Partito Comunista Internazionale Indice Medio-Oriente


L’annessione della Palestina da parte dello Stato di Israele e la strategia statunitense della “instabilità costruttiva”
 
Monito al proletariato di Gaza e di tutto il Medio Oriente

Rapporto presentato per la riunone del maggio 2019


L’estate del 2014 è stata sanguinosa, costellata da conflitti bellici a Gaza, in Ucraina, in Iraq e in Libia, e non sembra esserci tregua in vista. L’imperialismo in crisi si nutre del sangue dei popoli.

Tra queste aggressioni ce n’è una che all’epoca ricevette poca risonanza, nonostante la sua violenza nella evidente grande differenza nei rapporti di forza: il bombardamento israeliano della piccola, sovrappopolata e sofferente Striscia di Gaza, rapidamente oscurato dalla guerra in Ucraina, con la borghesia occidentale che si è affrettata a vilipendere il “malvagio” aggressore Putin. Su Gaza, invece, si sono allineati ancora una volta alle giustificazioni dello Stato israeliano e all’eterno ritornello del “popolo ebraico” che si deve “difendere”.

Da decenni lo Stato israeliano, poliziotto in Medio Oriente per conto degli Stati Uniti, ma anche con la connivenza di tutte le borghesie, comprese quelle arabe e la stessa palestinese, attacca Gaza con il pretesto di combattere il movimento di Hamas. Ma perché, dopo aver beneficiato per tanto tempo dell’indulgenza e persino della connivenza dello Stato israeliano, Hamas ora sarebbe diventato una minaccia permanente? La breve storia dello Stato d’Israele mostra, a chiunque voglia vederlo, che Hamas, e chiunque altro si opponga alla borghesia israeliana, è diventato una necessità che giustifica l’esistenza di questo Stato “artificiale” e il conflitto arabo-israeliano in corso.

Per cominciare affermiamo che dal 1967 parlare di occupazione in nome della sicurezza del piccolo Stato ebraico è una messinscena, perché in realtà si tratta di una patente annessione, “tollerata”, cioè accettata da tutte le borghesie del mondo, per garantire l’egemonia della borghesia israeliana sulla Palestina. La funzione dello Stato di Israele, fin dalla sua violenta creazione nel 1948, è stata quella di costituire una fortezza le cui artiglierie sono puntate sulle masse arabe. Tutte le borghesie sono unite contro il comune nemico di classe, il proletariato internazionale. L’occupazione militare israeliana di ulteriori territori palestinesi nel 1967 serve gli interessi politico-strategici dei clan borghesi internazionali, spaventati dalle possibilità di rivolta nella regione. Lo Stato di Israele e la borghesia internazionale se ne infischiano del diritto internazionale, della sua marionetta la Corte penale internazionale, dei trattati internazionali, delle Convenzioni di Ginevra (1949, 1977, 2005), delle decisioni dell’ONU e delle sue vane risoluzioni, degli opportunistici premi Nobel assegnati a incerdibili “pacifisti”. Usano tutto questo ciarpame mediatico solo quando fa comodo ai loro interessi o per gettare polvere negli occhi del proletariato mondiale.

Una nuova guerra di 50 giorni, nel luglio-agosto 2014, mossa dallo Stato israeliano contro la Striscia di Gaza, causò la morte di oltre 2.000 palestinesi e più di 70 israeliani. Gaza rimase un campo di rovine dopo i massicci bombardamenti dell’operazione “Barriera protettiva” con decine di migliaia di abitanti senza un tetto e nell’indigenza. Non appena terminato il conflitto Hamas ha ricominciato ad armarsi e la guerra, come in altre parti del mondo, sembra destinata a non finire mai.

Ma guardiamo più da vicino gli eventi che si sono verificati in questa regione negli ultimi decenni e cerchiamo di analizzare i reali processi in atto con la chiave marxista.

 


La Palestina, regione dai mutevoli contorni storici

Il nome Palestina fu dato dai Romani a una terra, abitata in gran parte dagli indomiti Ebrei, che si estendeva fino alle rive del Giordano. La parola significa terra dei Filistei, “popoli del mare”, che avevano popolato la regione per secoli.

Dopo la distruzione del Tempio, nel 135 d.C. finiva la lotta spietata dei Romani contro le rivolte ebraiche. Gli storici sono oggi concordi nell’affermare che la popolazione ebraica non fu deportata, ma che in gran parte si convertì al cristianesimo e poi all’Islam. Il proselitismo ebraico all’epoca diffuse la religione ebraica presso popolazioni pagane come le tribù berbere del Nord Africa e nell’VIII secolo i Khazar, un popolo di origine turca che popolava una regione tra il Mar Nero e il Caspio. Si ritiene che i Khazar siano all’origine di gran parte degli ebrei che vivono nell’Europa orientale, o Ashkenazim. La esistenza di un “popolo ebraico” o di una “razza ebraica” risale al XIX secolo e deriva dai primi sionisti che preconizzavano movimenti nazionali basati sulla razza.

La Palestina, dominata dagli arabi nel V secolo e successivamente dagli Ottomani, ospitava popolazioni prevalentemente musulmane, ma anche cristiane ed ebree, tutte veneranti i Luoghi Santi, alcuni dei quali condivisi dalle tre religioni monoteistiche. Le tribù beduine erano numerose, i capi locali si scontravano continuamente fra loro e raziavano gli agricoltori.

A partire dal 1858, il Sultano ottomano condusse spedizioni militari per sottomettere le tribù beduine e insediarle al fine di sviluppare la produzione agricola. Intraprese una politica di ripopolamento con genti musulmane provenienti da Egitto, Algeria, Marocco, Caucaso e Balcani. Fu promulgata una riforma agraria ottomana che trasformò i rapporti di proprietà delle vecchie società tribali e portò alla formazione di vaste proprietà terriere coltivate da mezzadri, a beneficio di una classe di notabili oziosi, finanzieri e mercanti. Molti di questi ultimi non erano musulmani, ma cristiani (maroniti, greco-ortodossi) ed ebrei, che beneficiavano dei privilegi (abolizione del “patto di protezione” contro i non musulmani, o dhimma, che prevedeva numerosi divieti e il pagamento di tasse) e delle protezioni concesse dal Sultano ai consolati britannici, austriaci e francesi per le popolazioni non musulmane – presumibilmente per proteggere le minoranze e la “Terra Santa”.

Questo diverso status li fece percepire dalla popolazione araba musulmana oppressa e dai nazionalisti arabi come agenti dell’Occidente. Essi ritenevano le potenze europee – a ragione – responsabili del crollo dell’Impero Ottomano. I massacri degli armeni, che chiedevano una nazione, alla fine del XIX e all’inizio del XX secolo, di tutte le popolazioni cristiane sotto gli Ottomani e poi da parte dei Giovani Turchi, ne furono una terribile conseguenza.

Dopo la guerra di Crimea (1854-55), nella quale Francia e Inghilterra sostennero le truppe ottomane per respingere la Russia, la Palestina, inondata dai capitali europei, conobbe un balzo in avanti con i suoi prodotti agricoli esportati sui mercati europei (l’orzo di Gaza era usato per fare il whisky inglese!). La popolazione era allora stimata in 340.000 abitanti, dei quali 300.000 musulmani, 27.000 cristiani e 13.000 ebrei.

Il processo di formazione delle nazioni nel XIX secolo è stato accompagnato, nei Paesi dell’Europa centrale e orientale (Russia, Austria, Romania, Polonia e Prussia), dall’emigrazione, a partire dagli anni Quaranta del XIX secolo, di una popolazione ebraica in fuga dai pogrom e dalla legislazione antiebraica, soprattutto verso gli Stati Uniti, ma anche in Inghilterra, Argentina e Francia. Ma la grande ondata migratoria iniziò in Russia dopo l’assassinio dello Zar nel 1881, del quale vennero incolpati gli ebrei, con più di cento pogrom in quell’anno. Gli emigranti si riversarono negli Stati Uniti (due milioni di ebrei russi tra il 1881 e il 1924) fino alle leggi americane che limitarono l’immigrazione nel 1924.

Il movimento sionista, che auspicava il “ritorno” a Sion (i Luoghi Santi ebraici intorno a Gerusalemme), nacque dopo la rivoluzione francese del 1789, ma prese piede a San Pietroburgo e Berlino dopo i pogrom russi del 1881. Nel 1882 Il barone francese Rothschild, di religione ebraica, acquistò un terreno nella Palestina ottomana, vicino alla futura Tel Aviv, per fondare un insediamento agricolo ebraico. A questo movimento nel 1897, dopo l’affare Dreyfus in Francia nel 1894, si unì l’austriaco Theodore Herzl. Ma venne a interessare solo una minima parte degli ebrei europei e incontrò l’opposizione del Bund, un’organizzazione socialista creata nel 1897 in Russia per i lavoratori ebrei provenienti da Lituania, Polonia e Russia allo scopo di promuovere il socialismo a livello locale.

 


Movimenti anticoloniali e nazionalisti in Medio Oriente nel primo dopoguerra

Il nazionalismo arabo nacque nel XIX secolo, legato alla decomposizione dell’Impero Ottomano. Suscitò subito la preoccupazione dei grandi imperialisti, che cercavano di perpetuare la dominazione europea sul Medio Oriente, come era già iniziato con il decadente Impero Ottomano.

Dalla fine della Prima Guerra mondiale, che aveva ridistribuito i mercati in base alle forze economiche e militari delle maggiori potenze imperialiste, e con il crollo dell’Impero Ottomano nel 1918, il Medio Oriente era stato diviso tra le due maggiori potenze imperialiste dell’epoca, sotto il mandato britannico (Palestina, Iraq, Giordania ed Egitto) e francese (Siria, che allora comprendeva il Libano). Ma gli artefici della spartizione ebbero da affrontare i movimenti di liberazione.

La nascita del movimento operaio in Medio Oriente risaliva a prima del 1914 con organizzazioni di mestiere alle quali aderivano assieme gli indigeni e i proletari provenienti dall’Europa.

L’imperialismo britannico incoraggiò i movimenti di autonomia araba multireligiosa (arabi cristiani e musulmani) con l’obiettivo di indebolire ulteriormente l’Impero Ottomano, ma non erano ancora diffusi a causa delle ostilità tribali e della influenza delle borghesie regionali. Inoltre, la “perfida Albione” appoggiò le organizzazioni religiose sunnite, come avevano fatto prima di loro gli Ottomani, in una regione dove gli sciiti erano molto numerosi. Così, durante la Prima Guerra mondiale, gli inglesi si affidarono ai beduini di Hussein, l’Emiro sunnita della Mecca, a cui era stato promesso un grande regno arabo. E la grande rivolta “araba”, guidata dall’Emiro e dai suoi figli dal 1916 al 1918, permise a Londra di aprire un fronte a sud dell’Impero Ottomano, nella regione dell’Iraq e della Siria, mentre nel 1916 venivano firmati gli accordi segreti Sykes-Picot, con cui Francia e Inghilterra si spartirono in anticipo il Medio Oriente. Non pensarono nemmendo di mantenere le promesse fatte a Hussein!

Nel 1917 iniziò l’occupazione britannica della Palestina. Il 2 novembre Arthur Balfour, ministro degli Esteri britannico, scrisse una lettera aperta – in seguito nota come Dichiarazione Balfour – a Lord Lionel Walter Rothschild, figura di spicco della comunità ebraica britannica e finanziatore del movimento sionista, pubblicata sul “Times” il 9 novembre con il titolo: “Simpatia ufficiale verso una Palestina per gli ebrei”. Il Regno Unito si dichiarava favorevole alla creazione in Palestina di un “focolare nazionale ebraico” che non avrebbe pregiudicato le comunità non ebraiche esistenti in Palestina.

La popolazione della Palestina passò da 94.000 ebrei, 525.000 musulmani e 70.000 cristiani nel 1914, a 630.000 ebrei, 1.181.000 musulmani e 143.000 cristiani nel 1947, alla fine del Mandato britannico.

A seguito dei pogrom insediamenti di ebrei, prevalentemente russi, erano già stati creati diversi decenni prima, già nel 1878. All’inizio del XX secolo dalla Russia zarista, in preda ai disordini politici, alla guerra russo-giapponese e alla rivoluzione del 1905, macchiata da una nuova ondata di pogrom, partì quasi un milione di ebrei. Di questi 40.000 andarono in Palestina, tra i quali molti socialisti.

Nel 1914, la Palestina contava 85.000 ebrei, a fronte di circa 600.000 arabi. Ma a causa dell’entrata in guerra gli ottomani espulsero quelli di origine russa. Dal 1917 gli inglesi incoraggiarono l’immigrazione ebraica in Palestina.

Seguendo le istruzioni della Società delle Nazioni, nel 1922 fu creato un sistema politico autonomo per gli ebrei, basato su un’assemblea eletta e su un’Agenzia Ebraica con poteri esecutivi. Quest’ultima era un ramo dell’Organizzazione Sionista Mondiale fondata a Basilea nel 1897 da Theodore Herzl (la sede fu successivamente trasferita a Berlino, Londra e New York e ora si trova a Gerusalemme). Il Fondo Nazionale Ebraico fu creato da Herzl nel marzo 1899 e drenò i capitali ricevuti dall’intera diaspora ebraica; nel 1901 il Fondo Nazionale Ebraico permise l’acquisto delle terre messe in vendita in Palestina, prima dagli Ottomani, poi, dopo il 1919, dai proprietari terrieri arabi, indifferenti alla sorte dei loro contadini. Questo Fondo divenne una banca anglo-palestinese e infine, nel 1951, la Banca Nazionale d’Israele.

Nel 1926, in forza della Dichiarazione Balfour del 1917, 100.000 ebrei si erano trasferiti in Palestina, tanto più che dal 1925 gli Stati Uniti avevano limitato l’ingresso degli ebrei (50.000 ebrei immigrarono negli Stati Uniti e 14.000 in Palestina nel 1924; l’anno successivo si verificò il contrario). Nel 1931 gli ebrei erano 164.000 (il 16% della popolazione palestinese, di cui un quarto di origine dell’Europa orientale), 217.000, provenienti soprattutto dalla Russia nel 1938, dagli Stati baltici e dall’Europa centrale, 430.000 nel 1940 e 640.000 nel 1947 (80% ashkenaziti). L’idea di uno Stato cuscinetto ebraico, in primo luogo per limitare l’influenza francese e per fungere da ostacolo a un movimento di liberazione nazionale e anticoloniale arabo, era già chiara agli inglesi nel 1920. Come al solito la diplomazia britannica mise una parte contro l’altra, i sionisti contro la popolazione araba palestinese.

Nel luglio 1919 i britannici sciolsero il Reggimento Ebraico dell’esercito di Sua Maestà, creato nel 1917, e molti dei futuri gruppi armati sionisti sarebbero stati composti da questi ex soldati. In Siria e in Palestina scoppiarono rivolte arabe in reazione alla divisione dei mandati stabilita dal Congresso di Sèvres del 1920, rivolte che furono influenzate anche dalla rivoluzione russa e dal movimento nazionalista di Mustafa Kemal in Turchia. Tre delegati arabi sui 2.000 presenti parteciparono al Congresso dell’Internazionale Comunista di Baku del settembre 1920, che incoraggiò i popoli dell’Est a sollevarsi, esprimendo la propria solidarietà con i movimenti di rivolta arabi in Egitto nel 1919, in Siria nel 1919-1920, in Iraq nel 1920 e in Turchia.

Ma già nel 1919 erano scoppiati dei tafferugli nel Nord della Galilea, dove erano stati fondati quattro insediamenti ebraici, tra le truppe francesi e quelle di Faisal, figlio dell’Emiro della Mecca, che aveva guidato la rivolta araba a fianco della spia britannica Sir Lawrence nel 1916-1918. Nell’inverno del 1920 i capi arabi organizzarono manifestazioni, appoggiate dalle autorità britanniche, per chiedere l’indipendenza della Grande Siria. L’obiettivo dell’imperialismo britannico era sbarazzarsi del concorrente francese e affidarsi al movimento islamista per combattere le idee nazionaliste, alcune delle quali ispirate dall’Internazionale Comunista. L’imperialismo francese finì per estromettere Faisal da Damasco, mantenendo così il suo mandato.

Il 25 aprile 1920, la Conferenza di San Remo, dopo aver deciso che i territori di lingua araba dell’Impero Ottomano non sarebbero stati restituiti alla Turchia, adottò una risoluzione che concedeva al Regno Unito un mandato sulla Palestina, soggetto all’approvazione della Società delle Nazioni: gli inglesi lo attuarono dal 1° luglio 1920 benché la Società delle Nazioni lo approvasse solo nel luglio 1922.

Nell’aprile 1920, alla vigilia della conferenza internazionale di San Remo, che avrebbe aperto la strada alla conferenza di Sèvres e alla definitiva spartizione del Medio Oriente tra francesi e britannici, il Mufti (autorità religiosa sunnita) di Gerusalemme, con l’obiettivo di sostenere Hussein e la formazione di un grande Stato arabo, fu uno dei principali istigatori dei disordini contro la popolazione ebraica di Gerusalemme, che causarono una decina di morti e spinsero alcuni ebrei a formare un’organizzazione paramilitare clandestina di difesa, l’Haganah, il braccio armato dell’Agenzia Ebraica. In seguito ai disordini il Muftì fu condannato dagli inglesi e fuggì a Damasco. Ma a luglio fu graziato e tornò a Gerusalemme. Per gli inglesi era chiaro che dovevano contare su un’autorità religiosa musulmana al loro soldo e sulle ambizioni sioniste per controllare le masse arabe in movimento. Scoppiarono rivolte in Siria contro i francesi, in Iraq e in Transgiordania contro gli inglesi.

