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Dura da 18 mesi il conflitto a Gaza. È uno scontro inter-imperialistico, del capitalismo nella sua fase putrescente. Non è fra sionismo e islamismo, né fra ebrei e palestinesi, ma fra cordate di Stati borghesi, che si celano dietro ideologie nazionaliste e religiose per perseguire finalità di mero profitto.
Una guerra che ha prodotto il massacro di 54 mila palestinesi e 2 mila israeliani.
Non per una speciale malvagità di una o di entrambe le parti, ma perché la guerra per la conservazione del capitalismo è necessariamente spietata.
Per riportare la pace non si tratta quindi di eliminare il “fascismo” da una parte o il “fanatismo” dall’altra, che avrebbero prodotto e prolungato il conflitto, ma il capitalismo, che necessariamente conduce alla guerra, producendo e servendosi di ideologie e movimenti sempre più reazionari.
A metà gennaio scorso – dopo 15 mesi di guerra, iniziata il 7 ottobre 2023, e pochi giorni prima dell’insediamento della nuova amministrazione statunitense, avvenuto il 20 gennaio – era stata raggiunta una tregua fra Israele e Hamas. Come largamente previsto la fragilità della tregua si è palesata in breve tempo e alla seconda fase dell’accordo non si è mai giunti, con le azioni militari riprese dal 18 marzo.
In questi due mesi i circa 2 milioni e 100 mila gazawi, risparmiati dalle bombe dell’aviazione israeliana, avevano affrontato la durezza della loro condizione e a centinaia di migliaia erano rifluiti dal Sud della Striscia verso il Nord, ritrovando le rovine di una delle zone più devastate dal conflitto.
Quei due mesi sono serviti anche ad Hamas per riorganizzare le file. Subite circa 20 mila perdite fra i suoi miliziani, avrebbe rinnovato i ranghi arruolandone altrettanti, spinti dalla ricerca di quella che è ormai quasi l’unica fonte di sostentamento nella Striscia. Lo Stato israeliano non ha quindi raggiunto il proclamato obiettivo della “distruzione di Hamas”.
Nel rapporto esposto alla riunione generale di fine gennaio, pubblicato nello scorso numero di questo giornale, mostravamo come entrambe le parti in guerra avanzassero argomenti a sostegno della tesi d’esserne uscite vittoriose, ciò soprattutto a fini interni. Notavamo come il vero sconfitto, in effetti, era il proletariato di entrambi i fronti, in quanto la tregua era stata frutto non di una sua mobilitazione, ma di accordi fra le parti borghesi, le quali, come avevano momentaneamente abbassato le armi, così sarebbero tornare ad alzarle, ridando inizio al massacro.
Nei due mesi di tregua le consegne degli ostaggi israeliani sono state occasioni per sfoggiare le milizie di Hamas, nelle divise d’ordinanza durante la guerra rimaste ben conservate nei tunnel, preclusi alla popolazione civile, della quale ci si faceva scudo. Questa esibizione di forza era rivolta più a scopo interno che esterno, al fine di dissuadere le masse proletarie di Gaza dal rivoltarsi.
Questa nostra valutazione è stata confermata dai fatti dei mesi successivi e fino a oggi.
Liberato momentaneamente il proletariato di Gaza dalla morsa della guerra, il controllo su di esso da parte del regime borghese di Hamas si è incrinato. Ripresi i combattimenti il 18 marzo, si sono dispiegate ripetute manifestazioni, con centinaia e in alcuni casi migliaia di proletari invocanti la cessazione del conflitto e la fine del regime di Hamas. Questi proletari chiedono la resa, in una guerra fra borghesie in cui hanno capito che hanno solo da perdere. In queste manifestazioni non è sventolata nemmeno una bandiera palestinese, solo bandiere bianche. È evidente che per una parte ragguardevole del proletariato di Gaza attribuisce la responsabilità del conflitto e delle sue terribili conseguenze non solo sullo Stato borghese israeliano ma anche su Hamas.
Le manifestazioni si sono svolte soprattutto nel Nord della Striscia e alcune a Gaza City. L’ultima però, il 19 maggio, a Khan Yunis, mostrando che la rivolta sta prendendo piede anche nella parte meridionale della Striscia, che in molti affermano essere più saldamente controllata da Hamas.
Altri episodi sono venuti a confermare la difficoltà di Hamas a mantenere il controllo sulla popolazione, con ripetuti saccheggi dei magazzini di viveri e persino una esecuzione in pieno giorno di un poliziotto da parte di uomini di un clan locale.
I bombardamenti israeliani però, iniziati a relativa bassa intensità, sono divenuti sempre più intensi col passare delle settimane. Se inizialmente hanno provocato le proteste di piazza, superato un certo limite le impediscono od ostacolano, dovendo la popolazione mettere innanzi a tutto l’urgenza di sopravvivere a condizioni disperate. Un proletariato prostrato e decimato dai bombardamenti è più controllabile, durante e dopo il conflitto. L’aviazione israeliana è venuta, quindi, in soccorso di Hamas.
Nella notte fra il 4 e il 5 maggio, una settimana prima della visita del presidente degli Stati Uniti in tre paesi del Golfo Persico – Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti – il governo israeliano ha annunciato una nuova operazione che dovrebbe portare alla occupazione a tempo indefinito di vaste parti della Striscia. L’operazione, “Carri di Gedeone”, iniziata il 18 maggio, è stata anticipata da pesanti bombardamenti.
Fra gli obiettivi ripetutamente presi di mira dall’aviazione è stato l’ospedale europeo di Khan Yunis. Nei tunnel sottostanti sarebbe stato ucciso Mohammed Sinwar che, dopo l’uccisione del fratello Yahya a ottobre scorso, era divenuto capo de facto di Hamas. Ciò ha confermato come Hamas utilizzi le strutture civili per nascondersi, fornendo allo Stato israeliano il pretesto per bombardarle e portare avanti il progetto – rivendicato esplicitamente dalla sola estrema destra messianica ma risultato oggettivo del conflitto – di rendere inabitabile la Striscia, per poi spopolarla quanto più possibile e controllare la popolazione, rinchiusa in campi d’internamento o deportata.
Il 13 maggio Netanyahu ha dichiarato: «Per l’emigrazione dei residenti di Gaza il problema è l’accoglienza di altri paesi: se ne avessero la possibilità il 50% dei gazawi se ne andrebbe». Non vi è da dubitare che ciò sia vero, che molti proletari preferirebbero la fuga da quell’inferno, non cercando affatto il martirio invocato da Hamas in nome della patria palestinese. Ma nessun partito o Stato borghese vuole accoglierli, per primi quelli arabi. Né li vuole liberare Hamas, per la quale centinaia di migliaia di giovani disoccupati rappresentano la base di reclutamento e il suo peso politico.
Quella di Gaza è una popolazione che nessuno Stato capitalista vuole né sa che farsene. Erano 400 mila nel 1967, 1 milione e 100 mila nel 2001, 2 milioni e 200 mila nel 2022, anno dell’ultimo censimento, con 54 mila nascite. Ma con l’avanzare della crisi economia sarà tutto il proletariato mondiale a rappresentare per il capitalismo una inutile e pericolosa sovrappopolazione. Gaza è il futuro che l’imperialismo prepara a tutto il mondo, portandolo verso un terzo conflitto mondiale, un nuovo olocausto proletario.
Della nuova operazione “Carri di Gedeone” è parte fondamentale un completo cambiamento del sistema di distribuzione degli aiuti alimentari alla popolazione stremata. Prima era gestito dall’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, con Hamas che, secondo Israele, riusciva ad appropriarsi di parti degli aiuti per trarne finanziamento.
Lo Stato israeliano da inizio marzo e per 11 settimane ha bloccato ogni ingresso affamando la popolazione. Nei due mesi di tregua fra gennaio e marzo entravano quasi 600 camion al giorno. Si sono moltiplicati i saccheggi ai magazzini. Poi, dal 21 maggio ne ha permesso l’ingresso di 119 in 4 giorni.
Il nuovo sistema di distribuzione degli aiuti sarebbe affidato a società private statunitensi attraverso quattro grandi centri di distribuzione, tre a Rafah e uno nel centro della Striscia, a sud del corridoio di Netzarim, che passa a Sud di Gaza City. La distribuzione dovrebbe essere settimanale consegnando un pacco a ogni hamulot, cioè famiglia allargata. La distribuzione dei 4 centri nelle intenzioni del governo israeliano servirà ad accelerare l’evacuazione della popolazione verso Sud e a svuotare la parte settentrionale.
Dal 2016, sotto la presidenza Obama, gli Stati Uniti hanno garantito aiuti militari a Israele per 3,8 miliardi di dollari l’anno, circa il 15% del bilancio della difesa israeliano. L’accordo avrebbe dovuto restare in vigore fino al 2028. Ma dal 7 ottobre 2023, come aiuti di emergenza, solo nel primo anno di guerra gli Stati Uniti hanno destinato circa 23 miliardi di dollari a Israele e alle operazioni correlate, quasi sei volte il pacchetto previsto. Secondo l’Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma, dal 2019 al 2023 gli Stati Uniti hanno fornito a Israele il 69% delle armi che importa; la Germania il 30%, terza l’Italia con lo 0,9%.
Trump ha concluso accordi commerciali con Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi per un valore rispettivamente di 600, 243 e 200 miliardi di dollari. Pochi giorni prima, il 6 maggio, dopo aver bombardato quasi quotidianamente e pesantemente gli Houthi nello Yemen per un mese e mezzo, ha concluso un accordo con essi: le navi statunitensi non saranno più oggetto di attacchi da parte delle milizie sciite Houthi. Ma quest’ultimi continuano a lanciare missili contro Israele.
Durante la visita in Arabia Saudita Trump ha incontrato anche il novello presidente siriano Ahmed al-Sharaa al quale ha annunciato il ritiro delle sanzioni al paese, il che permetterà investimenti delle potenze locali: sicuramente da parte del Qatar, dell’Arabia Saudita e della Turchia.
Infine, improvvisamente, dopo 17 mesi di guerra e oltre 50 mila vittime, i governi di Regno Unito, Francia, Canada e altri paesi europei pare si siano accorti del massacro in atto, hanno denunciato la catastrofica situazione umana a Gaza e minacciato azioni concrete contro Israele. Ma la falsa indignazione di queste borghesie non ha nulla a che vedere con una ritrovata solidarietà. Sono invece imputabili al mutamento dei loro rapporti con l’imperialismo statunitense, della sua strategia internazionale. Inoltre hanno interesse a mantenere un equilibrio fra le due alleanze di Stati capitalisti che spalleggiano Hamas o Israele e valutano essere giunto a un grado eccessivo l’indebolimento dei primi.
A confermare la vacuità della tesi dell’isolamento internazionale di Israele, da aprile esso conduce fitte trattative con la Turchia, patrocinate dall’Azerbaijan, onde evitare un conflitto in Siria, dopo che le tensioni erano giunte a un livello elevato e poco prima che l’esercito turco occupasse un aeroporto militare vicino a Palmira, l’aeronautica israeliana ne aveva bombardato pista e altre infrastrutture.
Sulla Palestina si sono da sempre scontrati gli interessi dei capitalisti di Inghilterra e Francia. La nascita stessa d’Israele significò per il capitalismo inglese la perdita del mandato. La crisi di Suez nel 1956 e il fallimento della manovra congiunta fra Francia, Regno Unito e Israele segnò da un lato la fine del colonialismo storico degli imperialismi europei, dall’altro la definitiva sottomissione della borghesia israeliana all’imperialismo statunitense.
Non è un caso che Germania e Italia, che vendono armi a Israele, abbiano assunto un contegno diverso, più allineato alla condotta degli Stati Uniti, limitandosi a innocue critiche verbali verso la condotta bellica di Tel Aviv.
Le manovre degli imperialismi, oltre un certo limite, sono imperscrutabili. Ma ciò che deve interessare alla classe operaia palestinese, israeliana e internazionale è che qualunque accordo fra gli imperialismi non sarà foriero di un futuro di pace ma di un conflitto ancora peggiore. Le potenze borghesi che oggi trovassero conveniente far tacere le armi sono le stesse che hanno finanziato i fronti di guerra. Per gli stessi identici cinici calcoli possono fare una pace adesso e scatenare la guerra domani. Si pensi al Qatar: è fra i principali finanziatori di Hamas, ne ospita la dirigenza all’estero, al contempo è sede della più grande base militare statunitense nel Medioriente, conclude affari miliardari con Washington, che è il maggiore finanziatore dell’esercito israeliano. O alla Turchia, anch’essa sostenitrice di Hamas, ma facente parte della NATO. Indicare il solo Stato borghese israeliano quale nemico dei proletari palestinesi significa mistificare la realtà del capitalismo mondiale. Per essi – e per la classe operaia di tutti i paesi – sono le borghesie tutte a campare sul loro sudore e sangue.
Questa catena, questa Santa Alleanza borghese internazionale, il proletariato può spezzarla solo battendosi contro la propria borghesia, pena essere risucchiato nei giochi fra le potenze e finire per combattere non per sé ma, sui fronti di guerra o nelle città sotto le bombe, per il nemico di classe.
La guerra può essere veramente fermata – e non essere una mera tregua borghese fra un conflitto e un altro – solo dalla mobilitazione dei proletari coinvolti in essa, in una lotta disfattista del fronte nazionale interno. Questo l’eccezionale valore delle manifestazioni contro Hamas di questi ultimi due mesi nella Striscia di Gaza!
In questa stessa direzione vanno le manifestazioni che da mesi si svolgono ogni settimana entro Israele, con costanza e caparbietà. Importanti sono state diverse lettere pubbliche, con migliaia di firmatari, anche da parte di riservisti, nelle quali si auspicava un accordo per il rilascio degli ostaggi israeliani, arrivando ad una pace con Hamas. Sono decine di migliaia i riservisti che hanno rifiutato il richiamo in servizio.
Un importante e coraggioso passo passo in avanti è stato segnato dalla manifestazione a Tel Aviv del 28 aprile, quando centinaia di manifestanti hanno marciato mostrando foto dei bambini palestinesi vittime della guerra a Gaza, nonostante la polizia avesse cercato di impedirlo. È stato rotto un muro, affermando pubblicamente la solidarietà per le vittime dell’altro fronte di guerra, invece che limitarsi a chiedere la liberazione degli ostaggi.
Questo movimento, ammirevole nelle condizioni storiche e attuali di guerra in Israele, ha però carattere interclassista, disorganizzato e disorientato. Per fermare la guerra è necessario l’intervento di una forza sociale reale. Questa forza può provenire solo dalla classe opposta a tutti gli interessi dei borghesi, una classe che si può presentare coesa, unitaria, inquadrata, disciplinata e indirizzata politicamente a un fine. Questa classe è la classe operaia.
L’inquadramento base della classe lavoratrice è quello nei sindacati e la sua arma lo sciopero.
Ma i sindacati oggi, anche in Israele, sono diretti da agenti della borghesia, patriottici e guerrafondai.
Il 6 maggio il capo dell’Histadrut Arnon Bar-David ha respinto categoricamente l’idea di uno sciopero generale, aggiungendo che non ha appoggiato il recente sciopero degli insegnanti: «Devono tornare al lavoro. Non sostengo lo sciopero (…) ho preso la decisione strategica di non fermare il Paese in tempo di guerra» (“The Times of Israel”, 7 maggio).
Gli insegnanti israeliani, che si sono battuti contro la riduzione dei salari imposta da una manovra governativa per far fronte ai costi della guerra, hanno separato i loro interessi da quelli della propria classe dominante e si sono posti di fatto contro la sua guerra e per la sua sconfitta. Un disfattismo solidale e convergente con quello dei gazawi. «Fermare il Paese in tempo di guerra», il ben motivato timore di Bar-David, è una necessità storica, e la parola d’ordine dei comunisti.
La strada non sarà né facile né breve verso la ricostruzione di veri sindacati e
di un vero partito comunista mondiale, disfattisti e anti-patriottici entrambi.
La classe lavoratrice, anche d’Israele, è ancora sotto il controllo della
borghesia, per la lunga tradizione dei sindacati venduti al regime, per la
residua forza dell’imperialismo che ancora garantisce la corruzione di uno
strato di aristocrazia operaia. Ma questo primo piccolo sciopero disfattista
degli insegnanti israeliani, per quanto parziale e limitato indica la via di una
lotta generale proletaria su posizioni di classe e, quindi, implicitamente anche
contro la guerra e il militarismo dello Stato di Israele, in solidarietà di
fatto con gli oppressi e gli sfruttati di Palestina e contro la guerra che si
prepara fra gli Stati di tutto il mondo Primo disfattismo del proletariato
palestinese ed israeliano contro lo Stato d’Israele e contro Hamas
Il regime del capitale prepara la guerra tra gli Stati
Il proletariato si prepari alla guerra tra le classi !
