavorare nelle peggiori condizioni e a salari minimi.
M.J. Pentz, economista borghese, ricorda gli ostacoli naturali che sono: «La profondità dei luoghi di lavoro, la ristrettezza dei cunicoli, il calore eccessivo, le infiltrazioni di acqua, le larghe crepe nella roccia etc.» ostacoli tali che «renderebbero questa estrazione impossibile in ogni altro luogo al di fuori dell’Africa del Sud». Infatti molto altri Paesi hanno grosse riserve di oro, ma in nessun altro esistono condizioni tali da renderne vantaggiosa l’estrazione.
Negli USA, per esempio, il costo di produzione dell’oro si aggira intorno ai 124 dollari l’oncia, mentre il suo prezzo sul mercato, fino dal 1970 si aggira intorno ai 35 dollari l’oncia; è chiaro che a queste condizioni l’estrazione non può essere avviata.
È proprio il sistema di apartheid che assicura l’infimo costo e l’ampia disponibilità della forza lavoro nera. Su questa base si fonda anche lo sviluppo dell’industria sud africana.
Esso ha inizio intorno alla fine del secolo con la nascita di industrie collaterali alla produzione mineraria (manifattura, esplosivi, branche tecniche, etc.) e di industrie di trasformazione dei prodotti agricoli e dell’allevamento che andavano sorgendo insieme alle prime città. È durante la prima guerra mondiale però che, per difficoltà di importazione in un Paese ancora sostanzialmente agricolo, si verifica un primo forte impulso alla produzione industriale.
La mano d’opera nera impiegata nelle fabbriche è ancora di ugual numero a quella bianca né la tendenza è a una sua crescita relativa, così le città sono prevalentemente abitate dai bianchi mentre la popolazione nera permane nelle zone agrarie, impiegata prevalentemente nella produzione agricola e mineraria.
È con la crisi del 1931-33 che si ha una prima svolta nella composizione per razze della classe operaia industriale. Nel 1938 il numero dei neri è già una volta e mezzo quello dei bianchi, mentre gli indici di crescita del prodotto raggiungono livelli sconosciuti fino ad allora. Ma il vero boom si ha negli anni che vanno dal 1945 al 1955, che non a caso sono anche gli anni in cui il sistema di apartheid prende la sua forma definitiva e più congeniale agli interessi capitalistici. Gli operai neri divengono il doppio dei bianchi nel 1945 e il triplo nel 1955, mentre l’indice di crescita del prodotto raggiunge vertici eccezionali, portando il Sud Africa al livello di un Paese industrialmente avanzato con una produzione che rappresenta il 40% di quella di tutto il continente africano.
È stata appunto l’introduzione di mano d’opera nera che, lavorando con salari minimi, ha prodotto una massa considerevole di profitti, avviando così l’industrializzazione del Paese. In Sud Africa a tutt’oggi si hanno tassi di profitto elevatissimi per cui è indicato come una ottima piazza di investimento per i capitali di tutto il mondo.
Il mostruoso edificio dell’apartheid affonda le radici nella struttura economica della moderna società sud africana; esso non rappresenta un residuo del colonialismo o peggio una espressione di forme arretrate o precapitalistiche come lo schiavismo, o peggio ancora il risultato di una “mentalità retriva e reazionaria” della borghesia sud africana, cui si vorrebbe contrapporre una mentalità progressista, illuminata e democratica, più conforme alla “evoluzione dei tempi”. Tale struttura trae invece origine dallo sviluppo capitalistico, dal “progresso” nella società del capitale, tanto auspicato dagli opportunisti nostrani, che non è cosparso di rose e fiori come questi furfanti vorrebbero far credere, ma significa sempre e ovunque violenza, fame, sudore e sangue per le classi oppresse.
L’apartheid e le condizioni della classe operaia
L’apartheid rappresenta il sistemo moderno ed efficiente con cui si realizza in Sud Africa lo sfruttamento della mano d’opera a basso costo.
Nella prima parte del lavoro si è notato che tale sistema ha le sue prime teorizzazioni nel Partito Laburista, preoccupato di difendere gli interessi dei lavoratori bianchi, cui seguono una serie di misure che sono la premessa alla sua edificazione in forma completa che si ha dopo la seconda guerra mondiale.
Non ci interessa qui sfatare le ridicole argomentazioni che la borghesia sud africana porta a giustificazione della politica di apartheid, scientemente perseguita da un apparato statale «fermamente deciso ad applicarla coerentemente e totalmente». Conseguenza, come si è visto, è la deportazione in massa di migliaia di negri, con interi quartieri, dichiarati “aree bianche”, che vengono evacuati e gli abitanti trasferiti in luridi ghetti ai margini delle città (aree riservate) o in immensi campi di concentramento messi su per l’occasione e poi chiamati Bantustan.
Oggi ogni negro deve possedere un lasciapassare che contiene, oltre alle generalità, il permesso di risiedere in un determinato luogo, la polizza di pagamento della tassa Bantu; deve ogni mese essere firmato dal datore di lavoro, altrimenti il Bantu viene rispedito nella riserva di appartenenza. Più di mille africani vengono arrestati ogni giorno in base alla legge sul lasciapassare.
