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PAGINA 1
1 Maggio 2024
Il mostro del Capitale mondiale si precipita nella guerra
Solo la rivoluzione internazionale per il Comunismo lo può abbattere
Le micidiali guerre che si combattono in questo Primo Maggio 2024 dimostrano la grave crisi dell’equilibrio imperialista mondiale, così come era uscito dal disgregarsi dell’URSS, falsamente socialista dopo la controrivoluzione staliniana.
L’egemonia degli Stati Uniti sul mondo intero, presentata per tutto questo dopoguerra come incrollabile, a difesa, in occidente, dei profitti delle borghesie e assicurazione di continuo progresso e di pace, si è infranta sotto il peso della crisi economica determinata dalle contraddizioni storiche del regime del Capitale.
Gli apparati produttivi dei paesi di maturo capitalismo del nord America, di Europa e dell’Asia perdono nella concorrenza con industrialismi più giovani e vitali, e sempre con maggiori difficoltà riescono a farsi i guardiani del mondo, con le loro pressioni finanziarie e militari. Altre mostruose potenze borghesi si vanno imponendo, la Cina e l’India. Nell’Oceano Pacifico si concentrano le tensioni di uno scontro per il quale già si schierano armi e marine da guerra.
Solo la guerra può ormai risolvere questi insolubili contrasti tra meschini e reazionari interessi nazionali, sempre più acuiti a causa della persistente crisi di sovrapproduzione che soffoca la riproduzione del capitale.
Nel tardo capitalismo, la guerra assume le caratteristiche più distruttive e spaventose. I civili, in maggioranza proletari, diventano i primi obbiettivi dell’azione militare, città intere sono ridotte in rovine.
Il capitale si arricchirà nella ricostruzione. Per questo occorre uccidere e distruggere, per far ricostruire a un proletariato decimato e sconfitto.
Già le guerre locali tendono a protrarsi sempre più, ad allargarsi: in Europa, in Medio oriente, in Africa. Terribili massacri si abbattono oggi sui lavoratori di Ucraina e sul popolo Palestinese. Ma appena gireranno gli incontenibili venti di guerra, saranno i proletari di Russia e di Israele ad essere martirizzati. E di tutto il mondo. Quelle in Ucraina e a Gaza non sono guerre in un ambito e con motivazioni locali, ma una anticipazione, un inizio, una prova generale dello scontro universale fra fronti di Stati imperialisti.
Centinaia di migliaia di diseredati sono ovunque costretti ad abbandonare le loro famiglie e paesi per fuggire dalle guerre e dalla miseria che sempre più li affliggono, e trovare un lavoro qualunque che possa permettere loro di sopravvivere.
L’avanzante crisi economica di sovrapproduzione costringe il padronato, a livello mondiale, ad inasprire le condizioni di lavoro, a risparmiare su tutto per produrre a prezzi sempre più bassi per battere la concorrenza. Ogni espediente è studiato e imposto.
La nazionalità, la religione, il sesso, le opinioni politiche, ogni differenza viene esasperata per spezzare l’unità degli sfruttati, per separarne e dividerne le condizioni di vita e di lavoro, per avviarli infine verso la fornace della guerra dei loro padroni.
Ovunque i lavoratori salariati pagano il prezzo di questa situazione. La diminuzione della sicurezza sul lavoro provoca ogni giorno morti e feriti. I salari si riducono e aumenta lo sfruttamento.
Il proletariato da quasi un secolo è dominato dalla controrivoluzione, da sindacati spesso legati e fedeli alle classi dominanti, da partiti che si dicono socialisti e comunisti ma che hanno rinunciato da tempo ad ogni legame con il programma del comunismo rivoluzionario, attingendo all’ideologia borghese, classista, nazionalista, democratica o fascista che sia.
Lo sfruttamento senza limiti delle risorse naturali, l’appropriazione di ogni angolo della terra da parte del Capitale per metterlo a profitto sta corrompendo l’intero pianeta. Il morente regime del Profitto è disposto a trascinare nel baratro l’umanità intera.
La classe operaia sarà costretta a difendersi, ad opporre la sua forza a quella delle classi proprietarie. Per ottenere questo è necessaria la sua organizzazione in estesi e combattivi sindacati, che la inquadrino e la mobilitino contro la smisurata e crescente oppressione padronale.
In questo scontro di classe i lavoratori di tutto il mondo si riconosceranno fratelli, accomunati dalle loro condizioni e dalle loro battaglie quotidiane.
Ma fermare la guerra, mantenendo il potere della borghesia nella società, è impossibile. Il capitalismo non può essere pacifico, non potrà mai fare a meno delle sue guerre. Solo la classe operaia potrà bloccare la guerra, ma rovesciando la borghesia dal potere. Solo ritrovando la guida del suo Partito rivoluzionario il proletariato mondiale riuscirà a decidere del suo destino, a spezzare le sue catene, illuminato dalla esperienza storica del comunismo internazionale.
Abbattuti i regimi esistenti, la classe dei lavoratori procederà ad instaurare
la sua dittatura nei principali Stati, aprendo la strada alla abolizione del
mercato e del lavoro salariato, alla società senza Stato e senza classi, al
Comunismo.
Nei paesi occidentali, quelli cioè legati da un vincolo di alleanza con gli Stati Uniti, la causa palestinese riscuote simpatie fra la popolazione e si registrano partecipate manifestazioni a suo sostegno, in alcuni casi con grandi masse. Ciò a cominciare dagli stessi Stati Uniti, dal Regno Unito e dalla Francia.
La condizione del popolo palestinese è identificata come un caso esemplare di oppressione e ingiustizia, ragion per cui battersi contro di esse è visto come un modo per combattere ogni ingiustizia e oppressione politica, secondo il motto “la Palestina è il mondo”.
Questa convinzione si alimenta di sentimenti, indignazione, compassione, solidarietà, che scaturiscono dagli orrori di una guerra che, come la generalità dei conflitti nel tardo capitalismo, miete terribili massacri fra la popolazione civile, e che ha un carattere nettamente asimmetrico quanto ai rapporti di forza fra le parti in conflitto.
Si tratta tuttavia di una pericolosa semplificazione.
Il carattere asimmetrico di una guerra non definisce la sua natura. A Gaza, con l’esercito dello Stato borghese d’Israele non si scontrano masse proletarie e diseredati in rivolta ma milizie armate di partiti borghesi, con a capo Hamas, sostenute da potenze imperialiste regionali e mondiali.
I proletari palestinesi sono solo la carne da cannone secondo i cinici calcoli di queste borghesie, fra cui naturalmente quella palestinese.
Il massacro del 7 ottobre perpetrato fra la popolazione civile israeliana, in kibbutz notoriamente di orientamento pacifista, e che ha colpito anche numerosi proletari immigrati, è stato un cinico calcolo. Chi lo ha ideato, organizzato e attuato sapeva che avrebbe determinato il sicuro massacro di migliaia di palestinesi. Si è scelto di metterlo in atto per colpire i piani di Israele e dei suoi alleati, per gli interessi di un altro gruppo di Stati imperialisti, capeggiato dall’Iran.
Gli interessi della classe operaia palestinese, oppressa due volte, sul piano nazionale e su quello di classe, stanno da tutt’altra parte rispetto alla politica di Hamas e dei suoi finanziatori, fiancheggiatori e alleati.
Settant’anni di conflitto israelo-palestinese – generato e aggravato dalle manovre delle potenze borghesi regionali e mondiali – dimostrano che è insolubile nel quadro dell’imperialismo.
Il capitalismo mondiale sta marciando verso quella che è al contempo la sua salvezza e la rovina dell’umanità: il terzo conflitto mondiale. Causa di questo precipizio nell’abisso è la crisi economica di sovrapproduzione. Perciò, quand’anche gli Stati capitalisti giungessero alla soluzione di “due popoli, due Stati” in Palestina, essa sarebbe solo un punto di passaggio verso un livello superiore, più grave, dello scontro già in atto. Cioè con un numero di vittime, principalmente proletarie, ancora superiore, da entrambe le parti del fronte.
Schierarsi al fianco della cosiddetta “resistenza palestinese”, cioè per la costituzione di uno Stato palestinese nel quadro del capitalismo, significa incamminarsi lungo la strada che conduce, non alla sconfitta delle oppressioni e delle ingiustizie sociali e politiche, ma allo schieramento dei proletari nella nuova guerra mondiale che va maturando.
Che le buone intenzioni delle masse che nel mondo si mobilitano in reazione ai massacri a Gaza vengano utilizzate per finalità belliche lo dimostra il fatto che tali mobilitazioni sono dirette da organizzazioni che, al di là della invocazione di un “cessate il fuoco”, si schierano al fianco dei partiti borghesi palestinesi nel conflitto in corso da 70 anni.
In essi non vi è alcuna critica ai partiti nazionalisti palestinesi, né ai regimi imperialisti che li sostengono, né alcun appello rivolto ai lavoratori d’Israele, né alcuna solidarietà che scaturisca dal massacro di proletari israeliani compiuto dalle milizie dei partiti borghesi di Gaza.
La legge etica che sembra scaturire dalla politica di questi movimenti filo-palestinesi è che si tratterebbe di stare al fianco di chi subisce il massacro maggiore, giustificando il massacro minore di civili. Il problema è che non è l’asimmetria del numero delle vittime a spiegare la natura del conflitto. Tale asimmetria è un dato ben suscettibile di cambiare, nello sviluppo di un conflitto che è di natura borghese, che implicherà il coinvolgimento sempre più esteso di altri Stati capitalistici.
Misconoscendo la natura borghese del conflitto israelo-palestinese, nascondendola dietro la asimmetria delle forze i movimenti filo-palestinesi ambiscono ad arruolare sul piano internazionale masse sempre più estese in una guerra che non è sociale, fra le classi, ma fra Stati della stessa classe, quella capitalista.
In quest’opera, ogni distinzione fra oppressi e oppressori, inclusa le vessazioni sulle donne nei regimi islamici, scompare dietro la contrapposizione fra Stati: ciò implica la cessazione della lotta contro lo sfruttamento e il dominio di classe internamente a quei paesi che si suppone sostengano la “causa palestinese”. Si dichiara di volersi battere contro sfruttamento, ingiustizia e oppressione, invece si accantona ogni lotta in tal senso in favore di un conflitto fra Stati capitalisti, giustificato come reazione contro l’oppressione nazionale del popolo palestinese.
In tutta l’area arabo-mediorientale, la questione palestinese – la lotta contro il satana Israele-USA – è agitata per sviare le masse proletarie dalla lotta per i loro obiettivi e contro i rispettivi regimi borghesi. Turchia e Iran sono l’esempio più eclatante di questa strategia della borghesia per coinvolgere i propri proletari nella propaganda di guerra e per soffocarne le aspirazioni di classe.
Nei paesi occidentali centro delle mobilitazioni per un “cessate il fuoco” e a sostegno della “causa palestinese” sono le università. Gli studenti sono lo strato sociale più facile a entrare in movimento, ancor più della stessa piccola borghesia, in quanto sono concentrati negli istituti e per essi interrompere per un periodo le attività di studio non è lo stesso che fermare le attività imprenditoriali. A maggior ragione sono distanti dalla condizione dei lavoratori, in quanto non sono sottoposti al dispotismo aziendale, non hanno un salario cui rinunciare. Tant’è che è senz’altro erroneo parlare di “sciopero” degli studenti.
Queste caratteristiche, unite alla natura interclassista del loro strato sociale e a quella transitoria della loro condizione individuale, proiettata, per la maggior parte di loro, verso una collocazione sociale più elevata di quella del proletariato, fanno di quello studentesco un movimento piccolo-borghese, a cui la borghesia attinge per rinnovare il suo personale politico.
Non avendo una collocazione e una funzione sociale che conferisca loro una forza, com’è invece per la classe lavoratrice, il movimento studentesco si caratterizza tipicamente per impotenza e, di conseguenza, per scompostezza, sonorità, falso radicalismo. I proletari hanno ben maggiori vincoli da rompere per mettersi in movimento, ma, quando finalmente vi riescono, prendono consapevolezza della loro forza sociale e, quindi, politica.
In quanto piccolo-borghese, il movimento studentesco, è destinato a ondeggiare fra borghesia e proletariato, accodandosi al più forte. Più della classe lavoratrice è permeabile all’ideologia borghese, della cultura impartita negli istituti. È perciò fonte prolifica di rinnovamento dei partiti opportunisti, che in esso trovano un ambiente propizio per rimpolpare i loro ranghi, tutti interessati a ripetere pappagallescamente il motto “operai e studenti uniti nella lotta”, che significa operai accodati al movimentismo piccolo-borghese.
Le mobilitazioni in corso nelle università statunitensi naturalmente si richiamano idealmente a quelle negli anni ‘60 e ‘70 contro la guerra in Vietnam. Ma le differenze sono notevoli. Allora lo Stato borghese statunitense era coinvolto direttamente nel conflitto e vi mandava a morire decine di migliaia di giovani, con la coscrizione obbligatoria. All’apice del benessere acquisito durante la ricostruzione mondiale post-bellica e in virtù dell’acquisita posizione dominante nel concerto delle potenze imperialistiche, i giovani americani non volevano andare a morire in una guerra lontanissima dai confini nazionali. Una parte della stessa borghesia nazionale considerava erronea la scelta di impegnarsi in quel conflitto. Le masse in movimento furono assai superiori, dentro e fuori le università.
Oggi la situazione è ben diversa. La società capitalistica ha bruciato da decenni le illusioni di crescente benessere ed è avvolta in un cupo clima regressivo, di assenza di prospettive. La piccola borghesia sempre più si assottiglia e decade. La sua disperazione, tipica frutto della sua impotenza, si manifesta in inconsulti e reazionari movimenti. Il mondo studentesco non fa eccezione e il suo movimento tende ad abbracciare falsi radicalismi, da quelli identitari fino a essere fatalmente attratto da soluzioni fintamente rivoluzionarie, che mistificano e sostituiscono la rivoluzione sociale con la guerra borghese.
Il Partito ai giovani, studenti e operai indica la strada del movimento operaio e comunista. Della rivoluzione sociale contro la guerra fra Stati capitalisti.
La fine della doppia oppressione, nazionale e di classe, dei proletari e dei
diseredati palestinesi, come di tutte le altre minoranze nazionali, come i curdi,
potrà aversi solo con la rivoluzione comunista internazionale. Le indicazioni
politiche che si pongono sul sentiero che conduce a questo obiettivo storico
sono opposte a quelle agitate dai movimenti filo-palestinesi: in ogni paese
lotta contro la propria borghesia, anche a Gaza e in Cisgiordania, nessuna
solidarietà tra le classi in nome della guerra; appello ai proletari d’Israele
affinché facciano altrettanto nei confronti del loro Stato borghese, affinché
sabotino la guerra e si affratellino ai proletari palestinesi.
L’opportunismo ha sostituito il Comunismo con la Democrazia.
L’aspirazione al mondo nuovo libero dal lavoro salariato, e l’insurrezione per esso - con la difesa dello status quo politico.
La Rivoluzione - con la Difesa della democrazia dal ritorno del fascismo.
La Bandiera rossa - col Tricolore.
Per esso, la classe lavoratrice deve gemere per sempre inchiodata al capitalismo, giacché sarà sempre disponibile una carrettata di figuri da far passare come “minaccia fascista”, allorquando il capitalismo inizia a manifestare la sua insostenibilità storica, immiserendo sempre più larghe masse di lavoratori e precipitandosi nella guerra.
Il Fascismo non è una carrettata di figuri di turno, ma la natura reale, intima e profonda del regime politico borghese, mascherata, fintanto serve, dalla Democrazia, coi suoi Parlamenti e le sue Costituzioni.
“Ora e sempre resistenza” è lo slogan che esprime questa condanna politica, la cui comminazione al proletariato è la ragion d’esistere dell’opportunismo: per sempre sulla difensiva della maschera democratica del Fascismo – mai all’offensiva contro il regime politico della borghesia.
* * *
I contrasti fra le fazioni della classe borghese sono persistenti all’interno dello Stato politico. La borghesia non è e non può essere una “classe generale” in grado di guidare l’intera società in maniera armonica, come ama rappresentare il proprio dominio.
Marx individuava a metà dell’800 nella repubblica parlamentare il mezzo attraverso il quale la borghesia poteva contemperare, non senza un faticoso travaglio, gli interessi distinti e contrastanti presenti nel suo seno, dando forma a un suo schieramento e indirizzo generale. Ne “Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte”, del 1852, aveva già espresso questo concetto: «La repubblica parlamentare era il terreno neutrale su cui le due frazioni della borghesia francese, i legittimisti e gli orleanisti, la grande proprietà fondiaria e l’industria, potevano vivere l’una accanto all’altra a parità di diritti. Era la condizione indispensabile del loro dominio comune, l’unica forma di Stato in cui il loro interesse generale di classe potesse subordinare a sé tanto le pretese delle sue frazioni, quanto tutte le altre classi della società».
Marx in quel passo descriveva tuttavia la situazione che precedeva il passaggio traumatico al dispotico regime di Napoleone III, rappresentante di fatto degli interessi delle banche, della grande finanza.
I contrasti interni alla classe borghese comunque permangono e conoscono fasi di particolare attrito, che sembrano scuotere l’ordinamento costituzionale e mandare in frantumi il quadro democratico, benché, come spiega Lenin in “Stato e rivoluzione”, rimanga «il migliore involucro possibile per il capitalismo».
Tali momenti critici non di rado, specialmente nei paesi anelli più deboli della catena imperialistica, sfociano in crisi istituzionali, se non in colpi di Stato, che per una determinata fase manifestano la realtà nascosta, perché la forma istituzionale democratica è ormai, appunto, solo un involucro della reale tirannica dittatura del grande capitale, dei grandi capitalisti, su tutte le classi della società.
Eppure alla forma e mistificazione democratica tende ogni fase di “normale amministrazione” del capitale che, sempre per Lenin, su questo involucro «fonda il suo potere in modo talmente saldo, talmente sicuro che nessun cambiamento, né di persone, né di istituzioni, né di partiti nell’ambito della repubblica democratica borghese può scuoterlo». Quest’ultimo aspetto è talmente importante che anche il carattere intimamente fascista della fase imperialistica del capitalismo appare affatto compatibile con la democrazia, che, nella sua evoluzione corporativa e totalitaria, si presenta come una sua forma ulteriormente perfezionata.
Eppure alla forma e mistificazione democratica tende ogni fase di “normale
amministrazione” del capitale che, sempre per Lenin, su questo involucro «fonda
il suo potere in modo talmente saldo, talmente sicuro che nessun cambiamento, né
di persone, né di istituzioni, né di partiti nell’ambito della repubblica
democratica borghese può scuoterlo». Quest’ultimo aspetto è talmente importante
che anche il carattere intimamente fascista della fase imperialistica del
capitalismo appare affatto compatibile con la democrazia, che, nella sua
evoluzione corporativa e totalitaria, si presenta come una sua forma
ulteriormente perfezionata.
Il nuovo governo Milei sta rumorosamente attuando un pacchetto di aggiustamenti economici e di riforme dello Stato con un approccio “shock”. In sostanza il governo intende trasferire tutti gli oneri dello Stato al settore privato e rimuovere le restrizioni al libero mercato. Questo pacchetto è spacciato per una lotta contro le “caste” politiche e i loro privilegi.
Naturalmente, come ogni programma borghese, si sostanzia in un aumento dello sfruttamento dei salariati. Il piano borghese per la ripresa dell’economia va direttamente contro gli interessi immediati della classe operaia.
L’inflazione e la svalutazione del Peso sono alle stelle e non ci sono aumenti salariali a compensarla. L’Argentina ha chiuso il 2023 con un’inflazione annua del 211% superando in America Latina persino il Venezuela (193%). Le stime degli istituti finanziari indicano che la situazione economica peggiorerà nel 2024, con un calo del PIL, un’inflazione stimata intorno al 280% e un dollaro che potrebbe raggiungere i 1.700 pesos.
Inoltre il governo ha annunciato licenziamenti: si stimava che entro il 31 marzo sarebbero satati risolti 70.000 contratti di lavoro nella pubblica amministrazione. Anche nel settore privato si stanno preparando migliaia di licenziamenti nell’industria.
In parlamento anche le opposizioni sono d’accordo e solo si distinguono nella forma e nelle modalità di attuazione del cosiddetto Decreto di Necessità e Urgenza che il governo ha presentato all’approvazione. I critici ipocriti del governo lo accusano di avere tendenze fasciste, ma sono disposti a sostenere il suo pacchetto di misure, solo a patto che modifichi alcuni dettagli.
La CGT ha organizzato una marcia di massa verso i tribunali, dove ha presentato un’ingiunzione contro il Decreto, e aveva annunciato uno sciopero generale per il 24 gennaio. Ma lo sciopero non è stato né generale né a tempo indeterminato né ha paralizzato la produzione o i servizi minimi, ed è servito ai bonzi sindacali per aprire uno spazio nei negoziati tra le diverse correnti parlamentari.
Sebbene il governo abbia anticipato che agli scioperanti avrebbe detratto la paga dell’intera giornata, questo non ha influito sulla partecipazione dei lavoratori del settore pubblico. Ma lo sciopero si è limitato a manifestazioni, che a Buenos Aires ha raccolto dai 40.000 ai 130.000 partecipanti. Le centrali sindacali non hanno promosso nemmeno una timida mobilitazione e nel resto della città le attività si sono svolte quasi normalmente. Le centrali non hanno annunciato né il prolungamento dello sciopero né nuove mobilitazioni né uno sciopero generale. Solo piccole frazioni del movimento sindacale hanno proposto l’estensione delle mobilitazioni e verso lo sciopero generale.