I movimenti religiosi giocarono un ruolo importante negli anni Venti nella lotta tanto contro gli occupanti anglo-francesi quanto poi contro i movimenti nazionalisti emergenti. In Iraq, il movimento anti-britannico partì dalle roccaforti sciite nel Sud del Paese e dalle comunità curde nel Nord, ma la repressione britannica fu così feroce che il movimento islamista sciita riuscì a riemergere solo negli anni Cinquanta.

In Palestina la popolazione era prevalentemente musulmana, con una minoranza cristiana e un 12% di ebrei. I comitati cristiano-islamici chiedevano l’indipendenza, ma erano in minoranza a causa dell’influenza delle grandi famiglie di proprietari terrieri palestinesi, benché in competizione tra loro.

Il movimento sionista fu integrato nella struttura politica del Mandato britannico attraverso l’Agenzia Ebraica.

Nel dicembre 1921 l’Alto Commissario britannico in Palestina acconsentì alla creazione di un Consiglio Supremo Musulmano o SMC per il controllo e la gestione degli awqaf o affari della comunità musulmana, con tribunali e fondi britannici e musulmani, come esisteva nell’Impero Ottomano per ogni religione, e che riuniva i membri delle grandi famiglie palestinesi. Esso nominò Hajj Amin al-Husseini Mufti (autorità religiosa) di Gerusalemme e poi Gran Mufti (la massima autorità religiosa in Palestina), nonostante l’ostilità delle altre autorità religiose musulmane palestinesi. Amin al-Husseini era stato ufficiale dell’esercito ottomano e aveva partecipato al genocidio dei cristiani armeni; era quindi noto per la sua intolleranza religiosa, la sua brutalità e la sua visione di un impero panislamico in cui avrebbe regnato una feroce sharia. Nel gennaio 1922 fu eletto presidente del CMS ed estese la sua influenza in tutta la Palestina, affermando la centralità di Gerusalemme. Il Consiglio restaurò e costruì scuole, orfanotrofi, ospedali e moschee, e amministrò gli affari religiosi e i tribunali islamici.

Ovviamente, attaccò tutti i movimenti nazionalisti arabi, sia multireligiosi sia laici, e ancor più se si dichiaravano socialisti. L’impatto della rivoluzione bolscevica si fece sentire anche in Medio Oriente, dove la diffusione delle idee socialiste non era legata, come in Europa, al movimento operaio ma all’ambiente intellettuale della borghesia araba, che voleva approfittare del crollo degli Ottomani.

Il Partito Comunista di Palestina fu creato nel 1920 dai dissidenti del Partito Sionista di estrema sinistra (fondato nel 1906, marxista e sionista, nato nella diaspora ebraica negli Stati Uniti, in Palestina e in Russia); questi dissidenti avevano aderito alla Terza Internazionale. Questo Partito Comunista di Palestina era molto aperto agli arabi palestinesi e si batteva per uno Stato ebraico-arabo. Dopo il 1948 e la guerra totale per sbarazzarsi della popolazione araba, ciò che restava di questo partito contribuì alla nascita del Partito Comunista d’Israele, favorevole a uno Stato misto ebraico-arabo.

L’arrivo degli ebrei in Palestina e, soprattutto, dei capitali stranieri e della tecnologia occidentale in Medio Oriente scosse l’immobilismo secolare della regione, già indebolita sotto l’Impero Ottomano dalle leggi sulla proprietà terriera del 1858, e la precipitò nella spirale discendente del capitalismo. L’acquisto di terre dai grandi proprietari terrieri arabi da parte dell’Agenzia Ebraica per insediare migliaia di rifugiati europei comportò l’espulsione di decine di migliaia di contadini, mezzadri e agricoltori arabi, che costituivano la maggioranza della popolazione. A ciò si accompagnarono l’aumento delle tasse, lo sviluppo di grandi fattorie e piantagioni, il controllo dei pascoli beduini, che furono privati del loro ruolo nei trasporti e nel controllo delle rotte commerciali, e quindi la trasformazione dell’economia agricola a spese delle masse contadine e nomadi. Per non parlare del fatto che il prezzo della terra cresceva di pari passo con l’aumento della domanda.

Durante gli anni Venti e l’occupazione britannica la situazione delle masse in Palestina non fece che peggiorare. L’Alto Commissario britannico governò la Palestina come una colonia con potere autocratico e privilegi per i cittadini inglesi, e la piccola industria, gli artigiani e i contadini palestinesi furono presto schiacciati dalla concorrenza dei prodotti inglesi. I fellah, rovinati dagli usurai, depredati dai proprietari terrieri e schiacciati da un pesante carico fiscale, si trasformarono in beduini nomadi.

Fu con l’afflusso degli immigrati ebrei, che portarono con sé l’esperienza dell’organizzazione del lavoro e dei sindacati, che iniziò lo sviluppo industriale della Palestina. La forza lavoro ebraica, da poco immigrata da paesi con industrie sviluppate, fu favorita rispetto agli arabi sia in termini di condizioni di lavoro sia di salario; gli ebrei autoctoni erano trattati alla stregua degli arabi. Nel dicembre 1919 fu creata l’Organizzazione Generale dei Lavoratori Ebrei in Palestina, che comprendeva operai, artigiani, membri di cooperative agricole, dipendenti pubblici e impiegati. L’immigrazione ebraica era ancora limitata: nel 1929 aveva raggiunto il 15% della popolazione.

Periodicamente scoppiarono rivolte. Il cattivo raccolto del 1928, unito alle turbolenze politiche in Siria, Iraq, Transgiordania ed Egitto causate dai trattati firmati su pressione e a favore della Gran Bretagna, l’aumento della disoccupazione e l’acquisto di terre da parte delle organizzazioni sioniste fecero sì che la situazione sociale diventasse molto tesa. L’estremismo religioso musulmano ed ebraico fece il resto.

Le rivolte arabe si ebbero in Palestina nell’agosto del 1929 per la questione dell’accesso degli ebrei ai Luoghi Santi (a Gerusalemme al Muro del Pianto, poi a Hebron, la città della tomba dei patriarchi, in Cisgiordania, dove viveva una piccola comunità ebraica molto religiosa, con presenze laiche a Safed a Tiberiade, a Gaza, a Giaffa). La presenza ebraica era considerata uno strumento dell’imperialismo britannico. Furono uccisi 133 ebrei e 116 arabi (uccisi dai soldati britannici). Ma da questi pogrom molti ebrei furono protetti dalla popolazione araba. A Hebron si ebbero uccisioni e distruzione di case ebraiche: 67 ebrei e 7 arabi uccisi.

La stampa internazionale descrisse i disordini come “pogrom di stampo russo”, perpetrati dalla popolazione araba. Il Partito Comunista di Palestina, sebbene composto da antisionisti, partecipò alla difesa della popolazione ebraica unendosi all’Haganah. Il Comintern descrisse le uccisioni come un “movimento insurrezionale in Arabistan”, giustificando i massacri come un modo per combattere l’imperialismo britannico e in linea con il movimento di liberazione nazionale. Ciò provocò una crisi all’interno del Partito Comunista Palestinese legato a Mosca. Questi eventi servirono da pretesto per la radicalizzazione dei movimenti sionisti e per spingere le comunità ebraiche orientali di Hebron e Safed, che da tempo vivevano nel Paese, nelle braccia dei sionisti dell’Europa orientale e a lasciare le loro case originarie per unirsi ai nuovi sobborghi ebraici, accentuando così la segregazione. Nel 1967, quando gli israeliani occuparono Hebron, utilizzarono anche questo triste episodio per giustificare la loro guerra!

In Egitto, nel marzo del 1928, nacque il movimento sunnita dei “Fratelli Mussulmani”; il suo fondatore Hassan al-Banna, un insegnante egiziano, iniziato all’interno di una comunità sufi sunnita, desiderava, in opposizione alla dominazione britannica, ripristinare il califfato, sciolto dal rivoluzionario borghese turco Mustafa Kemal nel 1924 sulle rovine dell’Impero Ottomano. Al-Banna preconizzava un movimento popolare con due obiettivi: la rigenerazione morale dell’Islam e il ripristino politico dei diritti del popolo contro i colonialisti britannici attraverso la jihad (parola araba che indica il dovere religioso di usare la forza). Ma lo scopo principale di questa lotta, nell’opporsi ai “valori occidentali”, era quello contrastare i partiti politici nazionalisti secolari impregnati di storia occidentale. La Palestina divenne presto uno dei temi più importanti affrontati dalla Congregazione.

La repressione nazista del 1933 portò a un’improvvisa accelerazione dell’immigrazione di ebrei polacchi e tedeschi. Nel 1935 gli ebrei in Palestina erano 320.000 e il flusso migratorio era accompagnato da ingenti capitali. Un giudice religioso, o qadi, di Haifa, Ezzedine al-Qassam, lanciò una guerriglia anti-britannica in Palestina in nome della jihad, ma fu ucciso dall’esercito britannico nel 1935; oggi è considerato uno dei padri della resistenza palestinese (una delle forze combattenti di Hamas porta il suo nome).

Nell’aprile del 1936, in seguito a scontri tra ebrei e arabi, scoppiò in Palestina una “Grande Rivolta” araba, diretta non solo contro il movimento sionista ma anche contro l’occupazione britannica. L’Haganah sostenne le truppe britanniche contro gli insorti. L’insurrezione durò tre anni, caratterizzata da una rivolta contadina e da uno sciopero generale di sei mesi. Il Muftì di Gerusalemme, figura di riferimento di questo movimento, che riuniva i partiti arabi legati all’aristocrazia terriera, inizialmente appoggiò lo sciopero generale, ma poi, spaventato dalla portata del movimento di un giovane ma vigoroso proletariato urbano, chiese di fermarlo. Il Muftì di Gerusalemme non accettò l’aiuto offerto dalla Fratellanza Musulmana egiziana e preferì stringere un patto con gli inglesi. La rivolta, che per la prima volta aveva creato l’unità palestinese nella lotta, fu stroncata dalle autorità britanniche, che esercitarono una terribile repressione con l’ormai consueta pratica del coprifuoco, degli omicidi mirati e dell’esplosione delle case dei sospetti. La mancanza di un orientamento classista, tanto più che lo stalinismo era allora dominante su scala internazionale, e la presa dei proprietari terrieri e dei leader religiosi sul movimento ne segnarono la sconfitta.

Nel 1939, con un terzo di ebrei e due terzi di arabi in Palestina, gli inglesi, per non perdere la presa sulla borghesia araba, accettarono di ridurre drasticamente per dieci anni l’immigrazione ebraica e l’acquisto di terre arabe da parte dei sionisti, ma questo non impedì al movimento sionista, sempre più legato al capitale americano, di rafforzarsi e di organizzare una guerriglia anti-britannica.

I sionisti abbozzarono un piano di spartizione della Palestina in due Stati, uno ebraico e uno palestinese, ma con popolazioni miste. L’immigrazione ebraica in Palestina, ormai illegale, fu combattuta dagli inglesi, che dovettero sopportare scontri sanguinosi con le truppe dell’Irgun, un gruppo armato sionista formatosi durante le rivolte del 1936. L’Irgun era specializzato in attacchi e rappresaglie contro i militanti arabi, ma anche contro i civili arabi e i soldati britannici. Nel 1940 l’Irgun decise di porre fine al conflitto con gli inglesi e di partecipare ad azioni offensive congiunte contro le truppe tedesche. Ma una parte dell’Irgun formò il gruppo Stern, che continuò i suoi attacchi contro gli inglesi. Questo gruppo fu sciolto nel 1942, quando i sionisti si rivolsero agli Stati Uniti, e poi riattivato nel 1944 da Menachem Begin, leader della destra nazionalista sionista.

Dal 1942 al 1944, i Fratelli Musulmani collaborarono con il partito nazionalista Wafd, allora al potere in Egitto. Già con mezzo milione di membri in Egitto, nel 1945 crearono una filiale in Palestina a Gerusalemme con sezioni nelle principali città palestinesi. Una sezione a Gaza con mezzo migliaio di membri fu fondata nel novembre 1946 attorno a due sceicchi. Si occupava principalmente di organizzazioni giovanili, sportive e di scoutismo islamico. Vedremo più avanti come la storia di Hamas e quella di Fatah siano indissolubilmente legate alla minuscola striscia di terra nota come Gaza (360 km² lungo il Mar Mediterraneo, una quarantina di chilometri a nord del deserto del Sinai).

Questa sezione dei Fratelli Musulmani a Gaza, creata attorno a notabili le cui famiglie erano da tempo insediate nella città e dove si trovavano i futuri fondatori di Hamas con Yassin e quelli di Fatah, era fortemente integrata nell’apparato egiziano della Fratellanza e molto visitata dai funzionari del Cairo. L’obiettivo di Hassan al-Banna era quello di addestrare lì i combattenti per la jihad antisionista.

 


L’annessione di parte della Palestina per la creazione dello Stato di Israele nel 1948

Abbiamo ampiamente descritto e analizzato la questione della Palestina e dell’imperialismo israeliano in vari lavori pubblicati sul nostro organo in italiano “Il Partito comunista”, nella rivista “Comunismo” e sulla rivista in lingua francese “La Gauche Communiste”. Ricordiamo alcuni fatti.

La Seconda guerra mondiale si concluse con la vittoria delle due maggiori potenze imperialiste dell’epoca, gli Stati Uniti e l’URSS, e con l’inizio della loro “guerra fredda” per la spartizione del mercato mondiale.

Il colonialismo del XIX e dell’inizio del XX secolo fu sostituito da un imperialismo che allargò il mercato mondiale con incredibile rapidità. Di fatto il maggiore progresso dell’umanità in questo dopoguerra, che non ha visto il proletariato europeo e nordamericano spostarsi su un terreno di classe, è venuto dai “popoli di colore” che, facendo la loro rivoluzione borghese, si sono elevati allo stesso livello dei proletari occidentali. Anche se molti movimenti di emancipazione dopo la decolonizzazione hanno dato vita solo a governi dittatoriali dipendenti dalle maggiori potenze imperialiste, l’avanzamento rimane enorme per la marcia verso il comunismo: basti pensare alla Cina e all’India. Il proletariato internazionale si trova ora di fronte alla borghesia internazionale, le cui fazioni si uniscono quando si tratta di combattere le masse in movimento per una nuova società.

Dopo il 1945 le borghesie occidentali rivelarono ciò che sapevano almeno dal 1942 sui campi di sterminio organizzati industrialmente dai nazisti e che avevano riguardato soprattutto la popolazione ebraica. A decine di migliaia di sopravvissuti non rimase altra scelta che emigrare e, poiché gli Stati Uniti non erano disposti ad accoglierli, le carrette del mare salparono per la Palestina, dove all’epoca infuriava la guerriglia tra le forze armate sioniste e gli inglesi, che limitavano l’immigrazione ebraica per evitare conflitti con le masse arabe. Dal 1945 al 1947, 100.000 soldati britannici di stanza in Palestina combattevano la guerriglia sionista. L’episodio della nave Exodus nell’estate del 1947, dalla quale si impediva ai sopravvissuti dei campi di sterminio di sbarcare, domostrò l’ignominia di cui erano responsabili tutte le borghesie vincitrici della guerra.

Comunque sia, la Seconda Guerra mondiale aveva suonato la campana a morto dell’imperialismo britannico, che stava cedendo il passo all’americano. Questo in primo luogo in Palestina, dove il capitale sionista era già strettamente legato a quello americano, ma anche in Medio Oriente in generale, punto cruciale per la geostrategia americana e russa. Mantenne il controllo di Cipro e del Canale di Suez. All’epoca, la Gran Bretagna era economicamente indebolita e scossa dalle lotte anticoloniali in India e in Sudafrica, e l’Impero si stava sgretolando da tutte le parti. Nel 1947 annunciò che avrebbe ceduto il suo mandato alle Nazioni Unite e che nel 1948 si sarebbe ritirata dalla Palestina.

Inaugurando undici insediamenti nelle regioni di Gaza e Beersheba, il Fondo Nazionale Ebraico riconobbe la posizione strategica di quest’area per il controllo del Canale di Suez. Con l’acuirsi degli scontri tra le comunità ebraiche e arabe, il 29 novembre 1947 l’ONU (successore della Società delle Nazioni, già definita “covo di briganti” da Lenin) impose ai Paesi arabi e ai palestinesi la spartizione della Palestina, con la creazione di uno Stato sionista sul 58% del territorio palestinese.

Il piano di spartizione prevedeva uno Stato arabo diviso in tre parti e uno Stato ebraico sulla costa e a nord del lago di Tiberiade, con uno status internazionale per Gerusalemme. Fu votato dall’occidente e dalla Russia, che contava di avere un’influenza sul nuovo Stato attraverso la sinistra sionista. La Gran Bretagna si astenne mentre la Grecia e la Turchia votarono contro. Gli Stati arabi rifiutarono il piano di spartizione, il che portò a una recrudescenza degli attacchi anti-arabi da parte di gruppi armati sionisti e palestinesi.

Scoppiò la guerra civile. I gruppi armati ebraici dell’Irgun e dell’Haganah alla fine del marzo 1948 ebbero la meglio. Le truppe britanniche intervennero per evitare un massacro troppo grande di civili palestinesi, ma non c’era alcuna intenzione di perdere i soldati britannici, soprattutto perché la Lega Araba stava preparando un attacco al nuovo Stato ebraico. Il giorno dopo la fine del mandato britannico sulla Palestina, il 15 maggio 1948, lo Stato di Israele fu proclamato da Ben Gourion. Lo stesso giorno l’esercito britannico lasciò la Palestina, permettendo ai terroristi ebrei di commettere terribili atti di violenza contro l’indifesa popolazione palestinese col proposito manifesto di spingerla alla fuga.

Il nuovo Stato fu immediatamente riconosciuto dagli Stati Uniti e il 17 maggio dall’URSS. La Turchia fu il primo Paese musulmano a riconoscere Israele nel 1949. Il coro di applausi fu la riprova che le due maggiori potenze imperialiste avevano compreso l’importanza controrivoluzionaria di questo piccolo Stato, mentre il movimento di decolonizzazione prendeva il via in Medio Oriente e nel resto del mondo.