È chiaro che in queste condizioni, con alle spalle la massa dei disoccupati che stazionano nelle riserve e con la prospettiva di ritornarvi a morire insieme alla famiglia, un operaio nero è costretto a vendersi a qualsiasi condizione, magari a sprofondare a duemila metri sotto terra per dieci o dodici ore al giorno, a carponi nei cunicoli di una miniera per un salario che nemmeno riesce a sottrarlo alla denutrizione.
Secondo i calcoli degli esperti borghesi il livello minimo di “povertà” che permette di non cadere nella denutrizione, per una famiglia di media composizione è di 85 Rand il mese. Prima dell’ondata di scioperi scatenatasi nel 1973, il livello generale dei salari per i tessili del Natal andava dai 5 agli 8 Rand settimanali, mentre per gli operai delle officine di laterizi era di 9 rand. I tagliatori di canna da zucchero guadagnavano 15 Rand per 30 giornate di lavoro.
Un professore dell’Università del Natal ha visitato la borgata operaia di Beaumont Wattle Estate, dove vivono gli operai della grande ditta inglese Courtaulds: «Le case sono di fango (…) nelle case non ci sono né letti né altro mobilio e il terreno sul quale si stende la borgata affonda nel fango. La Compagnia non concede sussidi di malattia o di gravidanza, non prevede ferie pagate (…) L’operaio Zulu di nome Sisva, di 32 anni, sposato con tre figli, guadagna 22 Rand il mese». Sembra di leggere “La situazione della classe operaia in Inghilterra” in cui Engels dimostrava come sviluppo, progresso, cumulazione, floridezza economica, nel capitalismo (e prendeva ad esempio la “magnifica” Inghilterra di quei tempi) significava benessere e ricchezza a un polo della società, condizioni di vita disumane all’altro.
È chiaro che questo sistema rappresenta una mina permanente innescata nel sottosuolo della moderna società sud africana, e non a caso lo Stato è costretto ogni giorno a potenziare a dismisura il suo spaventoso apparato repressivo.
Borghesia e proletariato – soluzioni e prospettive
Si è visto come la moderna economia sud africana si è sviluppata e fonda le sue basi su un sistema che le assicura la disponibilità di mano d’opera a bassissimo costo. Se il capitalismo volesse evitare l’apartheid è certo che dovrebbe sostituirlo con un sistema altrettanto efficiente che continuasse ad assicurare questa necessaria condizione per la sua esistenza. Un miglioramento consistente delle condizioni di vita delle masse operaie è quindi incompatibile con la vita stessa del capitalismo, in qualunque forma esso possa manifestare il suo dominio. Per questo la lotta del proletariato per risollevare le sue condizioni dalla miseria nella quale viene rigettato non può non porsi contro l’esistenza stessa di questa società.
Abbiamo poi anche visto come l’apartheid porti con sé una serie di contraddizioni, alle quali aggiungiamo quella che è posta dalla necessità di un più elevato livello culturale, nel senso di maggiore qualificazione e capacità lavorativa che si richiede nella moderna industria e che il rigido meccanismo dell’apartheid, per mille ragioni, non può assicurare alla mano d’opera di colore.
Un altro dilemma che si pongono alcuni economisti riguarda la convenienza che può aversi in un sistema che, pur assicurando mano d’opera a basso costo, richiede però il mantenimento di un gigantesco apparato repressivo.
Ma il problema che soprattutto assilla la borghesia sud africana e il capitale internazionale è quello sociale.
In un momento in cui l’intero continente, e in particolar modo l’Africa Nera, ribolle di tensioni sociali, vede il sorgere di movimenti che più o meno coerentemente tendono ad opporsi all’assetto politico-sociale che il capitalismo internazionale impone, in un complicato intreccio di interessi dietro i quali si nascondono le classi sociali e i contrasti interimperialistici, in questa situazione il ripetersi di rivolte sanguinose da parte del genuino e potente proletariato sud africano potrebbe costituire l’innesco di una reazione che polarizzi gli interessi degli strati proletari, semi-proletari e contadini, delle masse diseredate dell’Africa, separandoli inequivocabilmente non solo da quelli dell’imperialismo e da quelli delle classi che sono ad esso legate, ma soprattutto da quelli delle classi borghesi e semi borghesi, che rappresentano la tendenza moderata, a-rivoluzionaria e incline al compromesso, che tendono sempre a trascinare indietro il movimento sociale. Il Sud Africa può così rappresentare un potentissimo focolaio che rischia di incendiare tutta l’Africa, con la sua moderna classe operaia la punta avanzata, collegamento fra le rivoluzioni nazionali e le doppie rivoluzioni che potrebbero dilagare in Africa e la rivoluzione univoca nel mondo industrializzato.
È certo che, ipotizzando la vittoria di una rivoluzione proletaria in Sud Africa, questo comporterebbe lo sconvolgimento dell’intero continente, che non potrebbe non determinare una decisa svolta nel delinearsi dello schieramento di classe nel mondo intero. Ecco perché la questione sud africana rappresenta un punto fondamentale che il capitalismo non solo sud africano, ma internazionale, e dal lato opposto il partito di classe, non possono non prendere in seria considerazione.