Solo il disfattismo anti-patriottico della classe operaia può fermare la guerra imperialista!
Contro ogni nazionalismo - Per l’internazionalismo della classe operaia!
Fosche nubi si addensano su vaste zone del mondo mentre in alcune già si abbatte da tempo la tempesta della guerra. Nel mondo, dominato dalle leggi del capitale, si combattono 56 conflitti, di varie dimensioni e intensità, che coinvolgono 90 paesi: dall’Ucraina alla Palestina, dal Congo allo Yemen, dal Myanmar al Sudan.
L’economia mondiale ristagna, sommersa dalla sovrapproduzione di merci, e ogni tentativo di ridarle slancio va a cozzare con le contraddizioni insanabili di questo oramai antistorico sistema produttivo.
L’abbandono della libertà di commercio, che ha caratterizzato gli scorsi decenni, e il ritorno al protezionismo e al nazionalismo economico, sono una ulteriore dimostrazione che il regime del capitale sopravvive a sé stesso. Da una parte il protezionismo aumenterà ancora lo sfruttamento del proletariato, dall’altra inasprirà la lotta per la spartizione dei mercati.
La guerra commerciale tra gli imperialismi è l’anticipazione della guerra aperta, così come è accaduto per entrambe le guerre mondiali dello scorso secolo, la prima delle quali fu fermata in tutta Europa dalla vittoria della rivoluzione proletaria dell’Ottobre 1917 in Russia, luminoso esempio storico di come solo si può spezzare la macchina della guerra dei capitali!
Gli Stati Uniti, la principale potenza economica e militare al mondo, stanno reagendo alla crisi che li attanaglia con il protezionismo e minacciando di dispiegare la loro enorme macchina da guerra nel contenimento del rivale globale, la Cina.
La Repubblica Popolare Cinese – seconda potenza capitalistica mondiale, che usurpa il titolo di socialista, come già fece l’URSS staliniana – continua con sempre maggiori difficoltà, in un contesto di generale crisi economica, la sua crescita industriale e militare, tenendo un basso profilo per guadagnare posizioni a livello commerciale e diplomatico, mentre si prepara allo scontro anche sul piano bellico.
Per cercare di uscire dalla recessione industriale gli imperialismi d’Europa si riarmano, col pretesto di rispondere alla minaccia russa, ma il loro riarmo sarà in primo luogo rivolto contro i proletari, chiamati oggi a fare sacrifici e domani ad andare al fronte per la difesa degli interessi dei loro padroni!
L’Europa unita – impossibile nel capitalismo – verrà dilaniata dalla Terza Guerra imperialista mondiale, come già fu per la Prima e la Seconda, coi vari Stati nazionali che si schiereranno chi con l’imperialismo Usa, chi con quello cinese.
La corsa mondiale al riarmo dovrà mobilitare ingenti risorse, tolte ad ospedali, scuole, salari, pensioni. In Corea del Sud il padronato vuole introdurre la settimana di 64 ore lavorative! Già alcuni Stati studiano di reintrodurre la leva obbligatoria; la Polonia intende richiamare a periodi di addestramento militare l’intera popolazione maschile.
Per opporsi al precipizio disumano del regime capitalistico, che non solo spinge verso la guerra ma allo stesso tempo sta distruggendo le basi stesse della vita sul pianeta, il proletariato, unito al di sopra di ogni frontiera, deve lanciare di nuovo la sua sfida al morente mondo del capitale.
Occorre la lotta decisa e intransigente della classe lavoratrice organizzata in difesa delle sue condizioni di vita e di lavoro, senza farsi carico dell’economia nazionale, che altro non è che il capitalismo.
Questa battaglia va condotta in ogni paese anche all’interno del movimento sindacale, che oggi è controllato da sindacati asserviti agli interessi borghesi nazionali. I lavoratori devono combattere contro le dirigenze apertamente borghesi od opportuniste dei sindacati, storicamente complici di aver contribuito all’inquadramento degli operai per la difesa della patria, e che continueranno in questa loro tradizione quando nella Terza Guerra imperialista le fosse comuni si riempiranno dei corpi dei proletari.
Negli Stati Uniti il capo del sindacato dell’auto – la United Auto Workers – ha salutato i dazi protezionistici che aumentano i prezzi delle merci come una vittoria della classe operaia! In Italia il segretario generale della Cgil il 15 marzo ha portato il sindacato a partecipare a una manifestazione a favore del riarmo europeo, cioè del macello dei proletari!
Una vera lotta per significativi aumenti di salario, per migliori e più sicure condizioni di lavoro, per la riduzione dell’orario diventa anche lotta contro le spese per il riarmo, unica e vera opposizione alla militarizzazione dell’economia e della società – preparando di fatto il proletariato alla lotta rivoluzionaria per il comunismo!
Strumento indispensabile della emancipazione della classe operaia è la direzione del suo internazionale partito di classe, illuminato dall’autentica tradizione marxista.
L’impersonale forza storica e necessità del Comunismo, una nuova forma di produzione che è già matura e preme nel ventre del mostro del capitale, tornerà nuovamente a presentarsi come unica e vera possibile alternativa: o guerra borghese per la conservazione di questo sistema di produzione o rivoluzione comunista internazionale!
OGGI COME IERI, GUERRA ALLA GUERRA !
IL NEMICO DELLA CLASSE OPERAIA È NEL PROPRIO PAESE !
PROLETARI DI TUTTO IL MONDO UNITEVI !
Il panico frenetico espresso dai massimi rappresentanti dell’imperialismo statunitense ha infranto le buone maniere della ipocrita diplomazia internazionale. Assistiamo ad analoghe reazioni degli altri Stati, dalle voci grosse alle contro misure al vile servilismo. Le valutazioni concitate sui rapporti di potenza economica e militare si accavallano. Alcune preoccupate, altre di comodo. Del gran starnazzare dei vari opinionisti rimane del tutto escluso il rapporto tra le classi e del ruolo degli Stati borghesi nel loro confliggere.
Gli Stati Uniti d’America sono usciti vincitori dalla Seconda Guerra mondiale con il ruolo di gendarme globale del capitalismo. Il loro è un dominio di classe: ingrassa la borghesia americana e lascia cadere briciole all’aristocrazia operaia a stelle e strisce.
La crisi economica del capitalismo è di sovrapproduzione, che porta il profitto medio vicino allo zero. Per ripartire, o meglio per continuare a vivere, il capitale ha bisogno di profitto. I nemici borghesi si contendono i mercati e si contendono i profitti. L’imperialismo finanziario, sorretto dalla potenza militare, oggi la fa da padrone.
Anche l’artiglieria pesante dell’imperialismo cinese, con merci prodotte a basso costo, ha il fiato corto: le merci cinesi scontano una composizione organica del capitale sempre più vicina a quella dei vecchi capitalismi. Nella sua corsa è invecchiato precocemente.
La guerra commerciale dei dazi è un toccasana per il capitale e per le borghesie dei singoli Stati. L’inflazione dei prezzi che ne verrà fuori sarà utile per abbassare i salari reali e dare una boccata di ossigeno al vecchio capitale, privo di energie.
È un toccasana anche politico, toglie alle borghesie la necessità di affrontare a viso scoperto il proletariato imponendo la riduzione dei salari nominali. Il “pazzo” o il “cattivo” di turno sarà incolpato dell’aumento del costo della vita, senza rompere la tacita alleanza interclassista tra l’aristocrazia operaia corrotta e la borghesia corruttrice.
Certo fra di loro i borghesi si accapigliano, ma pensando che, comunque vada, qualcosa finiranno per guadagnarci.
L’inflazione oggi è desiderata, ma nello stesso tempo le merci si devono vendere. Il crollo dei prezzi alla produzione è un indice della sovrapproduzione di merci. Ma il problema è riuscire a vendere le merci, per mantenere la riproduzione del capitale.
Il capitalismo, e per esso le classi borghesi, è oggi più che mai incapace di esprimere un programma, un piano per il futuro, una volontà, si aggrappano a politiche funzionali per vivere di giorno in giorno.
La guerra commerciale, nasconde la guerra di classe, come la guerra imperialista nasconde il dominio di classe.La “guerra commerciale” di Wall Street: niente di nuovo
Finanza, monete e commerci nel conflitto tra gli imperialismiIl 2 aprile 2025 l’amministrazione Trump ha annunciato il piano tariffario “Liberation Day” che introduce un dazio fisso del 10% sulle importazioni straniere e di ritorsione più elevati su una alcuni paesi, in particolare la Cina. Nei giorni successivi è scoppiata la bolla a Wall Street, con un crollo degli indici azionari statunitensi del 15-20% da inizio anno. In due giorni S&P 500 ha accusato una perdita di 5.000 miliardi di dollari, superando quella di 3.300 miliardi nel marzo 2020. Mentre Trump annunciava che “è un ottimo momento per comprare!” e attribuiva la responsabilità della situazione a “un piccolo problema” nel mercato obbligazionario, dove alcuni sono “un po’ fuori strada”, ha invitato i suoi amici di Wall Street a puntare a futuri superprofitti derivanti da un intervento coordinato che schiacci la concorrenza con manipolazione del mercato e manovre commerciali. Il tutto sostenuto da una brigantaggio militarista per mantenere il dominio finanziario globale.
I “liberal” gridano al danno arrecato all’”economia”, ma in realtà si preoccupano solo di non perdere la loro parte del bottino! Per le classi medie e le varie appendici parassitarie che dipendono dai super profitti dell’imperialismo statunitense, tutto questo è follia, espropriati dalla grande borghesia e tagliati fuori dal loro corporativismo fascista. Tuttavia, man mano che i piccolo borghesi sono sospinti sempre più, scalcianti e urlanti, nelle file del proletariato, si determinano le condizioni che in futuro ridaranno energia alla lotta di classe.
Ma dietro ai dazi e al conseguente caos dei mercati azionari c’è una strategia più ampia degli Stati Uniti per esercitare pressioni economiche sugli altri paesi affinché acconsentano a un accordo “multilaterale” sulle valute, volto a ristrutturare l’ordine monetario internazionale e il sistema di alleanze, mantenendoli più strettamente nell’orbita degli Stati Uniti, subordinati ai suoi interessi finanziari e al suo dominio militare. Il piano denominato “Accordo di Mar-a-Lago” mira a garantire il dominio del capitale finanziario statunitense e a rilanciare le sue industrie, svalutando il dollaro e introducendo una nuova criptovaluta o un nuovo gold standard, subordinando la protezione militare degli Stati Uniti all’acquisto di debiti statunitensi a lungo termine, sotto il controllo più diretto e centralizzato del Dipartimento del Tesoro. È questa la strategia di lunga data del capitale finanziario statunitense, che mobilita le sue forze per dominare e subordinare i vari sub-imperialismi del mondo.
La “guerra commerciale” e i suoi dazi sono solo uno degli strumenti nell’ampio
arsenale della borghesia statunitense e del suo cartello finanziario dominante,
che cerca di mantenere il dominio globale e contenere l’imperialismo rivale
emergente della Cina. Mentre il capitalismo mondiale affonda in una crescente
stagnazione, incapace di crescere, e in un aumento del debito, possiamo chiaro
vedere in queste manovre i disperati stratagemmi di un ordine mondiale in
decomposizione, costretto nella sua fase imperialista, il cui cadavere marcio
ingombra la via della rivoluzione comunista, che inevitabilmente verrà.
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La fine di Bretton Woods e del gold standard
Alla fine della seconda guerra mondiale, con la devastazione di tutti gli imperialismi mondiali rivali e il massacro di massa del proletariato di Europa e d’Asia, il capitale finanziario statunitense e i suoi monopoli industriali esportarono il loro vasto surplus nella ricostruzione dell’Europa e del Giappone. Con l’istituzione del sistema di Bretton Woods e la creazione del Fondo Monetario Internazionale la borghesia statunitense consolidò il suo dominio finanziario sul mondo. Le valute dei paesi associati al sistema furono direttamente ancorate al dollaro statunitense, garantito dalla convertibilità diretta a un cambio fisso sull’oro stabilito dal Tesoro degli Stati Uniti, che all’epoca controllava i due terzi dell’offerta mondiale di oro. Con gli Stati Uniti come unica potenza industriale e “officina del mondo”, si apriva un periodo di imposizione di politiche di libero scambio, mercati aperti che fungessero da sbocco del suo surplus industriale in forte espansione.
Ma i grandi capitalismi industriali dell’Europa occidentale e del Giappone, approfittando della dispersione delle organizzazioni di difesa proletaria, dopo la guerra si ripresero rapidamente e già negli anni ’50 le produzioni arrivarono a superare i livelli prebellici. Mentre rinascevano le industrie europee e dell’imperialismo ad esse associato, parallelamente andò costantemente aumentando il deficit di bilancio degli Stati Uniti, che investivano nei paesi alleati con prestiti, aiuti e truppe, stampando enormi quantità di moneta per finanziare il proprio dominio imperiale. Questo alla fine portò a un eccesso di dollari in circolazione.
Per decenni gli Stati Uniti mantennero il prezzo dell’oro fissato a 35 dollari l’oncia. Tuttavia, con l’aumento della spesa in deficit, mentre cresceva il commercio tra gli altri Stati, compreso la diffusione sui mercati delle valute estere, le borghesie cominciarono a riconoscere che il dollaro era sopravvalutato.
Affamati di riconquistare la loro precedente indipendenza imperiale, i giapponesi e gli europei cominciarono a sottrarsi alla finanza statunitense ritirando il loro oro dalle riserve di Fort Knox. Quando, alla fine degli anni ’60, l’industria tedesca e giapponese provò a contestare la supremazia delle esportazioni statunitensi, gli Stati Uniti non erano più la potenza economica totalmente dominante che era stata nei due decenni precedenti. Quando l’economia statunitense passò, per la prima volta nel dopoguerra, da un surplus delle esportazioni a un deficit commerciale, i timori cominciarono a diffondersi tra i ranghi dei monopolisti industriali statunitensi, che si resero conto che il loro status era in pericolo. Non ci volle molto perché gli slogan del “libero scambio” fossero dimenticati a favore del protezionismo, per tenere subordinato l’imperialismo tedesco e giapponese in via di sviluppo.
Per invertire la competitività delle industrie statunitensi nel 1962 furono avviate misure protezionistiche, con l’imposizione di limiti alle importazioni di prodotti tessili di cotone dal Giappone. Nell’ambito della “strategia meridionale” della campagna elettorale presidenziale del 1968, Nixon promise ulteriori limiti alle importazioni di prodotti tessili, che facevano concorrenza ai tessuti nazionali del Sud. L’amministrazione Nixon puntò fortemente sulla promozione delle esportazioni come sfogo per la crescita dell’industria e la creazione di posti di lavoro. Si fece strada l’idea che un valore più basso del dollaro sul mercato dei cambi potesse sostenere le industrie nazionali. Nel 1969 gli Stati Uniti negoziarono con i paesi europei restrizioni alle esportazioni di prodotti siderurgici. Il Congresso fu presto sommerso da proposte per limitare ulteriormente le importazioni.
Temendo di essere contagiata dal’inflazione statunitense, la Germania nel 1969 accettò “volontariamente” di sganciarsi dal dollaro e di apprezzare il marco; il Giappone, invece, rifiutò. Nel 1970 il Congresso impose allora quote sulle importazioni di abbigliamento e calzature dal Giappone. In questa guerra commerciale unilaterale gli Stati Uniti concentrarono la loro attenzione sul Giappone e sulla Germania Ovest, paesi le cui valute dovevano essere rivalutate. Non solo gli Stati Uniti avevano un deficit commerciale crescente con entrambi i paesi, ma le esportazioni giapponesi minacciavano le potenti industrie nazionali nel settore tessile ed elettronico e quelle tedesche nel settore siderurgico. Una rivalutazione della valuta, essendo condotti gli scambi commerciali in dollari, avrebbe azzerato la competitività delle due economie esportatrici. Una svalutazione del dollaro avrebbe anche contribuito a ridurre il crescente deficit pubblico, dato che il debito del Tesoro statunitense era denominato in dollari.