La prima guerra tra Israele e gli Stati arabi

La prima guerra arabo-israeliana (novembre 1948-luglio 1949) iniziò il 30 novembre 1948. Le borghesie arabe, riunite dal 1945 nella Lega Araba (Egitto, Arabia Saudita, Iraq, Giordania, Libano e Siria), che si erano ufficialmente dichiarate a favore della creazione di uno Stato palestinese, decisero di intervenire con l’invio di truppe. Le forze arabe palestinesi sconfitte dai sionisti furono sciolte o integrate negli eserciti arabi. Le forze dell’Esercito Arabo di Liberazione, creato dalla Lega Araba e composto da volontari siriani, libanesi, iracheni e giordani e dai Fratelli Musulmani egiziani, affrontarono le organizzazioni militari sioniste.

Ma ogni borghesia araba giocava per i propri interessi, con la Lega già molto divisa tra le monarchie hashemite che governavano l’Iraq e la Transgiordania, l’Arabia di Ibn Saud, legata agli USA, e la Siria repubblicana, tutte consumate dalle loro ambizioni regionali. Così fu per il re di Transgiordania, che all’epoca disponeva del miglior esercito e che, sperando di recuperare gran parte della Palestina e di impedire così la nascita di uno Stato palestinese, era in realtà pronto ad accettare un accordo col nuovo Stato sionista.

Le truppe sioniste, meglio organizzate ed equipaggiate, con feroci atti di terrorismo e massacri della popolazione (Menachem Begin vi partecipò), ottennero vittorie sulle forze palestinesi. 400.000 palestinesi presero allora la via dell’esodo. Le due organizzazioni militari sioniste furono riunite il 26 maggio 1948, dopo la “pulizia” di alcuni elementi (quelli troppo a sinistra nell’Haganah e quelli troppo a destra nell’Irgun), nello Tsahal, guidato con pugno di ferro da Ben Gourion. Ben rifornito di armi pesanti dalla Cecoslovacchia, nonostante l’embargo sulle armi da entrambe le parti richiesto invano dall’ONU all’apice del conflitto, Tsahal ottenne vittorie su tutti i fronti e conquistò un ulteriore 26% del territorio, compresa Gerusalemme Ovest, con un confine che correva ai piedi del Muro del Pianto, annettendo così l’81% della Palestina. La parte araba, sebbene le forze totali fossero molto consistenti, era ostacolata da un comando molto diviso, con ogni borghesia araba che cercava di giocare la propria carta contro le altre.

Il cessate il fuoco con Israele fu firmato nel febbraio 1949 dall’Egitto, in marzo dal Libano, in aprile dalla Transgiordania e in luglio dalla Siria, mentre l’Iraq rifiutò di negoziare. La Transgiordania prese Gerusalemme Est e la Cisgiordania per diventare Giordania. L’Egitto mise le mani su una regione intorno a Gaza i cui confini erano stati tracciati dall’armistizio del 1949. Fu così costituita la Striscia di Gaza, 40 km lungo la costa del Mediterraneo.

Nel conflitto furono uccisi più di 5.000 sionisti (migliaia i feriti), più di 10.000 palestinesi e 2.000 arabi, la maggior parte dei quali egiziani. Gli anni dal 1947 al 1949 saranno conosciuti come “la Catastrofe” o al-Naqba. Più di 700.000 dei 900.000 arabi palestinesi che vivevano nel territorio che era diventato Israele (aveva 1,8 milioni di abitanti allora la Palestina) erano stati cacciati o erano fuggiti dai territori ora occupati dal nuovo Stato, rifugiandosi in Cisgiordania, Gaza, Giordania, Libano e Siria, il più delle volte in campi di tende organizzati e assistiti dalla “carità” delle Nazioni Unite.

È da questi campi di disperazione che sarebbero emerse, negli anni successivi, le forze della resistenza e della guerriglia contro il nuovo Stato sionista. Questo Stato nacque con leggi speciali di assedio, tribunali militari, espropriazione delle terre abbandonate e loro assegnazione agli insediamenti ebraici, compresi i kibbutzim, strutture agricole e militari che ormai circondavano il territorio, e imposto il divieto di ritorno ai rifugiati palestinesi.

La creazione dello Stato di Israele e la sconfitta delle legioni arabe in questo primo conflitto arabo-israeliano avrebbero scosso tutti gli Stati arabi, portando alla fine violenta di vari protagonisti (il primo ministro egiziano nel dicembre 1948 da parte di un Fratello Musulmano; un colpo di Stato militare in Siria nel marzo 1949; l’assassinio del re di Giordania da parte di un palestinese nel luglio 1951) e accelerando gli inevitabili movimenti nazionalisti.

 


La nascita dei movimenti di resistenza palestinesi negli anni ’40

Durante la guerra con il nuovo Stato ebraico del 1948-49, i Fratelli Musulmani e i loro combattenti rifiutarono di sottomettersi all’esercito egiziano, accusando i regimi arabi di tradimento di fronte alle conquiste sioniste. Nel dicembre 1948, al culmine della guerra contro i sionisti, la Congregazione fu bandita in Egitto; il suo braccio armato assassinò il primo ministro egiziano. La borghesia al potere era decisa a sbarazzarsi di questo alleato divenuto troppo influente e contrario alla sua linea politica; i beni della Fratellanza furono confiscati e il suo fondatore Hassan el-Banna fu assassinato il 12 febbraio 1949 per ordine di re Farouk I.

Dopo l’armistizio israelo-egiziano del febbraio 1949, sotto l’egida dell’ONU, che riconobbe le conquiste ottenute dai sionisti durante la guerra, Gaza divenne egiziana mentre la Cisgiordania fu incorporata nella Giordania.

I palestinesi fuggiti dai loro villaggi a causa dei combattimenti e degli attacchi terroristici sionisti si affollarono nei campi organizzati dalle Nazioni Unite nei territori palestinesi. La risoluzione ONU 194 dell’11 dicembre 1948 garantiva il diritto al ritorno dei palestinesi e quindi la temporaneità di questi campi. Sono passati decenni e i campi sono ancora lì. La Giordania ebbe 10 campi ufficiali con 304.000 abitanti, la Cisgiordania 19 campi con 176.000 abitanti, la Siria 10 campi con 120.000 abitanti e il Libano 12 campi con 226.000 abitanti.

Circa 200.000 palestinesi si trasferirono nella Striscia di Gaza, aggiungendosi, nei suoi 360 km² ai precedenti 80.000. Furono raggruppati in 8 campi. Le Nazioni Unite provvedevano al 20% del PNL.

Questo improvviso afflusso accelerò l’urbanizzazione della Striscia, che, a parte due agglomerati urbani, era per lo più coperta da campi e frutteti. La situazione era così drammatica per la popolazione che nel marzo 1949 il governo turco consegnò 2.000 tende. Gran parte dei rifugiati proveniva dalle vicinanze, dove 45 delle 56 città erano state svuotate dall’occupazione israeliana e dalle sue organizzazioni terroristiche. Le famiglie erano in gran parte di origine contadina o beduina, i maggioranza analfabeti. Questa zona costiera, estesa poco più di un centesimo del territorio della Palestina mandataria, finì per accogliere più di un quarto della sua popolazione araba, un’“Arca di Noè”, una prigione a cielo aperto. Questa concentrazione di rifugiati trasformò brutalmente questa zona agricola. Fu amministrata dall’Egitto sotto forma di governatore militare con l’aiuto dell’ONU.

La Fratellanza Musulmana, vietata a Gaza come in Egitto, si diede rapidamente una facciata legale sotto il nome di Associazione per l’Unificazione, con lo scopo dichiarato di diffondere la fede e di impegnarsi in attività culturali, sociali e giovanili, evitando ogni politica di parte. Un addestramento di base alle armi fu comunque impartito ai membri più determinati, come Salah Khalaf e Khalil al-Wazir, che sarebbero diventati i futuri dirigenti di Fatah e dell’OLP. La Fratellanza Musulmana sviluppava così le sue reti nei campi profughi della Striscia.

Alcuni andarono a studiare al Cairo e aderirono all’Unione degli Studenti Palestinesi, di cui era membro Yasser Arafat, che ne divenne presidente nel 1952. Era figlio di un negoziante della Striscia di Gaza rifugiatosi al Cairo. Pur essendo vicino alla Fratellanza non ne era membro attivo. Nel luglio 1952 la monarchia egiziana fu rovesciata dai Liberi Ufficiali. I Fratelli Musulmani appoggiarono senza riserve il movimento, di cui il generale Neguib, che aveva lasciato la Fratellanza nel 1949, era una delle forze trainanti. Per il loro sostegno furono ricompensati con l’offerta della municipalità di Gaza. Questo permise loro di consegnare una grande quantità di aiuti umanitari ai rifugiati, utilizzando treni egiziani. In cambio, i nuovi governanti del Cairo, tra cui Nasser, ordinarono la fine delle infiltrazioni in Israele da parte dei sostenitori dei Fratelli Musulmani nelle forze di sicurezza di Gaza. Questo scatenò la furia dei militanti più giovani e impegnati, come al-Wazir, che assunse il nome di battaglia di Abu Jihad, e Khalaf, che prese il nome di Abu Iyad.

 


La divisione del Medio Oriente fra USA e URSS: 1948‑1964

Nel 1954, i Fratelli Musulmani erano il maggiore partito politico di Gaza, con circa mille aderenti. Ma questo durò poco: nell’ottobre 1954 Nasser fu vittima di un attentato; ci se ne approfittò per sbarazzarsi del suo rivale, il generale Neguib, l’altro esponente degli Liberi Ufficiali, considerato vicino ai Fratelli Musulmani. Il nuovo Presidente applicò un duro giro di vite contro i Fratelli Musulmani, imprigionando più di 20.000 attivisti e togliendo loro la carica di sindaco di Gaza. Ma a Gaza i giovani militanti della Fratellanza, che disprezzava il dittatore Nasser, passarono all’opposizione aperta. E la guerriglia contro Israele continuò.

Nel febbraio 1955, il generale israeliano Ariel Sharon organizzò un raid aereo su Gaza che fece 46 morti. Ci fu una mini intifada (in arabo “rivolta”) guidata da giovani militanti dei Fratelli Musulmani che si erano dati alla guerriglia. Il Cairo reagì imprigionando i capi e altri militanti islamisti e comunisti. Nell’agosto gli israeliani compirono un altro raid. Nasser permise ai Fedayeen palestinesi di agire e per l’occasione alcuni di loro, che avevano rotto con la Fratellanza, furono rilasciati dalle prigioni egiziane per infiltrarsi nei commando palestinesi. Due ondate di infiltrazioni di commando palestinesi, guidate dal capo della sicurezza egiziana a Gaza, furono lanciate nell’agosto 1955 e nell’aprile 1956.

Israele intanto era determinato a consolidare la sua frontiera meridionale e persino a sbarazzarsi di Nasser (con l’aiuto di britannici e francesi).

La guerra fredda tra USA e URSS era in pieno svolgimento. Il Medio Oriente era una regione geostrategica in cui gli Stati Uniti cercavano di contenere l’espansione a sud dell’URSS e di mettere le mani sulle ricchezze petrolifere e sulle rotte commerciali marittime e terrestri della regione. Ciò non significava che l’URSS avesse meno ambizioni. Per quanto riguarda le potenze regionali, esse si adattarono a questo antagonismo passando volentieri da un campo all’altro a seconda dell’offerta sul tavolo. Nasser, salito al potere nel 1952, si scontrò con le ex potenze coloniali, Francia e Gran Bretagna, i cui capitali detenevano il Canale di Suez, un passaggio strategico tra il Mar Rosso e il Mediterraneo e per il trasporto del petrolio.

Nel 1953, in Iran, lo Scià fu riportato sul trono con il sostegno americano. Nel 1955, la diplomazia americana, in cambio di aiuti finanziari e militari, portò al Patto di Baghdad che comprendeva Iraq, Iran, Pakistan, Turchia e Gran Bretagna, uno scudo il cui obiettivo era formare un’alleanza militare che circondasse l’URSS, la Cina e la Corea del Nord e impedire qualsiasi movimento di liberazione arabo sotto l’egida dell’Egitto di Nasser.

La risposta del rivale russo non si fece attendere. Nasser, sostenuto dall’URSS, attaccò prima Israele chiudendo il Canale alle navi israeliane; poi riconobbe la cosiddetta Cina comunista. Questi eventi portarono al ritiro dei finanziamenti americani per la diga di Assuan in Egitto. Nel luglio 1956, Nasser decise di nazionalizzare il Canale di Suez. Nell’ottobre i rappresentanti della Francia, che stavano affrontare il conflitto algerino (l’FNL era sostenuto da Nasser e all’epoca aveva il suo quartier generale al Cairo), insieme a quelli britannici e israeliani, si incontrarono nel sobborgo parigino di Sèvres e concordarono segretamente un’offensiva coordinata contro l’Egitto, allora vicino all’URSS. Il 29 ottobre Israele aprì le ostilità: Tsahal invase la Striscia di Gaza e il Sinai e si avvicinò al Canale, mentre il 31 ottobre la marina francese bombardò Rafah e l’aviazione britannica gli aeroporti egiziani. Le truppe anglo-francesi furono paracadutate nella zona per riprendere il controllo del Canale. Questa operazione, nota come Kadesh, aveva lo scopo di porre fine alle incursioni dei Fedayeen in Israele e al blocco egiziano di Eilat e del Canale di Suez, ma il suo obiettivo principale era liberarsi di Nasser. Il 2 novembre le truppe egiziane avevano praticamente perso il controllo della penisola del Sinai.

Ma l’operazione franco-britannica fu bloccata dagli Stati Uniti e dall’URSS, che lanciarono un attacco valutario contro la sterlina e inviarono forze navali e aeree sul terreno. La Gran Bretagna si piegò per prima, riconoscendo la supremazia americana. Francia e Israele seguirono l’esempio e Israele si ritirò nei confini del 1949. Era ormai chiaro che Francia e Gran Bretagna non erano più le potenze dominanti e che Stati Uniti e URSS stavano conquistando la scena mondiale. Questo episodio segnò la fine ufficiale della supremazia coloniale di Francia e Gran Bretagna e l’allineamento di Londra alla politica estera americana.

 


Ancora una volta URSS e USA si accordano

L’operazione non fu un completo fallimento per Israele, in quanto riuscì a trattenere le forze di pace dell’ONU nel Sinai e a porre fine alla guerriglia proveniente dall’Egitto. Israele poté così godere di un periodo di calma per diversi anni, senza precedenti dal 1948. Ma i conflitti si riaccesero presto e una rivolta nazionalista antimperialista si diffuse in Libano, Giordania e Iraq dove, nel 1958, una rivoluzione borghese, sostenuta dal PC iracheno legato all’URSS stalinista, rovesciò la monarchia. Nello stesso anno Egitto e Siria formarono la Repubblica Araba Unita (RAU), che durò fino al 1961. La situazione fu considerata molto pericolosa dall’URSS, che diede ordine al PC iracheno di non prendere il potere, e dagli USA, che inviarono truppe in Libano e in Giordania per salvare i regimi di questi due Paesi dall’impulso rivoluzionario delle masse. I due compari imperialisti andavano molto d’accordo quando si trattava di combattere l’insorgenza rivoluzionaria. Ma la loro rivalità divenne evidente con la costruzione del Muro di Berlino nel 1961 e con la crisi di Cuba, dove Fidel Castro aveva preso il potere nel 1958 e che, dopo lo sbarco degli Stati Uniti nella Baia dei Porci nel 1961, portò nel 1962 al ritiro dei missili nucleari russi puntati dall’isola sul territorio statunitense.

Dopo la crisi del canale di Suez, la Striscia di Gaza ha subìto un’occupazione israeliana iniziale, di breve durata, durata 4 mesi. Ci furono pochi atti di resistenza, poiché la maggior parte dei fedayeen si era ritirata al confine con l’Egitto, mentre i Fratelli Musulmani opposero una resistenza civile non violenta. Quando l’occupazione terminò, nel marzo 1957, l’amministrazione egiziana prese il controllo di Gaza. Il Cairo era determinato a prevenire qualsiasi infiltrazione in Israele e vietò il ritorno a Gaza dei fedayeen più politicizzati. Ciò era anche in linea con i desideri della Fratellanza, che desiderava soprattutto preservare le sue reti di mutuo soccorso e religiose, nonostante la messa al bando dell’Associazione di Unificazione nel 1958.

Ma i giovani militanti radicalizzati che erano stati messi da parte sia da Nasser sia dalla Fratellanza non intendevano affatto subire in silenzio questa normalizzazione. Una minoranza militante si dissociò dai Fratelli Musulmani e si unì alla lotta armata. Questi giovani gazesi, tra cui i futuri fondatori di Fatah, come Arafat (Abu Ammar), Khalil al-Wazir (Abu Jihad) e Salah Khalaf (Abu Iyad), disertarono i Fratelli Musulmani e, dal loro esilio in Kuwait, nel 1959 crearono il movimento di liberazione palestinese, Fatah (“conquista”, in arabo). Il loro obiettivo era la creazione di uno Stato palestinese che comprendesse il territorio di Israele. La componente di ex islamisti provenienti da Gaza, ora dissidenti dai Fratelli Musulmani, era quindi dominante in questo primo circolo di Fatah. Anche Mahmoud Abbas ne faceva parte. Gaza era quindi un crogiolo della resistenza palestinese e la matrice dei fedayeen (che in arabo significa “martire”).