Dal punto di vista del capitale il problema non è di facile risoluzione. Abbiamo visto come l’attuale assetto economico non può prescindere dall’impiego su vasta scala di mano d’opera a basso costo. D’altronde in questa situazione il clima è esplosivo: il confine che separa le classi, nei termini delle loro condizioni di vita, è nettissimo; ed è in contraddizione con l’esistenza stessa del sistema di apartheid il tentativo di sfumarlo per allentare la tensione. La situazione è talmente compromessa che ogni minimo cambiamento istituzionale potrebbe costituire l’innesco di una reazione spaventosa.
Non esiste infatti e non può svilupparsi in queste condizioni un consistente strato di piccola borghesia o di aristocrazia operaia di razza nera che possa svolgere efficacemente il ruolo di conservazione sociale. Il capitalismo, per allentare la tensione, non può non muoversi in questa direzione, ma le difficoltà non sono di poco conto. Foraggiare un ceto medio negro potrebbe sorreggersi solo su poderose sovvenzioni internazionali, accordate nell’interesse comune di bloccare ogni fermento che contagi l’ambiente sociale anche all’esterno.
Esiste per il proletariato, specie in assenza del partito di classe, il pericolo di cadere preda delle posizioni piccolo borghesi dei movimenti tipo il South African Congress che, poggiando sui ceti medi coloured, riscuote un certo seguito anche fra gli operai. Tale movimento, cui aderisce anche il PCSA, rivendica la fine della segregazione, lo Stato democratico, e avanza la parola d’ordine dell’uguaglianza razziale insieme a quella illusoria e ultra reazionaria della “eguaglianza fra le classi”. Prospetta una soluzione in termini di razza eludendo la questione di classe mentre, come abbiamo visto, la questione razziale non è che l’aspetto che assume la questione di classe.
Questa si pone, al contrario, nei termini della conquista di condizioni economiche e sociali che risollevino la classe lavoratrice dalla situazione di miseria e di fame nella quale viene rigettata dal capitalismo, e non tanto in quelli dell’acquisizione di una parità giuridica di fronte allo Stato. Questa lotta del proletariato nero non può, al di fuori delle prospettive pacifiste, che pervenire al necessario sbocco della lotta rivoluzionaria per la distruzione del sistema capitalistico e l’instaurazione di un regime, non democratico, della dittatura del proletariato, lotta il cui esito naturalmente non potrà prescindere da quella del proletariato mondiale.
Parafrasando le parole d’ordine che agitano e infiammano la lotta delle masse oppresse del proletariato nero, ma che troppo facilmente si prestano alla deviazione piccolo borghese, ribadiamo dunque le nostre classiche posizioni: lo “Stato negro” non può che significare “dittatura proletaria”; “buttare a mare i bianchi”: “morte ai capitalisti sfruttatori”; “liberazione del popolo di colore”: “emancipazione della classe lavoratrice dal giogo capitalistico”.
Tutto questo
presuppone, e lo scriviamo a chiare lettere, il costituirsi, il rafforzarsi e
l’estendersi di genuine organizzazioni proletarie, libere dall’influenza
pacifista e piccolo borghese, disposte a difendere, con le armi in pugno, gli
interessi della classe, e soprattutto l’enuclearsi nel seno di questa
dell’avanguardia cosciente e organizzata: il PARTITO POLITICO, senza il quale
l’assalto al regime di Pretoria sarà impossibile o si risolverà in una sconfitta
sanguinosa.
LA RHODESIA
Il lavoro che segue rientra nel più ampio studio che il Partito svolge riguardo allo sviluppo economico e sociale dei Paesi africani, alle lotte nazionali e anti coloniali che ancor oggi riguardano molti dei Paesi del Continente. Non è dissertazione accademica sull’argomento, ma puntuale riconferma delle posizioni che formano bagaglio teorico e di battaglia del partito. È attraverso l’analisi delle correlazioni che legano le classi al processo storico ed economico che il partito può dare la sua parola d’ordine, il suo indirizzo. Là dove è da abbattere il potere coloniale o si lotta per l’indipendenza nazionale, la classe proletaria dovrà porsi, ben delimitata quanto a organizzazione militare e politica, gli stessi obiettivi della borghesia radicale, attendendosi che questa diventi essa stessa nemica un solo minuto dopo che il vecchio potere sia stato abbattuto (o anche prima). Là dove, al contrario, non esiste problema di rivoluzione doppia, là dove la classe borghese ha già cristallizzato il suo modo di produrre e di organizzare la società, là la parola d’ordine non potrà che essere quella della rivoluzione proletaria, rivoluzione univoca contro il potere del capitale, suo nemico storico.