Il movimento che si sta sollevando in opposizione alle politiche del governo si muove sotto slogan opportunisti come “Il Paese non è in vendita” o accusando i parlamentari di “tradimento del Paese”, il che rende difficile per i lavoratori condurre una lotta coerente per le loro richieste.
Dopo lo sciopero artificioso di gennaio, le centrali sindacali si sono limitate a dichiarazioni e a trattative fra i banchi del Parlamento. Nel frattempo i lavoratori hanno messo in atto proteste isolate, ma finora non ci sono state azioni forti di lotta contro i licenziamenti e in difesa dei salari.
Questa situazione ha messo in luce il ruolo infido delle centrali e delle
federazioni sindacali argentine. Qualunque sia il colore, lo stile o le
pagliacciate dei governanti (tutti attori al servizio dei capitalisti), i
salariati dovranno necessariamente organizzarsi alla base per riprendere l’unità
di classe nella lotta per gli aumenti salariali e contro i licenziamenti, sulla
base di uno sciopero a tempo indeterminato, senza servizi minimi e unendo le
energie dei lavoratori della pubblica amministrazione e delle imprese private.
PAGINA 2
Per i nigeriani il nuovo anno si preannuncia tutt’altro che felice. Già alla vigilia di Natale dello scorso anno, gruppi armati hanno attaccato alcuni villaggi nel centro del Paese, uccidendo almeno 160 persone nell’ennesimo episodio di una lunga insurrezione che ha causato la morte di migliaia di civili.
Frattanto a Lagos, che conta circa 15 milioni di abitanti ed è la maggiore città del Paese, gli operai restano in piedi 12 ore al giorno a cucire scarpe in cambio di salari miseri, in condizioni che ricordano quelle vissute dagli schiavi salariati di Manchester all’apice della Rivoluzione industriale. Nessuna vessazione viene risparmiata ai proletari nigeriani i quali aspettano per ore fuori dai cancelli delle fabbriche locali, sperando di essere selezionati per il lavoro massacrante che si svolge al loro interno. Una volta entrati vengono messi al lavoro senza alcun controllo legale; non ricevono mai un contratto, né una conferma scritta del loro salario. Chiunque, per esempio, venga sorpreso a usare un cellulare viene licenziato in tronco senza alcun compenso o retribuzione per il tempo lavorato.
Queste condizioni miserabili sono tipiche di un capitalismo giovane, assetato di plusvalore assoluto.
Eppure l’economia nigeriana è tutt’altro che in buona salute anche dal punto di vista dei borghesi. La volatilità del prezzo del petrolio (la principale voce d’esportazione della Nigeria) negli ultimi anni ha provocato instabilità economica e assottigliato progressivamente le riserve di valuta estera dello Stato.
La burocrazia statale, minata dalla corruzione, impone un pesante fardello alle industrie in difficoltà del Paese. Enormi somme di denaro pubblico vengono sottratte da ministri corrotti a livello nazionale, statale e locale. A inizio gennaio il ministro degli Affari umanitari e della riduzione della povertà, Betta Edu, è stato sospeso per aver autorizzato il trasferimento di circa 640.000 dollari su un conto bancario personale.
Si potrebbe pensare che, grazie ai numerosi dazi e tariffe che impone alle imprese, lo Stato eserciti un controllo ferreo sul paese, ma non è del tutto così. Anzi, esso si è dimostrato incapace persino di mantenere il monopolio dell’uso della forza, dato che si susseguono gli attacchi delle bande armate e dei gruppi jihadisti che hanno già causato centinaia di migliaia di vittime.
I conflitti etnici, originati dall’arbitraria demarcazione dei confini nazionali da parte delle potenze coloniali, continuano a esacerbarsi anche a causa delle privazioni economiche. I giovani delle aree rurali non vedono nessuna prospettiva di trovare un lavoro anche scarsamente retribuito nelle città sovraffollate, molti di loro si dedicano al banditismo e all’estremismo religioso. Quanti non si lasciano attrarre dal mestiere delle armi si uniscono a un pletorico esercito industriale di riserva, esasperando la concorrenza con altri potenziali lavoratori e abbassando ulteriormente i salari.
Gran parte delle entrate dello Stato vengono dilapidate a causa dell’economia clientelare: interi dipartimenti, ognuno con i propri regolamenti, tasse e dazi, nascono da un giorno all’altro per garantire una posizione di prestigio agli amici dei funzionari governativi. Per il vasto commercio illegale di avorio la Nigeria è uno snodo logistico tra l’Africa subsahariana e i lucrosi mercati asiatici.
Le infrastrutture di base sono carenti e milioni di famiglie si affidano ai generatori elettrici per la corrente elettrica. Le undici società di distribuzione elettrica del Paese faticano a realizzare profitti, anche a causa delle tariffe imposte dallo Stato. Una di queste, la Kaduna Electricity Distribution Plc, è stata messa in vendita dall’autorità di regolamentazione dell’elettricità a causa del mancato rimborso di 130 milioni di dollari di debiti.
A causa della mancanza di liquidità il governo ha recentemente interrotto i sussidi per il carburante, con conseguente forte aumento del costo della benzina da circa 780 naire al gallone (circa 1 dollaro) a 2.160. Ciò ha aggravato le condizioni di vita di una popolazione già immiserita dall’aumento del costo della vita e dal deprezzamento dei salari.
Ma i lavoratori stanno reagendo a questo attacco alle loro condizioni. Nella prima settimana del nuovo anno oltre un centinaio di insegnanti delle scuole primarie e secondarie hanno protestato contro l’applicazione selettiva delle gratifiche natalizie da parte del governo dello Stato di Rivers. L’anno scorso i principali sindacati avevano già minacciato uno sciopero nazionale se non fosse stato ripristinato il sussidio per il carburante, ma questa minaccia non si è concretizzata dopo che i negoziati con il governo sono riusciti a blandire la direzione sindacale. Più di recente, i sindacati marittimi avevano minacciato di chiudere i porti se le compagnie petrolifere internazionali (IOC) e gli appaltatori di stivaggio non avessero rispettato le leggi sul lavoro relative alpagamento dei salari, ma lo sciopero è stato nuovamente annullato dalla direzione sindacale. Anche i lavoratori dell’aviazione hanno minacciato azioni e il Congresso sindacale nigeriano (TUC) ha chiesto ai padroni di porre fine ai tentativi di rendere più precari i contratti e hanno avanzato rivendicazioni per migliorare le condizioni di lavoro. Queste sono solo alcune delle lotte sindacali che si stanno sviluppando nella più grande economia africana.
Qui, in questo capitalismo relativamente giovane, si possono osservare chiaramente alcune delle caratteristiche distintive di questo modo di produzione: il brutale sfruttamento dei lavoratori e il degrado delle loro condizioni di lavoro; la natura dello Stato come parassita della produzione che, divenuto troppo ingombrante rispetto all’economia produttiva da cui dipende, la trascina verso il basso; la costante espropriazione dei piccoli proprietari terrieri, che vengono gradualmente assorbiti nel proletariato urbano, accelerando l’accumulazione e facendo scendere i salari al di sotto del livello di sussistenza.
La recente storia economica della Nigeria dimostra l’interconnessione di tutte le economie nazionali all’interno del mercato globale: l’economia trema a ogni aumento o diminuzione del prezzo internazionale del petrolio e i lavoratori nigeriani emigrano in tutto il mondo, a seconda delle convulsioni del capitale internazionale.
Il proletariato nigeriano ha dimostrato la sua volontà di resistere agli
attacchi alle sue condizioni di vita e di lavoro, ma il suo istinto di lotta è
stato mal indirizzato e confuso da una direzione sindacale che si limita a
lanciare vuote minacce senza lottare per ottenere reali concessioni.
L’opportunismo è una piaga dilagante nel movimento sindacale. La Nigeria non fa
eccezione. Solo conducendo la lotta di classe più intransigente senza farsi
ingannare dai bonzi sindacali i proletari nigeriani potranno ottenere autentiche
vittorie per la loro classe.
Il 5 ottobre 2022, il sindacato Railroad Workers United (RWU) ha adottato una risoluzione che chiede la proprietà pubblica delle infrastrutture ferroviarie. Nel frattempo, anche la United Electrical, Radio and Machine Workers of America (UE) ha lanciato un chiaro appello alla proprietà pubblica delle ferrovie.
Il giudizio dei comunisti sulle nazionalizzazioni è sempre chiaro e coerente. Già Marx ed Engels scrissero molto per contestare il mito del socialismo di Stato di Lassalle, contro il quale siamo a batterci ancora oggi. È infatti possibile scorgere dei temi ricorrenti nelle varie deviazioni ideologiche che impediscono al proletariato di riconoscere i suoi obiettivi storici.
Tale posizione è ben illustrata nell’Anti-Dühring di Engels, del 1878, che abbiamo citato anche in “Programma Comunista” del 1962 n.13: «Ma né la trasformazione in società anonime, né la trasformazione in proprietà statale, sopprime il carattere di capitale delle forme produttive. Nelle società anonime questo carattere è evidente. E a sua volta lo Stato moderno è l’organizzazione che la società capitalistica si dà per mantenere il modo di produzione capitalistico di fronte agli attacchi sia degli operai che dei singoli capitalisti» (Terza sezione, Socialismo, Elementi teorici).
Consideriamo come si è svolta questa trasformazione nelle ferrovie degli Stati Uniti.
Come si legge nella dichiarazione della RWU, il governo statunitense nazionalizzò di fatto le infrastrutture ferroviarie private degli Stati Uniti per 26 mesi durante la prima guerra mondiale, a causa dell’incapacità di movimentare efficacemente le merci all’interno del Paese.
Il nostro Bucharin in quel periodo si trovava a New York, il che gli permise di comprendere meglio le circostanze. Il 16 febbraio 1917 scrisse: «Più forte è la posizione del capitale americano, più forti sono i suoi appetiti. Per soddisfare questi appetiti sono indispensabili forti strumenti di battaglia: esercito, flotta aerea e marina, fortificazioni militari. È così iniziato il periodo dei cosiddetti preparativi. Con un frastuono infernale, al rullo dei tamburi e al canto di inni patriottici hanno messo in moto, a tutto gas, una pompa che succhia denaro al popolo per il militarismo [...] La vita economica si conforma a quella di una caserma. Sono elaborati piani per trasferire allo Stato le ferrovie, il telefono e il telegrafo. Inoltre viene creata una serie di istituzioni per elaborare piani per trasferire o subordinare allo Stato importanti settori della finanza e della produzione. È già stata creata un’organizzazione centrale che si occuperà delle materie prime (di cui si occuperà il banchiere), della manodopera (sarà assegnata a Gompers?), della cura e della riparazione della carne da cannone, ecc. ecc. [...] Naturalmente, nel frattempo, non dimenticano i “compagni di lavoro”. Un attacco contro il diritto di sciopero viene sferrato su tutto il fronte. Il governo federale si scaglia contro i lavoratori delle ferrovie. In tutta una serie di parlamenti federali sono introdotte, una dopo l’altra, proposte di legge contro il diritto dei lavoratori a difendere i propri interessi con lo sciopero».
In effetti, gli Stati Uniti dichiararono guerra alla Germania il 6 aprile 1917, mandando a morte 116.700 proletari in nome dell’imperialismo. Questo la RWU non crede di doverlo ricordare. Mentre fornisce un resoconto nostalgico della nazionalizzazione delle ferrovie da parte di Wilson, si scorda che si trattava di una guerra per l’imperialismo.
Sulla rivista “Comunismo” n.80 è stata pubblicata la parte XVIII del nostro testo “Il movimento operaio negli Stati Uniti d’America”. Il testo spiega bene questi sentimenti nostalgici. «Nell’estate del 1917 emerse un nuovo approccio alla cooperazione tra sindacati e governo. Questa iniziativa, che era in diretta opposizione alle organizzazioni socialiste e di estrema sinistra, si basava su una serie di accordi che regolavano le condizioni di lavoro e la presenza stessa dei sindacati all’interno delle industrie che operavano con contratti governativi. Il governo si trovò di fronte a una sfida importante. I sindacati chiedevano che le loro condizioni salariali e normative, così come il “closed shop”, fossero rispettate in tutti i contratti. Questo nonostante l’enorme richiesta di manodopera e l’urgenza della produzione. Il governo si trovò ad affrontare tre problemi principali: la crescente combattività dei lavoratori, l’insistenza dei sindacati sul “closed shop” e la riluttanza dei datori di lavoro ad accettare aumenti salariali. Dopo tutto, i profitti delle industrie belliche erano garantiti dallo Stato. In questo contesto, era responsabilità del governo compensare qualsiasi costo aggiuntivo derivante dagli aumenti salariali».
I ferrovieri americani furono ingannati dai loro capi sindacali corrotti, i quali facero credere loro che avrebbero tratto benefici dalla proprietà statale. In realtà tutte le sovvenzioni ricevute erano il prezzo calcolato che la borghesia americana era disposta a pagare per mantenere indisturbati i suoi piani di guerra imperialista.
L’AFL e i meschini partiti opportunisti americani dimostrarono un entusiasmo simile quando Roosevelt illustrò le sue riforme, che consistevano essenzialmente nello sviluppo del National Recovery Act (NRA) e nella svalutazione della moneta. Un gruppo di nostri compagni di New York capì cosa stava succedendo: «Il fallimento della Conferenza di Londra, dove l’imperialismo statunitense era intervenuto con la prospettiva di rubare ai suoi contendenti, ha rivelato concessioni sul piano di espansione industriale-finanziaria. Queste concessioni sono state fatte attraverso l’uso di tutte le pressioni, dall’intrigo diplomatico alla minaccia aperta e diretta. Questo, a sua volta, determinò in una certa misura il nuovo orientamento espresso dalla NRA, un’agenzia parallela dello Stato capitalista per uno sfruttamento più razionale delle masse lavoratrici. Questo piano fu stabilito sulla base dei rapporti di forza esistenti sul piano mondiale delle forze conflittuali e antagoniste dei diversi imperialismi. Questi rapporti di forza si sono manifestati attraverso crisi senza precedenti, fallimenti industriali, finanziari e commerciali. È quindi inevitabile che questo piano poggi sulla prospettiva di una nuova conflagrazione per la conquista di nuovi mercati» (“Prometeo”, n.94 del 15 ottobre 1933).
Il presidente Roosevelt affrontò di petto questa sfida epocale, facendo propria la lezione di Wilson sulla necessità di “cooperare”. Incoraggiò ogni industria a formare una federazione e a sottoporre all’approvazione del presidente un “codice di concorrenza leale”. «Questo codice avrebbe vincolato ogni datore di lavoro a non licenziare nessuno, a concedere un salario minimo e un massimo di 40 ore settimanali, e a riconoscere il diritto dei lavoratori di organizzarsi per stipulare contratti di lavoro. Il presidente aveva la possibilità di modificare ogni codice prima di approvarlo. Una volta approvato, ogni codice acquisiva forza di legge [...] Tutti o la maggior parte dei datori di lavoro avevano firmato, ma violavano sfacciatamente il codice “nello spirito e nella lettera”. Il governo non aveva né la capacità né la volontà di prendere provvedimenti seri contro i trasgressori [...] Nonostante la pressione delle masse e la diffusione spontanea degli scioperi, i “piecards” [operai specializzati] dell’AFL erano stati i più accesi sostenitori della manovra presidenziale» (“Prometeo”, n.101 del 25 marzo 1934).
Questo ha fatto tramontare il movimento operaio negli Stati Uniti. «È chiaro che la nuova politica economica di Roosevelt era stata concepita per fornire una soluzione temporanea fino allo scoppio del conflitto mondiale» (“Prometeo”, n.105, 17 giugno 1934).
Infatti fu durante la Seconda guerra mondiale che Roosevelt, insieme al Comandante in capo dell’esercito e della marina, decise di nazionalizzare nuovamente le ferrovie. L’ordine esecutivo 9412 del 27 dicembre 1943 chiarisce le vere ragioni: «Il funzionamento continuo di alcuni sistemi di trasporto è minacciato da scioperi indetti a partire dal 30 dicembre 1943». A quanto pare i lavoratori delle ferrovie scioperavano a causa di una disputa salariale. La lezione del presidente Wilson venne applicata: sarà lo Stato a «impegnarsi in attività concertate ai fini della contrattazione collettiva o per il mutuo aiuto e la protezione». La buona volontà del presidente Roosevelt fu tale da «riconoscere il diritto dei lavoratori di continuare a far parte dell’organizzazione sindacale, di contrattare collettivamente attraverso i loro rappresentanti di loro scelta con i rappresentanti delle compagnie». Naturalmente, lo Stato avrebbe pagato il prezzo «a condizione che tali attività concertative non interferissero con l’attività dei vettori». In questo modo, i lavoratori delle ferrovie furono accontentati, poiché la loro richiesta durante la Seconda guerra imperialista era di natura economica. I lavoratori non beneficiarono della nazionalizzazione, ma piuttosto della ragion di Stato.
Dopo la guerra siamo stati altrettanto chiari: «L’analisi marxista della società e del sistema di produzione borghese è incompleta senza riconoscere che l’intervento e il controllo dello Stato nell’economia non è una deviazione dalle leggi fondamentali dell’economia capitalista. È infatti il risultato naturale e inevitabile di tutto il suo sviluppo storico. Questo intervento può arrivare fino all’eliminazione della forma giuridica della proprietà privata individuale dei mezzi di produzione. Non eliminerà il fatto fondamentale del sistema di produzione capitalista: lo sfruttamento del lavoro umano attraverso l’appropriazione del plusvalore. L’economia capitalista nel periodo successivo alla Prima Guerra Mondiale si è orientata verso forme generalizzate di intervento e controllo statale. L’esperimento totalitario nazifascista ha svolto la funzione di permettere e favorire l’accumulazione capitalistica e di controbilanciare le forze determinanti della tendenza al ribasso del tasso di profitto, una fase caratterizzata dal susseguirsi di violente crisi economiche e quindi dalla ricorrente minaccia di crisi sociali altrettanto violente. L’esperimento americano del New Deal ebbe un effetto simile [...]
«È chiaro che nella fase monopolistica, centralizzatrice e totalitaria del capitalismo, la politica statale delle nazionalizzazioni è l’ultima arma utilizzata per difendere il profitto e sfruttare i lavoratori nel modo più brutale [...]
«La nazionalizzazione non sopprime il mercato o lo sfruttamento del lavoro. Si limita a regolare l’economia secondo le forze del mercato. Alle industrie nazionalizzate viene garantito il monopolio all’interno dei propri confini, ma questo non influisce sul mercato nel suo complesso. Inoltre, la nazionalizzazione non impedisce la realizzazione e l’appropriazione del plusvalore. Anzi, spesso contribuisce a salvare le unità economiche in deficit. La nazionalizzazione garantisce in ogni caso il profitto capitalistico. A livello di relazioni inter-imperialiste, le nazionalizzazioni sono l’espressione più evidente e scoperta della tensione di tutte le forze economiche nazionali. [...] Infine, nel gioco delle lotte di classe, le nazionalizzazioni rappresentano il metodo più raffinato per immobilizzare le energie attive del proletariato e irreggimentare i suoi compagni» (“Prometeo”, Serie I n.4, dicembre 1946).
Le rivendicazioni degli opportunisti dei partiti di massa sulle “nazionalizzazioni” sono state una battaglia costante sulla nostra stampa. Questi cosiddetti “comunisti” hanno fatto credere che l’Europa stesse così marciando verso il socialismo. Eppure, questo opportunismo è sopravvissuto alla caduta dei grandi partiti opportunisti. L’appello alla nazionalizzazione è stato un argomento ricorrente, soprattutto quando il modo di produzione capitalista inizia ad affrontare le sfide, sollevando preoccupazioni sul potenziale di instabilità economica e di conflitto.
A questa parola d’ordine social-imperialista si contrapporrà la tattica sindacale del Partito su obiettivi realmente di classe. L’obiettivo è portare i lavoratori americani, come in tutto il mondo, sul terreno delle rivendicazioni generali, e quindi politiche.
Ci auguriamo che la riaffermazione della direzione di classe e comunista
permetta al proletariato americano di ritrovare coraggio, senso di sicurezza,
orgoglio e spirito di indipendenza, di cui ha bisogno più del pane.
Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale |
Qui di seguito pubblichiamo tre volantini con cui il partito è intervenuto nelle ultime settimane in rispettive manifestazioni per scioperi nazionali.
Il primo è stato distribuito alla manifestazione dei portuali convocata da Filt Cgil, Fit Cisl e Uiltrasporti per lo sciopero nazionale della categoria, nell’ambito della vertenza per il rinnovo del contratto collettivo nazionale. La manifestazione era nazionale ma larga parte dei partecipanti erano portuali di Genova. Poi un buon gruppo di portuali di Savona e pochi rappresentanti sindacali da altre città.
Lo sciopero inizialmente era stato proclamato di due ore a fine turno, distribuite su 3 giorni, dal 3 al 5 aprile, con la possibilità a livello locale di concentrarle nella giornata del 5. Successivamente l’Usb aveva preso la giusta decisione di aderire allo sciopero, proclamandolo per l’intera giornata del 5 aprile. Dopodiché Cgil Cisl e Uil hanno concentrato in tutti i porti lo sciopero il 5 e a Genova convocato una manifestazione nazionale. L’Usb a Genova ha poi preso la decisione, sbagliata, di non partecipare al corteo e di fare un presidio ai varchi del terminal di Voltri, isolandosi dagli altri lavoratori.
L’assemblea svoltasi due giorni prima alla Sala Chiamata di Genova aveva visto una buona partecipazione con circa 400 portuali. Il corteo però ha espresso una combattività ancora bassa. Circa 2.000 i partecipanti, di cui quasi un quinto rappresentato da apparato dei sindacatoni di regime. Il nostro partito è stato l’unico a intervenire con un volantino.