Un’altra organizzazione si era distinta, quella di Georges Habash. Nato nella città palestinese di Lydda da una famiglia di commercianti arabi greco-ortodossi, la sua famiglia si era rifugiata a Beirut durante la guerra del 1948. Nel 1951 fondò il Movimento Nazionalista Arabo (MNA), un partito nazionalista laico che sosteneva la lotta armata come mezzo per liberare la Palestina, fortemente influenzato e aiutato dal nasserismo. Nel 1957, coinvolto in un tentativo di colpo di Stato contro re Hussein di Giordania, fuggì a Damasco e poi in Libano. A Gaza, che era tornata in territorio egiziano, la Fratellanza, sorvegliata dalla sicurezza egiziana, mantenne un basso profilo e rimase lontana da questi disordini nazionalisti.

Nel gennaio 1964 la Lega araba, guidata da Nasser e sostenuta dalla Siria, prese al Cairo l’importante decisione di riconoscere l’Entità Palestinese, mentre a maggio a Gerusalemme creò l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). L’OLP aveva lo scopo di incanalare i movimenti di resistenza nella lotta contro lo Stato israeliano. Riunì diverse organizzazioni, tra cui Fatah. Altri gruppi vi aderirono: il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) di Georges Habash, creato nel dicembre 1967, dopo la sconfitta nella Guerra dei Sei Giorni, a Beirut con l’MNA e altri gruppi di fedayeen (dichiaratosi di orientamento marxista-leninista: per questo gruppo, la “rivoluzione palestinese” rappresentava l’avanguardia della rivoluzione araba) e il Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina (FDLP), nato da una scissione del PFLP nel 1969, di tendenza maoista. Nonostante l’opposizione di George Habash, Yasser Arafat guiderà l’OLP dal 1969 fino alla sua morte nel 2004.

I Fratelli Musulmani presero immediatamente le distanze dalla nuova organizzazione. Per loro Nasser era un tiranno, un “nuovo Faraone”, e la lotta armata nazionalista non faceva per loro.

Con l’OLP la borghesia palestinese non cercava di risolvere il problema delle centinaia di migliaia di rifugiati espulsi dalla loro terra, ma solo di trovare un modo per deviare la rabbia e la rivolta sociale che si erano accumulate nei campi e che avevano dato origine ai movimenti di guerriglia. Ancora oggi essa è riconosciuta dall’ONU come l’unica controparte palestinese nei negoziati con Israele.

Nell’agosto 1965 Nasser scatenò in Egitto una nuova ondata di repressione contro i Fratelli Musulmani. Uno dei loro ideologi, Sayyid Qotb, fu arrestato e impiccato un anno dopo un clamoroso processo.

Nella Striscia di Gaza apparve allora una nuova figura, Ahmed Yassin, appena trentenne. Ahmed Yassin era nato nel 1936 a Joura, un villaggio vicino all’attuale Ashkelon israeliana. Si unì ai Fratelli Musulmani in giovane età, ma seguì una linea moralistica che privilegiava il risanamento spirituale rispetto a qualsiasi forma di milizia politica; per lui l’impegno nazionale era una colpevole deviazione. Immobilizzato su una sedia a rotelle da un’infermità precoce, Yassin predicava da un posto tranquillo nella moschea del campo di Shati, vicino a Gaza. Anche se non aveva completato alcuno studio religioso e aveva perfezionato le sue capacità di insegnamento solo con una formazione in arabo e inglese presso un’università egiziana, era descritto come uno sceicco da una cerchia sempre più ampia di fedeli. Avrebbe riempito a Gaza il vuoto lasciato dall’eliminazione degli altri dirigenti della Fratellanza. E la repressione lo aveva convinto ad un atteggiamento strettamente legale.

Anche i militanti di Fatah, ora dissidenti dai Fratelli Musulmani, furono soggetti alla repressione nasseriana, accusati dal Cairo di fare il gioco di Israele con le loro provocazioni armate. Nel 1967 il nazionalismo palestinese nella Striscia di Gaza era quindi dominato dal gruppo di Georges Habash e da Fatah, che aveva creato un proprio braccio armato, l’Esercito di Liberazione della Palestina (ELP). Fatah era più coinvolto in Cisgiordania e in Giordania, dove Arafat era responsabile degli acquisti di armi e della diplomazia, mentre molti dei suoi membri andarono in esilio negli Stati del Golfo. Il FPLP adottò una posizione più radicale, compiendo attentati all’interno e all’esterno di Israele.

Dopo il nuovo disastro degli eserciti arabi nella Guerra dei Sei Giorni, del giugno 1967, lo sceicco Yassin predicò che se Israele aveva trionfato era grazie alla fede del suo popolo e dei suoi combattenti, mentre la rivolta secolare degli eserciti arabi e dell’OLP di Arafat aveva portato gli arabi alla sconfitta.


L’annessione di un’altra parte della Palestina da parte di Israele nel 1967 e la crescita delle organizzazioni islamiste

In risposta all’eccessivo utilizzo da parte di Israele delle acque del lago di Tiberiade, a nord-est, al confine con la Siria, Damasco, alleata del Cairo, rispose deviando i suoi affluenti. A partire dal 1964 il confine tra Israele e Siria divenne rapidamente un campo di battaglia. Anche l’Egitto di Nasser si fece più minaccioso, imponendo il blocco alle navi israeliane nello Stretto di Tiran, l’accesso di Israele al Mar Rosso, e firmando un trattato di alleanza con la Giordania. Mentre gli Stati Uniti erano impegnati nella guerra del Vietnam, l’offensiva lampo israeliana contro l’Egitto, nota come Guerra dei Sei Giorni, il 5 giugno 1967 portò rapidamente alla sconfitta degli eserciti egiziano, siriano e giordano. L’URSS non si mosse, ma, in accordo con gli USA, il 10 giugno impose ai belligeranti un cessate il fuoco. Lo Stato ebraico aveva avuto il tempo di impadronirsi di Gerusalemme Est e della Cisgiordania, della Striscia di Gaza e del Sinai fino al Canale di Suez e di quasi tutte le alture del Golan in Siria. La risoluzione 242 adottata nel novembre 1967 dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che chiedeva il ritiro delle forze armate israeliane dai territori occupati durante il conflitto, è rimasta lettera morta fino ad oggi. La guerra del 1967 portò all’esodo di massa di 250.000 palestinesi dalla Cisgiordania e 15.000 da Gaza verso la Transgiordania, e di 150.000 palestinesi dal Golan verso la Siria. Oggi nel Golan rimangono solo 15.000 drusi e alawiti. Come nel 1948, i palestinesi furono nuovamente cacciati dalle loro case.


I territori occupati

In tutti questi territori annessi è iniziò la colonizzazione israeliana con la creazione di kibbutzim e altri insediamenti, per non parlare delle postazioni militari e delle stabilimenti industriali.

Dopo la disfatta militare dei tre Stati arabi, le reti nazionaliste non abbandonarono le nuove aree occupate, come nel 1949, ma rimasero in loco. Si creò una unione sacra tra i membri del piccolo Partito Comunista Palestinese di Gaza, i baathisti e i nazionalisti arabi. L’ELP acquisì così una vera autonomia dall’Egitto e Fatah si rafforzò e organizzò la lotta interna, soprattutto in Cisgiordania.

Solo lo sceicco Yassin, che era diventato la principale figura islamista a Gaza, rifiutò categoricamente di aderire a questa unione nazionale e denunciò il regime egiziano per la sua corruzione e la repressione degli islamisti. La moderazione di Yassin si adattava molto bene al Ministro della Difesa, Moshe Dayan, che non doveva intervenire apertamente o il meno possibile nella vita quotidiana dei palestinesi. Fin dall’inizio dell’occupazione, i servizi segreti israeliani iniziarono a tessere la loro tela nei territori occupati per combattere i fedayeen, e la Fratellanza, considerata un’organizzazione puramente religiosa e apolitica, parve una buona leva per combattere l’influenza dei movimenti nazionalisti laici. La priorità degli occupanti era infatti combattere l’OLP e altri movimenti nazionalisti. Dopo la Guerra dei Sei Giorni il nasserismo crollò. Nel 1967 Georges Habache fondò il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), influenzato dalla guerriglia di Cuba (nel 1959 Che Guevara si recò a Gaza) e che si sarebbe unito all’OLP nel 1968. La sua organizzazione, sostenuta anche dalla Siria e ancorata a Damasco, e si rese responsabile di una serie di attentati e dirottamenti, estendendo le sue operazioni al di fuori della Palestina e collegandosi anche a gruppi stranieri come la Frazione dell’Armata Rossa in Germania. Il FPLP si affermò, contro Fatah di Arafat, come organizzazione radicale della resistenza palestinese, ma la sua influenza rimase minoritaria.

L’esercito israeliano si avvaleva di queste divisioni, ma ci vollero quattro anni per pacificare Gaza. Se l’occupazione era responsabile dell’esacerbazione del nazionalismo palestinese con la crescita di Fatah e degli altri partiti nazionalisti, la presenza dei Fratelli Musulmani era apprezzata, facilitata e incoraggiata dagli occupanti israeliani, con l’obiettivo di combattere i primi.

Nel gennaio 1968, Tsahal compì una serie di incursioni nelle file della resistenza. Fatah e Neeman Dib, suo dirigente a Gaza, e furono i primi ad essere presi di mira, seguiti dai membri del Partito Comunista Palestinese di Gaza (PCPG), ma fu un massacro anche per il FPLP: solo 4 dei 71 fedayeen della sua ala militare sfuggirono all’arresto. I quadri del PCPG andarono in esilio ad Amman nell’aprile del 1968.

L’OLP decise di trasferire il suo quartier generale da Damasco ad Amman, in Giordania, dove la popolazione era prevalentemente palestinese e dove si erano insediati migliaia di nuovi rifugiati e fedayeen dopo la Guerra dei Sei Giorni. I campi palestinesi divennero uno Stato nello Stato. La Giordania emerse come centro del movimento dei fedayeen, la cui combattività contrastava con la resa militare dei regimi arabi. Israele non poteva permettere che ciò accadesse. Il 21 marzo 1968, come rappresaglia per l’esplosione di un autobus israeliano, Tsahal lanciò un’operazione volta a distruggere il campo palestinese di Karameh in Giordania. In quella che sarebbe diventata una battaglia simbolo della resistenza armata ad Israele, 250 combattenti di Fatah e 80 del FPL affrontarono l’esercito israeliano e solo una manciata di fedayeen sopravvisse all’assalto.

Fatah fu il principale beneficiario delle ripercussioni politiche di quella battaglia, che stimolò il reclutamento delle fazioni palestinesi, ma anche del FPLP. Fatah prese il controllo dell’OLP. Re Hussein in contatti segreti con Israele chiese la Striscia di Gaza come sbocco sul Mediterraneo, ma senza successo. Nell’ottobre 1969 un’ondata di disordini scosse la Striscia, durante la crisi libanese, quando le forze dell’OLP si scontrarono con l’esercito governativo, portando all’autonomia militare dei campi profughi in Libano e alla creazione di basi operative palestinesi contro Israele.

In risposta ai tentativi dei movimenti di Arafat e Habash di rovesciarlo con il sostegno della Siria, il 12 settembre 1970 il re giordano Hussein dichiarò la legge marziale. Contemporaneamente lanciò operazioni militari contro i campi profughi e i fedayeen dell’OLP e del FPLP, che erano le organizzazioni più coinvolte. Questo drammatico episodio, noto come “Settembre Nero”, fece 20.000 vittime, la maggior parte delle quali civili. Il 27 settembre 1970, Nasser riuscì a fermare le ostilità tra Giordania e OLP. Ma poco dopo morì e l’OLP perse il suo principale sostegno. Il conflitto durò fino al luglio 1971. Arafat stipulò infine un patto con il re di Giordania e fu espulso con i suoi combattenti in Libano, sotto la protezione siriana, mentre il FPLP rifiutò qualsiasi accordo. Il Libano divenne la nuova base militare dell’OLP, con l’assistenza finanziaria del Kuwait.

A Gaza la rete dei fedayeen vennero ricostituite e molestarono le forze di occupazione nel 1969-70. Il compito di pacificare Gaza fu poi affidato dal ministro della Difesa Moshe Dayan al generale Ariel Sharon. Sharon operò brutalmente a partire dall’estate del 1971; i campi profughi furono ratrellati, furono istituiti posti di blocco e distrutti i depositi di armi. La polizia di frontiera, che reclutava in gran parte drusi e beduini di nazionalità israeliana, fu dispiegata a Gaza ed eseguì operazioni a tappeto. Il FPLP, guidato da Ziad al Husseini, forniva la maggior parte dei combattenti nella resistenza armata, e in misura minore Fatah. Le reti del FPLP caddero una dopo l’altra e i suoi capi liquidati. La resistenza era isolata, con l’Egitto neutralizzato dalla guerra di logoramento per il Canale di Suez, e i partiti Ba’ath al potere a Damasco e Baghdad avevano pochissimi sostenitori a Gaza. La morte di due dirigenti emblematici della resistenza, Ziad al Husseini, comandante del FPLP nella Striscia di Gaza, nel novembre 1971 e Mohammad al Aswad, soprannominato il Guevara di Gaza, nel marzo 1973, segnò la fine del movimento.

Durante questo periodo, la Fratellanza Musulmana, che all’epoca era vicina all’Arabia Saudita, fu risparmiata dalla repressione. Tra il 1970 e il 1971 in totale 38.000 palestinesi di Gaza furono sfollati in altre parti della Striscia o in Cisgiordania o nel Sinai, altri 3.700 furono imprigionati e 175 fedayeen furono uccisi. Il PFLP ne uscì molto indebolito e molti militanti andarono a ingrossare le file di Fatah.

Dopo la guerra arabo-israeliana dell’ottobre 1973, la “guerra dello Yom Kippur”, che si concluse con una nuova vittoria di Israele (sostenuto da un ponte aereo statunitense), nel giugno 1974 l’OLP si orientò verso una politica di collaborazione, con l’obiettivo di istituire un’autorità palestinese indipendente. Georges Habash prese posizione e formò un fronte contro ogni compromesso, puntando a un unico Stato per ebrei e arabi. Il Fronte Popolare rifiuterà gli accordi di Oslo del 1993, ma il suo movimento aveva perso influenza. Habash è morto nel 2008.

I Fratelli Musulmani, che stavano ristabilendo legami con la Giordania, presero ulteriormente le distanze dall’OLP, che aveva appena adottato un nuovo statuto in cui affermava che la sua lotta era nazionale e assolutamente non religiosa. La Fratellanza, sempre guidata dallo sceicco Yassin a Gaza, fu risparmiata dall’intensa repressione nei territori occupati e in particolare a Gaza, e ne approfittò per sviluppare reti di attività pietistiche e sociali: sostegno scolastico, attività sportive, organizzazione di matrimoni collettivi sotto il nome di Mujamma o Unione Islamica. I Fratelli quindi beneficiarono di una benevola tolleranza da parte del governatore israeliano che, come il suo predecessore egiziano, era responsabile dell’amministrazione degli affari religiosi. La Mujamma si strutturò e si diffuse in tutta la Striscia, creando associazioni caritatevoli e centri sociali che erano allo stesso tempo luoghi di preghiera, sale sportive, scuole coraniche e dispensari. E gli uomini che gravitavano intorno a Yassin, medici, farmacisti, dentisti e ingegneri, sarebbero diventati 15 anni dopo i quadri di Hamas.

La Fratellanza Musulmana nella Striscia di Gaza, che nel 1969 non contava più di cinquanta uomini, vide gradualmente aumentare il suo numero. La Fratellanza divenne onnipresente a Gaza, reclutando in massa e moltiplicando la costruzione di moschee, il cui numero raddoppiò in pochi anni, una cifra sproporzionata rispetto alla crescita della popolazione. La grande moschea di Gaza, Jawrat al-Chams, molto vicina alla casa di Yassin, divenne la vetrina della Mujamma e fu inaugurata nel 1973 alla presenza del governatore israeliano che ne aveva autorizzato la costruzione. Era la testimonianza della connivenza tra Israele e i Fratelli Musulmani. L’obiettivo israeliano era chiaro: di fronte all’ascesa dell’OLP, era necessario incoraggiare le forze ad essa ostili per sottrarre la popolazione di Gaza alla sua influenza. Favorire il nemico del proprio nemico è stata la tattica israeliana ancora oggi.

Con l’aumento del prezzo del petrolio, l’Arabia Saudita e lo Scià dell’Iran, incoraggiati da Nixon, Kissinger e dalla CIA, hanno usato questa nuova opulenza per rafforzare il fondamentalismo islamico, come i Fratelli Musulmani e la Lega Mondiale Musulmana (una ONG musulmana fondata nel 1962 alla Mecca per promuovere il panislamismo in opposizione al panarabismo nasseriano). Ma questo era solo l’inizio!

L’occupazione israeliana del Sinai complicò le comunicazioni con l’Egitto e costrinse la struttura islamista a rivolgersi alla Giordania, che dal 1967 era molto più facile da raggiungere. I seguaci dello sceicco Yassin si avvicinarono così ai Fratelli Musulmani in Cisgiordania, il cui apparato si era integrato in quello della casa madre di Amman. La Giordania era l’unico Paese arabo in cui i Fratelli Musulmani potevano operare in piena libertà, perché aveva sostenuto senza riserve re Hussein contro Nasser e l’OLP. In Egitto negli anni ’70 anche il presidente Sadat utilizzò i Fratelli Musulmani come contrappeso ai partiti di sinistra e nel 1984 Mubarak riconobbe la Fratellanza come organizzazione religiosa. Nel 2012, dopo i movimenti popolari della “primavera araba”, i Fratelli sono saliti al potere attraverso le elezioni, ma sono stati rovesciati dal colpo di Stato militare nel 2013 che portò al potere Al Sisi.