Base determinante dello sviluppo economico della Rhodesia furono i vasti investimenti che la British South Africa Company fece alla fine del 1800. La Compagnia del Sud Africa, grazie ai capitali messi a disposizione dall’imperialismo inglese, si era impegnata in una vasta opera di colonizzazione dei territori dell’attuale Rhodesia e Zambia, ex Rhodesia del Nord. Il progetto era imperniato sulla ricerca di minerali preziosi, ricerca che aveva dato proficui profitti in Sud Africa e che sembrava dover dare gli stessi buoni risultati anche qui. È proprio dall’aver sopravvalutato le riserve aurifere rhodesiane che prendono il via i successivi investimenti della Compagnia, tendenti ad ammortizzare le spese precedentemente sostenute.
I giacimenti della Rhodesia si rivelarono invece più poveri: nel 1910, infatti, mentre il profitto delle undici più importanti miniere di Johannesburg toccava quasi sette milioni di sterline, quello delle dieci più importanti rhodesiane raggiungeva appena le 614.000 sterline. La Compagnia iniziò così un vasto piano di investimenti impegnandosi in special modo nella costruzione di ferrovie per valorizzare la terra di sua proprietà. Allo stesso fine fu promossa la nascita di una borghesia agraria bianca che fosse in grado di sfruttare i beni della Compagnia, proprietà fondiarie e concessioni minerarie. Questo provocò una forte immigrazione europea e specialmente dopo il 1902 si diffusero ampiamente le piccole imprese dedite allo sfruttamento minerario contro pagamento di un canone. Tra il 1901 e il 1911 l’immigrazione raddoppiò la popolazione bianca che passò da 11.000 a 23.000 unità. Lo sviluppo delle attività minerarie fu accompagnato da quello dell’agricoltura, base dell’economia del Paese e settore in sviluppo per soddisfare l’accresciuta domanda determinata dall’improvvisa immigrazione.
Sino alla seconda guerra mondiale 2/3 degli europei attivi appartengono alla borghesia agraria.
L’industria manifatturiera è ancora pressoché assente nel 1923, esiste soltanto una numericamente trascurabile piccola borghesia manifatturiera, per altro legata alla borghesia agraria e al grande capitale internazionale. Altro peso hanno i salariati bianchi, concentrati nel settore minerario, nei trasporti (ferrovie) e nella amministrazione coloniale. È importante sottolineare, perché tratto caratteristico della Rhodesia, che l’insediamento dei lavoratori bianchi era avvenuto successivamente allo sviluppo capitalistico e non lo aveva preceduto. Ciò comporta qui l’assenza del fenomeno, già riscontrato nel Sud Africa, dei “bianchi poveri”, europei espulsi o non assorbiti dal ciclo produttivo, che formano durante il periodo di sviluppo dell’industria sudafricana l’esercito di riserva del capitale. Al contrario in Rhodesia la borghesia fu costretta a concedere alti salari per attrarre manodopera qualificata.
La popolazione africana era ancora organizzata a livello tribale in piccole comunità rurali. La terra, esuberante, non è un bene alienabile, la coltivazione è del tipo a maggese, coltivata un anno è poi lasciata riposare l’anno successivo per reintegrarne la fertilità (Il metodo è stato comunemente usato in Europa sino alla scoperta dei concimi chimici e alla trasformazione dell’agricoltura su basi capitalistiche).
Uno stretto rapporto lega il contadino membro della tribù alla comunità; lascia il villaggio per saltuarie prestazioni di lavoro, separandosi dalla famiglia e dalla comunità ma in uno stretto legame e che è sua preoccupazione mantenere inviando regali e parte del salario nella prospettiva di tornarvi anche dopo alcuni anni; è insomma una specie di “assicurazione sulla vecchiaia” che l’africano contrae con la comunità del villaggio. Per questo, nonché ovviamente per le oggettive condizioni ancora arretrate dello sviluppo del capitalismo rhodesiano, l’africano dei primi del ‘900 non può essere identificato come proletario, la cui unica sussistenza siano le proprie braccia.
Se questa è la situazione generale del contadiname nero non migliore è quella della media e piccola borghesia africana, numericamente ed economicamente insignificante, tant’è che prima della Legge per la distribuzione delle terre agli africani, essa ha potuto acquistare soltanto 45 mila acri mentre gli europei ne possedevano 31 milioni.
L’assetto politico rhodesiano negli anni trenta è basato sulla cosiddetta politica dello “sviluppo separato” o delle “due piramidi”, che tendeva alla creazione di due tipi di sviluppo separato per i bianchi e per gli africani, ma che evidentemente rappresenta soltanto il tentativo da parte del capitalismo internazionale e della borghesia agraria europea di determinare una stabile forma di sfruttamento della forza lavoro nera.
La Compagnia promosse la nascita e lo sviluppo di una borghesia agraria bianca; questa tese ad accaparrarsi una sempre maggior parte della terra a fini speculativi. È chiaro che la terra acquistava sempre maggior valore quanto maggiore era la redditività del suo impiego produttivo, redditività che era legata alla espansione della richiesta di prodotti agricoli.
Tre sono dunque i problemi che gli agrari devono affrontare: impedire la concorrenza anche potenziale degli africani; sviluppare il mercato interno e quindi favorire lo sviluppo di una industria manifatturiera nazionale; trasformare gli africani da piccoli contadini in salariati agricoli alle loro dipendenze.