La seconda presenza è stata nello sciopero di mercoledì 10 aprile delle lavoratrici e lavoratori delle cooperative sociali, proclamato da tutti i sindacati di base operanti nel settore: Adl Cobas, Clap, Cub, Sgb, SI Cobas, Sial Cobas, Usb.
Col contratto delle cooperative sociali lavorano circa 400.000 lavoratori, prevalentemente donne, impiegate nei servizi socio-educativi, socio-sanitari, di accoglienza per i rifugiati, di assistenza alla persona e d’integrazione scolastica per gli alunni disabili.
Lo sciopero ha avuto una proclamazione unitaria da parte di Adl Cobas, Sgb e Sial Cobas, e poi proclamazioni separate da parte di Clap, Cub e Usb. Il fatto importante è che tutti abbiano scioperato lo stesso giorno. Sul piano nazionale tutti i sindacati di base tranne Usb hanno organizzato un’assemblea on line per preparare lo sciopero. Il SI Cobas, che da poco tempo organizza alcuni lavoratori del settore, ha partecipato all’assemblea preparatoria ma non alla manifestazione che si è svolta a Roma. L’Usb, come accade in altre categorie, appare il sindacato di base più restio a intraprendere un’azione unitaria con gli altri sindacati di base. Oltre a non aver partecipato all’assemblea nazionale, non ha nemmeno aderito alla piattaforma per il rinnovo del contratto nazionale – firmato a gennaio dai sindacati di regime – sottoscritta da tutti gli altri sindacati di base, tranne il SI Cobas che quando fu definita non era ancora presente nella categoria.
La stessa condotta è stata tenuta dall’Usb negli ultimi mesi fra gli autoferrotranvieri: ha scioperato, da ultimo il 6 maggio, insieme agli altri sindacati di base, ma non partecipa alle assemblee promosse unitariamente da Adl Cobas, Cobas Lavoro Privato, Cub e Sgb, né ha sottoscritto la piattaforma per il rinnovo contrattuale – non ancora concluso – sottoscritta da questi sindacati. Lo stesso comportamento, per altro, è tenuto nella categoria da un altro sindacato di base, la Associazione Lavoratori Cobas, presente alla ATM di Milano.
Nella logistica invece il 30 aprile, l’Usb e il SOL Cobas sono stati gli unici sindacati di base a non aderire allo sciopero proclamato unitariamente da Adl Cobas, Cobas Lavoro Privato, Cub e SI Cobas. Un fatto certamente grave. Eppure fu proprio nella logistica che iniziò, con lo sciopero unitario del 18 giugno 2021, il breve corso unitario confederale del sindacalismo di base, interrottosi – come previsto dal nostro partito – con lo sciopero generale del 2 dicembre dell’anno successivo.
Le azioni unitarie fra i lavoratori delle cooperative sociali, autoferrotranvieri, ferrovieri del personale viaggiante, ferrovieri delle manutenzioni, aeroportuali, appaiono forse più promettenti, pur nei limiti citati, perché muovono dalle categorie invece che dai vertici confederali nazionali.
Tornando allo sciopero del 10 aprile delle cooperative sociali, se sul piano nazionale l’Usb non ha aderito alla piattaforma contrattuale e alle assemblee unitarie degli altri sindacati di base, a Roma invece segue una condotta più unitaria con Adl Cobas, Cub, Clap e Comitato Aec Oepa.
La manifestazione romana per lo sciopero non ha avuto numeri molto elevati, circa 400 lavoratori. Tuttavia si è trattato di un numero adeguato per far riuscire la mobilitazione, che si è svolta in un clima molto combattivo, che ha dato morale alle lavoratrici. Si è svolta un’autentica assemblea, con interventi di molti lavoratori, militanti sindacali, da varie città, diversi dei quali di un certo interesse. Molti degli interventi hanno sottolineato l’importanza della trovata unità d’azione dei sindacati di base e la necessità di continuare su questa strada, in particolare un delegato dell’Usb di Firenze è stato molto chiaro in tal senso.
In conclusione l’iniziativa è stata un successo e anche l’intervento del nostro partito è stato positivo: unica organizzazione politica a volantinare, unici a considerare importante la lotta di queste lavoratrici e unici ad avere un indirizzo sindacale da indicare loro.
Il terzo volantino è stato distribuito a Firenze, venerdì 5 maggio, in occasione del terzo sciopero nazionale degli operai della manutenzioni ferroviarie, dipendenti di Rfi. Lo sciopero è stato convocato dall’Assemblea Nazionale Manutenzioni Ferroviarie e dai sindacati di base Cobas Lavoro Privato, Usb e Cub.
La manifestazione ha avuto una partecipazione minore rispetto a quella assai ben riuscita del 13 marzo. 400 i lavoratori a quella, circa 200 quest’ultima. Si è pagato un poco una certa flessione nella combattività del movimento contro l’accordo del 10 gennaio, un poco il lavorio ai fianchi di azienda e sindacati di regime, con minacce e mille altri infimi mezzi, infine un po’ di indecisione fino all’ultimo su quale iniziativa di piazza organizzare in occasione dello sciopero.
L’adesione allo sciopero – dichiarata dalla Anlm, che a tal scopo fa compilare un modulo ai suoi rappresentanti nelle Doit (Direzioni Operative Infrastrutture Territoriali) – è calata leggermente rispetto al precedente, restando però elevata, al 70%. Anche il morale dei lavoratori presenti alla manifestazione, nonostante i numeri in calo, era alto, e un combattivo corteo ha percorso Firenze. Ugualmente determinati sono apparsi i lavoratori nei loro interventi nell’assemblea preparatoria, la settima.
Anche in questa occasione, il nostro è stato l’unico partito ad aver avuto qualcosa da dire a questi operai in lotta. In quanto agli organismi sindacali, oltre alla presenza dei citati sindacati di base coinvolti nell’organizzazione della lotta, è stato distribuito un volantino del Coordinamento 12 ottobre, formato dal Coordinamento Lavoratori Autoconvocati, dai sindacati di base Cub Trasporti, Sgb, Solo Cobas, da lavoratori del Coordinamento Macchinisti Cargo e dell’area di opposizione in Cgil “Le Radici del sindacato” e da associazioni dei parenti delle vittime della strage di Viareggio e della Torre Piloti di Genova. Nel comunicato post-sciopero la ANLM ha salutato la presenza del Coordinamento.
Lavoratori del porto!
Oggi Filt Cgil, Fit Cisl, Uiltrasporti e Usb Mare e Porti e SI Cobas vi hanno chiamati a uno sciopero di 24 ore a sostegno delle rivendicazioni per il rinnovo del contratto nazionale di lavoro e per porre un primo fermo “No” alla riforma dei porti (legge 84/1994) che mira ad aprire una breccia in cui far entrare la precarietà per aumentare lo sfruttamento e, quindi, i profitti.
Dal 1980 al 2022, la merce movimentata nei porti italiani è aumenta del 26% mentre i portuali sono diminuiti del 24% (5.330 lavoratori in meno). Negli ultimi 20 anni la produttività del lavoro è aumentata del 45%. Questi dati danno la misura di quanto sia cresciuto lo sfruttamento dei lavoratori, di quanto siano cresciuti i profitti di armatori e terminalisti, aumentati i carichi e i ritmi di lavoro, mentre nel frattempo il potere d’acquisto dei salari è diminuito, prima lentamente, poi, con l’inflazione degli ultimi 3 anni, in modo più netto. Inoltre, grazie alla pandemia gli armatori hanno realizzato profitti ancora più esorbitanti, estendendo il loro controllo sulla catena logistica, con acquisizioni dai terminal fino alle compagnie aeree.
Nonostante questi risultati, la sete di profitto di queste gigantesche imprese non si può placare, perché nelle leggi economiche del capitalismo è insita la necessità della continua accumulazione del capitale – costi quel che costi! – nel quadro della concorrenza fra aziende e Stati e sulla base del crescente sfruttamento dei lavoratori.
Per questo ai portuali, come a tutta la classe lavoratrice, li attendono attacchi sempre più duri alle condizioni di lavoro e di vita: dal rigetto alle richieste di aumento salariale, alla riforma dei porti, all’automazione per ridurre ulteriormente il numero di addetti, a sempre maggiori carichi e ritmi di lavoro, all’autoproduzione.
La rivendicazione di aumento salariale del 18% avanzata da Filt, Fit e Uilt è calcolata sul 4° livello lordo, corrisponde a 180 euro lordi, è da dividere nel TEC (Trattamento Economico Complessivo) cioè fra salario in busta e welfare aziendale, e in ogni caso sarebbe concessa con il metodo consolidato e accettato da Cgil Cisl e Uil di suddivisione in tranche, per cui l’aumento integrale si riceve dopo tre anni. La rivendicazione avanzata da Usb di un aumento del 21%, analoga a quella del SI Cobas, calcolata sul 4° livello netto, pari a 300 euro netti, da destinarsi integralmente al TEM (Trattamento Economico Minimo), da corrispondere subito in un’unica tranche, è adeguata a recuperare il potere d’acquisto del salario perduto.
Le segreterie nazionali di Filt Cgil, Fit Cisl e Uiltrasporti inizialmente, il 22 marzo, avevano programmato solo 2 ore di sciopero per turno, per tre giorni (dal 3 al 5 aprile), con possibilità a livello territoriale di concentrare le ore di sciopero nella giornata di oggi. Il 25 marzo l’Usb ha proclamato lo sciopero di 24 ore per oggi. Nei giorni successivi anche Filt Fit e Uilt hanno deciso per lo sciopero di 24 ore.
I 400 lavoratori portuali riunitisi in assemblea l’altro ieri presso la Sala Chiamata hanno chiaramente indicato di volere scioperi non di poche ore ma dell’intera giornata e, se sarà necessario, di 48 o 72 ore. È stata la pressione dei lavoratori e dei delegati sindacali combattivi a spingere Filt Fit e Uilt a promuovere lo sciopero di 24 ore e ad organizzare la stessa assemblea dei lavoratori, che non veniva convocata da questi sindacati da ben 24 anni!
È dall’unità d’azione fra i delegati combattivi in Cgil con il sindacalismo conflittuale dell’Usb – a discapito dell’unità sindacale collaborazionista fra le segreterie di Filt Fit e Uilt – che può scaturire la guida necessarie a condurre lotte con la forza e la determinazione adeguate. Altrimenti si procederà sempre col freno a mano tirato!
Inoltre è necessario unire le diverse battaglie per i rinnovi
contrattuali mantenute separate da Cgil Cisl e Uil. Oltre ai
portuali sono interessati dai rinnovi contrattuali milioni di
lavoratori, a cominciare da metalmeccanici, logistica, ferrovieri,
autoferrotranvieri… Unire queste lotte in scioperi e manifestazioni
comuni significa moltiplicarne la forza. I portuali hanno un grande
potere contrattuale perché tengono in pugno un collo di bottiglia
vitale della circolazione della produzione capitalistica. Ma questo
può non bastare di fronte ai giganti del mondo padronale portuale e
allo Stato borghese che è dalla loro parte. Uniti alle altre
categorie della classe lavoratrice riceverebbero e darebbero forza,
aiutando a elevare le condizioni anche di quei settori
tradizionalmente più sfruttati. Come sempre la forza dei lavoratori
e nella loro unità e questa cresce non restando chiusi nel reparto,
nella fabbrica, nella categoria ma superando questi fittizi confini,
col chiaro obiettivo di puntare all’unità internazionale con gli
scioperi, estremamente necessaria anche per i portuali, e a tutta la
classe lavoratrice per impedire la guerra verso cui ci sta portando
il capitalismo.
Lavoratrici e lavoratori delle Cooperative Sociali,
oggi tutti i sindacati di base (Adl Cobas, Clap, Cobas Lavoro Privato, Comitato Aec-Oepa, Cub, Sgb, Sial Cobas, SI Cobas, Usb) vi chiamano allo sciopero nazionale e a manifestare a Roma.
La vostra categoria è una delle più sfruttate della classe lavoratrice: salari bassi e alta precarietà. Per il fatto di essere in gran parte donne, subite una doppia oppressione, di classe e di genere. Per il fatto di svolgere servizi sociali di primaria importanza, subite il vile ricatto morale delle Cooperative che vi responsabilizzano dei disservizi di cui esse sono responsabili, per farvi lavorare di più, pagarvi di meno e impedire che vi ribelliate, organizziate, scioperiate.
Lo Stato di “tutti i cittadini”, suprema menzogna ideologica, è il primo responsabile di questa vostra condizione, giacché è esso che ha voluto e gestito – coi governi che cambiano colore ma non la sostanza di tutelare gli interessi di una sola classe – l’assegnazione in appalto di questi servizi sociali al sistema delle Cooperative, precisamente al fine far fare profitti sulla vostra pelle. Il fatto che allo Stato “costi di più” dare in appalto i servizi (“esternalizzare”) invece che gestirli direttamente (“internalizzare”) è la conferma che esso è una macchina al servizio della classe economicamente e politicamente dominante. Altro che “Stato sociale”: è uno Stato padronale, infatti è il maggior sfruttatore delle forme di lavoro precario, cui fa ricorso a piene mani.
Contro questa condizione di sfruttamento, un numero crescente di voi ha iniziato a ribellarsi e a lottare. Cgil Cisl e Uil non hanno mai fatto nulla per difendervi e sono complici del sistema di sfruttamento, perché hanno dichiaratamente rigettato il sindacalismo di lotta in favore del collaborazionismo sindacale. Il 26 gennaio scorso hanno firmato il rinnovo del contratto nazionale di lavoro delle cooperative sociali, scaduto da un anno, con aumenti salariali del tutto insufficienti a recuperare la perdita del potere d’acquisto subita in questi 3 anni e, a maggior ragione, a elevare i vostri salari che erano bassi già precedentemente l’alta inflazione.
Vi siete così organizzate nei sindacati di base, nati a partire dalla fine degli anni ‘70 a seguito dell’aperto tradimento della Cgil. Questi sindacati sono però ancora frammentati: in ogni città ve ne sono alcuni e non altri, oppure ve sono più di uno nella stessa città. Per questo l’unità d’azione dei sindacati di base è fondamentale se si vuole far crescere il movimento di lotta, attraendo in esso un numero sempre maggiore di lavoratrici e lavoratori.
Lo sciopero e la manifestazione nazionali di oggi sono molto importanti anche perché sono un ulteriore passo in avanti in questa direzione. Questa unità d’azione dei sindacati di base – che è un mezzo per raggiungere il fine del massimo grado di unità d’azione dei lavoratori – va perseguita e completata, con assemblee e piattaforme rivendicative unitarie.
L’unità d’azione del sindacalismo conflittuale sta portando risultati anche in altre categorie, con scioperi molto ben riusciti fra gli autoferrotranvieri, gli aeroportuali, i ferrovieri del personale viaggiante e gli operai delle manutenzioni ferroviarie (RFI). Fra i ferrovieri del personale viaggiante i sindacati di base (Cub, Sgb, Usb) hanno definito una piattaforma contrattuale unitaria. Anche fra gli autoferrotranvieri e nelle Cooperative sociali i sindacati di base hanno definito una piattaforma contrattuale unitaria, in entrambi i casi però senza l’Usb, limite che nel futuro deve essere superato per il bene del movimento di lotta dei lavoratori.
Col contratto delle Cooperative sociali lavorano 400 mila lavoratrici e lavoratori, principalmente nei settori scolastico-educativo e socio-sanitario. Dalle giuste rivendicazioni specifiche che hanno contribuito a mobilitare i lavoratori in questi mesi – come il rigetto del mancato pagamento per le assenze impreviste degli alunni e la continuità salariale (senza interruzione nei 3 mesi estivi) – occorre salire alle rivendicazioni che accomunano tutti i lavoratori, quali forti aumenti salariali, assunzioni, pagamento pieno ed estensione della maternità, abolizione delle forme d’assunzione precarie, riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Lo sciopero e la manifestazione nazionali di oggi sono un passo in questa direzione.
È necessario costruire l’unità di lotta con il resto della classe lavoratrice, a cominciare dai lavoratori delle altre categorie con cui si condivide ogni giorno il posto di lavoro! Le lavoratrici della scuola e della sanità vanno mobilitate insieme alle lavoratrici delle cooperative sociali, con l’obiettivo della vostra internalizzazione o del contratto unico di settore: un contratto unico, sia nella scuola sia nella sanità, col superamento dei contratti del privato nei due settori.
L’unità d’azione del sindacalismo di base, l’unità di lotta dei lavoratori fra le diverse categorie, sono la strada maestra per costruire un movimento generale di lotta della classe lavoratrice in grado di battersi per questi obiettivi che difendono davvero i lavoratori, in grado di spezzare le catene delle leggi anti-sciopero (146/1990 e 83/2000, volute da Cgil Cisl e Uil) – che impediscono a una parte consistente della classe lavoratrice di scioperare liberamente, per più giorni consecutivi, come spesso sarebbe necessario –, in grado infine di portare alla rinascita fuori e contro i sindacati di regime (Cgil Cisl e Uil) di un unico grande Sindacato di Classe.
Lavoratori
RFI,
dopo il pieno successo dei primi due scioperi promossi dall’Assemblea Nazionale Lavoratori Manutenzioni (ANLM) insieme ai sindacati di base Cobas e Usb – il 12 febbraio e il 13 marzo – l’azienda ha mostrato d’aver paura ed è ricorsa a piene mani alle intimidazioni.
È aiutata dai sindacati firmatari dell’accordo del 10 gennaio: quelli di regime (Cgil, Cisl, Uil, Ugl) e quelli autonomi (Fast, Orsa) che, dopo aver pugnalato alle spalle i lavoratori tenendoli all’oscuro della trattativa e della firma, ora fanno terrorismo inventandosi azioni unilaterali dell’azienda e scenari peggiori dello stesso accordo del 10 gennaio nel caso in cui esso non venisse applicato nelle DOIT, come nel frattempo sono riusciti a fare a Cagliari, Reggio Calabria e Genova!
La forza dei lavoratori deriva solo dai lavoratori: dall’unità sempre più estesa della loro lotta al di sopra degli steccati fra reparti, aziende, categorie, località, Stati nazionali. Questa unità richiede organizzazioni di lotta indipendenti dalla classe padronale e dal suo Stato. Se vi sono sindacati passati in mano al nemico di classe, necessariamente occorre ricostruire genuine combattive organizzazioni sindacali di classe. L’ANLM è un passo in questa direzione, così come lo sono i sindacati di base, nati dalla fine degli anni ‘70 a seguito del definitivo tradimento della Cgil.
A
prescindere dalla forma che assumerà la futura organizzazione
sindacale i fattori fondamentali sono:
-
la massima partecipazione dei lavoratori alla vita
sindacale, come avvenuto in
questi 4 mesi di lotta;
-
l’unità d’azione degli organismi esistenti,
nel rispetto del principio dell’unità dei lavoratori nella lotta
sindacale;
-
il rifiuto dei metodi organizzativi che compromettono il
sindacato col padronato, come
quello del pagamento delle quote sindacali col metodo della delega,
non a caso voluto da Cgil Cisl e Uil, che mette in mano dell’azienda
i soldi del sindacato e l’elenco degli iscritti;
-
il principio che i lavoratori si difendono con la lotta,
non col sindacalismo collaborazionista che ha prodotto il
peggioramento delle condizioni di vita per tutti i lavoratori di
questi ultimi decenni;
-
il rigetto delle limitazioni alla libertà di sciopero,
volute da Cgil Cisl e Uil e introdotte con le leggi 146/1990 e
83/2000.
Oggi l’ANLM, insieme ai sindacati di base Cobas e Usb, a cui questa volta si è aggiunta anche la Cub, hanno convocato il terzo sciopero nazionale e una seconda manifestazione a Firenze, dopo quella riuscitissima di Roma del 13 marzo scorso. L’obiettivo dello sciopero è sempre lo stesso: il ritiro dell’infame accordo del 10 gennaio!
Ma al centro della manifestazione è posta la questione della sicurezza dei lavoratori e dei viaggiatori, per questo è stata convocata sotto la sede della Agenzia nazionale per la sicurezza delle ferrovie.
Naturalmente questo è un gravissimo problema che riguarda tutta la classe operaia, con le ripetute stragi (Brandizzo, 30 agosto: 5 morti; Firenze, 16 febbraio: 5 morti; Suviana, 9 aprile: 7 morti) e i 3-4 operai morti al giorno, senza contare chi si ammala o resta invalido per la vita. Abbassare i salari, aumentare i carichi e i ritmi di lavoro, ridurre i riposi, introdurre il lavoro notturno, sono tutti mezzi per alzare i profitti, che abbassano le condizioni di sicurezza e aumentano le morti di lavoratori. Nel capitalismo conta il profitto, non la vita degli operai.
La lotta degli operai di RFI riguarda tutta la classe lavoratrice perché tutti i lavoratori hanno un interesse vitale a ridurre orario e ritmi di lavoro e ad alzare i salari!
È perciò agli altri lavoratori che gli operai di RFI devono guardare, non solo perché è giusto ma anche perché è necessario per vincere questa battaglia e quelle future! Un passo in questa direzione già è compiuto, con la collaborazione col personale viaggiante dei treni, macchinisti e capitreno, anch’essi organizzati nella Assemblea nazionale PdM-PdB e sostenuti dai sindacati di base. Occorre poi non lasciar nulla di intentato per cercare di coinvolgere gli operai delle ditte in appalto, rivendicando per essi l’assunzione, l’internalizzazione delle attività, o l’applicazione dello stesso contratto di lavoro per chi lavora sulle infrastrutture ferroviarie. Un ulteriore passo in avanti è infine quello di rivolgersi ai lavoratori dei settori affini, quali ad esempio porti, logistica, autoferrotranvieri, tutti scesi in sciopero in queste settimane.