La guerra dello Yom Kippur (1973) e la conquista del Medio Oriente da parte degli Stati Uniti

All’epoca, gli Stati Uniti e Israele avevano un solo alleato in Medio Oriente: il re d’Arabia Faisal. Dovevano portare l’Egitto dalla loro parte e smantellare la Siria, il che avrebbe ovviamente rafforzato la posizione di Israele. All’inizio degli anni ’70, alcuni Paesi arabi si stavano avvicinando all’Arabia Saudita. Sadat, succeduto a Nasser nel 1970, si dichiarò pronto a negoziare con Israele; nel 1972 espulse i consiglieri militari sovietici. La situazione economica del Paese era catastrofica e gli aiuti finanziari russi erano insufficienti.

La guerra di Kipur del 1973 sarebbe stata l’occasione per Washington di raggiungere i suoi obiettivi. L’Egitto guidò un’offensiva contro Tel Aviv, insieme agli eserciti siriano, iracheno e giordano, per recuperare i territori occupati dal 1967 anche allo scopo di dirottare il malcontento interno puntando sulla guerra. Anche Algeria e Marocco facevano parte della coalizione anti-israeliana. Ma i comandi erano fortemente divisi a causa delle competizioni regionali.

Il 6 ottobre 1973, la quarta guerra arabo-israeliana, la guerra dello Yom Kippur, iniziò con un attacco aereo egiziano. Tel Aviv fu avvertita da Hussein di Giordania dell’imminenza dell’attacco, ma la diplomazia statunitense, attraverso Kissinger, pretese che gli israeliani aspettassero di essere attaccati. Il 17 ottobre, l’OPEC decise di imporre un embargo petrolifero ai Paesi occidentali che sostenevano Israele, questo blocco portò allo “shock petrolifero” del 1973.

All’inizio del conflitto, l’armamento di Israele era meno moderno di quello dell’Egitto, che aveva ricevuto aiuti russi che comprendevano AK47 Kalashnikov, i migliori fucili d’assalto dell’epoca, e missili anticarro Sagger.

Dopo le vittorie egiziane e siriane, letali per Israele, il 14 ottobre la situazione si capovolse grazie all’equipaggiamento militare fornito a Israele dagli Stati Uniti: le forze israeliane, sperimentando armi ad alta tecnologia e dimostrando l’importanza dei carri armati per liberare la strada agli aerei, ottennero vittorie decisive, prima penetrarono in Siria, avvicinandosi a Damasco, poi al Canale di Suez, in Egitto. L’esercito siriano, investito da tutta la forza dell’assalto israeliano, si ritirò. Sadat non fece avanzare il suo esercito per aiutarlo, il che equivaleva a un tradimento. Gli israeliani rivolsero allora la loro attenzione al Sinai. Ma Sadat rifiutò l’aiuto della Giordania, che avrebbe potuto tagliare la strada a Tsahal.

Le armate egiziane, circondate dalle truppe israeliane, furono salvate dall’intervento diplomatico americano. Le diplomazie russa e americana entrarono in azione e imposero un cessate il fuoco e il ritiro delle truppe israeliane dai territori egiziani e siriani sui confini acquisiti nel 1967. Il conflitto causò 3.000 morti da parte israeliana, provocando una crisi all’interno della società israeliana; Golda Meir e Moshe Dayan furono screditati e Rabin salì al potere nel giugno 1974. Da parte araba le vittime furono 9.500.

La repressione israeliana colpì ancora una volta l’apparato di Fatah. In Egitto Sadat lanciò una violenta campagna antisovietica. La guerra del 1973 suonò la campana a morto per l’influenza dell’URSS nel mondo arabo.

Dopo aver perso la parità con l’oro nel 1971, il dollaro si riprese e fu istituito il sistema dei petrodollari. Il petrolio dei sauditi e degli emiri, venduto in dollari, divenne la nuova ancora di salvezza per l’economia statunitense.


In Libano, l’OLP viene eliminata e cresce l’Hezbollah sciita

Fin dalla sua indipendenza nel 1943 il Libano ha avuto un sistema confessionale: i cristiani (41% della popolazione) detengono la presidenza della Repubblica, i musulmani sunniti (27% della popolazione) la carica di Primo Ministro e i musulmani sciiti (27% della popolazione) la carica di Presidente dell’Assemblea. Tuttavia, a partire dagli anni Cinquanta, le borghesie musulmane si sono avvicinate all’Egitto e alla Siria, mentre i cristiani si sono legati all’Occidente e a Israele.

Il Libano aveva già accolto i rifugiati palestinesi nel 1948-49, ma a partire dal 1970 vide l’arrivo dei combattenti dell’OLP cacciati dalla Giordania. Le divisioni tra i partiti e i gruppi religiosi si accentuarono ulteriormente: i drusi, i musulmani e alcuni cristiani sostennero i palestinesi contro le forze libanesi e le milizie cristiane. Gli antagonismi tra le diverse borghesie erano alimentati dalla frustrazione, con la borghesia cristiana maronita che monopolizzava gran parte della ricchezza. Queste contrapposizioni portarono allo scoppio di una guerra civile. Iniziò nel 1975 (e durò fino al 1990) tra le fazioni cristiane e i palestinesi, che si erano organizzati militarmente.

Già nel 1974, Yasser Arafat aveva cercato di negoziare con Israele, ma fu messo alle strette da altri gruppi palestinesi come il FDLP di Georges Habache e l’altro gruppo dissidente, il FLP, che continuarono ad attaccare Israele. All’epoca, 450.000 rifugiati palestinesi, la maggior parte dei quali sunniti, vivevano in una quarantina di campi in Libano e l’azione dei Fedayeen sul confine israeliano turbava la “neutralità” della borghesia libanese, soprattutto dei cristiani maroniti, che erano disposti a negoziare con Israele.

Nel giugno 1976, sotto la copertura della Forza di Dissuasione Araba, composta da truppe provenienti da Arabia Saudita, Sudan, Libia, Yemen ed Emirati Arabi, la Siria, che fino a quel momento era stata favorevole ai nazionalisti palestinesi, cambiò bruscamente rotta e inviò truppe in Libano su richiesta dei partiti cristiani e con l’approvazione, se non l’incoraggiamento, del corpo diplomatico americano e israeliano e della Lega Araba, per non parlare dell’URSS, che fornì alla Siria ingenti aiuti materiali. Il sogno siriano di riconquistare la “Grande Siria” pareva avverarsi mentre l’esercito di Damasco interveniva in soccorso della borghesia internazionale, che l’avrebbe usata, ma solo fino a un certo punto.

Ancora una volta, tutte le borghesie si sono unite contro le masse palestinesi e arabe. Anche l’OLP le tradì, cercando di elemosinare promesse e uno Stato palestinese, promesse che, come era prevedibile, non sarebbero mai state mantenute. Nell’agosto 1976, nel campo di Tel al-Zaatar, alla periferia di Beirut, ci fu un massacro di rifugiati palestinesi da parte di fazioni cristiane, con la complicità dell’esercito siriano. Questo evento suscitò un’intensa emozione nella Striscia di Gaza. In ottobre, per ringraziare l’OLP della sua docilità, la Lega Araba le offrì un posto a pieno titolo nell’organizzazione. Con il lavoro sporco svolto dalle truppe siriane, l’Arabia Saudita, da cui Damasco dipendeva finanziariamente in quel momento, agì come intermediario per le potenze occidentali al fine di limitare la portata dell’occupazione siriana ed evitare che l’OLP fosse liquidata in modo troppo spettacolare. Il 21 ottobre entrò in vigore un cessate il fuoco, ma al prezzo di un ritiro dell’OLP nelle sue basi a sud, dove le milizie cristiane, con il sostegno dell’esercito israeliano, mantenevano delle roccheforti. La Siria manterrà il suo controllo sulle forze nazionaliste in Libano fino al 2005.

Gli accordi di Camp David del 1978 tra il presidente egiziano Sadat e il primo ministro Begin, con la mediazione del presidente americano Carter, portarono a una pace separata tra Egitto e Israele. Ma il riavvicinamento tra Egitto e Israele, seguito dalla presa di potere dei mullah sciiti in Iran nel 1979, avrebbe cambiato nuovamente la situazione. Siria, Libia e Yemen del Sud rimasero, insieme all’Iran, gli unici Paesi contrari ai negoziati con Israele. L’Iran, che si stava avvicinando all’URSS e alla Cina, cercava anche di estendere la propria influenza nella regione e sosteneva il regime di Bashar in Siria, Hezbollah in Libano e Hamas a Gaza (dal 1992). L’attrito tra i grandi blocchi imperialisti USA-Europa e Russia-Cina si manifestava sotto forma di conflitti sempre più acuti e ripetuti in Medio Oriente.

Nel 1978, Israele, ormai sicura sul confine con l’Egitto, invase il Libano meridionale, provocando la partenza dei palestinesi verso Saïda e Beirut; si ritirò ma mantenne una zona di sicurezza larga 10 km.

Gli attentati suicidi iniziarono in Libano nel 1981 con l’attacco all’ambasciata irachena (l’Iraq era allora impegnato nella guerra con l’Iran). Nel giugno 1982 Tsahal invase il Libano (Operazione "Pace in Galilea") in risposta al fuoco dell’OLP da Beirut. L’obiettivo di Tel Aviv era sbarazzarsi della presenza dell’OLP a Beirut e dei campi palestinesi nel sud del Libano, di ridurre l’influenza siriana (le truppe di Damasco erano in Libano dal 1976) e anche rafforzare il potere del maronita Gemayel, capo della principale milizia cristiana, che si era impegnato a firmare un trattato di pace con Israele. Israele si divideva il Paese con la Siria: l’esercito siriano teneva il Centro e il Nord del Paese e quello israeliano il Sud fino a Beirut. Nell’agosto 1982, gli 11.000 combattenti dell’OLP furono evacuati su navi della Marina francese e le forze siriane furono ritirate nella regione della Bekaa, a nord.

A settembre milizie cristiane sostenute dalle truppe israeliane allora presenti a Beirut, procedettero al massacro dei palestinesi nei campi di Sabra e Chatila, come rappresaglia per l’assassinio del maronita Gemayel il 14 settembre (i servizi segreti siriani vi avevano contribuito). Sempre a settembre, tre organizzazioni di sinistra (il Partito Comunista Libanese, l’Organizzazione per l’Azione Comunista in Libano e il Partito d’Azione Socialista Arabo) crearono il Fronte di Resistenza Nazionale Libanese, che lanciò una guerriglia contro Israele.

Come nel resto del Medio Oriente, il movimento islamista cominciava a prendere forma col sostegno del governo iraniano. La resistenza palestinese, insediata nei campi libanesi dal 1970, organizzava allora l’addestramento alla guerriglia di numerosi gruppi, tra cui quelli del futuro Hezbollah. L’Iran inviò in Libano le Guardie Rivoluzionarie. Gli attentati presero di mira su larga scala la presenza delle forze internazionali che erano arrivate a Beirut nel 1982 e si sarebbero ritirate nel 1984, seguite dalle truppe israeliane nel 1985.

Un movimento politico sciita emerse così in Libano, dove gli sciiti costituivano la popolazione più numerosa e povera nel Sud del Paese, una regione economicamente arretrata e luogo di rifugio per gli sciiti nel XVI e XVIII secolo durante le persecuzioni dei Mamelucchi. Questa regione montuosa si affaccia sulla Siria e controlla gran parte delle fonti idriche libanesi. È anche un’area strategica e il campo di battaglia tra la resistenza palestinese e Israele. Gli sciiti rappresentano il 27% della popolazione libanese, ma sono anche i più poveri. Ricacciati nel Sud, sono stati alleati della sinistra libanese e dei palestinesi. Hanno subito le rappresaglie israeliane insieme ai palestinesi. Inoltre la politica reazionaria dell’OLP e i suoi numerosi tradimenti hanno costituito un terreno fertile per l’islamismo sciita, ora in pieno sviluppo. Hezbollah ("Partito di Dio") è stato fondato nel giugno 1982 nel Sud del Libano con il sostegno dell’Iran di Khomeini e della Siria, come movimento politico sciita libanese per attività caritatevoli e un braccio armato, in reazione all’invasione israeliana e alla presenza di forze internazionali. Questa organizzazione divenne la punta contro Israele e la presenza occidentale. In Libano è subentrata ai nazionalisti palestinesi nella lotta contro Israele, come Hamas farà a Gaza. Nell’aprile 2005 la Siria ha ritirato le sue ultime truppe dal Libano, lasciandosi dietro un cane da guardia per controllare le masse, Hezbollah, finanziato dall’Iran e dal traffico di droga.


La progressiva annessione dei territori palestinesi da parte di Israele, la resistenza palestinese e la divisione del territorio palestinese tra Fatah e Hamas - 2006-14

Per il piccolo Stato ebraico, la guerra è diventata un mezzo di sopravvivenza economica e politica, che giustifica gli aiuti internazionali e permette all’industria degli armamenti di sperimentare tecnologie all’avanguardia, per non parlare dello sfruttamento economico dei territori annessi e della continua pressione sul proletariato d’Israele.

La borghesia israeliana non poteva aspettarsi che i palestinesi si lasciassero espropriare in questo modo senza opporre resistenza armata, per la maggior parte dei gruppi in una lotta nazionale, molto impari contro l’oppressore israeliano. Per tutte le potenze occidentali si trattava di esaurire questa resistenza, con l’aiuto di tutte le borghesie arabe, e utilizzare questa lotta sullo scacchiere delle forze dei principali imperialisti del Medio Oriente, come stavano facendo anche Iran, Arabia Saudita e Qatar. In ogni caso, le masse palestinesi non avrebbero trovato tregua.

Dal 1984 i Fratelli Musulmani si concentrarono sul problema palestinese e Yassin ricevette aiuti finanziari e armi dall’Iran e da alcuni Paesi arabi del Golfo. Yassin fu arrestato nel giugno di quell’anno dall’esercito israeliano dopo che furono trovate armi nella sua moschea. Altri gruppi armati, come la Jihad islamica palestinese e il FPLP, avevano contestato l’atteggiamento attendista di Yassin e la sua collaborazione con gli occupanti e continuarono la guerriglia nella Striscia di Gaza contro Israele. La Jihad Islamica Palestinese è nata negli anni ’70 in Egitto a seguito di una scissione dai Fratelli Musulmani, considerati troppo moderati. Si trattava di un gruppo armato che non era coinvolto in azioni sociali come Hamas e aveva forti legami con esponenti sciiti iraniani e con Damasco. Contestava la collaborazione della Mujamma con l’occupante israeliano e la repressione che questa esercitava su altri gruppi nazionalisti.

Nel 1987 nei territori occupati scoppiò la prima Intifada, soprannominata “la rivolta delle pietre” che durò fino al 1993. La situazione sanitaria nella Striscia di Gaza, sovrappopolata e poco attrezzata, era catastrofica. Nel maggio a Gaza scoppiarono incidenti tra membri della Jihad islamica e l’esercito israeliano in seguito all’assassinio di militanti jihadisti. Il 9 dicembre le manifestazioni a Gaza furono violentemente represse da Tsahal, innescando una serie di rivolte e scioperi da parte di lavoratori e negozianti in tutti i territori occupati. I prodotti israeliani furono boicottati e gli arabi israeliani dimostrarono il loro sostegno all’insurrezione.

Si trattò di un movimento spontaneo delle masse palestinesi, provocato dalle vessazioni dall’esercito israeliano e dall’oppressione economica, nonché dal crescente arrivo dei coloni (200.000 coloni in 120 insediamenti in Cisgiordania e 12 nella Striscia di Gaza). I manifestanti, molti dei quali erano donne e giovani, lanciavano pietre e poi bottiglie incendiarie fatte in casa contro i soldati israeliani. Ma furono anche intraprese azioni armate contro i coloni e i soldati israeliani e contro coloro che collaboravano con gli occupanti.

L’OLP e la Mujamma furono colte di sorpresa. Per organizzare la ribellione fu creato un comando nazionale unificato dal FDLP, da Fatah, dal FPLP e dal Partito Comunista Palestinese, che però subì molte divisioni. Yassin, contestato dalla popolazione per la sua passività, decise allora di passare all’azione. Creò un’organizzazione islamica di aperta resistenza all’occupazione, che chiedeva uno Stato palestinese: Hamas. L’obiettivo era quello di sostituirsi all’OLP, la cui dirigenza era ancora in esilio a Tunisi e che aveva rinunciato alla lotta armata, e di evitare che le masse palestinesi disperate seguissero gli altri gruppi armati in una rivolta generale. A partire dal secondo mese dell’Intifada, Hamas, con il sostegno finanziario e materiale dell’Iran, divenne uno dei protagonisti della ribellione, attaccando soldati e coloni e diventando attivo anche in Cisgiordania. Questa volta, la repressione israeliana colpì anche i militanti di Hamas.

Questa prima Intifada si esaurì alla fine dell’estate del 1988 a causa della repressione israeliana e delle numerose divisioni tra le organizzazioni, ma continuò con nuove violenze fino al 1993 (anno degli accordi di Oslo e della politica del fumo negli occhi). Nel 1990, Arafat commise l’errore di appoggiare l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq di Saddam Hussein, cosa che gli alienò i sostenitori arabi e giustificò il rallentamento dei colloqui di pace da parte di Israele. La prima intifada causò la morte di 1.392 palestinesi e 90 israeliani. La Giordania, temendo il contagio, interruppe i suoi legami amministrativi e legali con la Cisgiordania nel luglio 1988. Per quanto riguarda gli “amici” dei palestinesi, essi mantennero un profilo molto basso!

L’inizio degli anni ’90 fu segnato anche dalla prima guerra del Golfo e dalla vittoria delle forze americane. Una delegazione di Hamas guidata da Mousa Abu Marzouk iniziò i negoziati con Teheran, che fornì assistenza finanziaria e militare e le permise di aprire un ufficio a Teheran.