Prima della 1° guerra mondiale questi problemi trovano risposta in una serie di
leggi ed emendamenti che stabiliscono:
1) l’espropriazione della terra, che viene accompagnata da una serie di misure
atte ad incoraggiare i contadini espropriati a rimanere ove si trovano in
qualità di affittuari, commutando il canone di affitto in prestazioni di lavoro;
2) una imposta sulle capanne che avrebbe costretto gli africani a lavorare come
braccianti in media da uno a tre mesi l’anno;
3) introduzione di un lasciapassare mediante il quale si sarebbe potuto
indirizzare la manodopera ove se ne presentasse la necessità.
In campo industriale le Compagnie internazionali tendevano ora, dopo i primi investimenti, a “seguire la domanda”, creando così le prime frizioni con la nascente industria manifatturiera, tesa al contrario all’espansione di investimenti di capitale che potessero agevolare la sua crescita. Questo conflitto di interessi sarà la base dei tentativi della borghesia nazionale di modificare, negli anni ’50, la struttura economica, volti a crearne una base nazionale che potesse sganciarsi dallo strapotere economico internazionale.
I salariati bianchi, come accennavamo, potevano contare, grazie alla forte richiesta di manodopera specializzata, su alti salari, addirittura maggiori di quelli dei proletari statunitensi ed inglesi. Questo spiega come fossero forti il loro potere contrattuale e le loro organizzazioni sindacali. È chiaro che questa condizione “aristocratica” del lavoro induce l’orientamento borghese dell’azione che questi lavoratori svolgeranno nel corso storico. Essi hanno tutto l’interesse a perpetuare la loro condizione di privilegio rispetto agli africani e quindi sono decisi ad impedire una stabile popolazione urbana nera da cui il capitale possa attingere manodopera a basso costo, come sono contrari a che vengano create strutture scolastiche e professionali per gli africani.
Dalla 1° guerra mondiale cresce il potere economico della borghesia nazionale e dei salariati bianchi, giacché il conflitto e il periodo che gli è succeduto avevano visto una carenza della manodopera specializzata e delle scorte di materie prime. È da questo periodo in poi che si deve parlare di una coalizione tra queste classi nazionali bianche. Questa posizione di forza rispetto al capitalismo internazionale si protrasse per tutti gli anni ’20, cosicché negli anni della grande crisi, la coalizione giunse a un consistente potere politico, che si cristallizzò nel riconoscimento da parte inglese di un governo responsabile rhodesiano. Questa soluzione, che non rappresentava certo l’indipendenza, era per altro avversata dalle Compagnie internazionali che premevano per un inglobamento nell’Unione del Sud Africa, inglobamento che avrebbe permesso loro un più stabile controllo sulla struttura economica rhodesiana.
La spinta che portò al governo indipendente ha alla sua base la paura della borghesia nazionale di essere costretta a subire ancora il controllo imperiale inglese, nonché per non indebolire l’ancor precaria posizione delle classi bianche: la manodopera africana tendeva infatti ad emigrare in massa al Sud, ove i salari erano maggiori, provocando così una immigrazione di “bianchi poveri”. Il raggiungimento di questo traguardo non rappresentò ovviamente una indiscussa supremazia di queste classi, che oggettivamente erano pur sempre dipendenti dal capitalismo internazionale. Fu dunque quello degli anni ’30 un assetto di compromesso, che cercava di tener conto di esigenze contrastanti e che fu pagato interamente dal contadiname e dal nascente proletariato africano.
Il governo si mosse in due direzioni per favorire la borghesia nazionale: investimenti di capitale e rafforzamento del potere contrattuale di questa classe sul mercato delle materie prime. Furono così avviati e completati numerosi lavori pubblici: strade, imprese statali, le centrali elettriche della Electricity Supply Commission, le fonderie e le acciaierie della Rhodesian Iron and Steel Commission e gli stabilimenti del Cotton Industry Board, nonché numerosi impianti per la lavorazione delle materie prime.
Per ciò che riguarda l’espansione del mercato del lavoro con il Land Apportionment Act si concretizzò la teorizzazione che i due gruppi razziali non si facessero concorrenza. Fu limitata in maniera rigorosa la terra per gli insediamenti permanenti africani, limitazione che portò inevitabilmente alla trasformazione del sistema di coltivazione a maggese con gli africani costretti a passare alla coltivazione continua. Per “incoraggiare” questo passaggio si divisero le terre in “arabili permanenti” ed in “pascoli permanenti”.
Considerato l’arretrato grado del sistema di coltivazione in atto nei villaggi (è in questo periodo che viene introdotto e prende rapida diffusione l’uso dell’aratro), questo improvviso restringimento quantitativo della terra sfruttabile portò inevitabilmente ad un declino qualitativo, la terra perse rapidamente la sua fertilità. Vennero eliminate le basi per la sopravvivenza del contadiname, cosicché masse di uomini furono costrette a spostarsi verso le città o verso le farms bianche nella speranza di poter affittare le loro braccia per sopravvivere. Ma anche il loro flusso fu regolato in maniera ferrea con il Native Registration Act del ’36 che peggiorava la legge sul lasciapassare distribuendo tra i vari settori capitalistici l’offerta di lavoro, riuscendo così a tenere i salari a livello di sopravvivenza.