Occorre
rompere il cerchio che isola i lavoratori e le loro lotte nella
singola azienda e categoria,
con scioperi e manifestazioni comuni. È in questo modo che i
lavoratori troveranno la forza per spezzare l’arroganza e la
resistenza padronale.
Di fronte al conflitto di Gaza, dal movimento sindacale negli USA – da circa tre anni tornato a esprimere importanti lotte – sono scaturiti diversi appelli contro la guerra. Vogliamo evidenziarne i pregi, i limiti, gli errori e le scivolate opportunistiche, e indicare quale deve essere il corretto indirizzo sindacale comunista contro la guerra imperialista.
L’appello che ha ottenuto maggiore risalto è stato quello redatto per iniziativa del piccolo sindacato United Electrical e di una sezione locale della United Food & Commercial Work International Union (UFCW).
La United Electrical, Radio and Machine Workers of America è un piccolo sindacato ma con una importante storia. Oggi conta solo 35.000 iscritti, una dimensione alla scala dei principali sindacati di base in Italia, perciò molto piccola per gli Stati Uniti. Nacque nel 1936 e fu fra i primi affiliati alla CIO (Congress of Industrial Organizations), la confederazione di sindacati d’industria nata un anno prima, nel 1935, distinguendosi dalla American Federation of Labour, che era l’antica confederazione di sindacati di mestiere, nata nel 1886.
Negli anni ‘40 la United Electrical raggiunse 600.000 iscritti. Nel 1949 uscì dalla CIO, che era ormai divenuta un sindacato di regime al pari della AFL, alla quale si unì nel 1955 formando l’odierna AFL-CIO.
La concorrenza con la potente CIO segnò l’inizio del declino della United Electrical. Un’altra determinante causa fu la crisi del settore manifatturiero degli elettrodomestici, di cui fanno parte la maggior parte degli iscritti a questo sindacato, che dagli anni ‘90 ha visto un vasto processo di delocalizzazione della produzione al di fuori dagli USA, in paesi di nuova industrializzazione in cui è minore il costo del lavoro. Tuttavia la United Electrical ha mantenuto fino ad oggi una certa vitalità e un riconosciuto prestigio nel movimento sindacale nordamericano, con un seguito concentrato soprattutto nella parte orientale del paese. Conflittuale e con una vita sindacale basata sulla partecipazione degli iscritti, la United Electrical ha però una dirigenza opportunista. Ad esempio nel 2019 ha sostenuto il socialdemocratico Bernie Sanders alle primarie del Partito Democratico, in vista delle elezioni presidenziali del 2020.
La United Food & Commercial Work International Union (UFCW) è invece un grande sindacato di regime, con 1.300.000 iscritti, principalmente del settore alimentare, affiliato alla confederazione AFL-CIO. La sezione locale della UFCW che ha redatto e promosso l’appello insieme alla United Electrical è quella della piccola città di Spokane, nello Stato di Washington, al Nord della costa sul Pacifico, confinante con il Canada. La capitale di questo Stato è Seattle, città che vanta una forte tradizione di lotte operaie.
L’appello è stato pubblicato il 20 ottobre, pochi giorni prima dell’ingresso
dell’esercito israeliano nella Striscia di Gaza, nel pieno dei bombardamenti a
tappeto preparatori dell’operazione di terra. È stato sottoscritto da oltre 200
sezioni sindacali locali e da 5 organizzazioni sindacali nazionali:
- il 24 ottobre ha aderito la International Union of Painters and Allied Trades
(IUPAT), il sindacato di imbianchini, verniciatori e mestieri affini (100.000
iscritti);
- poi la National Nurses United (NNU), il sindacato di mestiere degli infermieri
(225.000 iscritti);
- quindi la American Postal Workers Union (APWU), il sindacato dei lavoratori
della compagnia statale USPS (200.000 iscritti);
- il 1° dicembre ha aderito la United Auto Workers (UAW), il sindacato
dell’industria automobilistica (390.000 iscritti);
- il 28 dicembre, infine, la Association of Flight Attendants-CWA (AFA-CWA), il
sindacato di mestiere degli assistenti di volo (50 mila iscritti).
Questi 5 sindacati, per un totale di quasi 1 milione di iscritti, aderiscono alla AFL-CIO, che conta 55 federazioni sindacali per circa 12 milioni di iscritti. Quindi hanno aderito all’appello grosso modo 1/10 dei sindacati aderenti alla AFL-CIO, corrispondenti a 1/10 degli iscritti. Una consistente minoranza del movimento sindacale, anche considerata la temperatura, ancora bassa, dello scontro fra le classi.
L’elemento positivo dell’appello è che esso non prende parte nella guerra in corso: esprime solidarietà sia ai lavoratori israeliani sia ai palestinesi e condanna tanto l’azione militare dello Stato israeliano quanto l’incursione del 7 ottobre di Hamas. «Noi, membri del movimento sindacale americano, piangiamo la perdita di vite umane in Israele e in Palestina. Esprimiamo la nostra solidarietà a tutti i lavoratori e il nostro comune desiderio di pace in Palestina e Israele... Condanniamo qualsiasi crimine di odio contro i musulmani, gli ebrei o chiunque altro... Gli iscritti al sindacato hanno provenienze diverse, tra cui ebrei, musulmani e comunità mediorientali. L’ondata di guerre e le vendite di armi a cui assistiamo non fanno gli interessi dei lavoratori in nessun luogo... I lavoratori di tutto il mondo vogliono e meritano di vivere liberi dagli effetti della violenza, della guerra e della militarizzazione».
L’appello resta tuttavia in ambito pacifista, illudendo così i lavoratori che la pace possa essere ottenuta appellandosi ai governi, affinché cessino le operazioni militari, e non attraverso una lotta sociale, della classe operaia, che imponga questo obiettivo con la forza, nella consapevolezza che a confrontarsi non sono idee diverse e nemmeno “il bene contro il male”, ma giganteschi interessi materiali in conflitto: da un lato quelli del Capitale dall’altro quelli dei proletari. Quindi l’obiettivo di fermare le guerre imperialiste potrà essere raggiunto in modo compiuto e definitivo solo se la lotta di classe trascresce in una rivoluzione che abbatta il potere politico della classe dominante in tutti gli Stati, a cominciare dal proprio.
L’appello perciò si riduce a chiedere al regime borghese una politica di pace: «Chiediamo al Presidente Joe Biden e al Congresso di spingere per un immediato cessate il fuoco e la fine dell’assedio di Gaza... Nel lanciare questo appello i sindacati statunitensi si uniscono agli sforzi di 13 membri del Congresso e di altri che chiedono un cessate il fuoco immediato».
Questa condotta implica una enorme mistificazione. La politica militarista nel capitalismo non è una libera scelta dei governi ma è per essi un obbligo, una necessità vitale. Ad essa tutti gli Stati borghesi, siano essi democratici o autoritari, di destra o di sinistra (per quanto poco possano contare queste distinzioni), si devono adeguare. Il capitalismo genera e ha bisogno della guerra quale sua unica via di scampo dall’abisso della crisi economica mondiale e, di conseguenza, dalla rivoluzione delle sempre più immiserite e affamate masse proletarie.
Da un lato l’avanzante crisi economica di sovrapproduzione porta la competizione capitalistica, fra imprese e Stati, al parossismo, rendendo sempre più frequente il passaggio da scontro commerciale a militare. Ogni Stato borghese è minacciato dagli altri. Dall’altro tutti gli Stati borghesi sono minacciati e aggrediti, insieme e senza distinzioni, dalla crisi economica che deteriora le condizioni di vita del proletariato creando le condizioni materiali favorevoli alla rivoluzione sociale. La guerra perciò rappresenta la soluzione a un tempo economica e sociale alla crisi del capitalismo.
L’appello della United Electrical si inquadra nel fatto che la dirigenza della UAW sostiene il presidente Biden alle prossime elezioni presidenziali, sia con l’indicazione di voto ai propri iscritti sia con ingenti risorse finanziarie. Si tratta cioè di un appello a un partito politico borghese, spacciato per “amico” di chi lavora, da parte della dirigenza della UAW.
Posto in questi termini l’appello alla solidarietà e all’unità dei lavoratori al di sopra d’ogni divisione nazionale e religiosa perde di vigore, essendo privato di una indicazione pratica di lotta: una enunciazione astratta che non si pone l’obiettivo di combattere le forze borghesi fautrici del militarismo e della guerra, bensì cerca il dialogo, si appella e addirittura si genuflette di fronte ad esse.
Vi è poi stata tutta una serie di appelli contro la guerra a Gaza, per un “cessate il fuoco”, di minor diffusione, che hanno visto rovesciare queste caratteristiche. Essi cioè hanno avuto il pregio di fornire indicazioni pratiche di lotta su come combattere contro il militarismo dell’imperialismo USA, ma ritenendo responsabile del conflitto il solo binomio Israele-USA ed evitando ogni attacco allo schieramento borghese contrapposto costituito da Hamas e dalle potenze, ugualmente borghesi, che lo sostengono e alla loro altrettanto cinica politica guerrafondaia e assassina, finiscono per schierare i lavoratori su uno dei fronti del conflitto, portando con ciò alimento ideale alla guerra imperialista, invece che al suo sabotaggio.
Ad esempio, leggiamo dall’appello del 28 febbraio della sezione di Portland (la n° 48) della International Brotherhood of Electrical Workers (IBEW, con circa 820.000 iscritti, affiliata alla AFL-CIO): «Premesso che... la lotta dei lavoratori non ha confini... considerato che l’opposizione della classe operaia a questa guerra di Stati Uniti e Israele va di pari passo con il motto sindacale “Un danno a uno è un danno a tutti” e con l’appello “Arabi, ebrei, bianchi e neri, lavoratori di tutto il mondo unitevi”... la sezione n. 48 della IBEW appoggia l’appello dei sindacati palestinesi affinché i lavoratori di tutto il mondo fermino la spedizione di armi per la guerra di Stati Uniti e Israele; salutiamo i lavoratori dei trasporti portuali di Barcellona, Belgio, Italia e altri paesi che hanno dichiarato di rifiutarsi di gestire le spedizioni di armi per questa guerra; sosteniamo e incoraggiamo le azioni di questi lavoratori negli Stati Uniti per fermare le spedizioni di armi... opponendosi a quella che è a tutti gli effetti l’ennesima guerra degli Stati Uniti, questa volta contro il popolo di Gaza» [corsivi nostri].
Il giusto richiamo all’unità internazionale dei proletari e l’indirizzo di lotta per opporsi sul terreno pratico alla guerra imperialista vengono vanificati dalla mistificazione del carattere della guerra in corso a Gaza, descritta come imperialista e borghese da un lato solo.
L’unica attenuante è che questa presa di posizione va contro il proprio regime borghese, quello di Washington, che ha in Israele il suo alleato non unico ma fondamentale nell’area mediorientale.
L’indicazione pratica del sabotaggio, attraverso scioperi, blocco del trasporto di materiale bellico, ecc., è, per altro, insufficiente se queste azioni vengono intese di per sé come risolutive. Esse vanno considerate passaggi intermedi per approdare infine a una mobilitazione generale della classe lavoratrice contro il militarismo del proprio Stato capitalista.
Inoltre ogni potenza imperialista si è spesso trovata ad armare contemporaneamente Stati in guerra fra loro. Ad esempio il Qatar che ospita oggi sia la più grande base Usa in Medio Oriente sia il vertice politico di Hamas.
Se “la lotta dei lavoratori non ha confini” e se “un danno a uno è un danno a tutti” – in quanto gli interessi della classe lavoratrice sono unici sul piano internazionale e unica e coerente dev’essere la sua azione di lotta se vuole essere vittoriosa – non è accettabile limitarsi a un indirizzo di azione contro la guerra imperialista sul solo piano nazionale, disinteressandosi dei suoi riflessi sui lavoratori degli altri paesi. Se è giusto l’indirizzo pratico di lotta negli Stati Uniti, ma è mistificata la definizione della natura della guerra di oggi a Gaza, sul piano internazionale il risultato è spingere i lavoratori verso il sostegno al fronte borghese che spalleggia Hamas.
Per un paese come l’Italia, la cui borghesia per determinazioni materiali gioca sempre su più tavoli e, fin dai tempi di Mussolini, coltiva una relazione con le classi dominanti arabo-palestinesi, nel quadro della sua politica imperialista nell’area mediterranea, una impostazione quale quella di quest’ultimo appello significa portare la classe operaia ad appoggiare una delle opzioni di politica estera della classe dominante, invece che battersi per i propri interessi di classe.
Un indirizzo pratico per porsi in maniera conseguente sul terreno dell’unità
internazionale del proletariato, e non su quello della guerra borghese
distruttrice di tale unità, dovrebbe:
- denunciare la guerra come borghese e imperialista su entrambi i fronti;
- esprimere solidarietà ai proletari di entrambi i paesi, quindi anche ai
lavoratori d’Israele appellandosi alla fratellanza proletaria;
- denunciare entrambi i regimi borghesi che portano al massacro fratricida i
lavoratori;
- dare ai proletari di tutti i paesi e di tutti gli schieramenti imperialisti il
medesimo indirizzo pratico di lotta contro il militarismo e la guerra.
In assenza di questi elementi, che soli rendono l’indirizzo sindacale davvero internazionalista, il risultato è quello di accodare il proletariato alla politica bellicista della borghesia internazionale.
Noi comunisti avvertiamo comunque la necessità di indicare ai lavoratori le insidie di ogni proclama e appello pacifista proveniente da sindacati che sono infeudati allo Stato capitalista statunitense.
Tali proclami possono contribuire ad accodare le masse proletarie con la politica estera del governo federale. Il Congresso Usa con un voto bipartisan ha votato il finanziamento al riarmo di Israele, Ucraina e Taiwan per 95 miliardi di dollari. Allo stesso tempo Biden, che pure ha fortemente voluto e ha firmato il pacchetto di aiuti militari, simula un atteggiamento da paciere non interventista e pronto alla trattativa sia in Medio Oriente sia in Ucraina. Un posizionamento “isolazionista” è stato un espediente tattico cui gli Stati Uniti hanno fatto ricorso a ridosso di entrambi i conflitti mondiali. In tal modo il governo Usa riuscì a imporre il tema propagandistico della grande potenza il cui peso politico la costringe a combattere per il bene dell’umanità, della democrazia e della prosperità planetaria.
Dobbiamo ricordare come in passato i sindacati sono stati utilizzati dagli Stati capitalisti per orientare le masse e inquadrarle ideologicamente in vista dell’intervento in guerra. Spesso la collaborazione dei sindacati coi governi ha avuto la funzione di gestire la crisi sociale in prossimità di una guerra.
Fu significativa in questo senso la politica di subordinazione dei sindacati
americani allo Stato perseguita dal presidente Woodrow Wilson durante la prima
guerra mondiale. Si trattava allora per la borghesia di fare fronte a problemi
come la crescente inflazione e la carenza di manodopera mediante la concessione
di moderati aumenti salariali. Wilson venne rieletto alla Casa Bianca nel 1916
grazie a una campagna elettorale ispirata al neutralismo. Poi, a guerra finita,
lo stesso Wilson fu il promotore della Lega delle Nazioni che avrebbe dovuto
impedire nuove guerre. Nel frattempo gli Stati Uniti erano intervenuti nelle
battute finali delle prima guerra mondiale per sedersi al tavolo dei vincitori.
La via dell’interventismo bellico passa anche attraverso la collaborazione dei
sindacati, mentre i proclami pacifisti si trasformano rapidamente in richiamo
alle armi.
Le borghesie al potere in Irlanda e nel Regno Unito si trovano in una situazione di stallo per quanto riguarda una recente crisi dei rifugiati richiedenti asilo. Con l’avvento della Brexit il Regno Unito ha inasprito la legislazione in materia di immigrazione.
L’ultima legge sulla sicurezza afferma che gli immigrati “illegali” che arrivano nel Regno Unito sono soggetti a essere deportati in Ruanda. Questo ha fatto sì che, per non essere deportati in Ruanda, molti cercano di entrare nell’UE e di chiedervi asilo attraversando il confine tra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda, privo di punti di controllo.
La crisi generale del regime capitalista, oltre a dimostrare ancora una volta l’impotenza della borghesia, ha fatto precipitare le tensioni tra il governo britannico e quello irlandese. Il governo irlandese, che non vuole fornire una sistemazione a poco più di mille rifugiati, sta preparando una legge d’emergenza per rimandare gli immigrati nel Regno Unito, definito “paese sicuro” per gli emigranti che vivono nelle tende per le strade di Dublino.
L’anno scorso sono
state ordinate oltre 7.000 espulsioni dal Regno Unito di cui circa 100
effettuate. Gli altri si trovano in quello che le Nazioni Unite hanno definito
un limbo legale, in attesa di conoscere il loro destino, mentre la borghesia
irlandese e quella britannica si accapigliano su una vuota retorica giuridica
PAGINE 5-8
Democrazia e fascismo
Giano bifronte del capitalismo
Alle origini del corporativismo fascista: i sindacalisti rivoluzionari
Il corporativismo è stato un fenomeno che si è manifestato in molti paesi spesso con la commistione di varie matrici ideologiche, la principale delle quali fu il corporativismo cattolico. In Italia il corporativismo fascista deriva, oltre che dalla matrice cattolica, anche dalla sindacalista rivoluzionaria. Nati all’interno del PSI, in opposizione ai riformisti che dominavano il partito e la CGdL, i sindacalisti rivoluzionari guidarono parecchi scioperi di classe nel primo decennio del secolo XX.
Il preteso rimedio al riformismo non fu però migliore del male, poiché il rifiuto del marxismo e della lotta di classe non produsse l’avanguardia del movimento proletario, ma quella della reazione borghese. In tale rifiuto, a volte esplicito e a volte no, il posto di Marx era stato preso da un miscuglio di Sorel, del “vitalismo” di Bergson, del “pragmatismo” di James e del solito Proudhon. Con i loro avversari riformisti, i sindacalisti rivoluzionari avevano in comune il gradualismo, il “culturismo” e la concezione che vedeva il sindacato come l’organo direttivo del proletariato, con la conseguente negazione, o svalutazione, della funzione del partito.
I sindacalisti rivoluzionari divennero poi tutt’uno con i nazionalisti, pur provenendo da sponde opposte, gli uni dal partito socialista, gli altri dal conservatorismo borghese. Essi condividevano quella sorta di ideologia “vitalista” e “pragmatica” che in quegli anni trovò un rappresentante in D’Annunzio.
Se le affinità tra i due gruppi erano visibili sin dall’inizio, divennero evidenti in occasione della guerra di Libia del 1911. Alcuni sindacalisti rivoluzionari furono già allora interventisti, ma la maggioranza, guidata da Alceste De Ambris, si dichiarò contro la guerra, anche se per motivi lontani dai nostri.
La contrarietà alla guerra di Libia e il riconoscere una presunta impossibilità di conquistare la CGdL dall’interno spinsero De Ambris e Corridoni a promuovere nel 1912 la nascita dell’USI (Unione sindacale italiana), della quale faranno parte sindacalisti rivoluzionari e anarchici. Noi siamo contrari alle scissioni sindacali e lo fummo anche allora. Allora era possibile, anche se non facile, conquistare la direzione della CGdL strappandola ai riformisti, per portarla su posizioni di classe.
Nell’USI si andava imponendo, con alterna fortuna, una nuova forma di organizzazione sindacale, sostenuta da Corridoni, in cui gli operai erano organizzati fabbrica per fabbrica: partendo dagli organismi di fabbrica, le “cellule”, si doveva arrivare a raggruppamenti intermedi e poi ad una “federazione d’industria”.
Dopo la settimana rossa del 1914 De Ambris cercò di adottare una nuova strategia. Furiozzi in “Il sindacalismo rivoluzionario italiano” scrive: «Egli cominciò a convincersi che … all’USI convenisse abbandonare la strategia del sindacalismo puro e promuovere la confluenza di tutti i rivoluzionari – sindacalisti, socialisti, anarchici, repubblicani – su un programma politico basato sulla sostituzione delle attuali istituzioni politiche con una Federazione di liberi comuni … riducendo al minimo le competenze dell’organismo centrale “fino a ridurlo ad essere soltanto il coordinatore e l’interprete delle volontà locali”. Di questa nuova società il sindacato operaio costituiva il nucleo essenziale quale “arbitro della produzione e dello scambio”». Dunque si trattava ancora una volta di un programma in continuità con le idee di Proudhon e con il federalismo borghese.
Con lo scoppio della prima guerra mondiale la stragrande maggioranza dei sindacalisti rivoluzionari divennero interventisti. De Ambris fu tra i primi a dichiararsi a favore della “guerra rivoluzionaria” a fianco delle potenze occidentali, e nel settembre 1914 presentò al Consiglio Generale dell’USI un ordine del giorno interventista, la cui bocciatura provocò le dimissioni del Comitato Centrale.
La UIL e il sindacalismo nazionale dei produttori
La guerra vide un eminente esempio di collaborazione di classe nell’ottica corporativista grazie ai comitati di mobilitazione industriale e alla propagandata sottomissione degli interessi particolari all’interesse generale della nazione. Su queste basi nel giugno 1918, ad opera dei sindacalisti rivoluzionari interventisti provenienti dall’USI, nacque la UIL (Unione italiana del lavoro).