Yitzhab Rabin divenne Primo Ministro nel luglio 1992 con l’intento di riportare la calma tra i palestinesi e Israele. Questo ex falco laburista, ora noto come colomba israeliana, nel 1994 ricevette insieme ad Arafat il premio Nobel per la pace per i loro tentativi di riconciliazione. Nel 1993 erano stati firmati i primi accordi di Oslo tra Rabin e Arafat sotto l’egida della diplomazia americana, seguiti da quelli del 1995 che miravano al riconoscimento reciproco tra Israele e l’OLP, al ritorno in Palestina dei capi dell’OLP (cosa che non andava bene ad Hamas), alla creazione di un’entità governativa, l’Autorità Palestinese (AP) sulla Striscia di Gaza e la Cisgiordania, e a un calendario per l’evacuazione degli insediamenti. Le finanze di questo pseudo governo palestinese furono alimentate dagli aiuti stranieri, soprattutto americani. Yasser Arafat, che come al solito si era prestato a questa farsa, fu eletto Presidente nel 1994. I movimenti che non avevano approvato gli Accordi di Oslo si ritrovarono fuori dall’AP (FPLP, FDLP, PC, che divenne il Partito Popolare Palestinese PPP, e movimenti islamisti).

Gli accordi di Oslo permisero anche di dividere la Cisgiordania in diverse zone di controllo: la zona A sotto controllo palestinese esclusivo, il 18% del territorio, la zona B sotto controllo condiviso, il 21%, e la zona C sotto controllo israeliano esclusivo, il restnte 61% dove furono stabiliti gli insediamenti, ogni zona non corrispondendo a un territorio contiguo ma a un mosaico spezzettato. Arafat e il suo stato maggiore si insediarono a Ramallah con 100.000 funzionari rientrati dall’esilio, assumendo rapidamente i posti chiave e dell’amministrazione, con grande disappunto della popolazione palestinese. La “sicurezza” nella zona A fu affidata all’Autorità Palestinese, che vi spendeva il 30% del suo bilancio, quella nelle zone B e C a Israele. La “cooperazione” tra i due, con scambi di informazioni e operazioni congiunte, fu richiesta dai donatori internazionali. L’obiettivo era ovviamente combattere gli estremisti palestinesi (Hamas e altri), ma anche di sorvegliare la popolazione e prevenire rivolte, il tutto in nome della sicurezza del piccolo Stato ebraico. L’AP stava “subappaltando” l’occupazione israeliana!

Per altro la colonizzazione non rallentò, vennero costruite strade riservate ai coloni e ai soldati di Tsahal per raggiungere gli insediamenti; gli incidenti tra gruppi estremisti palestinesi e Tsahal continuarono. Nel 1995 scoppiò una guerra su larga scala tra l’OLP e Hamas, con la polizia palestinese agli ordini di Arafat che perseguitava gli islamisti a Gaza. Le due organizzazioni si sono poi riconciliate e Yassin chiederà dal carcere la creazione di un unico Stato palestinese.

Nel novembre 1995 un estremista ebreo (alcuni danno la colpa al servizio segreto israeliano Mossad) assassinò Yitzhab Rabin, che aveva promesso di riconciliarsi con i palestinesi e la Siria e di ritirarsi dalle alture del Golan. La borghesia israeliana cambiò registro, gettata la maschera ipocrita della riconciliazione ripudiò gli accordi di Oslo.

Gli attacchi suicidi rivendicati da Hamas ripresero nel febbraio 1996 e Arafat fece imprigionare più di mille militanti di Hamas e della Jihad islamica. Nel maggio andò al governo il partito di estrema destra Likud con Benyamin Netanyahu, che accelerò il processo di colonizzazione. Nel 1999, 180.000 coloni vivevano in Cisgiordania. Nell’ottobre Israele firma un trattato di pace con la Giordania. Nel settembre 1997 il capo di Hamas Khalid Mechaal, che viveva in Giordania dall’inizio degli anni ’90 (aveva lasciato il Kuwait dopo l’invasione dell’Iraq), fu oggetto di un attentato del Mossad che suscitò scandalo. Per ritorsione il re di Giordania costrinse Netanyahu a rilasciare lo sceicco Yassin, mentre Mechaal nel 1999 si rifugiò a Damasco.


La seconda Intifada

Le truppe israeliane si ritirarono dal Libano nel maggio 2000, ma quattro mesi dopo, nel settembre, scoppiò la seconda Intifada (2000-2004), innescata dalla visita di Ariel Sharon alla Spianata delle Moschee di Gerusalemme e dallo stallo del processo di Oslo. Era sempre più chiaro che Israele aveva bisogno di questa guerra (Sharon andrà al governo nel 2001), e le provocazioni e l’oppressione della popolazione palestinese servivano ad aggravare le tensioni. D’altra parte, il sistema clientelare organizzato dall’OLP andava solo a vantaggio di una classe dirigente palestinese, il che provocava un profondo risentimento tra la popolazione più disagiata.

Questa seconda rivolta fu segnata questa volta dall’islamizzazione della lotta e dall’aggravarsi della rivalità regionale tra Iran e Arabia Saudita, con i gruppi islamisti Hamas e Jihad Islamica sostenuti dall’Iran. La popolazione dei territori si stava infatti ribellando alla direzione dell’OLP e all’oppressione israeliana, mentre i partiti islamisti rappresentavano altri clan borghesi svantaggiati dal clientelismo di Arafat. All’interno della stessa OLP stava prendendo forma una rivolta interna, con alcuni gruppi armati di Fatah che volevano combattere la corruzione. Nonostante tutti gli sforzi di Yasser Arafat e dei suoi per fermare i combattimenti e gli arresti di centinaia di militanti di Hamas da parte della polizia palestinese, alla fine del 2001 le autorità israeliane rinchiusero a Ramallah il capo dell’Autorità Palestinese, Arafat.

Nell’aprile 2002 Tsahal lanciò la più grande offensiva militare dal 1982, l’operazione “Scudo Difensivo”, con ingenti forze di terra contro la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, in risposta a un attacco suicida che aveva ucciso 27 persone e ne aveva ferite 140 in Israele. Egitto e Giordania chiusero le frontiere, dimostrando ancora una volta la loro complicità con lo Stato ebraico. Ramallah e il quartier generale dell’OLP furono “ripuliti”, furono arrestati migliaia di palestinesi, tra cui membri di Fatah, Hamas, Jihad Islamica e FPLP; fu sequestrata una notevole quantità di armi e vennero causate enormi distruzioni; il campo di Jenin, in Cisgiordania, uno dei centri di Hamas e della Jihad islamica, fu preso d’assalto e cadde dopo otto giorni di feroci combattimenti, causando centinaia di vittime palestinesi.

Israele iniziò allora la costruzione di una “barriera di separazione” larga 50 metri (in alcuni punti 100) lunga oltre 730 chilometri (la linea di demarcazione è lunga 320 chilometri), penetrando in profondità nella Cisgiordania e includendo ampi insediamenti israeliani e le strade destinate esclusivamente agli israeliani. A Gerusalemme Est è un muro alto 8 metri con ampie deviazioni. L’UE, l’ONU e la Corte internazionale di giustizia ne hanno ovviamente condannato la costruzione, che ha trasformato la Cisgiordania in groviglio di “barriere”, zone di insediamento e strade off-limits per i palestinesi. Decine di posti di blocco militari israeliani completano l’arsenale di controllo sulla regione.

La seconda intifada continuò fino al 2004 e portò alla morte di 3.815 palestinesi e 1.092 israeliani a causa di attacchi suicidi contro i civili da parte degli islamisti. L’ondata di attacchi suicidi durante la seconda Intifada (2000-2004) portò alla chiusura definitiva dell’accesso in Israele per i lavoratori palestinesi, con il ricorso a manodopera immigrata proveniente dall’esterno della Palestina.

Nel marzo 2004 lo sceicco Yassin fu assassinato in un raid israeliano ordinato da Ariel Sharon. Gli successe dall’esilio Mechaal. Hamas sembrava allora l’unico difensore delle masse palestinesi, di fronte ai numerosi compromessi e alla corruzione e al clientelismo di Fatah e dell’OLP, e al deterioramento delle condizioni di vita dei palestinesi. L’OLP decise allora di tentare la via elettorale e di rispettare il cessate il fuoco iniziato nel febbraio 2005. Nel novembre 2004, dopo un mese di malattia che assomigliava molto a un avvelenamento, Yasser Arafat morì in un ospedale di Parigi. Mahmoud Abbas, membro di Fatah, assunse la guida dell’AP e continuò la linea del suo predecessore di “dialogo con il nemico”.

Nel 2005, i 21 insediamenti nella Striscia di Gaza e le installazioni militari di Tsahal e i 4 in Cisgiordania furono abbandonati e distrutti e gli 8.000 coloni che occupavano un terzo della Striscia di Gaza furono evacuati con la forza dall’esercito israeliano, un gesto a poco prezzo della ipocrita politica di “mano tesa” del governo Likud di Ariel Sharon (nel 2006 un ictus lo farà sparire dalla scena politica). Fu stabilita una zona cuscinetto “di sicurezza” al confine tra Gaza e Israele. Ma, nonostante il ritiro unilaterale, il territorio di Gaza è rimasto dipendente da Israele per l’elettricità, l’acqua, le acque reflue e le importazioni, con le esportazioni tassate. Il valico di frontiera di Rafah con l’Egitto è stato aperto solo a brevi intervalli e molti degli aiuti umanitari hanno avuto difficoltà ad entrare.

Nel maggio 2005 si tennero le elezioni municipali negli 84 comuni della Cisgiordania (le prime dal 1976) e della Striscia di Gaza (le prime dal 1956). Vi partecipava per la prima di Hamas, che ottenne una vistosa vittoria su Fatah, con il 56% dei voti contro il 33% e con la maggioranza in 50 comuni contro 28 a Fatah. Un membro del FPLP fu eletto a Ramallah grazie ai voti di Hamas. Nel gennaio 2006, nella Striscia di Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, furono tenute le elezioni legislative per l’Assemblea palestinese, fino ad allora largamente dominata da Fatah (Hamas aveva boicottato le elezioni nel 1996). Hamas vinse le elezioni legislative con 76 seggi contro i 45 di Fatah e i 3 del FPLP su 132 seggi. Questo costrinse il presidente Abbas nel febbraio 2006 a nominare primo ministro uno dei capi di Hamas, Ismaël Haniyeh, che a dicembre si recò a Teheran per ottenere ulteriori aiuti. Il successo di Hamas era un chiaro segnale per Fatah della perdita di fiducia dei palestinesi nel suo governo e nella gestione dei territori. Le accuse occidentali sull’uso dei fondi trasferiti all’AP non poterono che aggravare questa sfiducia. Questo cambio di governo fu preso a pretesto da Israele per cessare di pagare i dazi doganali sui prodotti destinati alla Cisgiordania e a Gaza e impedì che fossero ricevuti aiuti dall’Unione Europea.

Ma presto si verificarono scontri interni all’AP, con una campagna di Fatah di ostruzione sistematica dell’azione di Hamas. Si ebbero scontri tra le forze di sicurezza palestinesi di Fatah e quelle di Hamas. La guerra fratricida tra le due organizzazioni, combattuta nella Striscia e in Cisgiordania, a partire dal giugno 2007 portò all’esclusione di Fatah dalla Striscia di Gaza e di Hamas dalla Cisgiordania. Il territorio palestinese fu così diviso de facto in due regioni, la Striscia di Gaza amministrata da Hamas e la Cisgiordania da Fatah e dall’Autorità Palestinese, quest’ultima beneficiaria di aiuti finanziari europei e americani.

Da quando Hamas è salito al potere a Gaza, le potenze occidentali, Israele e l’Egitto di Mubarak hanno imposto un rigido blocco economico sulla Striscia. I donatori internazionali smisero di effettuare trasferimenti finanziari alle autorità di Gaza, considerate “terroriste”, le quali non furono più in grado di pagare i loro dipendenti pubblici (uno ogni 3 gazesi). L’Iran aumentò allora gli aiuti finanziari ad Hamas e lo ha rifornito di armi, che passavano attraverso l’Egitto e il Sudan. Anche i beduini del Sinai contrabbandavano armi nella Striscia.

Di fronte a questa politica di assedio, la disperazione delle masse palestinesi non poteva che aumentare e gli attacchi dei gruppi di resistenza e gli attentati terroristici continuarono. Israele poteva così giustificare irrigidire la sua “messa in sicurezza” del territorio israeliano.

Nel dicembre 2008 e nel gennaio 2009 fu lanciata l’ennesima operazione militare, “Piombo Fuso”, guidata, poco prima delle elezioni israeliane, dal ministro della Difesa, laburista, Ehmud Barak. Gaza, un’area sovrappopolata e chiusa, era una facile preda e il bilancio fu terribile, con 1.400 palestinesi uccisi. Hamas cambiò strategia e ordinò agli altri gruppi armati, tra cui la Jihad Islamica e il FPLP, di smettere di lanciare razzi verso Israele, a meno che non fossero per primi presi di mira, istituendo una forza di polizia locale al confine. La risposta di Tel Aviv è stata sempre la stessa: Hamas era ritenuta responsabile della Striscia dalla quale doveva impedire il lancio di razzi, proprio come faceva l’OLP in Cisgiordania. Di fatto Hamas lasciava che la Jihad, una piccola organizzazione solidamente armata dall’Iran ma che rifiutava qualsiasi attività politica, si assumesse la responsabilità della lotta armata contro Israele. Questa situazione ricorda la contrapposizione tra Fatah e Hamas alla fine degli anni ’90, quando l’OLP, dopo aver rinunciato alla lotta armata, cedette il passo ad Hamas fino alla vittoria di quest’ultimo alle elezioni del 2006.

Nel maggio 2010 l’esercito israeliano abbordò una flottiglia di attivisti filopalestinesi che tentavano di rompere il blocco della Striscia uccidendone 9 e ferendone altri 28.

La guerra civile iniziata in Siria nel 2011 avrebbe cambiato nuovamente la situazione. L’Iran – dietro cui brigavano gli imperialisti russi e cinesi e con cui gli Stati Uniti avevano avviato negoziati per convincere i mullah sciiti a passare dalla loro parte – stava ora affermando la propria influenza sul Medio Oriente attraverso il governo sciita iracheno, la Siria di Bashar, gli Hezbollah sciiti libanesi, Hamas e la Jihad Islamica sunnita di Gaza, con grande disappunto dell’Arabia Saudita. Sperando di approfittare dell’arrivo dei Fratelli Musulmani al potere in Egitto con Morsi, ostile alla Siria di Bashar (quest’ultima reprimeva da anni i Fratelli Musulmani siriani), Hamas decise di sostenere la ribellione islamista siriana contro Bashar, tagliandosi così fuori dall’alleato iraniano. All’inizio del 2012 Mechaal lasciò Damasco per il Qatar che, insieme alla Turchia dell’islamista Erdogan, era diventato il grande alleato di Hamas e del governo Morsi.

Il 27 aprile 2011 Fatah e Hamas conclusero un accordo di riconciliazione in vista delle elezioni politiche, ma mentre Mechaal dall’esilio sostenne questo riavvicinamento, la maggior parte degli altri dirigenti di Hamas a Gaza respinsero la candidatura di Abbas a primo ministro. Infatti, dopo essere stato molto radicale, Mechaal si era schierato per uno Stato palestinese accanto a Israele. Questa tendenza prevalse all’interno di Hamas, con la rielezione di Mechaal a capo dell’organizzazione nell’aprile 2013, divenendo il principale artefice di un allontanamento dall’Iran sciita e di un riavvicinamento al Qatar sunnita e all’Egitto. Hamas sembrava pronto a rinunciare alla lotta armata e a riconoscere lo Stato di Israele, opponendosi così agli altri gruppi armati, la Jihad Islamica e l’FPL, sostenuti da Bashar e dall’Iran.

A partire dal gennaio 2012 una successione di attacchi e rappresaglie aveva opposto l’esercito israeliano ad Hamas, alla Jihad Islamica e ai Comitati di Resistenza Popolare (guidati da ex membri di Hamas e Fatah). Il 10 marzo la violenza raggiunse l’intensità della guerra di Gaza del 2008-2009. Il 13 marzo fu stata annunciata una tregua dopo 25 palestinesi uccisi, tra cui 14 militanti della Jihad Islamica. In aprile e in maggio furono lanciati altri razzi da Gaza. Il 17 e 18 giugno quattro membri del movimento radicale della Jihad Islamica (finanziato dall’Iran) furono uccisi in raid israeliani mirati. Incidenti, sparatorie e rappresaglie continuarono per tutto giugno e luglio.

Nell’agosto 2012 l’aviazione israeliana effettuò raid contro i campi di addestramento di Hamas nella Striscia in risposta al continuo lancio di razzi sul Sud di Israele, con le città protette da batterie antimissile o “Iron Dome”. Il 5 agosto, a seguito di un attacco a un posto di frontiera da parte di militanti islamisti, l’Egitto chiuse il varco di Rafah, al confine con la Striscia, l’unico accesso all’enclave non controllato da Israele. Gli incidenti sono continuati a settembre e ottobre. Nel novembre si ebbe la operazione “Pilastro di Difesa”, un’offensiva dell’esercito israeliano nella Striscia che causò la morte di 6 israeliani e 160 palestinesi. Le due parti hanno firmato una tregua. Sharon era in coma, Netanyahu era tornato al governo e il capo dell’Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas, stava cercando di convincere la comunità internazionale a fare della Palestina uno “Stato osservatore” delle Nazioni Unite.