Se il contadiname veniva schiacciato, stessa sorte toccò alla nascente borghesia agraria africana, la cui ascesa fu contenuta, ribadendo la norma tradizionale secondo la quale le terre delle aree africane non erano alienabili. In queste aree la terra non poteva essere acquistata, ma non migliore era la situazione nelle Purchase Areas dove, almeno in linea teorica, esisteva la compravendita dei terreni: in primo luogo la terra era assegnata dal governo scegliendola in zone lontane dai mercati, dalla linee ferroviarie e dalle strade principali; secondariamente esse rappresentavano soltanto l’8% dell’estensione coltivabile complessiva del Paese e la loro trasferibilità era soggetta a molte restrizioni; in terzo luogo il governo ostacolava in ogni modo la concessione di crediti, cosicché anche se il mercato fosse stato più libero la mancanza di denaro avrebbe in ogni caso frenato lo sviluppo della borghesia africana.
Uguali restrizioni furono stabilite per il commercio, proibendo ai negri di acquistare e prendere in affitto locali nelle aree europee, confinandoli così nelle riserve e sui mercati più poveri.
La coalizione stretta tra lavoratori bianchi e borghesia nazionale portò anche nel settore industriale allo schiacciamento dei salariati africani, accentuando le migliori condizioni dei lavoratori europei, perpetuando la scarsità di manodopera qualificata. L’Industrial Conciliation Act del ’36 escludeva dalla definizione di lavoratore dipendente i neri, ma paradossalmente stabiliva uguali salari ed uguali condizioni normative tra europei ed africani, cosicché in nessun caso un padrone avrebbe assunto un dequalificato operaio negro quando poteva, allo stesso prezzo, ingaggiare un lavoratore bianco qualificato. È la realizzazione pratica della politica “parallela”, la classe agraria bianca si pone contro la nera, i salariati bianchi per perpetuare la loro posizione di privilegio si pongono contro i salariati africani.
L’assetto economico e politico che si era venuto formando negli anni ’30 non
poteva non avere, alla luce di ciò che abbiamo descritto, due grosse tare: da
una parte il processo di industrializzazione si scontrava con una domanda
interna più che stagnante: ad un forte incremento demografico aveva infatti
fatto da contraltare la diminuita produttività dei contadini, cosicché il
reddito procapite era rimasto fermo, segno di un aumento della sola produzione
di sussistenza; in secondo luogo l’aver distrutto la speranza della “assicurazione
sulla vecchiaia”, che come abbiamo visto legava i contadini-salariati alla terra
e al villaggio, spingeva sempre più gli africani ad emigrare verso le zone
industriali, urtando contro la cortina protettiva imposta dai bianchi.
LA RHODESIA
Si è visto nel numero scorso come per tutti gli anni ‘30 l’industrializzazione rhodesiana fosse stata frenata da una mancanza di domanda interna, mentre la produttività del contadiname africano diminuiva e si stabiliva a livello di sussistenza.
La seconda guerra mondiale fu la frustata che agì da stimolo verso il mercato e che permise l’espansione dell’economia. Le merci che precedentemente venivano importate divennero introvabili, creando così per le industrie nazionali un ampio mercato; metalli come il cromo e l’amianto aumentarono notevolmente di prezzo. Gli agricoltori bianchi poterono incrementare la loro produzione data la carenza di generi alimentari a livello mondiale. Ma la spinta principale alla espansione fu il programma che il Governo realizzò con l’Inghilterra, che prevedeva la trasformazione della Rhodesia in base militare per l’addestramento dei piloti inglesi.
Questa forte espansione economica creò la possibilità di avviare il primo e vero piano di investimenti di capitale fisso: furono ampliati i già esistenti impianti per la produzione di acciaio e per la filatura del cotone e ne furono costruiti di nuovi; è questa vasta serie di investimenti che porterà allo sviluppo della industria manifatturiera ancora in embrione.
La guerra aveva aperto le porte allo sviluppo economico, e la sua fine non causò il ritorno alla precedente situazione grazie al monopolio posseduto dal Paese delle miniere di cromo e amianto, materie richieste in quantità crescenti dal mercato internazionale. A ciò si affiancò la produzione di tabacco che nel periodo post-bellico fu stimolata dalle restrizioni imposte nel Regno Unito: nel periodo ‘45-‘48 la produzione aumentò di tre volte in quantità e di quattro volte in valore. Questo sviluppo comportò l’aumento del numero dei produttori che nello stesso periodo passarono da meno di mille a 2.670, incrementando fortemente l’immigrazione; ciò aumentò la domanda di abitazione e di servizi e i salariati africani da 254.000 nel ‘36 passarono a 377.000 nel ‘46 e a 600.000 e oltre nel ’56.
Questo si venne a sommare, dopo il 1940, al crescente interesse del capitalismo internazionale, che spostò progressivamente il suo campo di azione e la sua rete di interessi dal Sud Africa – in cui la borghesia nazionale era giunta al potere – alla Rhodesia; gli investimenti stranieri passarono infatti dai 13,5 milioni di sterline del ‘47 al doppio nel ‘49 ed ai 50,7 nel ‘51.