All’interno di essa confluirono due tendenze: quella di Edmondo Rossoni, il quale rivendicava un sindacalismo apolitico e apartitico, e quella di De Ambris, secondo il quale i sindacati avrebbero dovuto “svolgere la loro attività all’interno dello Stato, e, come parte di esso, in convivenza con gli altri istituti”. Prevalse il “sindacalismo integrale” di Rossoni, concezione per cui il sindacato avrebbe dovuto gradualmente assumere tutte le funzioni dello Stato fino a sostituirlo.
Il sindacalismo e il corporativismo fascisti trassero origine dalla UIL e in particolare dalle posizioni di De Ambris. Quest’ultimo partecipò nel 1919 all’elaborazione del programma dei “Fasci di combattimento”; fu poi stretto collaboratore di D’Annunzio a Fiume, dove elaborò la Carta del Carnaro, ispirata ai principi del corporativismo.
Dopo la marcia su Roma si stabilì a Parigi prendendo le distanze dal fascismo. Ciò fu dovuto anche al mancato appoggio di quest’ultimo all’impresa fiumana, vista da De Ambris come esempio di una sorta di “repubblica sindacalista” da esportare in Italia. Il principale ispiratore del corporativismo fascista divenne quindi un campione dell’antifascismo.
La UIL si proclamò indipendente da qualsiasi partito politico e a favore del graduale trasferimento alla classe lavoratrice organizzata della gestione della produzione e della distribuzione della ricchezza. Del suo programma facevano parte l’espropriazione di tutte le terre non coltivate direttamente dai proprietari, il controllo della produzione e dei profitti (eterna utopia borghese), e l’unità sindacale, che in questa ottica era solo il travestimento di un’unità politica e patriottica. Tuttavia tra i proletari che facevano parte della UIL a volte emergevano sprazzi di posizioni di classe. Ciò va a ennesima conferma della giustezza della nostra parola d’ordine sul fronte unico sindacale dal basso.
L’Alleanza del lavoro rappresentò la realizzazione della politica e dell’azione sindacale del Partito Comunista d’Italia. Sapevamo che le dirigenze di tutti i sindacati avrebbero fatto tutto il possibile per sabotarla; ma il fatto che l’avessero dovuta accettare, su pressione dei loro iscritti, stava a significare che era possibile unire i proletari su una linea di classe. Persino la UIL, sindacato affine a quello fascista, anche se non di Stato, fece quindi parte dell’Alleanza del lavoro. Nel novembre 1920 c’era stata una scissione nella UIL che portò alla fondazione della Confederazione italiana dei sindacati economici guidata da Rossoni, sempre in nome della apoliticità e della apartiticità del sindacato.
Mussolini, che inizialmente aveva guardato con favore alla UIL di De Ambris, ritenne allora più utile la “apoliticità” dei sindacati, nel tentativo di staccarli dai rispettivi partiti e farne un proprio strumento. Sappiamo che questo non avvenne e il fascismo creò i propri sindacati, licenziando i dirigenti della CGdL, che fino all’ultimo avevano tentato di accreditarsi presso i nuovi padroni. La Confederazione dei sindacati economici nel gennaio 1922 cambiò nome in Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali, segnando così la nascita ufficiale dei sindacati fascisti. Rossoni trovò più conveniente abbandonare le sue concezioni di “autonomia sindacale” per il corporativismo fascista.
Dunque intorno al 1920 anche la UIL era passata nel campo antifascista, dopo essere stata mollata da Mussolini in nome dei sindacati economici, e dopo la fine dell’impresa fiumana di D’Annunzio, i cui dirigenti erano stati entusiasti sostenitori.
Produttivismo e ordinovismo
Le concezioni produttivistiche dell’ordinovismo derivano dal sindacalismo rivoluzionario e procedono parallelamente al corporativismo fascista nel guardare ai “produttori”, per poi sfociare nel “partito nuovo” di Togliatti, e cioè nella piena accettazione del capitalismo e della patria.
Riguardo ai produttori, è molto chiaro ciò che scrivevamo ne “Il Soviet” del 1
giugno 1919: «La classe deve considerarsi non come un semplice aggregato di
categorie produttrici, ma come un insieme omogeneo di uomini le cui condizioni
di vita economica presentano analogie fondamentali. Il proletario non è il
produttore che esercita dati mestieri, ma è l’individuo contraddistinto dal
nessun possesso di strumenti di produzione, e dalla necessità di vendere per
vivere l’oper propria».
L’insurrezione armata in Germania
La Divisione della Marina Popolare
In seguito all’ammutinamento dei marinai della flotta del Baltico e alla loro sollevazione, che provocarono la caduta del regime imperiale nel novembre del 1918, durante le otto settimane di doppio governo dei consigli e del governo del Reich fu quest’ultimo che mantenne il potere. I segretari di Stato e gli alti funzionari lavoravano esclusivamente per il socialdemocratico Ebert, che ricopriva la carica di cancelliere, resi impotenti i ministri dell’USPD (il Partito Socialdemocratico Indipendente di Germania).
La questione del potere si risolse la sera del 10 novembre nel “patto telefonico” tra Ebert e il generale Wilhelm Groener, il vice capo di stato maggiore delle forze armate tedesche. Groener assicurò a Ebert il sostegno dell’esercito ricevendo in cambio la promessa di Ebert di ripristinare la gerarchia militare e di sopprimere i consigli.
In tutta la Germania i consigli e l’amministrazione collaborarono per regolare la distribuzione degli alimenti e l’accoglienza dei soldati smobilitati. Solo qui e là, in particolare ad Amburgo e Brema, si tentò di istituire le guardie rosse rivoluzionarie.
Ebert incaricò il conte Hermann Wolff-Metternich di creare una “forza di sicurezza per proteggere il centro di Berlino e gli edifici governativi”.
L’11 novembre, nel Marstall, la scuderia reale, fu costituita la Volksmarinedivision (VMD, Divisione della Marina Popolare), composta da marinai che, in seguito alle rivolte nelle città portuali di Kiel, Wilhelmshaven e Cuxhaven, si erano riversati a Berlino. Essi vedevano il loro ruolo come una guardia rivoluzionaria. Al suo apice, a Berlino la VMD era composta da più di 3.000 marinai, compresi quelli appena usciti di prigione, e da altri 2.000 che potevano essere richiamati dalle città portuali. Tuttavia, la VMD era socialmente eterogenea e questo la spinse in direzioni radicalmente diverse. Non essendo mai diretta da una chiara strategia politico-militare non poté mai essere impiegata per il passo decisivo alla presa del potere.
Prima di fuggire da Berlino Wolff-Metternich avvertì Ebert che elementi simpatizzanti degli spartachisti erano in ascesa all’interno della VMD, che si era insediata nel Palazzo di Città di Berlino.
Il 12 dicembre le autorità militari fecero pressione affinché la VMD venisse sciolta. La VMD riuscì invece a far approvare una risoluzione dei Consigli dei soldati della Grande Berlino il 17 dicembre, secondo la quale avrebbe avuto il comando supremo sulle unità militari, mentre tutti i gradi sarebbero stati aboliti e gli ufficiali licenziati. Queste e altre richieste vennero inserite in un manifesto, i cosiddetti “Punti di Amburgo”, che posero fine al Patto Ebert-Groener.
Il Consiglio dei Deputati del Popolo, cioè il governo provvisorio, esercitò pressioni trattenendo i salari della VMD e chiese a Wels di costringere i marinai a lasciare il Palazzo di Città. Per tutta risposta, il 23 dicembre la VMD marciò verso l’ufficio di Wels. In un conflitto a fuoco fra la VMD e la Guardia Repubblicana due marinai furono uccisi. La VMD prese allora in ostaggio Wels, occupò la centrale telefonica e tagliò le linee. Ma Ebert utilizzò una linea segreta per chiedere aiuto all’OHL (l’alto comando militare) per mettere in atto il patto Ebert-Groener. Le truppe regolari furono mobilitate e marciarono su Berlino: contavano soltanto 800 uomini ma portarono con sé l’artiglieria da campo.
Il bombardamento iniziò alle otto del mattino della vigilia di Natale del 1918. I marinai respinsero l’attacco, anche se nello scontro caddero 30 fra marinai e civili. Le truppe governative dovettero ritirarsi. Vennero sciolte e integrate nei Freikorps di nuova formazione. Il potere militare a Berlino era nelle mani della VMD, ma i marinai non approfittarono della situazione, tornando nei loro alloggi.
La scaramuccia, che Liebknecht chiamò “il Natale di sangue di Ebert”, fornì l’impulso finale ai socialdemocratici indipendenti per ritirarsi dal governo provvisorio, il 29 dicembre.
L’insurrezione di gennaio
Dopo i combattimenti di Natale, Gustav Noske, il nuovo Commissario del Popolo per l’Esercito e la Marina, si affidò ai Freikorps per respingere la marea della rivoluzione. Emil Eichhorn (USPD), che si era rifiutato di usare le forze di sicurezza sotto il suo comando contro la VMD, fu licenziato da capo della polizia di Berlino. La VMD intanto si era spostata a sinistra. Il 30 dicembre, una delle sue divisioni protesse la conferenza di fondazione del Partito Comunista Tedesco (KPD).
Il 4 gennaio, il comitato esecutivo dell’USPD di Berlino, insieme ai delegati rivoluzionari, indisse una manifestazione per il giorno successivo. La Centrale del KPD convenne che gli slogan dovevano essere cauti: non era il momento di tentare di prendere il potere, poiché la direzione dell’SPD godeva ancora di un ampio sostegno operaio al di fuori di Berlino.
Eppure la manifestazione superò ogni aspettativa. In centinaia di migliaia scesero nelle strade di Berlino in quella che fu probabilmente la più grande manifestazione proletaria della storia tedesca. Questo creò un dilemma per i capi del KPD. “Hanno deliberato, deliberato e deliberato”, mentre le masse volevano l’azione. Ledebour (USPD) e Liebknecht ritenevano che fosse il momento di passare all’offensiva. Altri lo ritenevano imprudente: una “Comune di Berlino” poteva durare al massimo qualche giorno. Alla fine fu formato un comitato rivoluzionario provvisorio composto da 53 persone; Ledebour, Liebknecht e Paul Scholze furono eletti presidenti con pari diritti. Tuttavia mancava un piano d’azione.
Si verificò un incidente che mise i capi di fronte al fatto compiuto. I dimostranti occuparono gli uffici dei giornali “Vorwärts” e “Berliner Tageblatt” della SPD, diverse case editrici e l’ufficio telegrafico. Era il momento di agire con decisione. Ma Rosa Luxemburg fu costretta a scrivere, in un articolo, sotto il significativo titolo “Cosa fanno i capi?”, “Non abbiamo visto e sentito nulla!”.
Molto dipendeva dall’atteggiamento dei marinai della VMD, che però protestavano perché non erano stati consultati e infine optarono per un atteggiamento di neutralità. Il fervore rivoluzionario si stava dissipando. Un testimone comunista (presumibilmente Levi) scriverà: “Queste masse non erano pronte a prendere il potere”.
I nemici furono più decisi. Noske fece marciare intorno a Berlino le unità dei Freikorps insieme ai paramilitari repubblicani e ai reggimenti imperiali totalmente ostili alla Repubblica. Il Comitato Centrale dei Consigli, dominato dalla SPD, e il suo esecutivo di Berlino approvarono il licenziamento di Eichhorn.
La Centrale del KPD, in confusione, non era disposta a chiamare la ritirata. Gli indipendentisti, nel frattempo, decisero di negoziare, permettendo al governo di lanciare una furiosa campagna di propaganda contro i comunisti. Il governo concesse i pieni poteri di polizia al generale von Lüttwitz, capo della Reichswehr provvisoria, mentre Noske radunò i Freikorps a Dahlem, un sobborgo borghese di Berlino. Ma la forza armata era solo uno degli aspetti della controffensiva di Ebert. L’altra era la trattativa, per prender tempo, mentre le forze governative riprendevano il controllo dei punti chiave della città, la stazione ferroviaria di Anhalt e la tipografia del Reich.
Gli scontri di piazza durarono da giovedì 9 a domenica 12 gennaio. Le forze governative attaccarono Spandau, dove uccisero il presidente del consiglio operaio e arrestarono gli spartachisti. Nella notte tra il 10 e l’11 gennaio furono arrestati Georg Ledebour, uno dei negoziatori, e lo spartachista Ernst Meyer. Il mattino seguente le truppe governative iniziarono a bombardare l’edificio del “Vorwärts”, e quando alcuni degli occupanti si arresero furono brutalmente uccisi. Trecento insorti presenti nell’edificio furono fatti prigionieri. L’SPD chiese che fossero tutti fucilati, cosa che si rivelò eccessiva anche per l’ufficiale della Reichswehr in carica, Von Stephani.
Il 12 gennaio il governo lanciò un attacco al quartier generale della polizia e l’insurrezione finì.
Durante quei pochi giorni la Centrale del KPD era in preda al caos, in parte perché si erano persi i contatti con Liebknecht, il quale perdeva il suo tempo con i dirigenti dell’USPD. L’incapacità di coordinarsi con le forze in campo, tra cui la VMD e i soldati rivoluzionari, fu un importante elemento di debolezza, così come l’incapacità di valutare la reale disponibilità della classe operaia all’azione armata.
Berlino non era per la Germania quello che Parigi era stata per la Francia. C’erano parecchi centri di potere regionali e il successo rivoluzionario era possibile solo se coordinato da un forte partito comunista centralizzato, il quale non esisteva ancora. La Luxemburg lamentava la scarsa organizzazione del suo nuovo Partito: «L’assenza di una guida, l’inesistenza di un centro per organizzare la classe operaia berlinese non può continuare. Se la causa della Rivoluzione deve avanzare (...) gli operai rivoluzionari devono creare organizzazioni dirigenti in grado di guidare e utilizzare l’energia combattiva delle masse», un «unico partito che non conosca compromessi».
Nel suo ultimo articolo, “L’ordine regna a Berlino”, il principale bersaglio della sua invettiva fu il comitato rivoluzionario: «La contraddizione tra la potente (...) offensiva delle masse berlinesi (...) e l’indecisione della dirigenza berlinese è il segno di questo ultimo episodio. La direzione è mancata».
Gli oppositori chiameranno gli scontri di piazza del gennaio 1919 “Rivolta Spartachista”, nome che gli è poi rimasto. Ma il KPD non l’aveva né voluta né pianificata. Quando Liebknecht tornò finalmente al quartier generale del KPD dopo alcuni giorni di assenza, fu sommerso di rimproveri. Rosa gli gridò: “Karl, che fine ha fatto il nostro programma?”. Infatti il programma adottato dalla conferenza di fondazione del KPD, che, sebbene assemblato frettolosamente e con i difetti individuati da Lenin, aveva stabilito un programma chiaro, anche per la lotta armata.
Contrariamente ai miti successivi, Karl e Rosa non ebbero un’influenza diretta sul corso degli eventi in Germania da novembre a gennaio, avendo capito che non era in corso alcuna rivoluzione socialista, che dietro i consigli guidati dall’SPD Ebert stava preparando il terrore.
I marinai rivoluzionari che formarono la VMD e la Lega dei Soldati Rossi svolsero un ruolo maggiore nel determinare il succedersi degli eventi che il neonato KPD. Ciò che seguì fu una serie di scontri locali in tutta la Germania tra lavoratori armati e Freikorps, in cui questi ultimi poterono prevalere con facilità isolando e schiacciando i rivoltosi.
Un altro atto della tragedia doveva ancora svolgersi a Berlino. Il 3 marzo il KPD lanciò un appello per uno sciopero generale. Le richieste comuniste comprendevano la rielezione di tutti i consigli di fabbrica, il disarmo dei Freikorps e il ripristino delle relazioni diplomatiche con la Repubblica Sovietica di Russia.
Tuttavia, dopo le esperienze di gennaio, la Centrale fu molto chiara: l’attenzione doveva essere per le assemblee di massa e gli scioperi, non per la lotta armata.
Il governo prussiano dichiarò lo stato d’assedio e investì Noske dei pieni poteri civili e militari. Il 6 marzo la Reichswehr condusse un attacco deciso contro la VMD, che occupava ancora il Marstall, con carri armati, mitragliatrici, mortai e artiglieria. Il KPD, che a gennaio non era riuscito a ottenere il sostegno dei marinai per la lotta armata, ora denunciava i marinai per aver reagito!
Il movimento di sciopero crollò e Noske rifiutò le condizioni per il ritorno al lavoro. Noske diramò l’ordine che chiunque fosse stato trovato in possesso di armi sarebbe stato fucilato sul posto. Furono uccisi ben 3.000 civili, tra cui il capo spartachista Leo Jogiches.
L’11 marzo, 29 marinai che erano andati ad arrendersi e a ritirare la paga di congedo furono uccisi. Noske aveva ordinato di fucilare un uomo su dieci. Uno riuscì a fuggire.
Un’occasione mancata
Il VMD fu la forza armata più simile a una Guardia Rossa che emerse a Berlino nel 1918-19. Ma oscillava tra il sostegno al governo e ai rivoluzionari, tra la coalizione SPD-USPD e la rivoluzione. Solo una minoranza, la cui influenza andava via via scemando, si unì al KPD.
Priva di un chiaro indirizzo politico, la VMD non seppe come approfittare delle
vittorie iniziali. Sopravvisse agli scontri di gennaio per essere annientata a
marzo, quando si dispiegò la vendetta dei militari, ora organizzati in unità
proto-fasciste. Influenzata da pregiudizi democratici che avevano caratterizzato
la rivolta di novembre contro la Marina Imperiale, la VMD non ebbe mai una
direzione di partito con una piattaforma programmatica in grado di condurre un
assalto vittorioso alla cittadella del capitale.
Notizie dalla Russia
Ai compagni era stato chiesto di inviare un breve rapporto sulla situazione in Russia: lo stato del movimento operaio, la situazione nell’esercito, l’atteggiamento della società nei confronti della guerra. Questa la loro risposta.
Invece della prevista stagnazione attesa dagli analisti, nel 2023 l’economia russa ha mostrato una crescita superiore al 3%. E la propaganda del regime ne ha parlato con orgoglio.
Ma cosa significa questo in realtà? La crescita è dovuta principalmente al forte spostamento di capitale nel complesso militare-industriale, alla produzione di armi. Secondo i dati ufficiali, il bilancio statale per il 2024 prevede già circa 11 miliardi di rubli per la “difesa”, più 3,6 per l’apparato di polizia: il 40% dell’intero bilancio della Russia!
L’economia di guerra peggiora il tenore di vita della classe operaia. L’aumento della spesa militare riduce le altre voci del bilancio statale, sanità, istruzione, alloggi, servizi comunali, ecc. In alcune grandi città e regioni, a causa di guasti nelle reti di riscaldamento per mancata manutenzione, migliaia di cittadini sono rimasti al freddo con fuori gelo a -20, -30 gradi.
L’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità non si ferma, mentre non crescono i salari. Anche nei settori in cui sono aumentati (nel complesso militare-industriale e nell’industria), sono divorati da un’inflazione al 7,5% (alcuni analisti prevedono il 9% nel prossimo futuro).
Questo influenza l’umore della società. Nonostante la rabbiosa propaganda nazionalista, si comincia chiaramente a stancarsi della guerra. Anche il più piccolo successo al fronte viene presentato dalla propaganda come un passo verso la vittoria, ma anche i più ardenti sostenitori del governo capiscono che è in corso una sanguinosa guerra di posizione e non c’è da parlare di vittoria. Inoltre tutti coloro che hanno contatti con i combattenti al fronte dicono apertamente di non credere a una parola della TV. Se la propaganda ripete che la nazione si è stretta attorno al suo “capo perpetuo”, in realtà c’è stanchezza della guerra e sempre di più sono i favorevoli all’avvio dei negoziati con l’Ucraina.
Si sono avuti tentativi di auto-organizzazione dei parenti dei soldati per riportarli a casa, con picchetti, petizioni e raccolta di firme. Al momento non chiedono apertamente la fine del massacro, altrimenti sarebbero già in prigione. L’apatia è testimoniata anche dall’atteggiamento scettico di molti lavoratori nei confronti delle elezioni presidenziali del marzo di quest’anno.
Tutto ciò che sta realmente accadendo nelle trincee russe è accuratamente nascosto. La verità penetra nel Paese dalle storie dei partecipanti diretti al conflitto. È in corso una difficile guerra di posizione con pesanti perdite da entrambe le parti. Tra i soldati, soprattutto tra i coscritti, si sono accumulati stanchezza e un certo malumore, dovuto soprattutto alla mancanza di rotazione e dei congedi ordinari. Questo si spiega: per realizzare la rotazione sarebbe necessaria un’altra ondata di mobilitazione. Il regime cerca di controllare la tensione sociale e la mobilitazione sarebbe accolta in modo estremamente negativo.
Ma ogni tipo di resistenza organizzata alla situazione attuale da parte della classe operaia, ad esempio da parte del movimento sindacale, è praticamente assente. Oggi i sopravvissuti sindacati indipendenti sono tutt’al più in grado di resistere a piccoli conflitti sindacali, come i ritardi nel pagamento dei salari. Si astengono da qualsiasi dichiarazione politica, pena la repressione immediata.
Ogni attività politica non controllata dal regime è così congelata, e ciò che è rimasto è stato il circo politico messo su dai partiti del Cremlino, spettacolo che nella società provoca disgusto e indifferenza.
Questo un minimo quadro di ciò che sta accadendo attualmente in Russia, una triste situazione per il proletariato. Trova il suo corrispettivo in quanto sta accadendo in Ucraina, dove le condizioni dei soldati al fronte, come le condizioni di vita dei proletari nelle retrovie, sono ancora più disastrose, mentre la repressione contro chi si oppone al macello è, se possibile, ancora più pesante.
Il secondo rapporto sulla storia del nostro Partito iniziava con la seguente premessa.