Crebbero le critiche dei vecchi imperialismi alla politica monetaria e commerciale “ingiusta” degli Stati Uniti, temendo anche un default del loro debito. I borghesi cominciarono a convertire i dollari in oro, facendo crescere le preoccupazioni sulla capacità del Tesoro di rimborsare tutte le riserve in dollari. Nel 1970 gli Stati Uniti detenevano meno del 16% delle riserve internazionali. Nei primi sei mesi del 1971, 22 miliardi di dollari di attività finanziarie lasciarono gli Stati Uniti.
Nel maggio 1971 uno studio condotto dal Dipartimento del Tesoro concluse che una crisi valutaria era inevitabile, poiché il dollaro era sopravvalutato del 10-15%. Il Tesoro affermò che gli Stati Uniti avrebbero dovuto «approfittare della crisi per ottenere: 1) un miglioramento duraturo della bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti; 2) una ripartizione più equa delle responsabilità per la sicurezza mondiale e la crescita economica; 3) una riforma sostanziale del sistema monetario internazionale». Il memorandum proponeva le seguenti misure: «1) sospensione della convertibilità dell’oro; 2) imposizione di restrizioni commerciali; 3) intervento diplomatico e finanziario per contrastare le attività straniere che interferiscono con il raggiungimento dei nostri obiettivi; 4) riduzione della presenza militare statunitense in Europa e in Giappone».
È proprio a questo copione che l’imperialismo statunitense avrebbe attinto nel 1985 e ancora oggi nel 2025.
Nei numeri 19-21 di “Il Programma Comunista” del 1971 descrivemmo la crisi monetaria allora esplosa: “Nel turbine di monete e di idoli borghesi vacillanti si staglia all’orizzonte il crollo del sistema capitalistico”.
In agosto la Francia inviò una nave da guerra nel porto di New York per recuperare le sue riserve di dollari in oro. Pochi giorni dopo Nixon impose unilateralmente un controllo dei salari e dei prezzi per 90 giorni e un dazio del 10% su tutte le importazioni. Ma soprattutto pose ufficialmente fine al gold standard annunciando che il dollaro non sarebbe più stato convertibile in oro, mettendo di fatto fine al sistema di Bretton Woods e dichiarando il default degli Stati Uniti sui propri debiti, affondando la valuta e appropriandosi di quello che il resto del mondo pensava fosse il suo oro, custodito al sicuro a Fort Knox.
Di conseguenza, il dollaro statunitense crollò di un terzo, il che diede inoltre origine a un’enorme speculazione contro il dollaro, con un significativo apprezzamento del marco e dello yen. Nel gennaio 1973 il mercato azionario subì il più grande crollo dalla Grande Depressione, con l’indice Dow Jones industriale che perse il 45% del suo valore e l’indice FT 30 della Borsa di Londra che scese del 73%. Il mercato della Germania occidentale si sarebbe ripreso rapidamente, recuperando la quotazione originale in diciotto mesi, ma tornò allo stesso valore reale solo nel giugno 1985. Il Regno Unito non recuperò fino al maggio 1987. Gli Stati Uniti solo nell’agosto 1993, oltre vent’anni dopo l’inizio del crollo del 1973-74.
Dopo la recessione del 1973-75, gli Stati Uniti hanno goduto di una forte concentrazione aziendale, nei settori dei servizi, della vendita al dettaglio e all’ingrosso, e in particolare nel settore finanziario. Nel 1974, a seguito del crollo, numerose grandi banche si sono consolidate, formando la Shearson Hayden Stone. Questa fusione faceva parte di una serie che portò alla creazione della Shearson Lehman Brothers e alla sua trasformazione nella quarta banca d’investimento al mondo. Il suo crollo avrebbe poi innescato la crisi finanziaria globale del 2008 e la successiva “Grande Recessione”.
I petrodollari e il prevalere della finanza statunitense sul cadavere dei vecchi imperialismi
Nella primavera del 1973 tutte le principali valute si erano sganciate dal dollaro e i mercati continuavano a registrare un’elevata volatilità. La situazione economica si aggravò per il sostegno degli Stati Uniti a Israele nella guerra del Yom Kippur. Il successivo embargo petrolifero dell’OPEC in ottobre portò a un massiccio aumento dell’inflazione in tutto il mondo. I paesi europei iniziarono ad accumulare ingenti deficit per far fronte all’aumento del prezzo dell’energia, che alla fine portò al crollo dei loro mercati finanziari. Dopo che la sterlina era stata quella di riserva mondiale, fino a che l’imperialismo britannico si era quasi rovinato a seguito delle due guerre mondiali, nel 1976 la Gran Bretagna arrivò all’umiliazione di dover chiedere un prestito al FMI.
L’instabilità della finanza globale dopo la fine del sistema di Bretton-Woods iniziò a calmarsi quando le industrie e le valute europee in crisi si sganciarono dalla più forte moneta statunitense e dai suoi monopoli finanziari e industriali, quelli rimasti in piedi dopo il bagno di sangue da loro stessi provocato.
Il dominio finanziario e la posizione di valuta di riserva mondiale si consolidarono ulteriormente con l’avvio del sistema di “riciclaggio” dei petrodollari con l’OPEC, poi imposto all’Europa attraverso il continuo ricatto di revocare le “garanzie di sicurezza” della NATO e l’imposizione di politiche di manipolazione tariffaria e valutaria. Gli Stati Uniti utilizzarono la minaccia di scatenare l’orso russo sull’Europa, il loro cane da guardia israeliano in Medio Oriente e la Cina di Mao contro il Giappone per costringere alla sottomissione i loro “alleati” e protetti.
Il sistema fu tessuto nel 1973, quando Nixon inviò Kissinger, durante la guerra dello Yom Kippur, a negoziare un accordo con i sauditi per porre fine all’embargo petrolifero, tra la minaccia di invasione degli Stati Uniti e quella saudita di dar fuoco ai pozzi del petrolio. I sauditi accettarono di diventare un protettorato economico dipendente dall’imperialismo statunitense per evitare la distruzione del loro Stato da un lato e della produzione mondiale di petrolio dall’altro. L’accordo garantiva che i sauditi avrebbero venduto il petrolio solo in dollari statunitensi, in cambio avrebbero ricevuto attrezzature militari, addestramento e una “protezione” fornita da quello stesso esercito statunitense che aveva appena minacciato l’invasione. Fondamentalmente l’accordo stabiliva anche che il surplus delle esportazioni petrolifere saudite potesse essere reinvestito solo in attività denominate in dollari statunitensi, ovvero in titoli del Tesoro americano.
Con gli Stati Uniti principale acquirente di petrolio, si creò un sistema di “riciclaggio” in base al quale il surplus del petrolio acquistato in dollari veniva reinvestito nell’acquisto di titoli americani. Questi, acquistati con dollari, avrebbero garantito un rendimento stabile ai produttori di petrolio, mentre gli Stati Uniti avrebbero ottenuto la parte del leone dell’effettivo surplus sotto forma di dollari. Il governo statunitense avrebbe quindi potuto utilizzare quei dollari per finanziare sé stesso, spesso reimmettendoli nelle mani delle società statunitensi attraverso appalti pubblici.
Finché gli Stati Uniti continuavano a pagare gli interessi, mantenendo le loro garanzie protezionistiche e utilizzando con successo il loro esercito per terrorizzare gli imperialismi inferiori e costringerli alla sottomissione, potevano continuare a gonfiare il loro debito, garantendo superprofitti alle aziende statunitensi, senza avere alcun interesse a ripagare effettivamente il debito nazionale, ma a dichiararsi periodicamente insolventi quando possibile e necessario.
Mentre le monarchie arabe arretrate, temendo le rivoluzioni interne e incapaci di opporsi alla potenza militare degli Stati Uniti, si accontentavano delle nuove rendite garantite dall’egida imperiale, l’accordo fu rapidamente seguito da altri paesi dell’OPEC, anche se non tutti ottennero le stesse garanzie di sicurezza, come ha dimostrato la montagna di cadaveri lasciata dall’interventismo statunitense nella regione. Poiché tutti i paesi del mondo importavano petrolio dall’OPEC, tutte le banche straniere avevano ora bisogno di dollari per acquistarlo, e questo diventò un pilastro fondamentale per preservare lo status della moneta degli Stati Uniti come valuta di riserva globale.
Il tentativo degli Stati Uniti di svalutare il dollaro nel 1971 costrinse anche i paesi alleati a fare una scelta: detenere dollari (che potevano perdere valore), reinvestire quei dollari in attività statunitensi, come le obbligazioni, che offrivano un tasso di rendimento fisso, o tentare di creare una valuta alternativa al dollaro e rischiare di subire l’aggressione militare degli Stati Uniti. Quando alla fine del 1973 il Giappone iniziò a considerare il passaggio all’oro o al marco tedesco, i funzionari del Tesoro statunitense comunicarono al Giappone che il mancato sostegno al dollaro sarebbe stato considerato un atto ostile, con il rischio di provocare ritorsioni commerciali o attriti militari.
Nel 1978 la Bundesbank tedesca voleva smettere di acquistare dollari e lasciare che il marco si apprezzasse, valutando la possibilità di diversificare le riserve rispetto al dollaro. Il Segretario al Tesoro degli Stati Uniti e il presidente Jimmy Carter inviarono un promemoria in cui si affermava che la Germania doveva sostenere il dollaro o affrontare gravi conseguenze per la cooperazione della NATO e le relazioni commerciali tra Stati Uniti e Germania. I funzionari statunitensi misero in guardia dall’instabilità politica nella NATO in caso di fallimento del coordinamento economico. La Bundesbank riprese gli acquisti di dollari, nonostante l’opposizione interna.
Durante lo shock Volcker del 1979-82 la Fed aumentò i tassi di interesse fino a quasi il 20% per combattere l’inflazione. Il segretario al Tesoro Donald Reagan chiese alle banche centrali europee di mantenere le loro riserve in dollari e titoli del Tesoro. L’Europa fu avvertita che la mancata cooperazione avrebbe potuto portare al ritiro degli Stati Uniti dagli impegni della NATO, a restrizioni commerciali o dazi doganali e a una guerra valutaria.
La conseguente domanda di dollari per pagare l’energia e la domanda stabile di titoli del Tesoro statunitensi come investimento relativamente sicuro, garantito dalle costanti minacce dell’esercito americano di destabilizzare il mondo, e quindi le valute degli altri paesi, portò a una situazione in cui, nel 2000, il 70% di tutte le riserve valutarie era detenuto in dollari. Così, costringendo all’acquisto di titoli statunitensi e al possesso di riserve in dollari, gli Stati Uniti sono riusciti a far sì che il Sole non tramontasse mai sull’impero americano. Con la minaccia che i monopoli industriali emergenti si trasformassero in capitali finanziari rivali, costretti dall’imposizione del sistema del petrodollaro, il ritorno a un valore al rialzo del dollaro è stato ancora una volta più vantaggioso per il capitale finanziario statunitense.
Proprio mentre il nuovo ordine mondiale del petrolio stava prendendo forma, la visita del 1972 di Nixon a Mao, con gli accordi che ne seguirono, prefigurò il ritiro statunitense dal Vietnam e l’abbandono dello Stato fantoccio nel Sud a favore del nuovo amico cinese e contro il vecchio nemico russo, proprio mentre minacciavano di abbandonare la borghesia europea alle forze dell’imperialismo sovietico, e la borghesia giapponese, priva di esercito, tremava di paura davanti a Mao.
Iniziò così il processo di instaurazione delle relazioni commerciali tra Stati Uniti e Cina. Alla fine degli anni ’80 le società statunitensi avrebbero iniziato a delocalizzare la produzione verso in Cina, dove la manodopera costava poco; nel 1988 le esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti ammontavano a 40 miliardi di dollari.
Mentre l’imperialismo statunitense iniziava ad allungare i suoi tentacoli nel ventre della Cina, tra alta inflazione e aumento dei tassi di interesse da parte della Fed, fu orchestrato un attacco senza esclusione di colpi contro i lavoratori americani, che sin dall’epoca coloniale avevano goduto di un tenore di vita elevato rispetto al resto del mondo e per un secolo di salari in aumento. Quando negli anni ’80-’90 i lavori ben retribuiti nelle fabbriche cominciarono a scomparire, le importazioni a basso costo dall’Asia orientale, incoraggiate da un dollaro forte, garantirono il mantenimento di standard di vita relativamente stabili. Le industrie tecnologiche emergenti iniziarono a trarre enormi profitti dai proletari cinesi, mentre i figli dei lavoratori statunitensi si riversavano nelle università con la promessa di ottenere lavori altamente retribuiti, a costo di accumulare debiti, solo per scoprire oggi, con l’attuale riorganizzazione finanziaria e industriale all’orizzonte, che anche questi lavori stanno scomparendo.
L’accordo del Plaza e il funerale dell’industria giapponese
Dal 1980 al 1985, il dollaro si era apprezzato di circa il 50% rispetto alle valute delle quattro maggiori economie dell’epoca. L’alto prezzo del dollaro portò alti rendimenti per la finanza statunitense, ma minacciò i suoi monopoli industriali.
A metà degli anni ‘80 l’industria tedesca continuava ad avere difficoltà a competere sui mercati internazionali, perdendo gran parte della sua produzione navale, della sua siderurgia e la maggior parte della produzione di materiale fotografico a favore della concorrenza più economica degli Stati Uniti e del Giappone.
Invece l’industria giapponese usciva in modo aggressivo dalla sua relativa recessione e passava ad esportare prodotti di maggior valore. Quando le automobili giapponesi, economiche e di alta qualità, cominciarono a invadere i mercati internazionali e l’interno, i monopoli industriali statunitensi si sentirono nuovamente minacciati.
Un’alleanza di industriali e agricoltori rispose con una campagna concertata per chiedere protezione dalla concorrenza straniera.
Tra i principali attori figuravano gli esportatori di cereali, l’industria automobilistica, i grandi produttori americani come Caterpillar e le aziende high-tech come IBM e Motorola. Nel 1985 il Congresso iniziò a prendere in considerazione l’introduzione di dazi protezionistici e restrizioni alle importazioni.
Nonostante la politica di “libero scambio” di Reagan, che avrebbe portato alla prima vera delocalizzazione dell’industria manifatturiera statunitense, il Congresso attuò vari accordi di contingentamento che limitavano e restringevano le importazioni giapponesi.
Le prospettive negative di ulteriori restrizioni commerciali da parte del Congresso spinsero la Casa Bianca ad avviare, per la prima volta dai tempi di Nixon, una politica di svalutazione del dollaro.
L’Accordo del Plaza cominciò a prendere forma quando gli Stati Uniti fecero pressione su Francia, Germania Ovest, Giappone e Regno Unito affinché apprezzassero le loro valute rispetto al dollaro statunitense. Data la forza dell’imperialismo statunitense, tutti i paesi accettarono le richieste.
(fine nel prossimo numero)
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Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale |
L’8 e 9 giugno il “popolo” – termine fuorviante che nasconde la divisione in classi della società, con interessi contrapposti – è chiamato a votare al referendum promosso dalla Cgil su 5 punti per abrogare le seguenti norme:
1) quella parte del cosiddetto Jobs Act del governo Renzi (Legge delega 183 del 2014) che finì di abolire l’articolo 18 della legge 300 del 1970, già demolito in parte dalla cosiddetta legge Fornero (n. 92 del 2012), approvata sotto il governo Monti, sostenuto anche dalla sinistra parlamentare;
2) la norma che nelle piccole imprese (meno di 16 dipendenti) pone un tetto massimo di indennizzo che spetta al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo, così da rendere meno conveniente licenziare;
3) un’altra norma del governo Renzi nel D.L. n.81 del 2015, che aveva liberalizzato il ricorso ai contratti a tempo determinato inferiori ai 12 mesi e con ciò eliminato la necessità di indicare i motivi (causale) per cui l’azienda ricorre al precariato;
4) quelle che impediscono, in caso di infortunio o malattia contratti sul lavoro nelle imprese in appalto, di estendere la responsabilità all’impresa appaltante: considerare responsabili le imprese appaltanti le indurrebbe a verifiche sul rispetto delle norme per la salute e la sicurezza da parte delle appaltatrici;
5) infine, la norma che dal 1992 stabilisce il periodo di residenza per ottenere la cittadinanza da parte degli stranieri, che se abrogata passerebbe da 10 a 5 anni.
Al di là degli odierni proclami della sinistra borghese e del maggiore sindacato di regime italiano, è a tutti noto che il quadro normativo che ha introdotto e fatto dilagare il cosiddetto precariato è stato orchestrato tanto dai governi di centro-destra quanto da quelli di centro-sinistra, nella loro alternanza e in modo complementare, e che la Cgil non ha mai opposto a questo attacco l’organizzazione di una vera mobilitazione e lotta della classe operaia.