Nel febbraio 2013, i dirigenti di Hamas a Gaza accusarono l’esercito egiziano di aver allagato con acque reflue decine di tunnel usati per il contrabbando dall’Egitto, dove le masse, con il sostegno dell’esercito, si stavano sollevando contro i Fratelli Musulmani. Hamas si trovò indebolito, con la chiusura della Striscia e la perdita dei milioni di dollari che guadagnava ogni mese dal contrabbando. Il 17 giugno, durante una visita del primo ministro Haniyeh e di Mechaal al Cairo (all’epoca Morsi era ancora presidente dell’Egitto), i manifestanti intonavano slogan anti-Hamas. Il 3 luglio Mohamed Morsi fu rovesciato da un colpo di Stato organizzato dall’esercito a seguito di un vasto movimento di protesta popolare. I Fratelli Musulmani erano ora perseguitati e Hamas aveva perso uno dei suoi principali alleati. Gli Stati Uniti guadagnarono punti con l’allineamento del governo militare egiziano alla lotta contro Hamas, mentre le vittorie dello Stato Islamico contro le posizioni degli sciiti iracheni e del governo di Damasco furono poco apprezzate dai mullah iraniani. Nel marzo 2014 Hamas, con l’intermediazione del Qatar, ristabilì i legami con l’Iran e in aprile si delineò una riconciliazione con Fatah con la promessa di formare un governo di unità nazionale: a giugno, col patrocinio del Presidente Abbas, iniziò la preparazione delle elezioni presidenziali e legislative, da tenersi entro 6 mesi, ponendo fine a 7 anni di dissensi tra le due fazioni rivali. Ciò scontentò Israele e Benyamin Netanyahu, che decise che avrebbe boicottato il nuovo governo.

All’inizio di marzo 2014, in ritorsione per la morte a gennaio e all’inizio di marzo di loro combattenti, uccisi dagli israeliani nella Striscia, la Jihad Islamica rivendicò il lancio di decine di razzi contro Israele: rompendo la tregua del novembre 2012 Tsahal rispose con raid aerei.

Il 12 giugno, tre adolescenti israeliani furono rapiti (i loro corpi furono ritrovati il 30); Hamas negò di essere responsabile. Il 15 giugno Tsahal arrestò in Cisgiordania centinaia di militanti e dirigenti di Hamas e della Jihad Islamica. L’esercito isolò la città di Hebron alla ricerca dei tre scomparsi. L’Autorità Palestinese collaborò con Tsahal arrestando decine di membri di Hamas. Il 20 giugno Hamas, criticando Abbas per la sua cooperazione con gli israeliani, riprese a lanciare razzi. Risposero i raid israeliani.

L’operazione “Barriera Protettiva” con il pretesto dell’uccisione dei 3 israeliani (il caso non è mai stato chiarito) iniziò l’8 luglio con l’obiettivo dichiarato di distruggere i tunnel che permettono ad Hamas e alla Jihad Islamica di rifornirsi di armi dall’esterno o di infiltrare commando in territorio israeliano. Questa operazione, la quarta contro Hamas dal 2006, sarebbe durata 50 giorni. La battaglia era chiaramente impari, con i razzi palestinesi abbattuti da sofisticate difese antimissile e con le forze d’attacco israeliane nettamente superiori alle palestinesi. A raid aerei e bombardamenti mortali seguì il 18 luglio un’offensiva di terra con le vittime palestinesi che aumentavano di giorno in giorno. Un massacro frettamente riportato ogni giorno dalla stampa internazionale. Il 26 agosto fu infine concordato un cessate il fuoco in cambio della promessa di una parziale revoca dell’embargo. Il conflitto “punitivo” fece più di 2.000 vittime palestinesi, per lo più civili, e più di 10.000 feriti, senza contare gli ingenti danni. Questa volta l’IDF accusò l’uccisione di 64 soldati.

Come per ogni intervento israeliano contro i palestinesi, i media e tutti i servizi diplomatici occidentali si adeguarono alla narrazione israeliana secondo cui ne erano responsabili i palestinesi. Nessuna delle maggiori potenze provò a trattenere il pugno di ferro del Golia statale israeliano sul Davide dei proletari palestinesi. Russia e Cina, per non parlare di Qatar, Turchia e Iran, rimasero in silenzio. Ovviamente, alla conferenza internazionale del Cairo dell’ottobre 2014, molti furono i “donatori”, con il Qatar il più generoso, per la “ricostruzione” della Striscia. Restò però il martirio, ormai permanente e accettato, della popolazione palestinese.

Questo conferma ancora una volta l’allineamento delle borghesie internazionali con Tel Aviv e il suo protettore americano, e il fatto di essere tutti uniti contro il proletariato palestinese. Anche Putin ha ottime relazioni con Israele e la Cina sta per superare l’Europa nel volume di investimenti nell’alta tecnologia israeliana. L’Autorità Palestinese durante il conflitto aveva soffocato ogni protesta in Cisgiordania.


L’insediamento di coloni israeliani nei territori annessi nel 1967

Molto rapidamente, l’occupazione militare israeliana del 1967 è stata accompagnata dalla creazione di insediamenti (“illegali” secondo le Convenzioni di Ginevra), un movimento che ha subìto un’accelerazione nel 1974 (il Likud è andato al governo con Ariel Sharon, diventato nel 1977 ministro dell’Agricoltura nel governo di Begin) e nel 2000 (durante i colloqui di Camp David tra il presidente statunitense Clinton, il presidente laburista israeliano Ehud Barak e Yasser Arafat). L’obiettivo di questi insediamenti era dividere i territori occupati e impiantare delle roccheforti, “protette” da una presenza militare (come gli insediamenti di kibbutzim ai confini dal 1948, destinati a sorveglianza e difesa). In Cisgiordania furono costruiti lungo il confine giordano in punti strategici.

La borghesia israeliana si è rapidamente avvalsa della grande riserva di manodopera a basso costo fornita dalle masse di rifugiati che vivevano nei campi dal 1948, più i rifugiati del 1967 e i contadini espropriati dai nuovi insediamenti, sfruttandola sul posto negli insediamenti o all’interno di Israele. L’occupazione militare ha impedito qualsiasi sviluppo economico dei palestinesi nelle regioni annesse. In Israele i settori dell’edilizia e dell’agricoltura ne traevano grandi vantaggi. I salari erano bassi di chi viveva a Gaza e in Cisgiordania, dove il tenore di vita era inferiore.

Alla fine del 1987 lo scoppio della prima Intifada ha segnato la fine di questo mercato della manodopera: la chiusura dei territori ha impedito ai palestinesi di entrare in Israele, costringendo gli imprenditori israeliani a trovare altrove la forza lavoro. L’immigrazione dell’ex URSS di lavoratori ebrei, o spacciatisi per tali, spesso troppo qualificati, non corrispondeva alla domanda. A partire dal 1991 sono stati rilasciati permessi a lavoratori provenienti soprattutto da Romania e Thailandia, che questa volta non sono stati etichettati come “ebrei”, e non hanno ricevuto i diritti civili.

Nel 1995, anno segnato dall’assassinio di Rabin e dal fallimento del processo di Oslo, il numero di lavoratori stranieri ha superato quello dei palestinesi provenienti da Gaza e Cisgiordania. Nel 2005 gli stranieri hanno superato i palestinesi di sei a uno. Israele, insieme a Spagna, Italia e Grecia, è divenuto un Paese di immigrazione verso il quale converge un flusso di lavoratori in fuga da condizioni miserevoli o disastrose. Africani (nigeriani, ghanesi) e sudamericani (colombiani e peruviani) sono stati assunti per lavori di servizio. Ma in condizioni illegali e senza riconoscimento di alcun diritto. Il caporalato ha organizzato reti altamente lucrative nel traffico degli immigrati. La percentuale degli stranieri nella popolazione attiva è molto alta, del 10% nel 2004, il 70% dei quali ha un permesso di lavoro.

La colonizzazione e l’annessione non serve a integrare la popolazione palestinese in loco, ma a farla “sparire”, costringendola alla fuga o massacrandola. Basti pensare ai contadini irlandesi del XIX secolo, espropriati, espulsi a mano armata, affamati, costretti a emigrare o a morire, per il bene dei proprietari terrieri inglesi che volevano trasformare l’Irlanda in pascoli per la produzione di carne.

Occorre descrivere quanto accaduto nei territori annessi nel 1967, prima di analizzare la strategia di Israele in relazione a quella del suo “protettore” americano.


Il deserto del Sinai

Il Sinai, abitato principalmente da beduini e con una superficie di 60.000 km², è una zona desertica, ma ospita grandi palmeti, montagne e una popolazione di 400.000 abitanti. Dopo la guerra dello Yom Kippur del 1973 le relazioni tra Israele ed Egitto migliorarono. La regione è stata restituita all’Egitto nel 1979 e gli insediamenti sono stati distrutti nell’ambito del trattato di pace israelo-egiziano. Come parte dell’accordo, tuttavia, la città di Rafah, al confine con la Striscia di Gaza, fu divisa in due, il che portò alla costruzione dei primi tunnel tra le due aree per consentire alle famiglie palestinesi separate di comunicare. Questi tunnel sono stati poi utilizzati per ogni tipo di contrabbando: benzina, sigarette, droga, alimenti, persone, animali, materiali di ogni genere, e infine armi. Con la prima Intifada nel 1987 e la seconda nel 2000, poi l’arrivo di Hamas al potere a Gaza nel 2007, seguito dal blocco di Gaza da parte di Israele e dell’Egitto, i traffici tra il Sinai e Gaza si sono intensificati e i tunnel si sono moltiplicati. Nel 2008 si stimava che ci fossero tra i 400 e i 1.000 tunnel nell’area di Rafah. La costruzione di tunnel di cemento, che si è sviluppata anche al confine con Israele, è diventata una vera industria organizzata dai leader di Hamas, che richiede materiali, denaro e manodopera.

Il Sinai è diventato una regione molto povera con la sua parte settentrionale terra di nessuno dove si sono accampati gruppi islamisti e bande armate di beduini o palestinesi, sorvegliando i tunnel e terrorizzando la popolazione. Oggi vi si svolgono traffici di ogni tipo (droga, migranti africani diretti in Israele, alcuni dei quali vengono trovati morti, anche a causa del traffico di organi) e soprattutto di armi, che raggiungono Gaza attraverso la rete di tunnel. Hamas approfitta di questo traffico imponendo tasse sulle merci. Nel luglio 2013, dopo la destituzione del presidente Morsi, il governo egiziano ha cercato di riprendere il controllo inviando l’esercito, ma la situazione è rimasta molto fragile. Il 24 ottobre 2014, un attentatore suicida ha ucciso 30 soldati egiziani. È stato dichiarato lo stato di emergenza a Rafah e il valico è stato chiuso. Il 29 l’Egitto del generale al Sissi ha istituito una zona cuscinetto al confine di 10 chilometri di lunghezza per 500 metri di larghezza distruggendo 800 case e sfrattando le famiglie egiziane. L’obiettivo non è combattere i Fratelli Musulmani o Hamas, ma colludere con il governo israeliano per isolare e confinare la popolazione di Gaza.


La striscia di Gaza

La Striscia è un piccolo territorio nel Sud di Israele. Ha un confine di 51 chilometri con Israele, 11 con l’Egitto e 40 di costa. Comprende diverse città, tra cui Gaza a nord e Rafah a sud, al confine con l’Egitto. Nei secoli è stata ricca di vegetazione e con una agricoltura diversificata grazie a una generosa falda acquifera e a un clima mite. La valle di Gaza, che sfocia nel mare a sud dell’attuale città, era un’oasi costiera. Nel corso della storia il controllo di Gaza divenne cruciale nella rivalità tra le potenze che si insediarono nella Valle del Nilo e in Medio Oriente, testa di ponte essenziale per qualsiasi invasione del Levante attraverso il Sinai. Gaza si è trovata al centro del pendolo fra un impero e l’altro. Oggi, zona strategica per l’esercito israeliano, non è altro che un campo di rovine dove cerca di sopravvivere una popolazione regolarmente martirizzata, con poche possibilità di fuga.

Nel 1977 la Striscia ospitava solo quattro insediamenti ebraici con pochi abitanti e un ruolo militare, mentre la Cisgiordania, le Alture del Golan e il Sinai ospitavano già rispettivamente 48 (4.400 coloni), 25 e 12 insediamenti. Dal 1967, l’economia gazaui, tradizionalmente agricola, è diventata totalmente dipendente dal mercato israeliano. Nel 2000 è stato scoperto un giacimento di gas naturale al largo delle coste di Gaza, ma gli israeliani si oppongono a qualsiasi sfruttamento da parte dei gazaui, con il pretesto che potrebbe finanziare un movimento terroristico come Hamas.

Quindi, nonostante il ritiro delle truppe israeliane nel 2005, nel territorio la vita dei palestinesi di Gaza è decisa dai loro carcerieri. La popolazione è passata dai 350.000 abitanti del 1970 agli 1,8 milioni del 2014. Il 35% delle terre coltivabili e l’85% delle acque per la pesca sono parzialmente o totalmente inaccessibili ai gazaui a causa delle restrizioni imposte da Israele. Dal 1967 la Striscia è stata rifornita di elettricità dallo Stato ebraico utilizzando infrastrutture israeliane (nel 2004 è stata inaugurata una centrale elettrica a Gaza, ma è stata distrutta nell’estate del 2014, e dal 2008 l’Egitto, diventato alleato dichiarato dell’imperialismo americano, e quindi di Israele, ha accettato di fornire a Gaza il 24% dell’elettricità).

Il 30 luglio 2014, durante il conflitto tra Tsahal e i combattenti della resistenza palestinese, Israele ha costretto decine di migliaia di persone nella Striscia di Gaza a lasciare le loro case e la zona cuscinetto è stata estesa a 3 km di larghezza, inghiottendo il 44% del territorio di Gaza! Ricordiamo che la Striscia di Gaza è lunga solo 40 chilometri e larga poco più di 10. Questa drastica riduzione dei terreni agricoli priva i gazaui di un’importante fonte di prodotti alimentari, essenziali da quando Israele ed Egitto nel giugno 2007 hanno imposto il blocco, quando Hamas è andato al governo. Gaza ufficialmente riceve i suoi rifornimenti di benzina, sigarette, generi alimentari, ecc. solo da Israele attraverso il kibbutz Kerem Shalom, e il varco per le persone è Erez. L’altro accesso è Rafah. La zona marittima nel 2009 è stata ridotta a 5,5 chilometri ed è pattugliata da navi israeliane. La Striscia di Gaza è tagliata fuori dal resto del mondo!


La Cisgiordania

La Cisgiordania è un territorio più grande e una maggiore fonte di profitti per l’economia israeliana. Si estende su una superficie di 5.502 km², di cui prima del 1967 il 50% era dedicato all’agricoltura. Nel 1981, 203.000 ettari, pari al 37% della Cisgiordania, erano stati confiscati dagli israeliani e consegnati ai coloni. Nel 2008, c’erano 300.000 coloni in Cisgiordania e 184.700 a Gerusalemme Est, a fronte di 7,5 milioni di abitanti in Israele e 2,3 milioni di palestinesi in Cisgiordania.

Lungo la demarcazione con Israele (la “linea verde”) è stata istituita una zona cuscinetto larga 50 metri nel 1995, 150 metri nel 2000 e 300 metri nel 2009 (o addirittura 2 chilometri a nord), con la distruzione di case e frutteti o un accesso limitato ai terreni per gli agricoltori. È iniziata la costruzione di un muro di separazione in Cisgiordania, dove si continua a costruire nuovi insediamenti.

L’acqua nella regione è gestita dalla compagnia idrica nazionale israeliana Mekorot che controlla tutte le sorgenti della Cisgiordania. Un terzo dell’acqua consumata da Israele proviene dal lago di Tiberiade e l’effluente Giordano è praticamente a secco. Mekorot fornisce il 50% dell’acqua consumata dai palestinesi. Nei mesi estivi i coloni sono riforniti dalla rete pubblica, mentre i palestinesi raccolgono l’acqua piovana in cisterne.

La produzione di olive, vitale nell’agricoltura e nell’economia palestinese, fornisce il 25% del reddito agricolo nei Territori Occupati; ma in Cisgiordania le olive sono coltivate senza irrigazione, rendendole vulnerabili alla siccità.

Secondo geologi palestinesi il sottosuolo della Cisgiordania contiene giacimenti di petrolio. Le torri di trivellazione israeliane si trovano a soli cento metri dal confine. Nel giugno 2014, Tel Aviv avvertì Mahmoud Abbas che era fuori questione che i palestinesi potessero trivellare. Per Israele i territori occupati costituiscono un mercato per la vendita di energia; i palestinesi acquistano elettricità da Israele per 750 milioni di dollari all’anno.

I palestinesi sono una fonte di manodopera a basso costo e senza diritti sociali per la costruzione degli insediamenti e nelle cave. I coloni coltivano palme da dattero, viti e banane utilizzando manodopera palestinese a basso costo. Nella valle del Giordano, scarsamente popolata con 50.000 palestinesi e 11.000 coloni, le piantagioni di palme da dattero e di frutta e verdura impiegano 6.000 palestinesi con un salario di 2,20 euro l’ora.

Le autorità israeliane vietano ai palestinesi di costruire nuove case, costringendoli a stiparsi nelle esistenti.

Nel luglio 2010 un rapporto di B’Tselem (una ONG israeliana) ha rivelato che 500.000 coloni occupavano il 42% della Cisgiordania in 121 insediamenti ufficiali, oltre a centinaia di insediamenti “illegali”, noti degli avamposti, e ai 12 sobborghi di Gerusalemme Est. Nel 2014, il numero di coloni in Cisgiordania è passato da 374.469 a gennaio a 382.031 a giugno, con un aumento di 7.500 unità in sei mesi. Alla fine di agosto 2014, dopo l’ultimo conflitto, è stato concordato un cessate il fuoco con la promessa di una revoca del blocco economico su Gaza, ma Israele ha deciso di occupare 400 ettari nei pressi di Betlemme in Cisgiordania, il più grande degli ultimi 30 anni.


Le alture del Golan

Le alture siriane del Golan, una regione agricola molto fertile, si affacciano sul lago Tiberiade e sulla Galilea orientale. Sono una sorgente d’acqua strategica da cui provengono alcuni affluenti del lago di Tiberiade, il principale bacino d’acqua dolce di Israele. Fu proprio una disputa tra Israele e Siria sulla gestione di questi fiumi a portare alla guerra del 1967.