La nostra corrente di Sinistra ha sempre evitato di idolatrare i capi, non lo ha fatto neanche nei confronti di Marx e Lenin. Ma i capi esistono e il Partito non solo non li rinnega, ma li utilizza.
Anche se in questi rapporti alcune volte faremo il nome di Amadeo Bordiga, resta chiaro che noi ripudiamo qualsiasi forma di “culto della personalità”. La seguente citazione chiarisce la nostra posizione al riguardo.
Dal Congresso di Lione: «La facoltà volitiva nel Partito, così come la sua coscienza e preparazione teoretica, sono funzioni squisitamente collettive del Partito, e la spiegazione marxista del compito assegnato nel Partito stesso ai suoi capi sta nel considerarli come strumenti ed operatori attraverso i quali meglio si manifestano le capacità di comprendere e spiegare i fatti e dirigere e volere le azioni, conservando sempre tali capacità la loro origine nella esistenza e nei caratteri dell’organo collettivo».
Quindi quando dovremo fare i nomi di certi compagni, perché riportati come citazione di estranei al Partito, noi sappiamo che debba intendersi sempre: Sinistra Comunista italiana.
Continua il rapporto.
Se in Italia la Sinistra comunista era stata “ufficialmente” data per sconfitta, la stessa cosa non poteva essere affermata nei confronti dell’emigrazione dove la stragrande maggioranza del proletariato comunista era nettamente ancorato alle posizioni di Livorno 1921.
Infatti, nel precedente rapporto, abbiamo accennato alla preoccupazione del Komintern che la Sinistra italiana rompesse con Mosca per dare vita ad una nuova Internazionale che, oltre a raccogliere le forti comunità italiane, sparse nel mondo intero, avrebbe potuto fungere da polo catalizzatore per tutte le tendenze di estrema sinistra, soprattutto la tedesca.
Anche tra i compagni nostri, sia in Italia sia all’estero, forte era l’aspettativa di una rottura con la direzione centrista del Partito, e conseguentemente con l’Internazionale. Ad esempio ricorderemo la lettera-circolare di Luigi Repossi che incitava i compagni alla creazione di una frazione di sinistra.
Vedremo quali furono le indicazioni pratiche impartite dalla Sinistra ai compagni. Ma prima accenneremo a quanto accadeva in Germania, altro paese il cui proletariato aveva scritto pagine veramente eroiche di lotta rivoluzionaria.
All’epoca del VI Plenum il KPD viveva una nuova crisi di riassestamento interno. Il “nuovo corso” varato dalla direzione Thälmann-Dengel aveva rilanciato la campagna per la “conquista della maggioranza della classe operaia”. Infatti l’Esecutivo internazionale con lettera inviata al KPD, il 1° settembre 1925, scriveva: «Il Komintern “esige” che si conquistino le masse»; come se il problema della rivoluzione si potesse risolvere con un atto di volontà, quasi burocratico.
La vecchia Zentrale di “sinistra” Maslow-Ruth Fischer, dichiarata solo un anno prima solido baluardo leninista, veniva ora presentata come il vero nemico da combattere. Era il sistema ormai invalso nella pratica dell’Internazionale: le gravi sconfitte subite dal proletariato erano attribuite, non ad errate direttive tattiche di Mosca, ma alla loro mala attuazione da parte dei partiti nazionali.
Mentre i delegati ormai “bolscevizzati” si limitavano ad appoggiare acriticamente quanto decretato dagli organi supremi, nel tentativo di evitare loro stessi di cadere in disgrazia, ancora una volta fu il solo rappresentante della Sinistra italiana ad alzare in modo chiaro la voce contro la politica altalenante dell’Internazionale.
Ma la risoluzione sulla questione tedesca, elaborata da Stalin e Bucharin, individuava nell’“ultra-linke” l’ostacolo maggiore alla trasformazione del KPD in un forte Partito di massa e il vero attacco era diretto contro il gruppo Korsch, che aveva costituito una opposizione chiamata “Entschiedene Linke” (sinistra intransigente) con la rivista “Komunistische Politik”.
Queste, grosso modo, le posizioni caratteristiche del gruppo Korsch:
- Compito primario del Partito è la «restaurazione del marxismo nella teoria e
nella prassi del movimento della classe operaia sul piano nazionale e
internazionale».
- Rifiuto della teoria del “socialismo in un solo paese”.
- Internazionalismo proletario.
- Sulla guerra: disfattismo rivoluzionario e trasformazione della guerra fra
Stati in guerra civile.
- Sulla rivoluzione cinese: Aspra condanna della posizione dell’Internazionale,
che al posto della lotta autonoma per l’emancipazione della classe proletaria,
prospetta una semplice lotta di liberazione nazionale per mezzo di un Partito
nazional-rivoluzionario.
Riguardo alle posizioni espresse dalla Sinistra italiana al VI Esecutivo Allargato, Korsch aveva affermato: «Il nostro punto di vista coincide perfettamente con quello del compagno Bordiga che nell’ultima sessione dell’Esecutivo Allargato ha intrapreso la lotta a viso aperto a livello mondiale contro la deformazione del comunismo e la liquidazione del Partito comunista».
La Sinistra italiana dava atto all’ultra-linke tedesca di esprimere delle posizioni molto simili alle proprie, che era importante prendere conoscenza del materiale prodotto dai tedeschi e non interrompere i contatti già esistenti, ma senza che ciò significasse adesione o formazione di organismi comuni.
Korsch, ormai espulso dal Partito, in una lettera ai comunisti dell’emigrazione italiana, scriveva: «Cari compagni, la formula che abbiamo trovato per la nostra linea politica e tattica nel momento attuale è: Zimmerwald e la sinistra di Zimmerwald. Con questo vogliamo dire, che nel periodo di liquidazione della Terza Internazionale bisogna riprendere la tattica di Lenin nel periodo di liquidazione della Seconda Internazionale».
La sinistra tedesca aveva ormai dato come irrecuperabile il Komintern a una pratica rivoluzionaria, quindi proponeva una riedizione della conferenza di Zimmerwald 1915. Ma una Zimmerwald nel 1926 costituiva un arretramento, non un superamento, rispetto alla III Internazionale stessa.
Contemporaneamente in Francia, nel giugno 1926, si teneva il V Congresso del PCF, all’interno del quale l’emigrazione comunista italiana aveva una consistente rappresentanza, e che riuscì a presentare al Congresso un proprio corpo di tesi. La “Plateforme de la Gauche” nelle prime due parti riproponeva le stesse nostre “Tesi di Lione”, dedicando poi una terza parte alla “questione francese”. Fu un considerevole successo riuscire ad intervenire al Congresso con un nostro documento ufficiale.
La “Plateforme de la Gauche” fu diffusa anche dalla stampa del gruppo Korsch, che ne pubblicò ampie parti, e in particolare i seguenti paragrafi: Questioni organizzative; Disciplina e frazioni; Questione tattica fino al V Congresso; Questioni della “nuova tattica”; Questione sindacale. Facendo questo il “Kommunistische Politik” dichiarava di voler dare ai proletari la possibilità di conoscere le nostre Tesi, contro l’immagine distorta fornita dal Komintern.
Prima di accennare alla famosa lettera a Korsch, è bene vedere la posizione della Sinistra italiana riguardo alla possibilità di formare intese internazionali di sinistra, non scartate in linea di principio.
Già dal luglio 1925 alla direzione centrista del PCd’I che accusava la Sinistra di frazionismo internazionale, veniva risposto che non era ancora «possibile un orientamento parallelo di gruppi di estrema sinistra nei vari partiti, cosa utile e forse nell’avvenire necessaria».
Inoltre, al VI E.A. il rappresentante della Sinistra dichiarava «auspicabile che si formi una resistenza di sinistra, non dico una frazione, ma una resistenza di sinistra sul terreno internazionale contro simili pericoli di destra, ma devo dire con tutta chiarezza che questa reazione sana, utile e necessaria non può e non deve presentarsi sotto la forma della manovra e dell’intrigo».
Possiamo ora riferirci alla nostra famosa lettera indirizzata allo stesso Korsch nella quale sono chiariti i punti essenziali che impedivano la nostra adesione ad ibride organizzazioni internazionali. Rimandando i compagni alla lettura completa del testo, ripubblicato più volte dal Partito, ci limiteremo ad evidenziarne le parti essenziali.
Sulla tattica: «Noi miriamo alla costruzione di una linea di sinistra veramente generale e non occasionale. Più che l’organizzazione e la manovra, si deve mettere un lavoro pregiudiziale di elaborazione di ideologia politica di sinistra internazionale, basata sulle esperienze eloquenti traversate dal Comintern. Essendo molto indietro su questo punto ogni iniziativa internazionale riesce difficile».
Sulla organizzazione di frazioni internazionali: «Non bisogna volere la scissione dei partiti e dell’Internazionale. Bisogna lasciare compiere l’esperienza della disciplina artificiosa e meccanica col seguirla nei suoi assurdi di procedura fino a che sarà possibile, senza mai rinunciare alle posizioni di critica ideologica e politica e senza mai solidarizzare con l’indirizzo prevalente. Con ogni mezzo che non esclude il diritto di vivere nel Partito deve essere denunziato l’indirizzo prevalente come conducente all’opportunismo e come contrastante con la fedeltà ai principi programmatici dell’Internazionale».
La lettera termina dicendo: «Non credo il caso di fare una dichiarazione internazionale come voi proponete e non credo nemmeno praticamente attuabile la cosa. Credo ugualmente utile di dare nei diversi paesi delle manifestazioni e dichiarazioni ideologicamente e politicamente parallele per il contenuto sui problemi della Russia e del Comintern, senza per questo offrire gli estremi del “complotto” frazionista, e ciascuno elaborando liberamente il suo pensiero e le sue esperienze».
La situazione della classe operaia in America Latina
I governi cercano di aumentare lo scarto tra i salari nominali e il costo della vita e ad espandere l’occupazione informale. Anche secondo l’ILO negli ultimi anni i salari reali in America Latina e nei Caraibi sono diminuiti. Le masse dei salariati verranno spinte a scendere in piazza per difendersi. Le federazioni sindacali, servili ai datori di lavoro, organizzeranno mobilitazioni di piazza e a confrontarsi solo sotto la pressione dalla massa dei salariati. Nel frattempo tutti i governi continuano a rafforzare i loro apparati giudiziari e repressivi, con vari pretesti, per affrontare il dilagare delle lotte operaie.
I salari minimi nella regione
In Messico, per il secondo anno consecutivo, aumenterà del 20%. In Brasile del 6,97%, raggiungendo 1.412 reais, circa 291 dollari, restando uno tra i più bassi dell’America Latina. I salari minimi più alti della regione sono nei paesi: Costa Rica 687 dollari, Uruguay 570, Cile 521, Ecuador 460, Messico 440. In Colombia il salario minimo è di 1.300.000 pesos, 335 dollari, in Honduras è di 329 e a Panama di 326. In Argentina per legge i lavoratori ricevono solo 156.000 pesos, solo 152 dollari.
Ma il Paese peggiore è il Venezuela, dove i lavoratori ricevono per legge solo 130 bolivar, 3,61 dollari al mese.
Argentina (vedi articolo in altra pagina)
Brasile
Il governo brasiliano ha iniziato il 2024 commemorando il primo anno degli eventi dell’8 gennaio 2023, con un discorso di rilancio della democrazia e sfruttando i progressi compiuti nello smantellamento dei nemici politici guidati dall’ex presidente Bolsonaro. Tuttavia ha concesso l’amnistia ai militari che hanno partecipato all’attacco al Congresso nazionale.
Le centrali sindacali asservite al governo, intraprendono le lotte solo quando i lavoratori scavalcano i dirigenti sindacali o quando i dirigenti sindacali opportunisti inquadrano i salariati sotto la bandiera del rifiuto della privatizzazione, il quale non è una rivendicazione della classe operaia.
Venezuela
I lavoratori dell’istruzione, principalmente insegnanti che lavorano nelle scuole e nei licei, hanno iniziato il 2024 con una mobilitazione in tutto il Paese, chiedendo un salario equivalente all’importo del paniere di base e la firma del contratto collettivo di lavoro degli insegnanti. LE centrali e le federazioni sindacali non hanno presentato ai lavoratori un piano di mobilitazione e organizzazione per unire le forze dei lavoratori nella richiesta di un aumento salariale. Il governo ha evitato di affrontare la questione salariale. Il bilancio 2024 approvato in parlamento prevede soltanto un aumento salariale del 10% per i lavoratori del settore pubblico e non si sa come verrà attuato. Si sa anche che sono stati avviati incontri tripartiti (governo, datori di lavoro e centri sindacali) per stabilire l’importo di un eventuale salario minimo.
Il 15 gennaio, mentre si svolgevano le proteste degli insegnanti che chiedevano un aumento salariale, il governo ha annunciato per i lavoratori del settore pubblico che avrebbe mantenuto il salario minimo, ma che, a partire dal 1° febbraio, la somma del Cesta Ticket (buono pasto) e del cosiddetto “Bono de Guerra Económica” sarebbe stata portata a 100 dollari, da pagare in bolivares secondo il tasso di cambio alla data del pagamento. All’interno di questo importo, l’aumento nominale è stato applicato al “Bono de Guerra Económica”, che è passato dall’equivalente di 30 dollari a 60 dollari, mentre il Cesta Ticket è rimasto invariato. Con questo annuncio il governo ha ribadito la sua perseveranza nella politica di rifiuto degli aumenti salariali nel settore pubblico, la conversione dei salari in buoni di consumo.
Il 16 gennaio, il governo ha annunciato che i pensionati inizieranno a ricevere l’equivalente di 25 dollari al mese e i pensionati del settore pubblico l’equivalente di 70 dollari al mese.
Il “paniere alimentare” rimane inaccessibile per la maggior parte dei lavoratori, con l’equivalente di 531,95 dollari; il “paniere di base”, che comprende oltre al cibo anche beni e servizi di prima necessità, sarebbe di circa 1.100 dollari al mese.
Il 17 gennaio, le forze di sicurezza governative hanno fatto irruzione nella sede della sezione statale di Barinas della Federazione Nazionale dei Lavoratori dell’Educazione (FENATEV), il cui consiglio direttivo era in riunione, e hanno arrestato il suo presidente (un attivista di un partito contrario al governo). Un comunicato della Procura generale ha specificato che l’arresto del sindacalista è stato effettuato perché “è coinvolto nello sviluppo di attività contro la pace della Repubblica e fa parte di un gruppo che intendeva trasformare lo Stato di Barinas in un epicentro di azioni violente. Il 18 gennaio, il presidente Maduro ha annunciato l’attivazione del “Piano di rabbia Bolivariana”, affermando che l’obiettivo è mantenere la pace “di fronte ai tentativi di cospirazione dell’opposizione”. Il presidente ha affermato che la DEA e la CIA sono coinvolte in questi complotti.
Il 23 gennaio si sono svolte mobilitazioni guidate dal governo e altre guidate dai partiti di opposizione.
Colombia
Il governo colombiano ha aumentato per decreto il salario minimo del 12,07%. Dopo una trattativa fallita con i datori di lavoro e i sindacati, nel 2024 il salario di base sarà di 1.300.000 pesos e il sussidio per i trasporti sarà di 162.000 pesos. La proposta dei datori di lavoro era un aumento salariale del 10,15%. Le confederazioni sindacali, da parte loro, si sono presentate al tavolo con la richiesta di un aumento del 18%, che è stato respinto fin dall’inizio. L’inflazione nel 2023 è stata stimata al 13%. Con questo salario i lavoratori non saranno in grado di far fronte al costo della vita e all’inflazione, che continuerà a salire nel 2024. In questo contesto, è prevedibile che cresca il ricorso a lavoratori informali (gli immigrati sono ideali per questo), ai quali vengono corrisposti salari più bassi.
In Colombia, circa il 47% dei lavoratori – cioè circa 10,4 milioni di persone - guadagna meno del salario minimo. La stragrande maggioranza di loro sono “lavoratori autonomi”. Con il deterioramento delle loro condizioni di vita, il proletariato colombiano sta perdendo la fiducia che aveva riposto nella presidenza Petro. Non si concretizzano né le promesse riforme sanitarie e pensionistiche, né i promessi miglioramenti delle condizioni di vita. Questi sono i classici effetti dell’interclassismo e dei fronti popolari (oltre che elettorali) che abbracciano la classe operaia per placarla e distoglierla da qualsiasi rivendicazione.
Ecuador
All’inizio di gennaio 2024 è scoppiata un’ondata di violenza da parte dei cartelli criminali del narcotraffico, che hanno offerto al governo il pretesto per decretare lo stato di emergenza di 60 giorni a partire dall’8 gennaio. Naturalmente esiste una violenza criminale associata al narcotraffico, che coinvolge, oltre ai gruppi criminali, uomini d’affari, settori governativi e agenzie statunitensi (DEA e Comando Sud del Pentagono, tra gli altri) che hanno una presenza in Ecuador e che presumibilmente collaborano al controllo del narcotraffico. Ma in questo frangente il governo sta approfittando della situazione per far passare riforme che favoriscono gli affari dei capitalisti e annientano ogni possibile risposta di lotta della classe operaia.
Con un’alta percentuale di disoccupazione e sottoccupazione, si sono create le condizioni materiali perché molti strati della gioventù si uniscano ai gruppi criminali del narcotraffico.
Il riciclaggio di denaro e il traffico di droga sono settori di spicco degli affari della borghesia in Ecuador come nel resto dell’America Latina, ed è nota la crescita di bande e cartelli che costituiscono la struttura operativa di questo lucroso business, in cui sono implicati governi, capitalisti locali e capitale soprattutto statunitense.
Sebbene la borghesia giapponese abbia spacciato la strategia di riduzione dell’inflazione della Banca del Giappone, (BoJ), come “un successo” sui suoi concorrenti internazionali, tale politica si è dimostrata ancora incapace di raggiungere l’obiettivo del 2%. A novembre l’inflazione è era scesa solo al 2,8% dal 3,3% di ottobre.
La principale fonte di incertezza attuale si trova nella politica monetaria. Alla fine dell’anno scorso lo yen giapponese sarà era la valuta con la peggiore tenuta, perdendo annualmente il 5,63% nelle transazioni a pronti (Questo quanto spiega Google: Un’operazione in cambi a pronti è una transazione in cui si ha il trasferimento immediato di una somma espressa in una valuta in cambio di un’altra somma espressa in un’altra valuta sulla base dell’attuale valore del tasso di cambio (tasso di cambio a pronti)) rispetto al dollaro USA, per un calo totale del 7,8%. Poiché le aspettative sullo yen per il 2024 sono di rialzo, motivato dall’uscita della BoJ dal suo sistema di tassi d’interesse negativi, si è aperta una possibilità di speculazione sullo yen.
Allo stesso tempo la borsa ha chiuso con un enorme +28%, il suo record dal 1989. È da notare che il mercato azionario giapponese è stato caratterizzato da un segmento storicamente ampio di aziende scambiate a prezzi inferiori rispetto a quelli di Stati Uniti, Regno Unito e Unione Europea.
Tutte le aspettative sulla riduzione dei costi dei prestiti da parte delle banche centrali mondiali sono inverosimili e velleitarie. L’attivismo degli azionisti è riuscito a fornire uno strumento per sfruttare la speculazione sui mercati, mantenendo intatto il corso delle politiche monetarie conservative così come erano state concordate tra gli attori statali e finanziari.
Questo ha fornito un ulteriore strumento di controllo e oppressione della classe operaia, visto come il governo Kishida e la BoJ hanno orchestrato il rapporto tra salari e politica monetaria. Ma in definitiva non sono riusciti a fornire alla borghesia giapponese un’efficace protezione del proprio sistema corporativo storico, che ha difficoltà a competere con nemici e alleati sull’attuale scena mondiale.
Ne è risultata la centralizzazione interna del capitale, e non la combinazione tra imprese giapponesi e straniere, mantenendo allo stesso tempo le azioni giapponesi sotto il controllo del governo.
Mentre si invoca l’alleanza tecnologica e militare fra Stati Uniti e Giappone in competizione con la Cina, i due si scontrano, nonostante il “friendshoring” (produzione e approvvigionamento da paesi che sono alleati geopolitici) delle ultime tre amministrazioni statunitensi. Un caso di tale fallimento è la controversia per l’acquisizione da parte di Nippon Steel della rivale americana US Steel. L’affare, valutato 14,9 miliardi di dollari, ha attirato le attenzioni dell’amministrazione americana. L’azienda, considerata un simbolo mondiale del capitalismo americano nella sua epoca d’oro, fu fondata nel 1901 da Carnegie, J.P. Morgan e Schwab. Al suo apice, impiegava 340.000 lavoratori producendo 36 milioni di tonnellate di acciaio.
Attualmente gli Stati Uniti sono il quarto produttore mondiale di acciaio dopo Cina (54%), India e Giappone. Quest’ultimo sta ora espandendo la propria posizione, a spese del capitale statunitense, sollevando il panico nel Congresso degli Stati Uniti. I due “amici” sono i primi a comportarsi da “nemici” quando si tratta del loro capitale nazionale: il “friendshoring” alla fine mangia sé stesso.
Nel mercato del lavoro si assiste a una crisi di carenza di manodopera definita “estremamente grave”: nei trasporti le imprese segnalano ampiamente la mancanza di disponibilità di autisti. La crisi si estende alle costruzioni, anche a causa della difficoltà per le imprese di sostituire i lavoratori vietnamiti, tradizionale manodopera.