Contro la contro-riforma del mercato del lavoro del 2012 la Cgil non organizzò nemmeno uno sciopero generale (si legga “Progressivi attacchi alla classe operaia in Italia e l’indirizzo sindacale del partito” in “il Partito Comunista” n.354).
Contro il Jobs Act del 2014 la Cgil convocò lo sciopero generale per il 12 dicembre, 9 giorni dopo che la legge era stata approvata (si legga “La Cgil dopo il Jobs Act” da “il Partito Comunista” n.379).
In tutti i paesi la sinistra borghese può distinguersi solo per elementi secondari, mai agendo per la revoca dei precedenti provvedimenti dei governi di destra contro i lavoratori, bensì conservandone la sostanza, perché pienamente condivisi ne sono l’obiettivo e i fondamenti: tutelare la competitività del capitalismo nazionale garantendo un adeguato tasso di sfruttamento della classe operaia.
La presente vicenda referendaria conferma pienamente questo quadro per ciò che attiene i quesiti 1, 2 e 3. Si tratterebbe di assai piccole migliorie nella condizione operaia. Per il n.1, l’abrogazione della parte del Jobs Act relativa ai licenziamenti individuali illegittimi riporterebbe alla legge 92 del 2012, votata dalla sinistra borghese e che già aveva dato un pesante colpo all’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Forse più sostanza arrecherebbe il quarto quesito, e certamente il quinto.
Il tutto però si riduce a una manovretta utile ai partiti del centro-sinistra, PD in testa, per distinguersi “a costo zero” dalla destra, e alla Cgil per ridarsi una verginità di sindacato che “difende i lavoratori”. Dell’esito del referendum, in fondo, poco o nulla importa ai promotori.
Peggio ancora: la probabile sconfitta, dato che difficilmente sarà raggiunto il quorum, metterà per un bel po’ l’ipoteca su quelle rivendicazioni, dato che la Cgil dovrà sottostare alla “volontà popolare” democraticamente espressa: dopo che si sono espressi i cittadini non può il sindacato, che quel parere ha richiesto, agire in senso opposto, col metodo della lotta.
Il nocciolo della questione è nel metodo: se per difendere le condizioni della classe operaia ci si appella a un referendum popolare, implicitamente si accetta il principio che su temi che riguardano solo i salariati abbia valore insindacabile la consultazione democratica, dei borghesi compresi, al di sopra delle divisioni di classe. È invece la lotta fra le classi, condotta con scioperi dei soli lavoratori che, anche fossero una minoranza del popolo, tende ad ottenere la difesa dei loro interessi, frutto di un rapporto di forza, non di un principio democratico.
La Cgil, per rifarsi il trucco, conduce i lavoratori verso una ennesima sconfitta, e, ben più grave, puntellando il rigetto della lotta di classe e la sua sottomissione al metodo democratico. È servito un piatto avvelenato, l’illusione che, nei periodi in cui non si scorge la possibilità di una forte mobilitazione sul terreno dello sciopero, sia utile usare il metodo democratico del referendum che il regime padronale concede.
Ancora una volta la condotta della maggioranza delle dirigenze del sindacalismo di base – escluso il SI Cobas – di accettazione del metodo referendario, invece che di denunciarlo, e pretendendo possa conciliarsi col metodo della mobilitazione e della lotta diretta, è conferma del loro opportunismo politico.
Deve far riflettere in particolare come la dirigenza dell’Usb, che più di ogni altra si è sempre ostinata a negare la necessità di mobilitare uniti i lavoratori quando gli scioperi sono convocati dalla Cgil, come accaduto lo scorso 29 novembre – unico sindacato di base a non avere scioperato quel giorno e ad aver convocato uno sciopero generale in piena solitudine 2 settimane dopo – consideri invece utile accodarsi a una iniziativa della Cgil che nega il metodo della lotta di classe.
L’8 e il 9 giugno l’indicazione del Partito Comunista Internazionale ai
lavoratori è chiara: denuncia del metodo referendario e delle illusioni
elettorali! La classe operaia può difendersi solo con l’organizzazione e la
lotta, non col voto insieme alle altre classi!
L’Argentina del 2025 è la vetrina infranta del neoliberismo latinoamericano. Sotto il governo di Javier Milei i media vantano i indicatori macroeconomici positivi - come l’inflazione ridotta al 98,2% su base annua - ma non riescono a nascondere una catastrofe sociale: 55% di povertà, stipendi che non coprono il paniere di beni di base (950 dollari) e una disoccupazione che è salita all’8,1%.
L’Argentina sta affrontando una crisi economica – espressione della crisi globale del capitalismo – caratterizzata da alti livelli di inflazione, disuguaglianza sociale e un mercato del lavoro in crisi. Le politiche attuate dal governo di Javier Milei, incentrate sull’austerità fiscale e sulla riduzione della spesa pubblica, hanno avuto un impatto significativo sui salari e sull’occupazione, deteriorando ulteriormente le condizioni di vita della classe operaia.
Il mito della ripresa economica
La stampa borghese pubblicizza “successi” come il surplus commerciale record (1,2 miliardi di dollari nel 2024) e il controllo dell’inflazione (98,2% nell’aprile 2025 contro il 292% nell’aprile 2024). Ma non viene detto che è atteso un crollo del potere d’acquisto dei salari del 22% rispetto al 2023. Il 65% dei lavoratori guadagna meno di 500 dollari al mese mentre il costo del paniere alimentare di base supera i 950 dollari. Nonostante un suo miglioramento simbolico, il salario minimo (265 dollari) rimane il più basso dell’America Latina.
I risultati dello shock di aggiustamento economico attuato dal governo si riflettono nella disoccupazione strutturale, che ha raggiunto l’8,1% ad aprile (rispetto al 5,5% del 2023), con 42.000 licenziamenti nel settore pubblico dal 2024.
La spesa pubblica è stata ridotta del 28% in termini reali nei primi 11 mesi del 2024. I tagli maggiori riguardano gli investimenti pubblici e le pensioni; il resto l’assistenza sociale, i sussidi e gli stipendi ai dipendenti pubblici. Alla forte riduzione della spesa si affianca (sempre nei primi 11 mesi 2024) una riduzione del 7% delle entrate.
Nello stesso periodo l’occupazione totale ha visto un calo del 17,2%. Il settore dei servizi, che rappresenta il 60% dell’occupazione totale, ha perso il 20% di posti di lavoro. E, come conseguenza degli accordi del FMI, possiamo solo aspettarci che la disoccupazione continui a crescere.
Un altra conseguenza delle politiche del governo argentino è la condizione insostenibile del debito. Nonostante le manovre di austerità, nel 2024 il debito pubblico ha raggiunto i 466,8 miliardi di dollari, con riserve nette negative per 12 miliardi di dollari. Il nuovo credito di 13 miliardi di dollari concesso dal FMI nell’aprile scorso richiede ulteriori tagli alla sanità e all’istruzione. Quindi peso del prestito ricadrà sulle spalle dei lavoratori. Il nuovo prestito consolida il circolo vizioso: debito-austerità-miseria.
2023 | 2024 | 2025* | |
Inflazione | 211% | 292% | 98.2% |
Paga minima | 320 | 260 | 265 |
Paniere di base | 600 | 780 | 950 |
* aprile - USD - Fonti: INDEC, CEPAL, altri |
La produzione manifatturiera ha visto una ripresa solo a dicembre e gennaio scorsi dell’8,4% e del 7,1%, ma dopo 18 mesi consecutivi di cali che hanno fatto chiudere il 2024 con un -9,4% rispetto al 2023. A fine anno l’industria funzionava al 62% della sua capacità.
La produzione mineraria è invece cresciuta del 6% in un anno, con aumento dell’estrazione del petrolio del 10,6%. Le imprese di estrazione del litio nel 2024 hanno generato profitti dell’82,6% (1,2 miliardi di dollari). L’Argentina infatti ne è il terzo produttore dopo Brasile e Messico. Dispone di grandi giacimenti di litio, petrolio e gas ma, nonostante l’incremento del settore, questo non si è tradotto in maggiori salari, semmai il contrario.
Il mito parlamentare
La sinistra fa discorsi infiammati, ma vota compiacente.
Nel dicembre scorso la centrale FIT-U, nonostante molta propaganda e agitazione nel movimento sindacale, non ha votato contro la riforma del lavoro, che facilitava i licenziamenti, né ha mobilitato la classe per l’aumento dei salari e il miglioramento delle condizioni di lavoro.
Il lavoro sporco di collaborazione con il regime borghese nonostante le pose teatrali non ingannano più nemmeno i militanti di base, che arrivano a dire: «Nelle assemblee ci parlano di rivoluzione, ma al Congresso si limitano a twittare indignazione» o «Ci chiamano alla lotta, ma al Congresso fanno patti con la destra».
Quella parlamentare si conferma ancora una volta non solo come una tattica inutile per l’emancipazione dei lavoratori, ma come un tradimento della classe operaia e della rivoluzione. I diversi partiti che siedono nel parlamento argentino (e in tutti i parlamenti) sono lì, in minoranza o in maggioranza, solo per dare sostegno politico al dominio di classe della borghesia e per favorire i suoi affari e lo sfruttamento dei lavoratori.
Il mito del sindacalismo di regime
I sindacati annunciano demagogici scioperi generali, ma poi legittimano l’adeguamento strutturale.
I 12 scioperi “generali” del 2024 generali non hanno influito sul funzionamento delle aziende, a causa della loro divisione in azioni isolate. I capi dei sindacati del regime hanno frenato le mobilitazioni di piazza, utilizzate solo per accordarsi con il governo sull’applicazione dell’aggiustamento economico e sul sovra-sfruttamento dei lavoratori. Nell’aprile 2025, hanno indetto uno "sciopero nazionale" di 36 ore che ha escluso settori chiave (trasporti, energia), un’altra prova del tradimento delle direzioni sindacali, nonostante il malcontento e la volontà di lottare nelle strade e nei luoghi di lavoro.
Le centrali sindacali del regime hanno approvato tagli del 15% alle pensioni (50% dell’aggiustamento fiscale) e accettato la flessibilità del lavoro in cambio di briciole per le burocrazie sindacali.
Lo sciopero di aprile è stato preceduto dagli scontri di metà marzo, con 100 arresti e 20 feriti, nei quali ai pensionati si sono uniti migliaia di ultras delle squadre di calcio che, provando a raggiungere la piazza del parlamento, sono stati caricati dalla polizia con idranti, proiettili di gomma e gas lacrimogeni.
La vera natura e il carattere repressivo dello Stato non tardano a manifestarsi quando la classe lavoratrice cerca di opporsi ai piani dei padroni e dei governi come ci dimostrano le ripetute rappresaglie in giro per il mondo, sia nei regimi più dittatoriali come nelle repubbliche più’ democratiche.
Fuori dai falsi miti
Lo spettro della crisi economica argentina, che ha avuto l’episodio più drammatico nel 2001 e sembra ritornare ciclicamente nonostante alcuni periodi di stabilità, è la crisi di un paese che fatica a ripagare i suoi debiti. La crisi di sovrapproduzione mondiale di merci e la sempre maggiore “finanziarizzazione” dell’economia mondiale porta alcune nazioni a contrarre questi enormi debiti verso banche, investitori privati ed altre nazioni, finendo sotto la morsa di un capitalismo sempre più usuraio.
L’Argentina è il paese più indebitato con l’FMI per oltre 50 miliardi di dollari, fattore che sembrerebbe alla base del momentaneo e recente rifiuto di Milei di aderire ai BRICS, l’altra precaria alleanza imperialista che vorrebbe scalzare l’egemonia Usa sul mercato mondiale.
L’insostenibilità del debito argentino e il suo divario con l’andamento dell’economia produttiva sembrerebbero alla base dei ripetuti default: nel 2001, nel 2014 e 2020.
Nel 2001 a seguito dell’ingestibile debito estero, allora giunto a 160 miliardi di dollari, lo Stato, di fatto in bancarotta, congelò i depositi bancari per frenare la fuga dei capitali (da marzo a dicembre oltre 15,3 miliardi di dollari erano fuoriusciti dal paese) imponendo ai correntisti il divieto di prelevare più di 250 dollari alla settimana e bloccando i pagamenti del debito in scadenza.
Molti creditori detentori di bond argentini hanno spesso rinegoziato le scadenze per ridurre il peso del debito (anche fino al 70%), ma le ripetute ristrutturazioni hanno ulteriormente allontanato la fiducia dei mercati e portato il paese in una spirale senza fine in cui lo Stato ha necessità di far quadrare ciclicamente i conti pubblici per ottenere altri prestiti. La sua economia è diventata un cane che si morde la coda, a spese della classe lavoratrice.
L’economia capitalistica mondiale in questa fase sta trascinando a fondo i suoi anelli deboli, che contraggono enormi debiti esteri, l’effetto e non causa dello strapotere degli imperialismi più forti sui paesi meno sviluppati. In questo scenario la borghesia, con il suoi apparati statali, può solo far pagare la crisi alla classe lavoratrice. Tutti i successivi governi continuano la nefasta opera dei predecessori, con l’attuazione di ennesime misure di austerità per consentire il salvataggio delle rendite finanziarie locali e straniere.
I lavoratori possono rompere il ciclo del tradimento e dell’opportunismo e
diventare una forza potente per fermare le politiche antioperaie del governo
argentino e di tutti gli altri. Un’assemblea di lavoratori a Salta in aprile ha
dichiarato: «L’unico sciopero generale che conta è quello che paralizza il Paese
e sconfigge il regime». Il futuro pone la sfida di moltiplicare le lotte, di
farle convergere in uno sciopero generale, a tempo indeterminato e senza servizi
minimi, di avanzare nell’unità d’azione del movimento sindacale e verso il
riemergere di veri sindacati di classe. Questo sarà possibile solo contro le
dirigenze delle centrali sindacali attuali e contro i partiti della sinistra
opportunista e il loro parlamentarismo, rigettando gli appelli alla difesa della
patria e dell’economia nazionale.
Il 27 aprile, la Rete d’Azione per la lotta di classe (Class Struggle Action Network), un coordinamento intersindacale negli Stati Uniti, di cui fanno parte i nostri compagni lavoratori, in vista del Primo Maggio ha promosso un incontro in tele-conferenza fra militanti sindacati di diversi paesi per condividere esperienze sulla realtà dell’attacco padronale, su come i lavoratori cercano di difendersi all’interno o dall’esterno dei sindacati ufficiali, e per valutare la possibilità di iniziare la propaganda di una futura mobilitazione per quanto possibile coordinata. Hanno partecipato una cinquantina di lavoratori e organizzatori sindacali, oltre che dagli Stati Uniti, anche dalla Turchia e dall’Italia. Qui riportiamo l’intervento del nostro compagno italiano.
* * *
Buongiorno compagni,
sono un lavoratore militante dell’Unione Sindacale di Base, un sindacato di base nato nel 1980, formato in parte da lavoratori che hanno lasciato il più grande sindacato italiano, la CGIL, in reazione al suo comportamento collaborazionista, tanto da essere definita da molti un sindacato del regime, cioè del regime politico capitalista.
Vi faccio una breve panoramica della situazione in Italia.
La lotta della classe operaia in questo paese è in declino dalla fine degli anni ’70. Tuttavia, questo processo non è uniforme, poiché vari settori hanno dimostrato un notevole spirito di lotta nel corso di questi quattro decenni.
Diversi fattori agiscono in modo contraddittorio ma che porteranno a un’inversione di tendenza, a un ritorno alla lotta dei lavoratori.
I fattori che hanno portato all’indebolimento della lotta operaia possono essere riassunti in quattro punti:
1 - la forza relativa dell’imperialismo italiano nel quadro del capitalismo mondiale, che ha permesso la formazione di uno strato di aristocrazia operaia che ha fornito una base materiale per la corruzione della classe operaia; oggi, tuttavia, con l’avanzare della crisi economica globale del capitalismo, questo strato sta diventando sempre più sottile;
2 - il sindacalismo collaborazionista e di regime, che durante tutto il dopoguerra ha lavorato per sradicare dai lavoratori i metodi e i principi della lotta di classe, principalmente attraverso la CGIL;
3 - la crisi di sovrapproduzione, iniziata nei cosiddetti paesi occidentali a metà degli anni ’70 e che in Italia ha innescato un processo di deindustrializzazione dall’inizio degli anni ’80, indebolendo il proletariato industriale; ad esempio, l’industria automobilistica si è in parte trasferita dall’Italia alla Turchia;
4 - gli errori dei dirigenti dei sindacati di base, che a mio avviso sono stati dettati da opportunismo politico.