Il Golan è stato conquistato nel 1967 per una superficie di 1.154 km² (510 km² erano restate alla Siria). Una postazione militare israeliana è situata sulle alture, a 60 km da Damasco. È separata dalla Siria da una zona smilitarizzata, monitorata dalle Nazioni Unite dal 1974. L’esercito israeliano ha quindi un posto in prima fila per monitorare l’attuale guerra civile siriana, in cui i combattimenti tra i soldati del gruppo jihadista Al-Nosra e i soldati di Bashar si sono intensificati negli ultimi mesi, costringendo le forze dell’ONU a lasciare le loro posizioni.

Nel 1981 Israele ha ufficialmente annesso l’altopiano, nonostante le consuete proteste internazionali. Nel 2012, 20.000 israeliani vivevano in 33 insediamenti (tra cui 13 kibbutzim, 5 villaggi religiosi e 16 moshavim) su questa terra, soprannominata “il Texas di Israele” per le sue fattorie e ranch di stalloni. Gli insediamenti agricoli convivono con la piccola comunità di drusi siriani che hanno il permesso di rimanere. Vi sono stati costruiti impianti israeliani per la produzione di gas, petrolio ed energia eolica.

 
Nello scacchiere mondiale del capitalismo

Lo Stato di Israele è nato dalla deportazione di centinaia di migliaia di palestinesi nel 1948, una violenza che si è perpetuata da allora. Questo processo è all’origine di un movimento di resistenza che il popolo palestinese, accecato dalle crescenti sofferenze e disperato, abbandonate da ogni parte nonostante le dichiarazioni di solidarietà, esasperato dalla complice inerzia della diplomazia internazionale, si riconosce ancora in organizzazioni borghesi come l’OLP o Hamas.

La borghesia israeliana incoraggia questa resistenza attraverso le sue provocazioni aggressive, il continuo progredire della colonizzazione e le sue manovre con i movimenti borghesi palestinesi. Tra i quali dal 1987 il suo “nemico numero Uno” sarebbe Hamas, nato dalla Fratellanza sunnita dei Fratelli Musulmani, alimentato alla sua nascita dall’Iran dei Mullah sciiti e oggi dal Qatar, e che Israele ha a lungo favorito nella sua lotta contro l’OLP di Yasser Arafat.

Ogni volta che una organizzazione palestinese si trova compromessa nei negoziati con Israele, come lo fu presto l’OLP, emerge un’organizzazione più radicale, come Hamas nel 1987. A sua volta nel 2008 questa sembrava pronta a negoziare e a organizzare la repressione nelle file dei gruppi armati palestinesi, mentre la Jihad Islamica palestinese e altri gruppi di resistenza continuavano la lotta armata contro Israele.

Va ricordato anche lo storico sostegno di Washington ai Fratelli Musulmani, il miglior antidoto ai sindacati e ai partiti nazionalisti, e sempre fautori di una politica economica molto liberale, favorevole alle potenze occidentali.

Ma per la diplomazia statunitense questo non significa trascurare il sostegno all’Arabia Saudita, a cui gli USA sono legati da sempre. Questo sostegno all’Arabia Saudita risale alla firma del Patto di Quincy tra il presidente Roosevelt e il re Ibn Saud, il 13 febbraio 1945, in cambio di protezione militare e politica per la famiglia Saud, rinnovato nel 2005 sotto il presidente Bush per altri 60 anni. La stabilità dell’Arabia Saudita è uno degli “interessi vitali” degli Stati Uniti.


La strategia statunitense di “instabilità costruttiva”

Oggi i principali Stati imperialisti, pur alleandosi non appena si tratta di combattere la classe operaia, in un sempre mutevole equilibrio di potere, sono in lotta per il mercato mondiale e per alimentare lo sviluppo economico, finanziario e militare di ciascuno di essi. Gli Stati Uniti sono ancora la prima potenza economica mondiale ma resistono al montare esplosivo della Cina. La strategia americana, sostenuta dall’alleato europeo, cercando di sottrarre a Mosca l’Ucraina, sta spingendo la Russia a volgersi verso l’Asia. Questa tattica sta in effetti spingendo la Russia tra le braccia della Cina.

Dopo il primo shock petrolifero del 1971 (che comportò un fortissimo aumento del prezzo del petrolio, spesso associato all’embargo OPEC del 1973 come rappresaglia per la guerra dello Yom Kippur del 1973) e l’inizio della crisi economica mondiale nel 1974-75, fu teorizzato dal britannico Bernard Lewis, consulente del Dipartimento di Stato americano dal 1977 al 1981, il principio della “Mezzaluna di crisi”. L’obiettivo era contenere l’espansione dell’URSS, destabilizzando l’Iran e l’Iraq per minare la politica petrolifera dell’OPEC. La formazione di una serie di Paesi islamici (una "cintura verde") a sud dell’URSS, dalla Turchia all’Afghanistan, aveva lo scopo di dar vita a mini-Stati petroliferi più facili da controllare rispetto ai grandi come l’Iran e l’Iraq. Inoltre queste forze islamiche conservatrici erano già state utilizzate per decenni per emarginare e combattere i partiti nazionalisti di sinistra e laici nel Maghreb, in Medio Oriente e in Iran.

La strategia degli Archi di Crisi (una di queste zone geopolitiche si estendeva dall’Egitto al Pakistan) è stata applicata in Afghanistan, dove la CIA fornì aiuti materiali e finanziari per l’emergere dell’opposizione talebana.

In questa strategia di contrasto al rivale russo, gli Stati Uniti si sono appoggiati all’Arabia Saudita e al Pakistan, che ancora oggi sono una base per il terrorismo islamista. Questa strategia “islamista” doveva portare a una balcanizzazione del Medio Oriente. La ripresa dei negoziati con i mullah iraniani è stata una tappa fondamentale per la realizzazione del piano. Il mondo sta scivolando verso est, verso la Cina, e bisogna creare un fronte potente contro di essa.

Nel 1982, pochi mesi dopo la prima guerra israelo-libanese, presentata dai media come un fallimento israeliano, Oded Yinon, funzionario del Ministero degli Affari Esteri israeliano, riprese questo principio dell’“arco di crisi” in un articolo intitolato “Strategia per Israele negli anni ’80”. Come preambolo, Yinon scriveva: «Il mondo arabo islamico non è altro che un castello di carte costruito da potenze straniere – Francia e Gran Bretagna negli anni Venti – in barba alle aspirazioni dei nativi. La regione è stata arbitrariamente divisa in diciannove Stati, tutti composti da diversi gruppi etnici e minoranze ostili tra loro, con il risultato che ognuno degli odierni Stati arabi islamici è minacciato dall’interno da lotte etniche e sociali, e in alcuni di essi la guerra civile è già in corso».

Basandosi principalmente su una bibliografia americana e citando ampiamente Bernard Lewis e Samuel Huntington, l’articolo passa in rassegna questi diciannove Stati arabi, elencando i loro principali fattori centrifughi, che ne preannunciano la disintegrazione: «tale è la triste situazione di fatto, il travagliato stato di cose nei Paesi che circondano Israele (...) La disgregazione del Libano in cinque province prefigura il destino che attende l’intero mondo arabo, compresi Egitto, Siria, Iraq e l’intera penisola araba. In Libano è già un fatto compiuto (...) La Siria sarà divisa in diversi Stati, a seconda delle comunità etniche, così che la costa diventerà uno Stato sciita alawita; la regione di Aleppo, uno Stato sunnita; a Damasco, nascerà un altro Stato sunnita ostile al suo vicino settentrionale; i drusi formeranno un loro Stato, che si estenderà forse sulle nostre alture del Golan e comunque nell’Hauran e nel nord della Giordania». La sua profezia non è lontana dall’avverarsi.

Con la perdita dell’alleato iraniano nel 1979, la strategia americana dei “due pilastri”, basata sull’alleanza con l’Arabia Saudita e l’Iran, fu messa in discussione. I sovietici tentarono una svolta in Afghanistan nel 1979, ma rimasero impantanati nella guerra contro i Talebani, la cui organizzazione era stata incoraggiata dalla CIA. Dopo il crollo dell’URSS nel 1991, a seguito di una grave crisi economica, la Russia fu ridotta a potenza regionale. La borghesia americana non sembrava più avere un avversario. Si affrettò a conquistare le roccheforti abbandonate dalla Russia in Medio Oriente e questo portò alla Guerra del Golfo del 1991, quando una coalizione guidata dagli USA attaccò l’Iraq, che aveva invaso il Kuwait.

Nello scontro fra imperialismi lo scacchiere principale è ovviamente l’Eurasia, che ospita il 75% della popolazione mondiale, la maggior parte delle risorse e i due terzi della produzione mondiale. Il primo obiettivo dei capitalisti statunitensi era impedire che uno Stato o un gruppo di Stati vi diventasse egemone, una tattica applicata dalla Gran Bretagna nell’Europa del XIX secolo. L’Europa doveva essere dominata solo dagli Stati Uniti; da qui l’estensione della NATO a Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca.

La Russia stava subendo una catastrofica battuta d’arresto e gli Stati Uniti lavoravano per staccare dall’impero russo gli Stati che costituivano l’Unione Sovietica e che sono perni geopolitici: l’Ucraina, con il suo accesso al Mar Nero, la cui indipendenza – sostenuta dagli Stati Uniti già nel 1994 – avrebbe spinto la Russia verso oriente l’Asia; l’Azerbaigian, ricco di idrocarburi, dove gli investimenti petroliferi americani sono stati considerevoli dall’estate del 1991, e che costituisce un collegamento tra l’Asia centrale e il Mar Nero, e tra la Turchia e il Caucaso settentrionale; infine, l’Asia centrale musulmana, il cui Stato chiave è l’Uzbekistan, attraverso il quale il gas e il petrolio del Turkmenistan e del Kazakistan vengono trasportati verso ovest o verso sud, via Iran, senza passare per la Russia. L’obiettivo era quindi retrocedere la Russia, se possibile con il sostegno di Turchia e Iran.

Dal 2004 l’amministrazione Bush ha rilanciato la politica statunitense del Grande Medio Oriente, un Arco di Crisi che si estende dal Nord Africa alla Russia e alla Cina, vasta area strategica dai contorni vaghi ma che comprende inequivocabilmente il Golfo Persico, l’Oceano Indiano e il Mar Rosso. Questo piano per il Grande Medio Oriente, elaborato durante la Guerra Fredda con l’URSS e rimesso in agenda nel 1979, consiste nello smantellamento di tutti i regimi che rimangono ostili a un riassetto della regione in linea con gli interessi americani e del suo alleato Israele. Nel 1991, i Paesi che si erano staccati dall’URSS sono stati inclusi nel Grande Medio Oriente, che si è così esteso a parte dell’Asia Centrale. Questa politica, definita dai “neoconservatori” americani “instabilità costruttiva” o “caos creativo” (la vecchia strategia del “divide et impera”), si basa su tre principi: mantenere e gestire conflitti a bassa intensità, incoraggiare la frammentazione politica e territoriale e promuovere il comunitarismo. Oggi, 2014, ci siamo proprio in mezzo...

Possiamo notare che questa vasta area del Grande Medio Oriente, che comprende la Russia a nord e la Cina e a est, è ora segnata da guerre etniche e religiose. I gruppi islamici che vi operano sono stati inizialmente incoraggiati dall’amministrazione statunitense.

I Paesi del Golfo (Qatar in primis e Arabia Saudita, che non vuole essere in prima linea a causa delle sue minoranze sciite) e l’Unione Europea stanno chiaramente agendo come ausiliari di Washington e della NATO. Il Qatar, che ha preso sotto la sua ala Hamas ma finanzia anche l’OLP, si offre ora come mediatore nelle crisi mediorientali, compreso l’eterno conflitto israelo-palestinese. Ma non dimentichiamo che ospita la più grande base militare statunitense al di fuori degli Stati Uniti e che Doha acquista le armi dai suoi “amici” statunitensi.

Nel 2008, in un libro bianco sulla difesa e la sicurezza interna, gli strateghi francesi hanno anche menzionato l’esistenza di un Arco di Crisi in Africa, dalla Mauritania al Burkina Faso, con il Mali, il Niger e la Somalia dove i gruppi jihadisti stanno terrorizzando la popolazione.

Quel che è certo è che tutti questi gruppi sono finanziati da varie potenze concorrenti e che le conseguenze sono più simili a un “caos distruttivo”. È importante sottolineare che questi gruppi cosiddetti terroristici islamici, favoriti e mantenuti dalle potenze imperialiste di ogni tipo, promulgano regole molto chiare per opprimere le masse. Questi “pazzi di Dio”, che perpetuano atti che i nostri ipocriti democratici considerano immorali e “retrogradi”, come la feroce oppressione delle donne, non sono altro che l’espressione di un sistema modernissimo, che si avvale delle più sofisticate tecnologie per gli armamenti e la propaganda, e costituiscono quindi uno degli strumenti più apertamente repressivi della borghesia internazionale contro il suo nemico di classe, il proletariato.

Con l’avversario russo neutralizzato e indebolito, gli Stati Uniti si trovano ora ad affrontare un nuovo concorrente. Oggi, l’economia cinese si sta sviluppando a un ritmo robusto, ormai alle calcagna di quella statunitense. Tutti affilano le armi, economiche e militari, e si studiano le alleanze.

Nel 2012 la Cina è diventata il primo importatore di petrolio dal Medio Oriente (50% dall’Arabia Saudita, 50% dall’Iran, con cui la Cina ha stretti legami) e sta investendo in Medio Oriente (Kurdistan iracheno, ad esempio), Africa e America Latina. Nel 2013 il principale consumatore di petrolio mediorientale era l’Asia (Cina, India, Giappone e Indonesia). La domanda cinese e indiana rappresentava il 30% delle esportazioni mediorientali. Per gli Stati Uniti, il Medio Oriente rimane quindi di fondamentale interesse strategico e la sua balcanizzazione e instabilità caotica sembrano essere una priorità contro i concorrenti russi e cinesi, per non parlare delle rotte marittime per il trasporto di petrolio e gas, dove le navi da guerra americane hanno una forte presenza.

Il “sistema” dei gruppi terroristici islamici si estende ormai dall’Africa nera allo Xinjiang, al confine con l’Afghanistan, dove è sempre più attivo un movimento islamista della comunità uigura, i cui combattenti sono stati addestrati in Pakistan.


Conflitto terzomondista o rivoluzione internazionale di classe

Cosa può fare il proletariato del Medio Oriente se quello nelle grandi potenze imperialiste non si muove? La lotta in queste, dove la guerra inter-imperialista è condotta nella indifferenza della classe oparaia, sembra non avere via d’uscita, se prepararsi ad impedire un terzo conflitto mondiale.

La crisi economica non fa che aggravarsi e, per il momento, le tensioni internazionali assumono la forma di conflitti regionali, con la loro scia di infamia sulle popolazioni e di distruzioni che, insieme alle “ricostruzioni” che ne conseguono, danno un po’ di ossigeno al cadavere capitalista. Queste guerre sono ancora un affare redditizio per il sistema capitalista, ma per quanto tempo?

Il conflitto tra Israele e i palestinesi è solo un aspetto della lotta inter-imperialista per il controllo dei mercati mondiali. La guerra con i palestinesi è ormai diventata una necessità, il fulcro di tutti gli sforzi propagandistici dello Stato ebraico, la sua unica via d’uscita se vuole continuare a ricevere il tacito sostegno delle borghesie internazionali, compresi gli arabi, e le sovvenzioni dello Stato americano. L’amministrazione del democratico Obama si è affrettata a inondare Israele di aiuti senza precedenti: nel 2009, nell’ambito dell’assistenza militare estera, il nano israeliano ha ricevuto una manna di 2,5 miliardi di dollari e nel 2010 di 3,1 miliardi.

Sotto il bla-bla mediatico della pace e della riconciliazione, c’è di nuovo una guerra, una guerra di classe. E in Palestina è la guerra contro il proletariato palestinese; una guerra che è un monito per il proletariato arabo in generale. E i due grandi partiti palestinesi, nazionalisti e borghesi, Hamas, ancora ben radicato a Gaza, e l’OLP, nato dalla stessa matrice (i Fratelli Musulmani), non hanno nulla da offrire al proletariato palestinese se non gli orrori della guerra e dell’oppressione.

Come abbiamo scritto nell’articolo del 20 luglio 2014: “Gaza, per la rinascita di un movimento proletario e comunista”: «Le due borghesie israeliana e palestinese hanno questo stesso interesse in comune: tenere il proletariato sottomesso ed evitare qualsiasi movimento di classe. E i missili lanciati dal territorio palestinese sono sicuramente più utili alla borghesia israeliana, che in ogni caso non vuole sentir parlare di alcun accordo di pace – impossibile in ogni caso – e alla borghesia mondiale che alla “causa palestinese. I proletari palestinesi e israeliani sono così tenuti in gabbia come topi in questo ghetto incuneato tra il Giordano e il mare. Storditi e intossicati dalla propaganda patriottica e dal sangue, trascinati nel cinico e spietato gioco globale dei grandi Stati imperialisti».

Le parole d’ordine del nostro partito sono ancora queste: nessuna solidarietà con il reazionario movimento nazionale palestinese, nessuna alleanza con movimenti e partiti borghesi in nome di un dubbio antimperialismo, ma ricostruzione di organizzazioni di difesa e di lotta, autonome dai partiti borghesi e opportunisti. La guerra di classe a Gaza è purtroppo condotta su iniziativa della borghesia internazionale e, senza una vigorosa ripresa del movimento proletario nei Paesi occidentali, il proletariato palestinese, come quello israeliano, si troverà impotente e schiacciato dalla propaganda militarista e dal terrore delle bombe.

Mentre una spaventosa crisi incombe in tutto il mondo, il proletariato internazionale alzerà la testa, combatterà a ranghi serrati e vincerà il suo nemico di classe.