L’inflazione ha reso i magri salari e le condizioni di lavoro insostenibili per proletari come i vietnamiti, che contribuiscono per una buona parte ai circa 3.070.000 lavoratori immigrati registrati. Il deprezzamento dello Yen rispetto al Dong vietnamita ha ridotto del 20-30% i salari dei vietnamiti in Giappone. Inoltre un’ampia fetta di questi lavoratori sperimenta una prolungata insicurezza lavorativa quando torna in patria.
La borghesia giapponese a lungo ha tratto profitto dal divario salariale tra immigrati e giapponesi. La politica del gabinetto Kishida di contenere gli aumenti salariali si era tradotta nella speranza dei capitalisti di ridurre ulteriormente i salari degli immigrati. La posizione combattiva dei lavoratori ha imposto invece richieste di aumenti dei salari anche nel 2024. Rengo, il maggiore sindacato giapponese, ha già annunciato lotte per aumenti del 5%, non accontentandosi del 3,58% che le principali aziende hanno concesso nel 2023.
Sta cambiando anche il regime di esportazione di armi: il Giappone invierà i suoi sistemi missilistici Patriot agli Stati Uniti per rafforzare le loro scorte, mentre i Patriot statunitensi saranno spediti in Ucraina.
La mossa arriva in un momento pericoloso, che vede nella Corea del Nord un avversario sempre più dichiarato. Permane il conflitto tra gli alleati degli Stati Uniti e la Cina per Taiwan. A Okinawa i marines statunitensi si stanno addestrando per un conflitto con la Cina. Aumenta vertiginoso il budget militare del Giappone, con il rischio di far divenire il Paese un bersaglio diretto, cosa che potrebbe avvenire prima che i suoi piani di riarmo possano attuarsi.
La crisi economica mondiale che incombe pone il Giappone in una situazione di estrema difficoltà, mentre la sua vulnerabilità dal punto di vista economico e militare non gli lascia altra scelta se non quella di proseguire nella rotta di collisione con i principali concorrenti in Asia e non solo.
Origini del socialismo di sinistra nell’Impero ottomano e del Partito Comunista
di Turchia
I documenti della sinistra del socialismo nell’Impero ottomano e dei primi anni del Partito Comunista di Turchia che presenteremo nel corso del lavoro sono di grande importanza per la rintracciare la tradizione comunista nel Vicino Oriente.
Le prove documentali dell’esistenza di correnti e partiti su posizioni di sinistra si limitano a venticinque anni, dal 1909 al 1934. È un periodo caratterizzato da numerosi eventi storici determinanti: la rivoluzione del 1908, la guerra italo-turca, le guerre balcaniche, la prima guerra mondiale, il genocidio armeno, la fine dell’Impero, l’emergere del movimento di indipendenza nazionale contro l’occupazione di parti della Turchia da parte dell’Intesa, la vittoria di Mustafa Kemal contro l’aggressione Greca e contro le rivolte reazionarie interne, lo scambio e il trasferimento delle popolazioni greco-turche, infine il consolidamento del potere kemalista e la sconfitta dell’ala sinistra del Partito Comunista.
Abbiamo ordinato i documenti in base al periodo, per occuparci in seguito delle circostanze particolari in cui i singoli documenti sono stati scritti.
Nessuna corrente ha mai rivendicato la tradizione che ha ampiamente prodotto questi testi.
Dalla documentazione appare come la sinistra turca abbia assunto posizioni simili alla sinistra del partito italiano da cui si è sviluppato il nostro Partito Comunista Internazionale.
Una questione di primaria importanza per la sinistra in Turchia era la questione nazionale. Nonostante le differenze tra le organizzazioni di Costantinopoli, Anatolia e Baku, nel corso degli anni il loro atteggiamento nei confronti dei kemalisti e del movimento nazionale in generale fu un’applicazione delle Tesi sulla questione nazionale e coloniale del II Congresso dell’Internazionale Comunista, spesso a dispetto delle successive direttive dell’Internazionale.
Negli anni in cui il Comintern cercava di convincere i partiti dell’Europa occidentale a formare fronti uniti e persino governi operai con i socialdemocratici, la sinistra turca era impegnata a contrastare i partiti socialdemocratici e socialisti e a conquistare le loro basi proletarie ai sindacati rossi. La sinistra turca ha praticato fin dall’inizio la tattica del fronte sindacale unito dal basso. Sempre contraria all’impostazione anarchica libertaria, come quella italiana non è mai scivolata, sulla linea di Lenin, negli errori dei “comunisti dei consigli” europei.
Sulle questioni organizzative ha condotto una paziente lotta nell’ambito della disciplina di partito. Ma a un certo punto ha dovuto ingaggiare una lotta tra fazioni quando divenne evidente che venivano messi in gioco gli interessi del partito e del proletariato. Al momento di regolare i conti con la destra la soluzione della sinistra fu organica piuttosto che democratica, basandosi sulla selezione dei migliori compagni piuttosto che su elezioni e maggioranze congressuali.
La sinistra turca non era operaista e mai ha sostenuto che chiunque provenisse da un ambiente non proletario dovesse essere tenuto al di fuori del partito, né hanno mai negato che gli intellettuali avessero un ruolo specifico da svolgere nel partito. Si opponevano al blocco di classe borghese che dominava la direzione del partito e ne determinava le posizioni.
A differenza di quella italiana la sinistra turca, intrappolata tra Turchia e Russia, non è riuscita a sopravvivere come corrente autonoma.
I militanti della sinistra turca sono da annoverare nel nostro partito, con le loro parole soffocate e dimenticate. Sinistre simili esistevano nei partiti comunisti di varie parti del mondo, come l’Iran, l’Asia centrale e il Sudafrica, in Russia prima dell’emergere dell’opposizione di Trotzki, e attendono di essere studiate. Il Partito saprà rintracciare quelle connessioni spezzate per confermare le “lezioni della controrivoluzione” risuscitando il comunismo autentico in vaste aree del mondo dove è stato sepolto e dimenticato.
Due documenti, scelti tra i molti che saranno riprodotti nel rapporto esteso, sono stati illustrati alla riunione.
Il primo è il testo del discorso di Naciye al Congresso di Baku. Affronta la questione femminile in Oriente, in piena continuità con le posizioni del marxismo rivoluzionario. Il secondo è l’intervento di Süleyman Nuri al Terzo Congresso dell’Internazionale Comunista ove esprime il punto di vista della sinistra del Partito riguardo alla misura in cui il movimento nazionalista turco dovrebbe essere sostenuto e quando dovrebbe essere contrastato, all’indomani dell’assassinio di Mustafa Suphi e degli altri compagni ad opera dei kemalisti.
Al Congresso dei Popoli d’Oriente, a Baku nel settembre 1920, la compagna Naciye affermò (estratti):
«Il movimento delle donne che nasce in Oriente deve essere visto come una conseguenza determinante e necessaria del movimento rivoluzionario che sta si sta svolgendo in tutto il mondo. Le donne in Oriente non si limitano a lottare per il diritto di non indossare il chador, come molti suppongono. Per le donne in Oriente, nella loro alta moralità, la questione del chador è della minima importanza. Se le donne si oppongono agli uomini e non hanno gli stessi diritti, allora è impossibile per la società progredire: l’arretratezza delle società orientali ne è una prova inconfutabile.
«Compagni, potete essere sicuri che tutti i vostri sforzi e le vostre fatiche per realizzare nuove forme di vita sociale, per quanto sincero e vigoroso possa essere il vostro impegno, rimarranno senza risultato se non chiamate le donne ad aiutarvi davvero nel vostro lavoro.
«Il fatto che le donne abbiano dovuto assumersi le responsabilità degli uomini, chiamati al servizio militare, e soprattutto che le donne hanno trascinato esse le attrezzature di artiglieria e le munizioni non può ovviamente essere definito un passo avanti nella conquista della parità di diritti per le donne. Non neghiamo che all’inizio della rivoluzione del 1908 furono introdotte alcune misure a favore delle donne. Tuttavia, in considerazione dell’inefficacia e dell’inadeguatezza di tali misure, non le riteniamo particolarmente significative.
«L’apertura di una o due scuole inferiori e superiori femminili nella capitale e nelle province, e anche l’apertura di un’università femminile non realizzano neanche la millesima parte di quanto resta ancora da fare. Dal governo turco, le cui azioni si basano sull’oppressione e lo sfruttamento del più debole da parte del più forte, naturalmente non si possono aspettare misure più radicali o più serie a favore delle donne tenute in schiavitù.
«Sappiamo anche che la posizione delle nostre sorelle in Persia, Buchara, Khiva, Turkestan, India e altri paesi musulmani è ancora peggiore.
«Tutti gli sforzi che i compagni delegati dedicano per ottenere la felicità dei popoli rimarranno infruttuosi se non vi sarà un vero aiuto da parte delle donne. I comunisti ritengono necessario creare una società senza classi, e a tal fine dichiarano una guerra implacabile contro tutti gli elementi borghesi e privilegiati. Le donne comuniste dell’Oriente hanno una battaglia ancora più dura da condurre perché, devono lottare anche contro il dispotismo dei loro uomini. Se voi, uomini d’Oriente, continuate ora, come in passato, ad essere indifferenti alla sorte delle donne, potete star certi che e voi e noi periremo insieme».
Al terzo Congresso del Comintern, a Mosca nel giugno-luglio 1921, intervenne Süleyman Nuri (estratti):
«Il movimento indipendentista turco è estremamente importante per l’Oriente. Prima della guerra mondiale, la Turchia, come gli altri paesi dell’Oriente, era sotto il giogo dell’imperialismo. Il popolo turco, i contadini e gli operai, sono stati spinti contro la loro volontà e i loro desideri in questa guerra imperialista dai loro oppressori, i pascià. Durante la guerra, un gran numero di giovani turchi – ufficiali e soldati – furono fatti prigionieri e internati in Russia, Germania e in altri paesi. Lì appresero il significato e le origini della guerra e, quando tornarono a casa, portarono con sé lo spirito del movimento socialista e comunista.
«Quando, dopo la guerra, i pascià firmarono il trattato di Versailles, gli operai e i contadini dell’Anatolia insorsero per lottare per l’indipendenza, armi alla mano.
«Da un lato, il governo di Ankara ha condotto una lotta armata per l’indipendenza contro l’Intesa, dall’altro ha cercato di reprimere qualsiasi movimento comunista. La morte dei nostri compagni, soprattutto del compagno Suphi, e l’imprigionamento di molti altri dimostra che Kemal sta conducendo un’aspra lotta contro i comunisti.
«I contadini e gli operai dell’Anatolia sanno bene che finché il movimento per l’indipendenza continuerà, essi – come anche noi comunisti – dovranno sostenerlo. La distruzione dell’Intesa e degli imperialisti è la base e l’inizio della rivoluzione mondiale che distruggerà ogni forma di schiavitù. E gli operai e i contadini anatolici sosterranno quindi questa lotta, fintanto che sarà diretta contro l’Intesa.
«Il nostro Partito Comunista continua la sua attività di agitazione, nonostante tutte le persecuzioni. Esso esprime la speranza che la rivoluzione mondiale, condotta sotto la bandiera della Terza Internazionale, sia vittoriosa e liberi i popoli oppressi e la classe operaia del mondo intero».
A che punto era la situazione alla vigilia del 2024?
L’alta inflazione che ha seguito la caotica ripresa dell’accumulazione di capitale nel 2021, dopo la forte contrazione dell’attività economica nel 2020, sta rallentando bruscamente ovunque; è addirittura vicina allo zero in Italia, a indicare un forte calo dei consumi, ed è addirittura negativa in Cina, frutto di una recessione in corso. Negli Stati Uniti è di poco superiore al 3%, mentre in Europa la media si aggira intorno al 2,4%, con il 3,7% in Germania e Francia e il 4,2% nel Regno Unito a dicembre.
Come previsto, un’inflazione elevata, combinata con l’aumento dei tassi di interesse, non poteva che portare a un forte rallentamento dell’accumulo di capitale, o addirittura a una recessione. È ciò a cui stiamo assistendo: quasi ovunque, con poche eccezioni, abbiamo una crescita industriale negativa, che indica una recessione. È il caso di Stati Uniti, Giappone, Germania, Italia e così via. Per altri, come la Francia, la crescita rimane di poco superiore allo zero. A dimostrazione sono state esposte alla riunione le curve della produzione industriale dei principali Paesi imperialisti.
Tuttavia questa recessione rimane per il momento moderata, con, ad esempio, nel 2023, -0,6% per gli Stati Uniti, -1,3% per il Giappone, -0,8% per la Germania, -1,5% per l’Italia, ma -5,5% per la Gran Bretagna! E un misero + 0,5% per la Francia. Ma per i Paesi che hanno sperimentato un’accumulazione più sostenuta negli ultimi anni, il calo è molto più netto: -4,6% per la Corea del Sud e -4,5% per il Belgio, ma sorprendentemente solo -1,4% per la Polonia, dove l’accumulazione di capitale industriale è stata molto più marcata, con tassi oscillanti tra il 4 e il 7%!
La recessione è forte solo in alcuni settori produttivi. L’industria delle costruzioni, ad esempio, che ha sofferto per i prezzi elevati a causa della speculazione selvaggia degli ultimi anni, dovuta al fatto che il denaro non costava nulla alla borghesia e alle grandi imprese, sta vivendo una grave recessione. Anche le industrie ad alta intensità energetica, come siderurgia e chimica, stanno attraversando gravi difficoltà. Questo vale in particolare per l’industria chimica tedesca, duramente colpita dall’alto costo degli idrocarburi.
Attraverso il caos, il capitalismo mondiale ha trovato un equilibrio temporaneo. I vecchi Paesi imperialisti si sono deindustrializzati, come mostrava una tabella: rispetto al picco raggiunto nel 2007, la produzione nel 2023 oscilla tra il -2,5% della Germania, il -7,5% degli Stati Uniti, il -11,7% della Francia e il -12,6% della Gran Bretagna, il -19,4% del Giappone, il -19,3% dell’Italia, il -21,2% della Spagna e addirittura il -33% del Portogallo.
Per far fronte alle varie crisi di sovrapproduzione che si sono ripetute regolarmente a partire dalla metà degli anni ‘70 e alla caduta del tasso di profitto, le grandi imprese dei vari Paesi imperialisti hanno, tra l’altro, fatto un uso massiccio del subappalto, mettendo in concorrenza tra loro una moltitudine di medie imprese in tutto il mondo, costringendole a rinunciare a una parte dei loro profitti. Inoltre hanno delocalizzato parte della produzione in Paesi a basso costo, cioè in Paesi in cui i salari sono molto più bassi e i lavoratori non beneficiano di alcuna protezione sociale, a condizioni che questi Paesi dispongono delle infrastrutture necessarie per una produzione industriale efficiente.
È così che tutta una parte della produzione è stata spostata: in Europa, in Polonia, Ungheria, Romania, ecc.; fuori Europa, in Turchia, Tunisia e Marocco; in Nord America e in Messico; e soprattutto in Asia, principalmente in Cina, ma anche in Vietnam, ecc. Una tabella elencava i Paesi che si sono industrializzati, mentre i vecchi Paesi imperialisti si sono deindustrializzati.
La Corea del Sud, pur vivendo anch’essa un forte rallentamento dell’accumulazione di capitale, ha beneficiato di un apparato produttivo più competitivo e ha visto la manifattura crescere di quasi il 41% dal 2007, corrispondente a una crescita media annua del 2,3%, un ritmo moderato, ma notevole rispetto ai vecchi Paesi imperialisti, che al contrario hanno registrato un calo.
E naturalmente Polonia e Turchia, grazie a subappalti e delocalizzazioni, hanno registrato una forte crescita della produzione, con aumenti rispettivamente del 105% e del 120% dal 2007. Allo stesso tempo, la industria del Messico è aumentata del 24% e quella dell’India del 68%.
Invece Paesi come l’Argentina e il Brasile si sono deindustrializzati. In Brasile, ad esempio, la produzione è diminuita del 17%.
In conclusione, la produzione perduta dai grandi Stati imperialisti è stata trasferita altrove, in Paesi a capitalismo giovane che avevano già una base industriale sufficiente.
Possiamo anche constatare che le misure adottate dal governo americano per reindustrializzare il Paese, nonostante i giganteschi investimenti, non hanno dato i frutti sperati.
Assisteremo, con la crisi che ora attanaglia la Cina stessa, ad una esacerbazione della guerra commerciale. La recessione mondiale è stata accompagnata da una contrazione del commercio mondiale. Il calo delle importazioni dai principali Paesi industrializzati è ancora più marcato.
Con l’aumento dei tassi d’interesse e la massiccia di una svalutazione di una montagna di obbligazioni, ci saremmo potuti aspettare una crisi finanziaria di vasta portata e un forte aumento dei fallimenti aziendali. Ma il capitalismo mondiale sembra finora resistere.
Alcune grandi banche regionali negli Stati Uniti e una grande banca in Svizzera sono fallite, ma le autorità pubbliche hanno agito rapidamente per salvare il sistema finanziario ed evitare un altro terremoto sistemico. Allo stesso modo, in Francia, ad esempio, lo scudo fiscale ha contribuito ad alleviare il costo mostruoso dell’energia per le famiglie e la garanzia statale ha permesso alle imprese di contrarre prestiti con le banche, evitando così numerosi fallimenti.
Tuttavia questi interventi implicano un debito sempre più colossale. A un certo punto, i mercati finanziari saranno saturi e non sarà più possibile contrarre prestiti. Un evento simile si è quasi verificato negli Stati Uniti, quando una banca si è ritirata da un’asta di titoli di Stato l’anno scorso.
Tra un mercato azionario sempre più caotico, l’inasprimento della guerra commerciale e un debito sempre maggiore, il sistema finirà per collassare. La stessa borghesia è consapevole del rischio, ed è per questo che lo Stato e le banche centrali intervengono al minimo rischio per evitare un crollo generale, che sarà molto più colossale di quello del 1929.
Il ritiro dei tedeschi dal conflitto mondiale obbligò il generale bianco Krasnov a trovare nuove alleanze e finanziatori contro la rivoluzione bolscevica. Le potenze dell’Intesa colmarono con loro contingenti il vuoto creatosi nel Sud dell’Ucraina dal ritiro tedesco, ma imposero a Krasnov irrinunciabili condizioni, tra cui l’accettazione del generale Denikin come comandante supremo di tutte le forze cosacche del Don, del Terek e dell’Armata dei Volontari.
Anche le truppe rosse di Antonov-Ovseenko si posizionarono in parte sui territori sgomberati dai tedeschi.
Con la nuova riorganizzazione e il nuovo assetto in questo settore del fronte controrivoluzionario, a fine dicembre 1918 le forze di Denikin erano disposte a formare un esteso saliente: il vertice più avanzato presso lo snodo ferroviario di Liski, il fianco orientale con il centro comando presso Caricyn (poi Stalingrado) e un precario fianco occidentale a nord dell’esteso snodo ferroviario di Donec, debolmente difeso.
I due comandi bianchi distavano 350 chilometri. La maggiore concentrazione di uomini, artiglieria e treni corazzati era a Caricyn; entrambi gli schieramenti pativano serie difficoltà di approvvigionamento.
Lenin sostenne il piano elaborato dal Consiglio Militare Rivoluzionario (RVSR) di privilegiare lo scontro con i cosacchi, sfruttando al meglio le criticità del posizionamento del nemico. Ai primi di gennaio 1919 le forze rivoluzionarie riuscirono a conquistare lo snodo ferroviario di Liski e a scendere verso sud, mentre sul fronte occidentale presso Donec i bolscevichi ebbero ragione con facilità dei bianchi obbligandoli a un vistoso ripiegamento in quel settore. Alla fine di gennaio il saliente aveva ceduto e le armate rosse del settore nord e quelle occidentali erano arrivate fino all’importante snodo ferroviario di Millerovo.
Nel settore orientale, Krasnov, nonostante una situazione sfavorevole come unità e potenza di fuoco, riprese con ostinazione l’offensiva su Caricyn riuscendo inizialmente a recuperare una parte di territorio presso l’asse ferroviario di Karpovka. Nonostante il precipitare delle condizioni atmosferiche con forti tempeste di neve, congelamenti e la riluttanza al combattimento, i suoi cosacchi, dopo scontri con esiti alterni, riuscirono a insinuarsi nelle difese rosse e occuparono un tratto della ferrovia da Caricyn verso nord, isolando la città dal centro del comando sovietico.
Il 1° gennaio incominciò la terza battaglia per Caricyn con i bianchi che, occupata Dubovka sul Volga, bombardarono con artiglieria la periferia nord della città. Alcuni distaccamenti bianchi scesero sul Volga ghiacciato per completare l’accerchiamento di Caricyn perché da sud altri gruppi cosacchi avevano occupato la cittadina di Čapurniki.
L’euforia per la favorevole situazione distolse l’attenzione di Krasnov sullo sfilacciamento delle sue linee cosacche, che avrebbe consentito agevoli controffensive rosse.
In campo sovietico Budennyj, primo collaboratore di Trotzki, riuscì a creare in solo un mese la 1° Divisione di Cavalleria rossa reclutando volontari specializzati provenienti dai territori cosacchi.
Il 21 gennaio, in un contrattacco a sorpresa, fu catturato un comandante cosacco, che preferì suicidarsi piuttosto che arrendersi. Dopo questo iniziale successo la cavalleria sovietica, appoggiata da autoblindo e varie mitragliatrici, organizzò una controffensiva per rompere l’accerchiamento su Caricyn. Fu scelta una notte di bufera sfruttando l’effetto sorpresa e la mancanza di difese nei villaggi nei quali i cosacchi bianchi si erano riparati dal gelo. La vittoria rossa procurò migliaia di prigionieri, armi, cavalli e un treno blindato. Ciò nonostante altre formazioni bianche furono in grado di avanzare su Caricyn. Seguì una settimana di alterne fasi nei combattimenti.