Il mio sindacato, l’USB, promuove quello che viene definito sindacalismo di classe. Questa definizione si riferisce a una condotta sindacale basata sul principio che le condizioni della classe operaia possono essere difese solo attraverso la lotta, perché gli interessi economici, e quindi anche politici, della classe salariata e della borghesia sono inconciliabili.
Si tratta, ovviamente, di una definizione generale e, quando viene tradotta in azioni concrete, emergono delle differenze. Ad esempio, una errata opinione della dirigenza dell’USB riguarda il disconoscimento del fatto che il diritto di un sindacato di classe di esistere e lottare può essere difeso nella società capitalista solo con la forza della classe lavoratrice: non dobbiamo affidarci alle cosiddette “regole democratiche” per garantire che il sindacalismo di classe possa operare liberamente. Il sindacalismo conflittuale, di classe, sarà sempre combattuto dal regime politico padronale, sia nel rispetto formale del quadro politico democratico, sia attraverso il fascismo aperto.
A questo proposito, è istruttivo spiegare uno degli aspetti del movimento sindacale in Italia negli ultimi anni.
In reazione al tradimento aperto della CGIL, in Italia sono emersi in vari settori diversi sindacati cosiddetti “di base”. La forza principale di questi sindacati era l’arma dello sciopero. Contro di loro, la CGIL ha invocato per anni una legge che limitasse la libertà di sciopero nei cosiddetti “servizi pubblici essenziali”, in nome del diritto costituzionale e democratico dei cittadini ad avere accesso a tali “servizi essenziali”. È chiaro come, in questo caso, i principi della democrazia e dello Stato di diritto siano stati usati contro i lavoratori!
Infine nel 1990 è stata approvata una delle leggi più restrittive in materia di libertà di sciopero in Europa, votata dal principale partito di governo in Italia, la Democrazia Cristiana, e dal principale partito di opposizione parlamentare, il Partito Comunista Italiano. In base a questa legge, gran parte della classe lavoratrice italiana è impossibilitata a scioperare in modo efficace. Per fare un esempio, mentre in Germania assistiamo a scioperi ferroviari che durano fino a cinque giorni, in Italia gli scioperi nei settori soggetti a questa legge non possono durare più di 24 ore, devono essere annunciati con circa 20 giorni di anticipo e spesso non possono essere indetti più di una volta al mese o anche meno.
Con la crisi economica del 2008 la situazione della lotta dei lavoratori nell’industria è ulteriormente peggiorata e il sindacalismo di base in essa si è indebolito. Dal 2010, tuttavia, nel settore della logistica è emerso un movimento di lotta guidato dai sindacati di base e composto principalmente da lavoratori immigrati. Ci sono state centinaia di scioperi, spesso molto duri, con scontri con la polizia e licenziamenti, e molti di essi hanno portato miglioramenti concreti per questi lavoratori. La forza di questi scioperi è stata nei picchetti, che hanno bloccato l’ingresso e l’uscita dei camion dai magazzini. La CGIL si è quasi sempre opposta a questi scioperi, temendo il rafforzamento del sindacalismo di base nel settore.
Quest’anno il governo di destra ha promosso un disegno di legge che, se approvato, potrebbe rendere illegali i picchetti. Il disegno di legge è stato convertito in decreto legge tre settimane fa. Il presidente della Repubblica, che gran parte della sinistra parlamentare considera un baluardo democratico contro il governo di destra, ha firmato il decreto. Sia la legge contro gli scioperi nei cosiddetti servizi pubblici “essenziali” che il decreto legge contro i picchetti sono stati quindi ritenuti perfettamente in linea con la Costituzione italiana, considerata da gran parte della cosiddetta sinistra un baluardo a difesa dei lavoratori!
Quindi, riguardo la prima delle due questioni di cui qui parliamo, l’attacco fascista della classe capitalista contro i lavoratori, la mia conclusione è che certo, l’attacco è fascista, ma può assumere le sembianze della democrazia ed essere sostenuto da partiti che si dicono difensori della democrazia. Il fascismo è la vera natura del regime politico capitalista e la classe operaia può difendersi da esso solo con la forza della sua organizzazione e della sua lotta.
Il secondo argomento di oggi è lo sciopero generale.
In Italia la legge contro i picchetti completa l’attacco alla libertà di sciopero, colpendo il settore privato, manifatturiero e logistico, mentre la legge del 1990 aveva colpito il settore dei servizi pubblici.
Si trattava di una misura molto grave che avrebbe giustificato il ricorso a uno sciopero generale. Ma le dirigenze dei due maggiori sindacati di base - SI Cobas e USB – hanno agito divise, convocando scioperi generali in date diverse.
Questo è un grave problema per il movimento sindacale in Italia. Le dirigenze di questi sindacati appartengono a diversi gruppi politici, e utilizzano i sindacati solo come strumenti per farsi la guerra, arrivando per questo a dividere la lotta sindacale dei lavoratori. Questo comportamento opportunistico delle dirigenze dei principali sindacati di base impedisce il rafforzamento e nuoce al prestigio del sindacalismo di classe.
Per questo motivo sono membro, insieme a militanti di altri sindacati, del Coordinamento Lavoratori Autoconvocati (CLA) che promuove e si batte per l’unità d’azione del sindacalismo conflittuale e dei lavoratori.
Inoltre, c’è una tendenza da parte delle dirigenze dei sindacati di base a indire “scioperi generali” senza un reale collegamento con le lotte sindacali nei vari settori, soprattutto per quanto riguarda la scadenza dei contratti collettivi nazionali di lavoro. Lo sciopero generale dovrebbe cercare di unire le lotte operaie in corso, coinvolgendo una massa critica e raggiungendo così anche quelle fasce della classe operaia che attualmente non sono in lotta.
In questo senso, la proposta che circola nel movimento sindacale statunitense di allineare la scadenza dei contratti al 1° maggio 2028, al fine di promuovere un grande sciopero potenzialmente generale, è in linea con la realtà del movimento sindacale nei vari settori. Forse pecca, dall’altra parte, nel senso che lo sciopero non dovrebbe essere subordinato solo alla scadenza dei contratti collettivi: se c’è la forza, potrebbe essere la classe lavoratrice a non rispettare gli accordi e a chiedere aumenti salariali prima della loro scadenza. Ma la proposta, che è stata ripresa dal CSAN, è sicuramente un passo nella giusta direzione.
Anche in Italia è necessario un giusto equilibrio tra i due elementi: la convocazione di uno sciopero generale di tutta la classe lavoratrice da parte dei un sufficiente numero di sindacati, come atto politico in sé, e l’aderenza alla realtà delle lotte sindacali nei vari settori e categorie.
Questo lavoro però richiede, almeno in Italia, una battaglia all’interno dei sindacati combattivi contro le divisioni nell’azione imposte dai loro dirigenti opportunisti. Questa lotta può trarre vantaggio dalle relazioni internazionali con i movimenti sindacali di classe di altri paesi, anche perché il quadro internazionale della lotta proletaria è più vivace e incoraggiante rispetto al ristretto contesto nazionale italiano.
L’iniziativa odierna è un passo utile in questa direzione.
Viva la lotta della classe operaia!
Viva il Primo Maggio!
Viva lo sciopero generale!
Le proteste operaie
In Iran si è riscontrata una forte ripresa della lotta operaia contro il regime borghese degli ayatollah. La momentanea tregua seguita alla durissima repressione delle lotte operaie del biennio 2019-20 sembra volgere al termine.
Un primo sciopero si è visto ad agosto, delle infermiere contro le terribili condizioni di lavoro, per il salario, la sicurezza sul lavoro, la diminuzione dell’orario e degli straordinari e per il diritto allo sciopero. Il loro salario medio è di circa 220 dollari, vicino al minimo sindacale. Lo sciopero seguiva la morte di un’infermiera di 32 anni, in un ospedale della provincia di Fars, provocata dal superlavoro. Questo grave episodio ha innescato le proteste, poi estese nelle province di Arak, Mashhad e Yasuj, con manifestazioni sostenute in tutta la regione anche dal sindacato dei trasporti, e dagli studenti, soprattutto di medicina. La crisi profonda, come ha rivelato il sindacato, porta a far emigrare ogni mese tra i 150 e 200 infermieri (11.500 operatori sanitari hanno lasciato l’Iran negli ultimi 2 anni), con gravi conseguenze sulle cure ai lavoratori e ai disoccupati.
Successivamente i pensionati si sono mobilitati a livello nazionale con grandi proteste ad Ahvaz, Shush, Isfahan e Qaemshahr. Ad Jam chiedevano di adeguare le pensioni al costo della vita, falcidiate dalla forte inflazione nel paese. A Kerman e a Shiraz protestavano contro il mancato pagamento del TFR. In molte di queste manifestazioni risuonava lo slogan “basta con le guerre, le nostre tavole sono vuote”. Nei bazar di Teheran alcuni commercianti hanno chiuso i negozi intimoriti dalla forza del movimento e le serrate si sono estese ai mercati chiave di altre città.
Altre ondate di protesta si sono verificate tra i lavoratori del petrolio, alla Ofoq Company nel giacimento petrolifero di Yadavaran e davanti alla miniera di Agh Dere Meshkinshahr, dove vi sono stati degli arresti, nella raffineria Fair Jam, alla Gachsaran Oil and Gas Company.
Nel comune di Tabas i lavoratori hanno protestato per non aver percepito dal comune 3 mesi di stipendio e 2 mesi di straordinari. Protesta per migliori condizioni di sicurezza e di vita anche degli stradini del Sod Fars. Infine, tornando al settore sanitario, gli infermieri all’ospedale Ghandi di Teheran hanno protestato per il mancato stipendio degli ultimi 3 mesi.
Queste lotte proletarie si collegano direttamente a quelle del biennio 2019-20. Allora le manifestazioni iniziarono contro l’aumento del costo del carburante dal 50% al 200% e per la forte inflazione che ne era derivata, al 35%, con svalutazione del 60% del rial rispetto al dollaro. Il governo fu costretto a concedere sussidi a 60 milioni di cittadini, intervento che però non riuscì a placare la rivolta che solo con un bagno di sangue fu infine domata. Durissimi scontri con le forze di sicurezza causarono la morte di circa 1.500 manifestanti. Secondo Amnesty International la polizia sparava dai tetti, dagli elicotteri e a distanza ravvicinata con mitragliatrici. Ma la stima degli uccisi è al ribasso in quanto la polizia portava via e nascondeva i corpi. Le famiglie delle vittime erano minacciate affinché non parlassero con i media.
I lavoratori reagirono alla dura repressione con l’assalto a 731 banche governative, tra cui la banca centrale, 50 basi militari e 9 centri religiosi islamici e con il rovesciamento delle statue del leader Khamenei. Nel frattempo era stato bloccato l’accesso a internet su scala nazionale, isolando il paese dai vicini dove altre proteste erano in atto, in Iraq e in Libano. Gli scontri del 2020 sono stati i più duri dal 1979, più di quelli avvenuti durante le proteste delle donne nel 2022.
A Teheran dal settembre 2022 una serie di manifestazioni, terminate nel corso del 2023, ebbe come causa scatenante l’uccisione di Mahsa Amini, la ragazza curdo-iraniana di 22 anni arrestata e uccisa dalla polizia morale per aver violato la legge sull’obbligo dell’hijab. Le manifestazioni si estesero fino al Kurdistan.
Queste proteste, iniziate già da qualche anno, furono portate avanti perlopiù da donne e studenti. Benché, oltre alla questione del velo e della libertà delle donne, riguardassero anche le pessime condizioni dei lavoratori urbani e delle zone rurali, interessarono principalmente le classi medie delle città, con carattere quindi interclassista. Nonostante questo subirono una durissima repressione, migliaia di arresti e uccisioni di dimostranti “nemici di Dio”, anche minorenni bastonati a morte davanti ai compagni di classe.
Sconfitte esterne
La sopraggiunta guerra fra Hamas e lo Stato di Israele è servita anche a tenere sotto controllo i lavoratori iraniani distogliendoli dalla lotta di classe con la collaudata tattica borghese della ricerca di un "nemico esterno". Della guerra le borghesie iraniana ed israeliana sono complici, nell’impiego di mezzi micidiali, nell’estendere la guerra al Libano, allo Yemen, alla Siria, sperando in un momentaneo affievolirsi della lotta di classe all’interno.
A luglio 2024 le elezioni del nuovo presidente iraniano hanno visto la partecipazione più bassa nella storia della Repubblica islamica, sotto il 40% al primo turno e 49% al secondo. In una situazione molto precaria e di malcontento la borghesia ha ritenuto opportuno presentare un “riformista” per dare l’illusione di un cambiamento, un governo “aperto al dialogo” con l’Occidente, anche al fine di ridiscutere le sanzioni che affliggono il paese da quando gli Usa uscirono dall’accordo sul nucleare nel 2018. Preoccupa la tenuta del fronte interno, compromessa dalla crisi economica e all’estero dalla caduta degli alleati Hezbollah in Libano, del decennale regime di Assad in Siria e il ridimensionamento degli Houthi in Yemen che destabilizzano e modificano i rapporti di forza e di alleanze in Medio Oriente.
Il nuovo presidente Masoud Pezeshkian, succeduto nel frattempo a Ebrahim Raisi, morto in circostanze misteriose in un incidente aereo nel maggio 2024, ha deciso di momentaneamente sospendere una nuova legge, “hijab e castità”, che avrebbe dovuto entrare in vigore a dicembre. La legge avrebbe imposto alle donne sopra i 9 anni un copricapo a nascondere tutti i capelli, inaspriva le pene per i trasgressori fino al carcere. La proroga dimostra il timore del governo per il rinnovarsi della protesta sociale e una sua condizione di debolezza.
Il comandante delle forze iraniane Hossein Salami crede che l’Iran possa essere il prossimo bersaglio, dopo la Siria, tanto di bombardamenti quanto di un colpo di Stato. «Forze straniere si sono avventate su una gazzella solitaria come lupi affamati e se un esercito non resta compatto l’intero paese cade nel caos». La borghesia iraniana teme un attacco ai siti nucleari, che gli Stati Uniti potrebbero ordinare al servo Stato d’Israele, e di perdere la loro influenza in Iraq, dopo averla persa in Siria, come dimostrerebbe la visita del Segretario di Stato americano Antony Blinken al primo ministro iracheno Al-Sudani nell’agosto 2024. Ad aggravare la situazione, Francia, Germania e Gran Bretagna, firmatari dell’accordo sul nucleare del 2015, considerando lo scenario internazionale di guerra, hanno affermato che potrebbero "se necessario" riproporre all’Onu di riattivare le precedenti sanzioni.
La crisi economica
Questi fattori di politica estera aggravano la crisi economica nel paese che si trascina da oltre un decennio.
Tuttavia l’Iran resta il terzo paese per riserve di petrolio al mondo (13,3% del totale) e il secondo per il gas (16,2% globale). Anche se le sanzioni ne hanno colpito fortemente l’economia, ha ancora la possibilità di aggirarle tramite il legame commerciale con la Cina, verso la quale è destinato il 90% delle esportazioni di idrocarburi, che vale 35 miliardi di dollari. La Cina quindi ha interesse a stabilizzare la situazione in Medio Oriente. Quasi tutto l’export passa però per lo stretto di Hormuz, nel quale incrocia la marina occidentale.
In questo scenario, se l’economia del paese mantiene un Pil in crescita del 4,7%, contro il 4% dell’anno precedente, e un rapporto debito/Pil contenuto al 30%, tra i paesi dell’area medio orientale l’Iran tra il 2005 ed il 2025 è il paese che è cresciuto di meno. Infatti il Pil pro-capite è sceso del 45% rispetto al 2012: mentre nel 2005 non era lontano da quello turco oggi ne è molto al di sotto; anche l’Egitto, più popoloso e povero di risorse naturali, e malgrado anch’esso alle prese con la crisi, gli si è avvicinato molto.
Ma drammatica, e che rende la situazione esplosiva, è l’inflazione, passata dal 31,2% al 34,5%. Il Rial ha chiuso il 2024 con un minimo storico di 821.500 per un dollaro, in calo del 40% dall’inizio dell’anno; il 23 gennaio 2025 il tasso di cambio era già a 840.000; oggi è a 900.000! I bassi salari e l’impennata dei prezzi hanno generato una forte crisi della domanda interna.