Questa “deviazione” del capitale internazionale è sostanzialmente il motivo che promosse la formazione della Federazione della Rhodesia e del Nyasaland. Con l’ampliarsi del mercato, con le forti riserve di manodopera del Nyasaland (l’attuale Malawi), e dei mezzi finanziari che la Rhodesia del Nord (l’attuale Zambia) poteva portare “in dote”, le possibilità di sopravvivenza e di sviluppo della Federazione, alla luce proprio di questo massiccio intervento internazionale, non era niente affatto utopistica, al contrario sino al ‘58, quando si avvertirono i primi sintomi di un nuovo ristagno, la Federazione prosperò notevolmente.
Dal 1901 al 1950 il numero dei lavoratori africani era costantemente aumentato nonostante la progressiva contrazione dei salari; questo perché – come abbiamo visto – gli agrari bianchi si erano impegnati in una “crociata” contro il contadiname nero per trasformarlo in bracciantato agricolo. Adesso, nel dopo guerra, si trattava di reperire altre terre per gli agricoltori di tabacco bianchi e questo non poté che significare un nuovo massiccio spostamento dalle campagne alle farms e alle industrie del contadiname africano. Con la completa applicazione del Land Apportionment Act si dà la prima vera spinta alla formazione del proletariato, di quelle masse di uomini privati – questa volta per sempre – di quelle riserve materiali che l’aggancio con la comunità rurale poteva ancora offrire. Nel 1948 erano 300.000 gli africani che occupavano ancora terre il cui sfruttamento era riservato agli europei, negli anni post-bellici 85.000 furono le famiglie africane trasferite con deportazioni di massa nelle Native Reserves in base a ciò che stabiliva il Land Act. Le deportazioni forzate come nel Sud Africa da una parte, la drastica riduzione del numero dei capi di bestiame che potevano essere posseduti dall’altra, strangolarono l’economia e i residui investimenti del contadiname negro. L’obbligato passaggio nelle file proletarie a salari da fame, stimolò la coesione tra le masse africane e fece loro materialmente prendere coscienza del continuo peggioramento delle loro condizioni di vita nonché della illusorietà della “assicurazione sulla vecchiaia” contratta con le comunità.
Tutto questo portò ad una forte ondata di scioperi, e solidificò la comunanza di interessi esistenti tra proletariato e salariati agricoli africani. Il comune interesse a battersi contro il potere borghese bianco fu la base su cui si ampliò il nascente movimento nazionalista.
Se questo fu il primo dei fondamentali mutamenti nell’assetto di classe rhodesiano degli anni intorno al 1950, gli fa da contraltare il sorgere di una classe capitalistica manufatturiera distinta dalla agraria.
Il contributo dell’industria manufatturiera al reddito nazionale salì dal 9% degli ultimi anni ‘30 al 15% dei primi anni del ’50 ed al 18% degli anni ’60. Questo processo comportò inevitabilmente la concentrazione della produzione e quindi lo schiacciamento delle piccole imprese, la maggior parte delle quali ancora si reggevano sul metodo di conduzione familiare. Si ha quindi il passaggio dalla piccola produzione quasi artigianale alla grande produzione meccanizzata di grandi società per azioni. Le imprese con una produzione lorda superiore alle 50.000 sterline, infatti nel ’38 coprono meno dell’8% della produzione totale, mentre nel ’57 ne coprono più di 1/3. L’introduzione delle macchine, la divisione del complesso ciclo produttivo in mansioni semplici differenziano la nuova industria manufatturiera da quella prebellica. La riduzione del lavoro complesso in semplice permise inoltre l’utilizzo della forza-lavoro africana relativamente poco specializzata; nello stesso tempo i grandi centri industriali favorirono il concentramento stabile dei proletari nelle città.
Industria pesante, lavorazione dei prodotti agricoli locali e di beni di consumo a basso costo, queste le tre branche principali della produzione.
Se il formarsi di un proletariato africano e il sorgere e il consolidarsi di un’industria manifatturiera sono i dati più importanti degli anni intorno al 1950, vanno anche sottolineati i progressivi mutamenti nel campo estrattivo ed agrario. Grosso modo l’industria estrattiva, nonostante la sua concentrazione, è già nella fase discendente del suo ciclo, mentre l’agricoltura grazie alla produzione di tabacco iniziata nel periodo post-bellico e soprattutto grazie alle possibilità offerte dal mercato internazionale, si rafforza e aumenta la sua produzione.
Il reddito nazionale aveva ricevuto contributi dall’attività mineraria in misura del 25% nel ‘38, mentre nei primi anni del ‘50 già si passava al 10% per cadere inesorabilmente ad un misero 5% negli anni sessanta. Purtuttavia, se tutta la produzione ha subìto un tracollo, si devono notare forti squilibri al suo interno: la produzione di oro è fortemente diminuita, ma amianto, cromo e carbone hanno segnato sempre nuovi aumenti. Oltre alla concentrazione in atto nel settore manifatturiero anche per il minerario lo sviluppo capitalistico non concede soste, i piccoli cercatori, le piccole imprese basate su concessioni, furono spazzate via per i sempre più onerosi costi di estrazione dei minerali, cosicché negli anni ’50 il settore è già pressoché tutto nelle mani di sole quattro imprese: gli impianti estrattivi passarono da 1.750 nel 1935 a 700 nel ’47 e a 300 nel 1956.