Lo stato maggiore di Denisov dovette prendere atto della netta inferiorità numerica rispetto ai rossi e che anche la terza offensiva su Caricyn era fallita. Le sue formazioni si arresero, spesso senza combattere, o si sparpagliarono in difesa in piccole formazioni o ritornarono nei loro villaggi d’origine.
Nelle retrovie si scatenò la cavalleria rossa, sostenuta ora anche dagli esperti reparti della Divisione di ferro di Žoloba.
Krasnov quindi chiese urgenti rinforzi a Denikin, il quale ne inviò pochi e con forte ritardo perché gli si era posto il dilemma strategico-militare, e insieme politico, di quale fronte privilegiare rispetto agli interessi generali della campagna controrivoluzionaria: scegliere se mandare le sue truppe migliori sul fianco destro per conquistare Caricyn, manovra indispensabile per poi prendere contatto con le truppe dell’esercito russo di Kolčiak oltre il Volga, oppure rinforzare il suo fianco sinistro per difendere il ricco e strategico bacino del Donec.
Denikin si risolse per questa scelta, nonostante le critiche del generale Wrangel, comandante dell’Armata dei Volontari del Caucaso, secondo cui, vista la ormai netta superiorità numerica dell’Armata Rossa, occorreva cambiare strategia: non più attacchi separati dei vari eserciti controrivoluzionari bensì concentrarli sulle posizioni sovietiche ritenute più deboli, tra cui Caricyn era fra le meno difese. Solo dopo si sarebbe avuto il contatto con Kolčiak.
Il nuovo riassetto bianco permise un primo arresto delle forze rosse dirette al controllo degli assi ferroviari di Millerovo-Kamenskaja, necessari a impedire la ritirata dei cosacchi. Nei primi giorni di febbraio vi furono combattimenti per il controllo di Bachmut, passata dai rossi ai bianchi e poi nuovamente ai rossi in pochi giorni. Intanto gli anarchici di Machno premevano sul fianco sinistro delle formazioni bianche, raffreddando la loro controffensiva per non compromettere la tenuta del bacino del Donec.
Sul fronte di Caricyn le truppe di Krasnov avevano preso posizione sul Don.
Ma la Francia venne a bloccare le forniture a causa del rifiuto di Krasnov di sottomettersi al comando francese e di impegnarsi a ripagare i danni economici subiti dai francesi nella regione a seguito della rivoluzione sovietica.
Mancando di tutto i cosacchi bianchi si arresero o disertarono in massa. La propaganda bolscevica ebbe facile presa sulla popolazione, che iniziava a ribellarsi richiedendo l’arrivo dell’Armata rossa.
L’Armata del Don dai 70.000 dalla fine di dicembre 1918, tra morti, feriti e ammutinati, scese a 38.000 alla fine di gennaio 1919, per ridursi a 15.000 a febbraio. Denisov con Poljakov, suo capo di Stato maggiore, si dimisero dalla carica; il 14 febbraio si dimise anche Krasnov, addossandosi ogni responsabilità per il mancato sostegno alleato, dovuto, secondo lui, alla sua precedente alleanza coi tedeschi.
Il 16 febbraio l’Assemblea cosacca, il Krug, nominò un nuovo Atamano e pose Sidorin, veterano della guerra col Giappone, al comando dell’esercito. La nuova disposizione delle truppe voluta da Denikin portava sul Donbass il baricentro del fronte sud.
Attività sindacale negli Stati Uniti
I compagni in America hanno continuato la nostra attività sindacale e lo studio del movimento, quello odierno e la sua storia.
Sono nove mesi che i compagni del Partito insieme ad altri militanti sindacali hanno costituito la Rete d’azione per la lotta di classe (Class Struggle Action Network - CSAN). Gran parte del lavoro in questo organismo riguarda la formazione di gruppi ispirati al sindacalismo di classe all’interno dei sindacati. Uno di questi gruppi di base è nella National Education Association (NEA), il sindacato della scuola che è il più grande sindacato degli Stati Uniti, con quasi 3 milioni di iscritti. Un centinaio di iscritti condividono le posizioni sindacali di classe sinora espresse.
Il CSAN sta collaborando alla formazione di un nuovo sindacato in un’azienda di ristorazione che negli Stati Uniti conta circa 400.000 dipendenti. I lavoratori vogliono superare il modello della contrattazione negozio per negozio, rompendo questa divisione che li isola gli uni dagli altri. In un’altra catena della ristorazione il CSAN è attivo nel coordinamento interno al sindacato in essa presente, cercando di mettere in contatto i lavoratori delle due aziende. Lo scopo è avvicinare questi gruppi combattivi di base e i sindacati in un fronte unico sindacale di classe.
A novembre abbiamo iniziato a tenere riunioni generali periodiche del CSAN, in cui i lavoratori possono ascoltare i resoconti del lavoro di organizzazione, le richieste di solidarietà, proporre iniziative alla rete, ottenere sostegno sul posto di lavoro, costruire o rianimare gli sforzi di organizzazione sindacale, nonché organizzare il lavoro di espansione della rete. Finora abbiamo tenuto due assemblee generali e abbiamo in programma di organizzarne una al mese. Il prossimo incontro vedrà la partecipazione di un rappresentante del sindacato degli insegnanti del Massachusetts, che ha effettuato uno sciopero illegale.
Sul piano internazionale sono stati stabiliti alcuni contatti ed è stato formato un gruppo organizzativo internazionale. È stato redatto e distribuito un comunicato in solidarietà con la lotta dei lavoratori tessili in Turchia organizzati nel sindacato Birtek-Sen.
La Ricostruzione successiva alla Guerra Civile negli Stati Uniti
Parte 1
Un anno dopo la fine della guerra civile, nel 1866, Friedrich Sorge, amico intimo e confidente da decenni di Marx ed Engels, fu nominato reclutatore per il Consiglio Generale dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori (IWA) negli Stati Uniti.
La convenzione di fondazione della Colored National Labor Union (CNLU) è del 1869.
In quell’anno i marxisti della prima Sezione dell’AIL negli Stati Uniti istituirono un comitato per l’organizzazione dei lavoratori neri, che portò alla formazione di almeno un sindacato a New York City. Come risultato di queste strette relazioni, alla convenzione della CNLU del dicembre furono eletti i delegati al congresso della Prima Internazionale del 1870, che si sarebbe dovuto svolgere a Parigi, ma che sarebbe stato rimandato a causa degli eventi della guerra franco-prussiana e della successiva sconfitta della Comune di Parigi.
Per Marx la resistenza dei Confederati avrebbe potuto alimentare anche in Europa «una santa crociata generale della proprietà contro il lavoro». La solidarietà internazionale della classe operaia europea per impedire ai rispettivi borghesi di entrare nel conflitto a favore dei Confederati sarebbe stato il primo grande atto del movimento operaio internazionale, presto seguito dai grandi eventi della Comune di Parigi.
Tuttavia, come indicato da Marx, la conclusione della guerra e l’emancipazione formale degli schiavi aprirono una nuova fase della lotta fra le classi.
Nello scontro fra i tentativi di restaurazione della classe dei piantatori nel Sud e la borghesia industriale in ascesa nel Nord, si inseriva un movimento operaio in crescita nel Nord, in cui militava una nascente corrente marxista, e il movimento della massa degli ex-schiavi proletarizzati nel Sud. Ma, in ultima analisi, sarebbe toccato alle masse operaie nere, da sole, difendere quello che avevano ottenuto con la Guerra Civile e l’emancipazione come lavoratori “liberi”.
Nonostante i tentativi dei marxisti dell’epoca di incoraggiare i lavoratori a mobilitarsi per mantenere la politica della Ricostruzione e la redistribuzione delle terre, i giovani proletari neri del Sud furono abbandonati dal più ampio movimento operaio e dall’ala destra dei Repubblicani Radicali, che si allearono con il Partito Democratico dei piantatori per porre fine alla Ricostruzione. Di conseguenza subirono un’ondata di omicidi di massa e di inaudito terrore. Un’eredità barbarica che in parte continua ancora oggi nel moderno sistema di incarcerazioni di massa e nel lavoro carcerario, che è solo un altra forma di schiavitù.
Nuove masse proletarie nere
Una volta concessa l’emancipazione formale, gli ex schiavi, rimasti senza terra e senza proprietà, con solo il loro lavoro da vendere, si trasformarono in proletari. I primi momenti dopo la fine della Guerra Civile furono di confusione. Molti ex-schiavi non conoscevano i loro nuovi diritti di lavoratori liberi e in alcuni luoghi il rapporto padrone-schiavo continuò ancora per molto.
Tuttavia un numero crescente di ex-schiavi lasciava le piantagioni. Iniziarono a resistere ai tentativi di ripristinare le vecchie forme di lavoro, ma anche alle condizioni prodotte dall’introduzione del lavoro salariato in alcune aree. I lavoratori neri iniziarono immediatamente a organizzarsi. Già nel 1865 bianchi e neri di New Orleans si riunirono per chiedere la giornata di 8 ore.
Gli ex-schiavi si attendevano la ridistribuzione delle terre, un proprio appezzamento. In America, all’epoca, la stragrande maggioranza della popolazione era costituita da contadini indipendenti che possedevano piccole ma sufficienti estensioni di terra per produrre la maggior parte di ciò che consumavano, e intrattenevano poche relazioni di scambio. Sebbene tutto questo cominciasse a cambiare dopo la Guerra Civile, rimaneva questo il “mito americano” espresso dalla “democrazia jacksoniana”.
I codici neri e il KKK
Come risultato di una nuova forza lavoro nera sfiduciata, che si rifiutava di lavorare ai vecchi ritmi, la classe dei piantatori iniziò a trovarsi in carenza di manodopera, con la produttività scesa a un quarto di quella precedente l’emancipazione. In risposta, gli ex Confederati e il loro Partito Democratico, che avevano ripreso il controllo delle istituzioni statali, iniziarono a imporre i Codici Neri per stabilizzare la manodopera, applicando una rigida disciplina nelle piantagioni, limitando la capacità dei neri di acquisire proprietà, di adire i tribunali, di far rispettare gli accordi di lavoro e di punire coloro che si rifiutavano di sottomettersi.
Si adoperarono per assicurare la totale trasformazione dei neri liberati in salariati senza terra, sottoposti alla rigida disciplina del lavoro industriale. I nuovi datori di lavoro imposero gli atti di recinzione, chiamati Fence Laws, come quelli approvati all’inizio del secolo nel Regno Unito, per tagliare fuori gli schiavi appena liberati dai campi a cui avevano precedentemente accesso, impedire loro di allevare bestiame, che avrebbe potuto garantire loro una certa autonomia materiale. I proprietari terrieri di tutto il Sud si rifiutavano di affittare la terra ai neri, e quelli che lo facevano subivano la violenza dei vicini.
Con i nuovi Codici i neri dovevano firmare contratti di un anno con i datori di lavoro o rischiare la prigione. Furono approvate leggi che consentivano ai padroni di rapire i figli dei loro ex schiavi per destinarli al lavoro minorile. Alcuni Stati resero illegali gli scioperi, criminalizzando qualsiasi forma di “mancanza di rispetto” nei confronti dei padroni. I neri ricevettero un salario misero e furono obbligati a lavorare in squadre come durante la schiavitù, sorvegliati dai loro ex padroni.
In tutto il Paese si diffuse il timore di una rinascita della Confederazione e del sistema schiavista. In risposta, nel 1866 fu eletta al Congresso una maggioranza di repubblicani radicali. Questi approvarono il Quattordicesimo e il Quindicesimo Emendamento della Costituzione, che proteggevano i diritti civili dei neri. La Legge che stabiliva il governo militare federale sul Sud, pose fine ai Codici Neri e richiese agli ex Stati confederati di garantire l’affrancamento degli elettori neri. Tuttavia l’esercito si tenne per lo più fuori dagli affari interni, rispondendo solo in situazioni più gravi, e non sarebbe mai stato in grado di sopprimere il KKK.
Ascesa della Union League
Negli anni successivi un diffuso movimento di lavoratori neri sarebbe emerso in tutto il Sud. Un movimento spontaneo di ex-schiavi si organizzò rapidamente contro i vecchi padroni in unioni ibride di lavoratori note come Leghe Sindacali.
Sebbene le Leghe dell’Unione avessero anche iscritti bianchi, si dice che alla fine del 1867 quasi tutti i liberti del Sud fossero entrati a far parte di una sezione statale della Lega dell’Unione. Queste in tutto il Sud operavano in modo molto simile ai primi Cavalieri del Lavoro: erano un misto tra un gruppo di difesa politica e un’organizzazione sindacale e, come i Cavalieri, avevano un aspetto di società segreta. Se inizialmente il loro obiettivo principale era la mobilitazione degli elettori neri per i candidati repubblicani, con l’affluire dei neri le organizzazioni si adattarono alle loro esigenze immediate, adottando tattiche e strategie sindacali che sarebbero state familiari a qualsiasi lavoratore del Nord.
Il lavoro delle Leghe
Le Leghe sindacali difendevano le rimostranze dei lavoratori, con boicottaggi, rallentamenti del lavoro, sequestro dei raccolti quando si sentivano truffati e azioni di sciopero contro i proprietari delle piantagioni che costringevano i lavoratori neri a contratti scadenti. Un capo del KKK dovette affrontare un boicottaggio per le sue violenze contro gli attivisti della Lega. Usarono persino il loro potere per imporre ai datori di lavoro di utilizzare solo lavoratori della Lega. Lottarono per la fine del lavoro a squadre e per il diritto di prendere in affitto la terra, cosa che riuscirono a fare in tutto il Sud.
Uno degli obiettivi principali delle Leghe era l’educazione dei lavoratori neri sui loro diritti civili e del lavoro, cosa che attirava le ire della superiorità razziale profondamente radicata nei democratici bianchi. Nelle aree urbane i consigli si riunivano regolarmente in incontri di massa. Usarono tattiche come i sit-in per protestare e porre fine alla segregazione dei tram, metodi che non sarebbero stati più utilizzati fino al movimento per i diritti civili, quasi cento anni dopo.
Nel frattempo, le legislature repubblicane radicali, che gli elettori neri sostenevano con i loro voti, approvavano riforme progressiste. In alcuni Stati, come la Carolina del Sud, passarono alcune leggi moderate di ridistribuzione delle terre. Aumentarono per la prima volta le tasse sugli agricoltori bianchi, abolirono le vecchie leggi antiusura, che impedivano la liquidità dei capitali, e crearono incentivi per l’espansione delle ferrovie. Inoltre, per la prima volta nella storia della regione, finanziarono l’istruzione pubblica. Speravano di sviluppare un Sud industriale moderno a immagine e somiglianza del Nord.
Il crollo dell’ideologia del “lavoro libero” e l’unità dei repubblicani radicali – la cui coalizione si sarebbe sgretolata man mano che le forze corruttrici del grande capitale prendevano il controllo della nazione – avrebbero soffocato ogni speranza di libero lavoro autonomo dei cittadini della repubblica americana.
La borghesia del Nord non aveva intenzione di attuare una rivoluzione nel Sud, ma solo abolire la schiavitù. Non trasformare i rapporti economici, bensì riportare le vecchie piantagioni alla produttività. Intendevano utilizzare i loro capitali per trasformare il Sud in una colonia dipendente del Nord, non più basata sul sistema poco produttivo del lavoro degli schiavi. Man mano che i piantatori del Sud abbandonavano il loro orgoglio e imparavano i nuovi ritmi e modi dello stile di vita capitalista, i repubblicani del Nord avrebbero presto scoperto che questi gentiluomini avevano molte cose utili da insegnare su come tenere in riga i lavoratori.
Il declino della Lega
Nel 1868, a seguito di lotte interne alle fazioni, la direzione combattiva a livello locale cominciò a essere sostituita da moderati provenienti dalla gerarchia a livello statale. Di conseguenza, perse gran parte dell’entusiasmo dei suoi sostenitori.
Inoltre, in risposta all’organizzazione della Union League, la classe dei piantatori e il suo Partito Democratico avevano formato delle società segrete paramilitari, il KKK e la White League, per condurre una campagna di terrore contro la Union League e i repubblicani del Sud in generale. Le tattiche insurrezionali del KKK e le loro scorrerie notturne di mascherati a cavallo permisero al clan di operare sotto il naso delle truppe federali occupanti. Avevano sviluppato tattiche di guerriglia insurrezionale che sarebbero state estremamente difficili da contrastare senza un intervento militare molto più ampio nell’area.
Mentre le tattiche del KKK erano efficaci nelle aree rurali per eliminare l’opposizione, trovavano più difficoltà nell’ambiente urbano, dove il conflitto spesso sfociava in battaglie armate di strada tra le forze clandestine delle due organizzazioni. In molte città la Lega riuscì a eliminare completamente il Klan.
Tuttavia, nel corso dell’anno successivo la campagna di terrore del KKK si intensificò a tal punto che molte Leghe del Sud cominciarono a cedere sotto la furia degli assassinii e del terrore, organizzati dai resti controrivoluzionari dell’aristocrazia dei piantatori e del loro Partito Democratico. La brutale violenza condotta contro la Lega e la sua rete organizzativa spianò la strada alla vittoria finale del Partito Democratico nel Sud.
La successiva elezione di Hayes e il Compromesso del 1877 avrebbero portato a una repressione generale su larga scala del movimento. Mentre repubblicani neri continuarono a essere eletti per tutto il 1890, all’inizio del 1900 i democratici erano tornati al potere in quello che divenne il “Sud duro”, con la legge Jim Crow, che toglieva il diritto di voto ai neri ovunque.
I diritti di affitto e di mezzadria si erano consolidati nel Sud. Tuttavia, quando il capitale iniziò a fluire e le relazioni di scambio del mercato a permeare gli aspetti della vita quotidiana, la maggior parte dei lavoratori agricoli neri si trovarono indebitati, di nuovo assoggettati ai loro padroni creditori e alla terra da cui raccoglievano i frutti.
Con la diminuzione del sostegno del Partito Repubblicano alla Lega nel Sud e l’impedimento dei lavoratori neri di ottenere il diritto di voto, la forza si spostò sull’emergente movimento sindacale. In Alabama, dove si trovava la Lega più radicale, proprio quando dovette affrontare il terrorismo del KKK, sorse l’Alabama Labor Union.
Organizzazione sindacale
Nel 1869 divenne chiaro che la direzione nazionale delle Leghe si stava schierando con i repubblicani conservatori, bloccando la riforma agraria e gli interventi federali a garanzia dei diritti dei neri. In seguito ai continui attacchi del KKK, e come risposta alle tattiche della Lega, molte delle Union Leagues iniziarono a sciogliersi e a riformarsi nelle sezioni meridionali della Colored National Labor Union (CNLU).
Il congresso inaugurale del CNLU si tenne nella sala della Union League a Washington DC. Il programma e le piattaforme della Union League e del CNLU sono quasi indistinguibili. Al congresso di fondazione del CNLU i problemi e le condizioni dei liberti del Sud furono uno dei temi principali, insieme all’eco delle richieste di ridistribuzione delle terre avanzate dalle Union Leagues, cosa che la dirigenza nazionale conservatrice bianca delle Union Leagues non aveva mai permesso.
Per il CNLU mantenere l’intervento federale nel Sud era una necessità. Anche Marx, Engels e Weydemeyer si dichiararono favorevoli a che il movimento operaio mobilitasse il proprio potere politico su tale richiesta. I lavoratori neri del Sud riconobbero la necessità di un maggiore intervento federale sia per garantire i diritti civili appena ottenuti contro il terrorismo del KKK, sia per realizzare la riforma agraria.
Le legislature radicali repubblicane a livello statale riconobbero la necessità della industrializzazione per trasformare l’economia del Sud dalle sue arretrate relazioni sociali semi-feudali. Occorrevano masse di investimenti di capitale dal Nord. Ma, senza la protezione federale, i capitalisti avrebbero temuto di perdere i loro investimenti a causa di possibili richieste di riappropriazione. Allo stesso modo le legislature statali radicali repubblicane si trovarono nell’impossibilità di concedere a molti contadini poveri bianchi la sospensione degli oneri fiscali e di altro tipo, avendo i nuovi governi statali ereditato il debito di guerra confederato.
Senza riforme a livello federale e senza il più ampio sostegno politico della classe operaia ciò che poteva accadere a livello locale era estremamente limitato, mentre i proletari neri dovevano affrontare un’insurrezione reazionaria sempre più violenta ed estesa.
Comprendendo che le loro speranze e aspirazioni di liberazione sarebbero state frustrate i lavoratori neri riconobbero che il loro futuro era nel movimento operaio. La Colored National Labor Union tenne il suo primo congresso nel 1869. Si era separata dalla National Labor Union (NLU) quando quest’ultima si rifiutò di far sedere al tavolo un delegato nero. I pregiudizi dei lavoratori bianchi erano alimentati da decenni di paura per la perdita del lavoro. La instabilità del capitalismo dell’epoca rendeva la disoccupazione un rischio costante, per cui i bianchi che avevano già un lavoro, in professioni qualificate, tendevano ad assumere un atteggiamento di esclusione. In realtà i loro metodi permettevano ai borghesi di abbassare i salari di tutti i lavoratori.
Il CNLU sosteneva la necessità di organizzare i sindacati su base territoriale e identificava quelli di mestiere come sinonimo di sindacati di lavoratori qualificati bianchi, che usavano i loro privilegi per respingere i neri. In contrasto con l’esclusione razziale dei sindacati ufficiali, i sindacati del CNLU non discriminavano sulla base della razza ed erano aperti a tutti i lavoratori.
FINE DEL RESOCONTO DELLA RIUNIONE DI GENNAIO