A questo va a sommarsi il paradosso della “crisi energetica”: nonostante l’Iran produca ed esporti gas e petrolio, non riesce a soddisfare il fabbisogno interno di gas, elettricità e benzina. Il governo ha fatto appello alle famiglie di ridurre la temperatura nelle case di 2 gradi, a dicembre c’è stato un lockdown parziale con scuole ed edifici pubblici chiusi. La crisi energetica ha avuto risvolti sulla produzione industriale, che concorre al 44,6% del Pil nel petrolchimico, tessile, alimentari, acciaio e autoveicoli. Si stima che gli impianti industriali abbiano lavorato al 41% della loro capacità, con conseguenze disastrose visto che il 30% della popolazione attiva è impiegata nell’industria.
È un quadro complesso. Ma è certo che la borghesia in Iran non dorme sonni tranquilli.
Nessuna borghesia al mondo può dormire tranquilla. Il capitalismo continua a produrre in modo accelerato le fratture e le crisi che porteranno la classe lavoratrice a riprendere in mano la lotta per la propria sopravvivenza. Il suo grande compito è l’abbattimento di un regime che non può più garantire stabilità e pace per nessuno.
La classe operaia scenderà in lotta, sul piano prima nazionale poi internazionale, contro il proprio nemico di classe e i suoi governi, diretta dal proprio partito comunista internazionale.
Le borghesie stanno trascinando l’umanità nell’abisso della distruzione. Noi
lavoriamo affinché non si arrivi impreparati di fronte a questo bivio della
storia.
Le lotte dei lavoratori in Turchia, che hanno preso slancio nell’ultimo trimestre del 2024, continuano nel 2025, estendendosi ad altri settori, città e regioni. L’aggravarsi della crisi economica sta spingendo i lavoratori alla lotta per poter sopravvivere.
Scioperi a Baspinar
Nel mese di febbraio nel giro di poche settimane decine di fabbriche nella zona industriale di Baspinar, ad Antep, sotto la guida del BIRTEK-SEN, hanno indetto uno sciopero per chiedere un aumento del salario.
I lavoratori della Ufuk Carpet hanno ottenuto un aumento del 40% dopo un giorno di lotta mentre alla Özkaplan, in sole due ore di sciopero, un aumento del 45%. C’è stata una grande solidarietà tra i lavoratori di diverse fabbriche; quelli di Yalçin Kardesler e Sireci hanno pronunciato parole da spaventare l’intera classe borghese: “Ci sono tentativi di dividerci, non stiamo al loro gioco”. Naturalmente, la borghesia, che ha a sua disposizione tutti gli strumenti repressivi ha imposto il divieto di manifestare a Gaziantep.
È stato inoltre arrestato Mehmet Türkmen, presidente del BIRTEK-SEN, con l’accusa di “violazione della libertà di lavoro” e “istigazione di reato”. Violazione della libertà di lavoro? Non è la “libertà” di lavorare che viene violata, ma la vostra “libertà” di sfruttare i lavoratori! E il “reato” di istigazione è quello dei lavoratori che chiedono un salario dignitoso! Non daremo lezioni su come dovrebbe essere organizzata l’economia capitalista, né criticheremo la legge di tutti i paesi come se non fosse una legge borghese, rifugiandoci in concetti fasulli come “diritti”, “giustizia”, ecc. L’oppressione fa parte del normale funzionamento dell’economia capitalista e della legge borghese.
Nonostante le repressioni e divieti, i lavoratori di Has Sag hanno concluso la lotta con risultati positivi, come la reintegrazione dei lavoratori licenziati e il risarcimento. I lavoratori della Grand Carpet e della Yalçin Kardesler hanno lottato fianco a fianco senza cedere alla repressione della gendarmeria e della polizia. Alla Grand Carpet hanno concluso la lotta con un aumento salariale, mentre lo sciopero alla Yalçin Kardesler continua.
Il movimento continua a diffondersi. Il 4 marzo, la Durkar Carpet e la Sebat hanno iniziato lo sciopero. Il 6 marzo i lavoratori della Bellatex hanno interrotto il lavoro e quelli della Eviza, della Durkar e della Sebat hanno concluso la lotta ottenendo risultati quali la revoca dei licenziamenti o aumenti salariali. Il 7 marzo, i lavoratori della Gür Thread e della Alka Polyester hanno iniziato a muoversi.
La lotta a Baspinar ha dimostrato ancora una volta l’importanza di questa zona industriale per il movimento sindacale in Turchia fino dal 2000. Si legga lo studio “La serie di coraggiose battaglie della giovane classe operaia in Turchia” nel n.409-410 del 2021. La classe operaia di Baspinar ha ripetutamente affermato che “non ha nulla da perdere se non le sue catene”. E che, come ha detto il dirigente sindacale arrestato Mehmet Türkmen, dopotutto la prigione non è poi così diversa dalla fabbrica.
Scioperi dipendenti comunali
Mentre si sono conclusi alcuni scioperi dei lavoratori comunali iniziati nel novembre 2024 in vari quartieri anatolici di Istanbul e nel gennaio 2025 a Smirne, di nuovi ne sono iniziati.
A Smirne i comunali hanno indetto uno sciopero in seguito alla notizia di una riduzione degli stipendi. L’8 gennaio una riunione dei lavoratori di due aziende gestite dal comune si è trasformata in un corteo. Dopo i colloqui tenuti in giornata, la confederazione DISK ha ottenuto il pagamento degli stipendi e lo sciopero si è concluso con una vittoria.
A febbraio gli addetti alla pulizia del comune metropolitano di Izmir, in sciopero da gennaio per le loro condizioni di lavoro, sono stati licenziati. Alla fine di febbraio, dopo un mese di lotta, hanno ottenuto le loro richieste e torneranno al lavoro con le loro conquiste.
A marzo i circa 1.700 lavoratori del tabacco Sunel e Oriental, organizzati nel sindacato Tekgida-Is, affiliato alla confederazione sindacale Türk-Is, hanno indetto uno sciopero in tre diverse fabbriche, unendosi agli scioperi dei municipali di Izmir. Denunciano che i loro salari non coprono l’aumento del costo della vita e che le proposte dei padroni sono lontane dalla realtà.
I municipali di Istanbul Besiktas si sono uniti allo sciopero dei loro compagni organizzati dal DISK dei quartieri anatolici contro il ritardo nel pagamento degli stipendi. Anche gli addetti alla pulizia, parchi e giardini, veterinaria e lavori del Comune di Besiktas hanno incrociato le braccia, indipendentemente dal sindacato, per il pagamento degli stipendi in ritardo da mesi. Il Comune di Besiktas, governato dal Partito Popolare Repubblicano (CHP), ha allora licenziato i lavoratori e ha fatto appello al vicino Comune di Beyoglu, anch’esso diretto dal CHP, per rompere lo sciopero.
Anche i lavoratori delle reti elettriche continuano le proteste. Dopo oltre due mesi di negoziati inconcludenti tra ISPER.AS e DISK Enerji-Sen, la sezione di Istanbul di Enerji-Sen ha indetto uno sciopero in tutta la provincia per l’aumento dei salari.
A febbraio un altro appello contro l’aumento del costo della vita e le politiche di austerità è arrivato da Egitim-Sen, il sindacato degli insegnanti: chiede che sia azzerata l’aliquota dell’IVA sui beni di consumo essenziali e che tutta la retribuzione sia conteggiata nella paga base.
Lotte minatori di Çayirhan
Il 20 novembre 2024, 500 minatori di Çayirhan, una città vicino ad Ankara, si sono chiusi nella miniera per protestare contro la privatizzazione. Il bando non include alcuna garanzia per i lavoratori: addirittura è stato richiesto che i loro alloggi siano sgomberati entro 4 mesi.
I lavoratori sono quindi scesi sottoterra per mostrare la loro forte determinazione mentre in superficie le loro proteste ricevevano ampio sostegno. Lo Stato borghese, che non ha nulla da temere più dell’unione e del sostegno reciproco dei lavoratori, si è allarmato. I gendarmi hanno impedito ad altri lavoratori di entrare nella miniera. Lo sciopero ha dato risultati parziali. Dopo 10 giorni la gara d’appalto è stata rinviata al 4 marzo: i lavoratori hanno quindi ripreso la lotta. Lo sciopero ha però ottenuto l’assunzione dei 2.050 operai per un minimo di 5 anni e il diritto, in caso di licenziamento, di restare nelle case della miniera per un anno. Il 4 marzo i minatori hanno dichiarato che si manterranno pronti ad affrontare nuove difficoltà.
I minatori di Çayirhan lottano sì contro la privatizzazione, ma per la difesa delle loro condizioni. Per contro, i partiti borghesi dell’opposizione patriottica di destra e di sinistra, anche attraverso il sindacato di regime Türkiye Maden Is, hanno cercato di intervenire per sostenere la proprietà statale e contro la privatizzazione, ma in senso nazionalista. Va sottolineato ancora una volta che sotto il capitalismo la proprietà statale e la proprietà privata sono essenzialmente una distinzione giuridica che non cambia la natura dell’impresa e non elimina il rapporto di sfruttamento.
KFC e Pizza Hut
L’azienda di quella catena di Fast-food si è dichiarata in bancarotta per un debito di 7,7 miliardi di Lire, non ha pagato gli ultimi due mesi di stipendio ai dipendenti e li ha licenziati.
L’apparato statale borghese è complice di questi crimini. Le leggi proteggono la borghesia e vittimizzano la classe operaia. Per contro non esitano a inviare la polizia contro le lotte dei lavoratori.
I lavoratori hanno reagito riunendosi davanti alla sede dell’azienda a Istanbul e hanno dimostrato di essere determinati a resistere. I sindacati di regime e alcuni partiti della sinistra borghese si sono affrettati a saltare sul carro delle proteste per fuorviare i lavoratori con la retorica democratica borghese e distoglierli dal loro percorso.
I lavoratori si rivolgono a tutti i dipendenti della catena: «Lanciamo un appello ai lavoratori di Yum Brands di tutto il mondo. Se agiamo insieme, possiamo far sentire la nostra voce. Fermiamo questa ingiustizia restando uniti».
L’arma più potente della classe lavoratrice contro le multinazionali come Yum Brands è lo sciopero internazionale. Le aziende raggiungono i propri obiettivi di crescita dichiarando fallimento e trasferendo il capitale da un paese all’altro coprendo i costi del trasferimento con i salari non pagati. I lavoratori possono proteggersi da questo capitalismo globale predatorio con la propria auto-organizzazione sindacale. Stringere legami internazionali e scioperi e resistenza in più aziende aumenterà le possibilità di vittoria.
Alla centrale nucleare di Akkuyu
Il cantiere della centrale nucleare in costruzione a Mersin, in una cooperazione tra capitali russi e turchi, è un’altra gloria nazionale, ma un campo di concentramento per gli operai. «Viviamo in baracche. Non lavoriamo in modo umano. Riceviamo tre spiccioli. Dormiamo in posti sporchi. Mangiamo pasti scadenti. Questo non è un cantiere, è come un campo nazista!».
Per altro Rosatom ha interrotto la costruzione delle celle dei reattori 3 e 4 e 500 lavoratori sono stati licenziati. Inoltre dal 22 dicembre i salari non sono stati pagati.
Nel modo di produzione capitalistico, la produzione è finalizzata alla massimizzazione del profitto. Significa ricavare il più possibile di plusvalore, cioè tagliare la spesa in salari.
Non potendo sopportare queste condizioni di lavoro è iniziato uno sciopero. La reazione della borghesia non sorprende: ha inviato i gendarmi. Ovunque ci sia un lavoratore che si difende l’ordine politico borghese lo sottopone a ostacoli legali o, come nel caso dei lavoratori di Akkuyu, cerca di zittirlo. Questi sono i “diritti”, la “giustizia” e la “legalità” che ci riserva l’ipocrita società borghese.
Solo attraverso l’esistenza di sindacati di classe e di un partito di classe i lavoratori potranno liberarsi dall’ordine capitalista!
Discriminazione politica per i lavoratori della scuola
L’8 aprile 38.000 insegnanti delle “scuole progetto” sono stati licenziati senza alcuna spiegazione: è stato detto che il loro mandato era scaduto. L’evento ha suscitato, come prevedibile, la reazione degli insegnanti, tanto di quelli che lavorano in queste scuole quanto delle altre. Hanno denunciato che si trattava di una manovra del ministero volta a favorire determinati gruppi. Gli studenti hanno manifestato il loro sostegno agli insegnanti con un sit-in.
Questa politica del ministero è stata avviata dieci anni fa. Gli insegnanti e i dirigenti delle scuole definite “speciali” potevano, dopo quattro anni di servizio, presentare domanda per continuare a lavorare. Nonostante questo, già in passato alcuni insegnanti sono stati licenziati. E quest’anno in molti di più.
Il Sindacato dei Lavoratori dell’Istruzione e della Scienza (Egitim-Sen) ha rilasciato una dichiarazione: «Il Ministero può assegnare agli istituti scolastici di progetto gli insegnanti o i dirigenti scolastici che desidera, senza dichiarare alcun criterio e senza tener conto di indicatori oggettivi quali l’anzianità di servizio, i punti di merito o le competenze professionali. Questa pratica, che da anni compromette gravemente il senso di giustizia e di equità nell’istruzione, ignora il lavoro, l’esperienza e le competenze professionali».
L’unico colpo che gli insegnanti possono davvero infliggere al sistema di sfruttamento che li ha ridotti in queste condizioni è, organizzati nei sindacati, uno sciopero generale! Solo la lotta di classe può spaventare i governi e ostacolare le loro manovre.
Nel parco Kugulu di Ankara gli studenti hanno esposto striscioni: “Avete cancellato chi ci ha istruito, noi cancelleremo voi” e “Nel palazzo ve la spassate, a scuola ci pestate”. È stata anche esposta una foto di Ali Ismail Korkmaz, ucciso dalla polizia e dai commercianti durante la rivolta di Gezi Park. Lo Stato borghese ha brutalmente represso queste proteste e la polizia ha bloccato gli studenti nelle scuole.
Ma gli studenti con queste proteste non possono da soli difendere i diritti del proletariato. Al più possono ad esso accodarsi ed essere di appoggio.
I giovani comunisti, inquadrati nel partito, dovranno invece orientare il
movimento operaio verso i metodi e i principi della lotta di classe e verso il
programma del comunismo.
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Il monopolio delle armi e della forza è prerogativa della classe al potere, l’esercizio della violenza le appartiene di diritto.
Con le guerre napoleoniche in Europa si apre un ciclo di guerre rivoluzionarie, di abbattimento dell’ordine feudale e di formazione degli Stati nazionali. Benché la leva obbligatoria non sia una invenzione dei borghesi, così come l’esercito permanente, la Francia rivoluzionaria decreta più volte la “leveé en masse”, la coscrizione obbligatoria a difesa della nazione in pericolo e ai tentativi di restaurazione dell’ordine sociale precedente.
Era la natura delle guerre napoleoniche ad assicurare entusiasmo e disciplina fra i combattenti, provenienti dalle classi rivoluzionarie, nonostante i tradimenti che anche vi furono.
Il ciclo delle guerre per la formazione degli Stati nazionali termina in Europa occidentale con la guerra franco-prussiana del 1870. In campo si confrontano eserciti di dimensioni mai viste, milioni di uomini. Si apre il ciclo delle guerre imperialiste. Guerra contro il proletariato, e guerre di conquista di mercati e di materie prime. Engels condannerà il primo vagito dell’imperialismo germanico, mentre nello stesso tempo giudicanva progressiva la sistemazione nazionale tedesca. Con la fine delle guerre di formazione degli Stati nazionali, le borghesie perdono ogni loro funzione rivoluzionaria e mostrano il loro ruolo brigantesco e antiproletario.
Nelle guerre imperialiste l’azione militare invece assume la duplice veste, di difesa degli interessi della nazione, per la spartizione del bottino, e di mantenimento dell’ordine costituito, sia in patria sia nel paese conquistato.
Gli interessi della classe operaia non coincidono più con l’interesse della nazione. Per la borghesia questo è un bel problema. Da una parte abbisogna di un ampio e disciplinato esercito di coscritti, per combattere una guerra in cui uno dei nemici è proprio la classe da cui proviene la gran parte dei combattenti.
L’esercito di leva in epoca moderna è uno strumento rischioso, se sfugge al controllo la borghesia deve correre ai ripari, cercando di replicare quanto dimostrò la Comune di Parigi: nel giro di niente le borghesie nemiche solidarizzano e rivolgono le armi contro il proletariato insorto.