Se la produzione mineraria è in declino, opposta tendenza riscontriamo nella agricoltura, il valore della cui produzione è nel 1958 dieci volte superiore a quella del 1937. La coltura del tabacco trascina tutto il settore, negli anni ’40 rappresenta già la più importante delle merci esportate dalla Rhodesia. Il tabacco superò ben presto la produzione del mais, prodotto tipico dell’agricoltura dell’Africa australe, nonché elemento primo dell’alimentazione africana. Se dunque produrre mais significava produrre per il mercato nazionale, la coltivazione del tabacco segnò il deciso orientamento verso il mercato estero, rafforzando gli agrari e facendo in modo che in misura sempre crescente i loro interessi non fossero più incatenati al processo di industrializzazione del Paese, base per l’allargamento della domanda di generi agricoli. La coltivazione del tabacco, inoltre, per la sua natura impedì l’utilizzo delle macchine, aumentando il bisogno di manodopera africana.
Se la crescita delle componenti nazionali della borghesia rhodesiana mutano in parte il quadro dell’economia a loro favore, non si può prescindere dal controllo che il capitale internazionale continua ad operare sulla gran parte della economia stessa. La Rhodesia rimane pur sempre legata, attraverso le Compagnie, agli interessi dell’imperialismo internazionale, particolarmente inglesi, statunitensi e sudafricani. Sino alla seconda guerra mondiale tali interessi erano basati principalmente sull’aumento di valore della terra, sui diritti minerari e sulle ferrovie, ma dopo il conflitto i tentacoli dell’economia internazionale si infiltrarono praticamente in tutti i settori, soprattutto in quelli non agricoli. Questo mutamento della politica economica delle Compagnie dipende da diversi fattori: i diritti minerari e le ferrovie erano state acquistate dal governo nel “33 e nel ’39, lo sviluppo economico favorì in larga misura gli investimenti nel settore industriale, aumentò l’interesse a controllare la produzione del cromo e dell’amianto, nonché a controllare la stampa quotidiana; tutti elementi che, oltre ad incrementare i profitti, tendevano a ristabilire il completo controllo politico rispetto all’aumentato potere delle classi borghesi nazionali. Il gruppo dell’ Anglo American Corporation (che comprende quattro grosse società: Tanganyka Concession, De Beers, British South Africa Company e la stessa A.A.C.) la cui base economica è rappresentata dallo sfruttamento minerario in Sud Africa, nella Zambia e nel Katanga, nonché nella stessa Rhodesia; controlla inoltre la produzione del carbone rhodesiano, del ferrocromo e del cemento e parte della produzione di ferro e acciaio, possiede inoltre il monopolio della stampa quotidiana rhodesiana. Per ciò che riguarda l’agricoltura essa investe ampiamente nelle piantagioni di agrumi e di canna da zucchero.
Il settore dell’amianto è per il 90% controllato dalla società inglese Turner e Newall; questa occupa anche un posto di primordine nella industria del cemento-amianto. Altre Compagnie sono fortemente presenti nel campo estrattivo dell’oro, nell’allevamento di bestiame, nonché nella produzione di tabacco. Per ciò che riguarda il settore manifatturiero si nota che più di un terzo delle cinquanta grandi imprese manifatturiere britanniche hanno, già negli anni ‘50-’60, interessi diretti in Rhodesia. Ciò significa che la presenza del capitale internazionale si può ritrovare ovunque nel settore: una statistica del 1960 che riguarda l’attuale Rhodesia (ex Rhodesia del Sud), mostra come 2/3 degli utili lordi sulle vendite finivano nelle tasche di società controllate dal capitale straniero.
Per fare dunque il punto della situazione alla vigilia del programma di riforme che verrà varato negli anni ‘50, va ricordato: che la piccola borghesia bianca fu travolta dalla concentrazione capitalistica, mentre i salariati bianchi mantennero il loro forte potere contrattuale (verso la fine degli anni ’50 il salario medio di un lavoratore bianco era molto al di sopra delle mille sterline annue), ai lavoratori di colore era ancora bloccato l’accesso alle mansioni più qualificate, le aspirazioni della piccola borghesia africana furono soffocate, da una parte della tendenza alla concentrazione del capitale, dall’altra, nel campo agricolo, dalle restrizioni del credito.
Se dunque l’assetto degli anni ’30 non era riuscito a impedire la nascita e la crescita del proletariato negro – e in nessun caso lo avrebbe potuto stante lo sviluppo capitalistico – aveva in ogni caso impedito l’ascesa di una classe piccolo e media borghese, cosa che spinse questi strati sociali ad affiancarsi al proletariato e al contadiname africano e ad appoggiare le loro aspirazioni nazionaliste, in opposizione alle classi bianche.