Durante la prima guerra mondiale, con la Rivoluzione Russa si rompe l’anello debole della catena imperialista, in Francia, in Italia, nei Balcani la sedizione e il rifiuto della guerra ribolle. Poco dopo in Germania e in Ungheria si formano i consigli di operai e di soldati che rompono la disciplina nell’esercito. È allarme rosso, la guerra tra gli imperialismi nemici cessa con una pace di compromesso per l’urgenza di smobilitare e ripristinare l’ordine sociale.
Per la borghesia quindi gestire l’esercito di leva è una necessità e nello stesso tempo un problema, una truppa armata e addestrata che non risponde agli ordini, o peggio, se obbedisce agli ordini del partito di un’altra classe, è per lei la morte certa.
In Europa nella prima guerra mondiale contro la ribellione dei fanti la repressione fu durissima. In Italia con il corpo scelto dei carabinieri e isolando le truppe indisciplinate. Dopo lo sciopero militare di Caporetto è istituito l’ufficio P, ossia della propaganda, per rivestire di falsi ideali la guerra fratricida tra proletari e per contrastare il disfattismo dei socialisti di sinistra. In pochi lo sanno, ma il buon Piero Calamandrei, il vate della Resistenza, ossia della guerra patriottica contro uno degli invasori (uscito il tedesco arrivò l’americano) fece in questo ufficio la sua gavetta. Già allora strillava per far massacrare tra loro i figli del proletariato.
Le borghesie, passato lo sgomento per l’urgenza della fine dell’ordine capitalistico, ne traggono insegnamento e, pur non rinunciando ai coscritti proletari, cercano di organizzare l’esercito in maniera differente. Gli eserciti borghesi si strutturano su dei corpi scelti, professionisti della guerra, volontari e ben addestrati, separati dalla restante massa dei coscritti.
Mentre fino alla prima guerra mondiale la opposizione ufficiali-sottufficiali-truppa si faceva corrispondere alla estrazione sociale di classi fondiarie-borghesi da una parte e contadine-proletarie dall’altra, con evidente utilità controrivoluzionaria, fin dalla seconda guerra mondiale e a maggior ragione oggi, gli Stati borghesi moderni possono attingere anche per i gradi di comando solo al serbatoio proletario.
Questa “specializzazione” fra i militari, che si estende in verticale su tutta la scala gerarchica, si spiega come una esigenza di addestramento tecnico alle nuove armi, ma è palese anche la funzione di impiego contro la classe operaia. Quando i fanti abbandonano inorriditi il fronte, le truppe scelte intervengono per imporre la disciplina. Nella seconda guerra mondiale, quindi, tutti gli Stati si sono dati corpi scelti per il controllo della truppa. Le Waffen SS in Germania nascono per sostenere il “morale della truppa”, fedeli all’ordine costituito. In Italia esistono i carabinieri pronti all’uso.
Con l’esaurirsi del ciclo di espansione capitalistica successivo alla seconda guerra mondiale e alle sue distruzioni, per la borghesia mantenere l’esercito di leva è diventato un costo non più sostenibile. Così, a partire dagli anni ‘80, l’esercito di leva è stato sospeso in tutti i Paesi occidentali, o ridotto al minimo.
In Italia la legge n. 331 del 14 novembre 2000 ha sospeso il servizio militare di leva per passare ad un esercito professionale; 4 anni dopo la cosiddetta “Legge Martino” procrastinava la sospensione a tempo indefinito. Il Servizio militare obbligatorio dunque è stato sospeso, non abolito!
Per altro, anche guerre a caratura locale necessiterebbero di eserciti consistenti per il controllo del territorio. La disponibilità di armamento e il dominio del mare o dell’aria non sono sufficienti mancando una truppa dispiegata sul terreno, per la sottomissione capillare del nemico armato e delle classi sociali, i loro partiti e istituzioni. La tecnica micidiale degli armamenti incute terrore e ha capacità devastanti, ma non è sufficiente, occorrono più uomini di quanto gli eserciti professionali possono mettere in campo.
Gli Stati hanno cercato di rispondere a questa necessità appoggiandosi alla “Private Military and Security Companies” (PMSC) col compito di appoggiare le forze armate impegnate nelle operazioni di guerra. Negli Stati Uniti sono oltre 40 le compagnie private che forniscono mercenari per questi compiti e con la guerra in Ucraina è venuto alla ribalta della cronaca il Gruppo Wagner, una compagnia privata di mercenari che conta decine di migliaia di uomini ed opera in diversi Paesi per estendere l’influenza e difendere gli interessi della Russia al di fuori dei suoi confini.
Ad esempio in Afghanistan tanto ai russi quanto agli americani è mancata la possibilità di inviare un vero esercito di occupazione e si sono viste le conseguenze con la fuga sotto i colpi dei Talebani. La guerra che si combatte oggi in Ucraina è di trincea mentre le grandi città per ora non sono nei programmi di conquista.
L’esercito mercenario però, composto da “salariati”, può essere ancora meno affidabile di quello di leva, come la storia millenaria degli eserciti della classe dominante insegna.
La guerra che si combatte oggi in Ucraina ha dimostrato che un esercito professionale non è in grado di reggere l’usura e il consumo di uomini imposto da un conflitto simmetrico convenzionale della durata di alcuni mesi o addirittura anni. Sia l’Ucraina che la Russia sono dovute ricorrere alla leva mentre decine di migliaia di giovani cercavano di disertare rifugiandosi oltre confine. L’Ucraina, tra immense difficoltà, è riuscita a mobilitare più di un milione di soldati e la Russia, dopo le batoste subite nei primi mesi di guerra, ha proceduto anch’essa alla mobilitazione di centinaia di migliaia di uomini. Nonostante questa disponibilità, le grandi città non sono nei programmi di conquista del governo russo proprio perché il loro controllo esigerebbe un impegno di truppe ancora maggiore.
Adesso i burattinai fautori della guerra che dall’esterno manovrano l’Ucraina vorrebbero che una nuova legge abbassasse l’età della leva da 25 a 18 anni, per mandare a crepare al fronte altre migliaia di coscritti a maggior gloria del Capitale, ucraino e occidentale. Il governo ucraino per adesso resiste per paura di provocare una rivolta sociale in un Paese già esausto e stanco di fornire carne da cannone agli Alleati!
È di questi giorni la notizia che le borghesie polacca e dei Paesi baltici si dichiarano pronte, in accordo con quella ucraina, a rispedire in patria i giovani disertori fuggiti dal Paese in guerra, dopo aver sfruttato il loro lavoro con salari da fame e dure condizioni. Sanno che la guerra è alle loro porte, Polonia, Lituania, Estonia riarmano, non solo con attrezzatura e strumenti di morte, ma soprattutto socialmente, chiamano i giovani lavoratori a sacrificarsi per la bandiera e gli interessi nazionali. La presenza in casa di disertori e renitenti alla leva ucraini ormai è di cattivo esempio. Oggi partono i giovani ucraini, domani saranno i proletari polacchi e lituani. Tutti si devono preparare a scendere nelle trincee, per l’onore, cioè per i profitti del capitale nazionale.
Ecco perché la carneficina in Palestina è tanto atroce. Essa è puro terrorismo contro il proletariato, non solo nella striscia di Gaza ma in tutta l’area mediorientale. In mancanza di un esercito capace del dominio sul territorio l’unica risorsa rimane lo sfoggio terroristico della tecnica. Le bombe anti-bunker, i telefonini col botto. Le borghesie mondiali si dichiarano inorridite, ma di fatto sono ben contente del ruolo mercenario dello Stato Israeliano contro le masse diseredate di tutta la Regione, Stato che non può reclutare che i pochi suoi cittadini da condannare al massacro.
In Russia come in Ucraina si svuotano le carceri per mandare al fronte i criminali, arruolati con la promessa della libertà. Una massa di delinquenti è di difficile gestione, ma serve per le operazioni sporche e per corrompere la solidarietà fra i coscritti.
Oggi la borghesia marcia verso un nuovo conflitto generalizzato, necessità per una società morente. Confida solo in un immane conflitto, in cui, vittoriosa contro il proletariato, possa imporre il suo bestiale e antistorico regime di sfruttamento.
Proprio qualche giorno fa un alto funzionario della NATO ha dichiarato all’Agenzia Ansa: «Il modo in cui gli alleati scelgono di aumentare il reclutamento dei soldati è altamente politico, quindi noi non diamo assolutamente indicazioni al riguardo: le varie opzioni sono basate sulla storia di ogni nazione e sugli accordi politici. Noi però incoraggiamo ad affrontare la mutata realtà: i piani regionali di difesa approvati dai leader ci dicono che siamo nel regno della sicurezza collettiva, della guerra di attrito, e servono più uomini. Dobbiamo riconoscere – conclude l’alto funzionario – che veniamo da un’era in cui avevamo forze armate piccole, professionali, con qualità molto alta, costose, ma con numeri limitati, che con la percentuale di perdite attuale in Ucraina avrebbero difficoltà a gestire il secondo o il terzo mese di conflitto: quindi incoraggiamo gli alleati a cambiare e ad assegnare alla Nato i numeri di cui abbiamo bisogno».
Le borghesie saranno costrette a reclutare un vasto esercito che non potrà non essere di leva. Noi comunisti accettiamo la sfida che ci propone questa società della morte.
Perché il fronte non è nel Donbass o a Gaza, ma in casa nostra.
I comunisti hanno sempre riconosciuto la funzione rivoluzionaria dei proletari
coscritti nell’esercito borghese, e non hanno mai confidato nelle azioni di
coscienza individuali per metter fine agli eserciti e alla guerra. Non si chiede
il gesto eroico. Il nostro disfattismo rivoluzionario non è l’azione del singolo
che diserta e abbandona le armi. Occorre strappare il monopolio della forza
armata dalle mani della borghesia, per capovolgere la tecnica e la disciplina
dell’esercito, diretto dal nuovo comando del Partito comunista, al fine di
scardinare l’ordine costituito.Al Capitalismo in crisi mortale che mostra la sua
faccia feroce di egoismi nazionali stermini e distruzioni si oppone il
rivoluzionario Programma del Comunismo
Le ideologie della borghesia
Dante Alighieri
Con Dante Alighieri abbiamo uno dei primi tentativi da parte della borghesia di dotarsi di una propria ideologia. Il famosissimo inizio della Commedia dantesca recita: “Nel mezzo del cammin di nostra vita mi trovai per una selva oscura, che la diritta via era smarrita”. Alle mille interpretazioni fatte dai dantisti ne aggiungiamo una: se l’autore è in una situazione per cui non vede e non capisce nulla e non trova la via d’uscita è perché alla classe sociale neonata cui appartiene, la borghesia, l’ideologia del mondo feudale in cui si trova immersa, sta stretta. È un’ideologia inadeguata ai bisogni di questa nuova classe e al suo sviluppo, in quanto espressione di rapporti feudali che non ne contemplavano l’esistenza.
La borghesia, pur essendo oggettivamente rivoluzionaria nei confronti del feudalesimo, come tutte le classi che nella storia si sono trovate in analoga situazione, non ha inizialmente alcuna coscienza di ciò, e ci vorranno alcuni secoli perché elabori una propria ideologia rivoluzionaria. Al suo nascere non vuole distruggere il vecchio mondo, ma trovare il suo posto in esso, elaborando quindi una visione del mondo che comprenda la propria esistenza all’interno della società feudale.
Durante Alighieri, detto Dante, nasce a Firenze nel 1265 da una famiglia di mercanti: si è parlato di una piccola nobiltà perché il trisavolo Cacciaguida fu cavaliere nella seconda crociata, ma ciò che è certo è che il nonno paterno Bellincione era un popolano, e che Alighiero di Bellincione, suo figlio e padre di Dante, svolgeva la professione di cambiavalute e anche di usuraio.
Nel gennaio 1293 a Firenze furono promulgati gli Ordinamenti di Giustizia, poi inaspriti nei mesi seguenti, con i quali i Magnati, cioè i membri delle famiglie di piccola e antica nobiltà, furono esclusi prima da alcune cariche pubbliche e poi da tutte; vennero promulgate leggi favorevoli al Popolo, la nuova borghesia, e sfavorevoli ai Magnati in tutti i campi: annonari, tributari, penali, ecc. Il tutto durò fino al febbraio 1295, quando il priore Giano della Bella, andatosene per le accuse rivoltegli, fu condannato a morte e scomunicato.
Gli Ordinamenti di Giustizia furono un tentativo, poco coerente e ancora meno consapevole, di dittatura rivoluzionaria esercitata sui Magnati da parte di tutta la borghesia fiorentina. L’alleanza tra “popolo minuto” e “popolo grasso” venne poi meno per la diffidenza reciproca e quando quest’ultimo, vedendo minacciata la propria supremazia, tornava a cercare alleati tra i Grandi e i Magnati.
Nel luglio 1295, dopo un fallito tentativo magnatizio di prendere il potere, furono promulgati i “Temperamenti” agli Ordinamenti di Giustizia, che consistevano in un allentamento delle misure contro i Maganti, ma non nella loro abolizione. I Magnati, prima esclusi da tutte le cariche in quanto non praticanti nessuna Arte e viventi di rendita, potevano ora ricoprire vari incarichi a condizione di iscriversi a una delle varie Arti, anche senza praticarle. In questa occasione Dante, iscrivendosi all’Arte dei Medici e Speziali, pronuncia un discorso a favore dei Temperamenti ed entra a far parte delle magistrature cittadine, dove rimane con vari incarichi fino al 1301.
Lo storico Alessandro Barbero parla di un Dante di scarsa originalità in filosofia e reazionario in politica. Questo era anche il giudizio di Benedetto Croce e dello storico Jacques Le Goff. Gli studiosi Eugenio Garin e Cesare Vasoli invece situavano Dante, a ragione, sul crinale tra medioevo e rinascimento. Il pensiero di Dante era in effetti eclettico e scarsamente sistematico, ma ciò era comune nella filosofia scolastica, dove ognuno faceva una personale sintesi dei vari autori, i quali a loro volta avevano fatto altrettanto. Dante era sicuramente un aristotelico, e in parte anche averroista, in quanto condivideva la separazione degli ambiti di fede e ragione; separazione molto più netta di quella tomista, e che si è poi riflessa nelle sue concezioni politiche. Su altri punti non era d’accordo con Averroè ma con Tommaso d’Aquino. Il suo aristotelismo era influenzato in particolare da quello di Alberto Magno, fortemente impregnato di neo-platonismo. In lui era presente anche la tradizione agostiniana e francescana, con venature gioachimite.
Dante è stato definito reazionario perché le sue concezioni erano dominate dall’Impero e dalla Chiesa, le due istituzioni medioevali per eccellenza, in cui si incarnava la Divina Provvidenza. Mentre i papi rivendicano la supremazia del potere spirituale su quello temporale, Dante sostiene che entrambi i poteri sono autonomi nel loro ambito. L’uomo ha due fini e due felicità possibili: quella terrena, raggiungibile con la ragione, e quella sovrannaturale cui arrivare con la fede. L’imperatore è la guida al fine terreno e il papa al fine sovrannaturale. L’imperatore è necessario per portare pace e giustizia in un mondo dove la bramosia di ricchezze genera odi e guerre continue tra le città, tra i regni, e al loro interno; l’Impero era una manifestazione della Provvidenza divina in quanto in esso, sotto Augusto, era venuto alla luce Cristo. Per Dante le capacità razionali umane possono essere pienamente sviluppate solo dal genere umano nella sua interezza, e perché questo sia possibile sono necessarie la pace, la giustizia e la libertà, che solo l’autorità indiscussa dell’Impero può garantire. Indiscussa ma non “absoluta”, cioè non sciolta dal rispetto della legge umana e divina.
Il precapitalismo mercantile delle città e dei regni del XIII e del XIV secolo comportava un processo di alienazione e di mercificazione che non vedeva soluzione. Dante vede la società del suo tempo come antagonista rispetto all’ordine sacro e razionale, illuminato dalla fede cristiana, che egli persegue. Il fatto che l’Impero e la Chiesa siano al centro delle sue riflessioni lo fa sembrare un reazionario, con la testa rivolta al passato. Resta comunque l’uomo della partecipazione alla vita e alla politica cittadina, sostenitore delle libertà municipali, che in realtà non rinnega quando sostiene la preminenza dell’Impero.Dante Alighieri
Con Dante Alighieri abbiamo uno dei primi tentativi da parte della borghesia di dotarsi di una propria ideologia. Il famosissimo inizio della Commedia dantesca recita: “Nel mezzo del cammin di nostra vita mi trovai per una selva oscura, che la diritta via era smarrita”. Alle mille interpretazioni fatte dai dantisti ne aggiungiamo una: se l’autore è in una situazione per cui non vede e non capisce nulla e non trova la via d’uscita è perché alla classe sociale neonata cui appartiene, la borghesia, l’ideologia del mondo feudale in cui si trova immersa, sta stretta. È un’ideologia inadeguata ai bisogni di questa nuova classe e al suo sviluppo, in quanto espressione di rapporti feudali che non ne contemplavano l’esistenza.
La borghesia, pur essendo oggettivamente rivoluzionaria nei confronti del feudalesimo, come tutte le classi che nella storia si sono trovate in analoga situazione, non ha inizialmente alcuna coscienza di ciò, e ci vorranno alcuni secoli perché elabori una propria ideologia rivoluzionaria. Al suo nascere non vuole distruggere il vecchio mondo, ma trovare il suo posto in esso, elaborando quindi una visione del mondo che comprenda la propria esistenza all’interno della società feudale.
Durante Alighieri, detto Dante, nasce a Firenze nel 1265 da una famiglia di mercanti: si è parlato di una piccola nobiltà perché il trisavolo Cacciaguida fu cavaliere nella seconda crociata, ma ciò che è certo è che il nonno paterno Bellincione era un popolano, e che Alighiero di Bellincione, suo figlio e padre di Dante, svolgeva la professione di cambiavalute e anche di usuraio.
Nel gennaio 1293 a Firenze furono promulgati gli Ordinamenti di Giustizia, poi inaspriti nei mesi seguenti, con i quali i Magnati, cioè i membri delle famiglie di piccola e antica nobiltà, furono esclusi prima da alcune cariche pubbliche e poi da tutte; vennero promulgate leggi favorevoli al Popolo, la nuova borghesia, e sfavorevoli ai Magnati in tutti i campi: annonari, tributari, penali, ecc. Il tutto durò fino al febbraio 1295, quando il priore Giano della Bella, andatosene per le accuse rivoltegli, fu condannato a morte e scomunicato.
Gli Ordinamenti di Giustizia furono un tentativo, poco coerente e ancora meno consapevole, di dittatura rivoluzionaria esercitata sui Magnati da parte di tutta la borghesia fiorentina. L’alleanza tra “popolo minuto” e “popolo grasso” venne poi meno per la diffidenza reciproca e quando quest’ultimo, vedendo minacciata la propria supremazia, tornava a cercare alleati tra i Grandi e i Magnati.
Nel luglio 1295, dopo un fallito tentativo magnatizio di prendere il potere, furono promulgati i “Temperamenti” agli Ordinamenti di Giustizia, che consistevano in un allentamento delle misure contro i Maganti, ma non nella loro abolizione. I Magnati, prima esclusi da tutte le cariche in quanto non praticanti nessuna Arte e viventi di rendita, potevano ora ricoprire vari incarichi a condizione di iscriversi a una delle varie Arti, anche senza praticarle. In questa occasione Dante, iscrivendosi all’Arte dei Medici e Speziali, pronuncia un discorso a favore dei Temperamenti ed entra a far parte delle magistrature cittadine, dove rimane con vari incarichi fino al 1301.
Lo storico Alessandro Barbero parla di un Dante di scarsa originalità in filosofia e reazionario in politica. Questo era anche il giudizio di Benedetto Croce e dello storico Jacques Le Goff. Gli studiosi Eugenio Garin e Cesare Vasoli invece situavano Dante, a ragione, sul crinale tra medioevo e rinascimento. Il pensiero di Dante era in effetti eclettico e scarsamente sistematico, ma ciò era comune nella filosofia scolastica, dove ognuno faceva una personale sintesi dei vari autori, i quali a loro volta avevano fatto altrettanto. Dante era sicuramente un aristotelico, e in parte anche averroista, in quanto condivideva la separazione degli ambiti di fede e ragione; separazione molto più netta di quella tomista, e che si è poi riflessa nelle sue concezioni politiche. Su altri punti non era d’accordo con Averroè ma con Tommaso d’Aquino. Il suo aristotelismo era influenzato in particolare da quello di Alberto Magno, fortemente impregnato di neo-platonismo. In lui era presente anche la tradizione agostiniana e francescana, con venature gioachimite.
Dante è stato definito reazionario perché le sue concezioni erano dominate dall’Impero e dalla Chiesa, le due istituzioni medioevali per eccellenza, in cui si incarnava la Divina Provvidenza. Mentre i papi rivendicano la supremazia del potere spirituale su quello temporale, Dante sostiene che entrambi i poteri sono autonomi nel loro ambito. L’uomo ha due fini e due felicità possibili: quella terrena, raggiungibile con la ragione, e quella sovrannaturale cui arrivare con la fede. L’imperatore è la guida al fine terreno e il papa al fine sovrannaturale. L’imperatore è necessario per portare pace e giustizia in un mondo dove la bramosia di ricchezze genera odi e guerre continue tra le città, tra i regni, e al loro interno; l’Impero era una manifestazione della Provvidenza divina in quanto in esso, sotto Augusto, era venuto alla luce Cristo. Per Dante le capacità razionali umane possono essere pienamente sviluppate solo dal genere umano nella sua interezza, e perché questo sia possibile sono necessarie la pace, la giustizia e la libertà, che solo l’autorità indiscussa dell’Impero può garantire. Indiscussa ma non “absoluta”, cioè non sciolta dal rispetto della legge umana e divina.
Il precapitalismo mercantile delle città e dei regni del XIII e del XIV secolo comportava un processo di alienazione e di mercificazione che non vedeva soluzione. Dante vede la società del suo tempo come antagonista rispetto all’ordine sacro e razionale, illuminato dalla fede cristiana, che egli persegue. Il fatto che l’Impero e la Chiesa siano al centro delle sue riflessioni lo fa sembrare un reazionario, con la testa rivolta al passato. Resta comunque l’uomo della partecipazione alla vita e alla politica cittadina, sostenitore delle libertà municipali, che in realtà non rinnega quando sostiene la preminenza dell’Impero.
La sinistra del socialismo ottomano e il Partito Comunista
- 4. L’opposizione di
sinistra
Il 1923 fu un anno di intensa lotta di classe e di repressione in Turchia. Da luglio a novembre 32.000 lavoratori parteciparono all’ondata di scioperi. Sentimenti nazionalisti erano assai diffusi. I comunisti svolsero un ruolo significativo solo in un piccolo numero di scioperi, poiché repressi duramente. Alla fine dell’anno la Lega dei Sindacati Rossi fu sciolta e tutte le organizzazioni comuniste costrette alla clandestinità dai kemalisti.
Alla fine del 1923 la repressione della sinistra comunista e dei sindacati rossi sgombrò il campo alle cerchie intellettuali da sempre favorevoli al kemalismo. Nel suo articolo del 1923 “Movimenti del socialismo in Turchia” Sefik Hüsnü espresse non solo le sue solite illusioni sul movimento kemalista, ma anche la sua concezione del socialismo come società introdotta da statisti nazional-borghesi:
«La Turchia non è senza classi e senza lotta di classe. Solo che, poiché la classe borghese capitalista è un’entità molto piccola e debole e la classe operaia e contadina costituisce un’enorme maggioranza, la lotta di classe si svolge tra i capitalisti stranieri, le élite locali e i ricchi proprietari, che sono al loro servizio, e fondamentalmente assume la forma di una lotta nazionale. Finora, in questa lotta, i singoli governi dinastici hanno sempre preso le parti dei capitalisti, nemici della nazione (...) D’ora in poi, il governo del popolo, che trae il suo potere dalla sovranità nazionale, deve schierarsi dalla parte dei giusti, cioè della nazione, ed essere un governo del lavoro e dei lavoratori.
«La presenza tra gli statisti, come i Deputati dell’Economia e della Previdenza Sociale, di persone che sembrano inclini ad agire con una mentalità marxista, rende indispensabile che il nostro governo non esiti a percorrere questa strada. Vogliamo che questa politica sia più aperta e che si crei una fiducia più sincera e reciproca tra la classe operaia e contadina e tra le istituzioni e le autorità del governo che saranno guidate dagli interessi delle masse lavoratrici. Solo in questo modo sarà possibile adempiere adeguatamente alla nostra attuale rivoluzione. Se nel frattempo riusciremo a sviluppare la nostra industria, allora sarà necessario fare nuovi passi nella valle del socialismo».
A quel punto, però, anche le sinistre in Anatolia, a Costantinopoli e a Baku erano entrate in contatto tra loro e non intendevano consegnare alla destra il controllo del partito. Una lettera del 1924 ai compagni scritta da Ginzberg ci dà un’idea della portata delle attività della sinistra in questo periodo:
«In ogni numero del giornale dovreste informare anche dei più piccoli eventi e cambiamenti nel movimento sindacale in Turchia e specialmente a Costantinopoli (...) Inserite anche notizie sui problemi sindacali attuali, sugli eventi politici attuali, sui contadini, sulle tasse, ecc. e notizie sul Paese, sulle nuove leggi, ecc. Assicuratevi che ci siano più notizie dall’interno del Paese che dall’estero (...) Del 1° maggio riferite anche il più piccolo dettaglio e inviate un lungo resoconto di ciò che è accaduto o un lungo articolo di cronaca sul “Taarruz” (Offensiva).
«Come sapete, i futuri intellettuali del partito comunista turco si stanno spostando sempre più a destra. Dobbiamo combattere questa tendenza al “marxismo legale” con tutte le nostre forze, come abbiamo fatto in passato, tenendo presente che se persistono in questo percorso, gli elementi sani – soprattutto i proletari – non li seguiranno (...) Solo nell’azione si rivelerà il loro vero volto (...) Lenin disse una volta: “È necessario separarsi per riunirsi meglio”; questa è la nostra situazione attuale. Io credo che molti di loro prima o poi cadranno nel menscevismo».
Aydinlik fu duramente criticato dal delegato ucraino Manuilsky al V Congresso del Comintern.
«Al secondo Congresso abbiamo stabilito l’atteggiamento delle giovani sezioni comuniste nei confronti dei movimenti di liberazione nazionale sotto la guida della borghesia, che marciavano verso il potere. Ma da allora siamo di fronte a una nuova situazione nei Paesi dell’Est: che cosa dobbiamo fare contro le borghesie nazionali che hanno preso il potere? Nell’organo del Partito Comunista di Turchia sono apparsi alcuni articoli che invitano il Partito Comunista a sostenere lo sviluppo del capitalismo nazionale contro il capitalismo straniero. Su questo punto troviamo tra i nostri compagni turchi una tendenza che trova la sua chiara espressione nella visione del “marxismo legale” un tempo difeso in Russia da Struve (che diceva che la classe operaia doveva sostenere lo sviluppo del capitalismo in Russia)».
Le critiche della sinistra alla destra stavano cominciando ad essere ascoltate all’interno dell’Internazionale. A rispondere a Manuilsky fu invece uno dei delegati della sinistra, Kazim di Van.
L’intervento di Bilen, invece, avrebbe scioccato Ginzberg, il delegato della sinistra di Costantinopoli, affermando che la classe operaia non esisteva realmente in Turchia:
«Alcuni compagni sono dell’opinione che nel Vicino Oriente, durante la guerra mondiale, si sia sviluppato un proletariato industriale da un lato e un’industria nazionale dall’altro, che abbiano preparato il terreno per la liberazione economica del Paese dagli imperialisti. Questo è completamente sbagliato (...) La guerra del kemalismo contro l’imperialismo e i resti del sistema feudale non è ancora terminata. Siamo quindi obbligati a sostenerli come prima e questo è nel nostro interesse di classe».
I primi due documenti di cui abbiamo dato lettura alla riunione furono scritti da Ismail Hakki e da Aleko Stakos, dell’organizzazione giovanile della sinistra. Il primo è significativo per l’elaborazione della linea della sinistra contro il fascismo: una lotta risoluta ma senza formare un fronte o un’alleanza con altri partiti o deviare dall’obiettivo della dittatura proletaria. Il secondo è un significativo resoconto della sinistra sull’ondata di scioperi del 1923. I due articoli esprimono la linea nei confronti della rivoluzione nazionale e il ruolo del proletariato tracciato da Ginzberg, uno dei maggiori esponenti della sinistra.
Il terzo documento esposto, il discorso di Kazim di Van al V Congresso del Comintern, si differenzia dalla posizione di Ginzberg per le sfumature relative alla durata dei compiti distruttivi del movimento nazionale nei confronti del vecchio regime feudale. Kazim sostiene inoltre che non ci sono rivendicazioni nazionali tra la minoranza curda in Turchia, una posizione che è probabilmente vera per quanto riguarda le rivolte curde a favore del califfato, ma che sarà presto smentita con la nascita della Repubblica curda di Ararat nel 1927.
Il quarto documento presentato ai compagni è la risposta di Ginzberg a Ismail Bilen al III Congresso del Profintern, dove confuta l’idea dell’inesistenza di un proletariato industriale in Turchia.
L’ultimo documento è stato un articolo di opposizione di Ginzberg, significativo per risolvere la crisi del partito con mezzi organici, selezionando i migliori, cioè i compagni più capaci, invece di affidarsi a maggioranze democratiche ed elezioni, e per trarre la lezione dell’ondata di scioperi del 1923.
Questa documentazione sarà riportata in appendice alla pubblicazione del testo esteso del rapporto.La Questione Agraria - Cenni storiciNel corso del XVIII secolo in certe località la popolazione aumentava e richiedeva una estensione delle risorse alimentari col passaggio a un sistema di produzione più elevato. Kautsky descrive questo importante passaggio: «Un tale sistema si era già sviluppato in Inghilterra dove, in virtù di condizioni particolari, le fondamenta dell’agricoltura feudale furono scalzate da una serie di rivoluzioni, dalla riforma di Enrico VIII fino alla “gloriosa rivoluzione” del 1688, e in cui era stata aperta la via allo sviluppo di un’agricoltura capitalistica intensiva, che sostituì l’allevamento a pascolo con quello in stalla e con la coltivazione di piante foraggere, e che introdusse a fianco dei cereali le piante a tubero. Ma si vide che era impossibile introdurre in modo generale i risultati di quella rivoluzione sul continente europeo senza rivoluzionare i rapporti di proprietà esistenti».
Il vecchio modo di produzione si rese intollerabile, quanto meno per gli agricoltori più grandi, che producevano una notevole eccedenza per il mercato. «Il modo di produzione del Medioevo era perfettamente adatto ai bisogni di una società di eguali, che avevano tutti lo stesso tenore di vita e producevano per il loro uso personale (...) Ora sorgeva il mercato con i suoi bisogni mutevoli, si sviluppava l’ineguaglianza tra i membri del villaggio, di cui gli uni sulle loro terre producevano appena quello di cui avevano bisogno per loro stessi, mentre gli altri producevano un’eccedenza. Gli uni, i piccoli, continuavano a produrre per il loro consumo personale ed erano fortemente attaccati alla comunità di marca, per gli altri essa diveniva un ostacolo, poiché, qualsiasi cosa richiedesse il mercato, essi non potevano produrre sulle loro terre se non quello che prescriveva la comunità territoriale».
Era dunque necessario eliminare quel compromesso fra comunismo fondiario e proprietà privata, ripartire il pascolo comune, sopprimere la coltivazione in comune dei campi e l’obbligo di coltura, accentrare le varie piccole proprietà e fare così del proprietario fondiario un unico proprietario delle terre che così poteva sfruttare sulla base delle esigenze del mercato.
Ma tale sviluppo non produsse nella popolazione rurale una classe capace di costituire il nerbo di questa rivoluzione. L’agricoltura dipendeva dallo sviluppo sociale del modo capitalistico di produzione delle città. «Quella forza e iniziativa rivoluzionaria che l’agricoltura non era riuscita a produrre da sé stessa, le furono arrecate dalle città. Lo sviluppo economico della città aveva completamente trasformato la situazione delle campagne e resa necessaria una trasformazione dei rapporti di proprietà. Lo stesso sviluppo creò nella città quelle classi rivoluzionarie che, sollevandosi contro la potenza feudale, portarono la rivoluzione politica e giuridica nelle campagne, dove esse attuarono le trasformazioni divenute necessarie spesso tra le grida di giubilo della massa della popolazione contadina, ma a volte anche nonostante la sua resistenza».
La borghesia urbana tentò questo riordinamento ma non riuscì a portarlo a termine. Solamente quando le classi rivoluzionarie di Parigi, nel 1789, si sollevarono sotto la guida politica della borghesia, che chiamò i contadini asserviti a scuotere il giogo feudale, soltanto allora la trasformazione dei rapporti di proprietà rurali ebbero uno sviluppo rapido e deciso anche in Francia e, in seguito, nei paesi vicini.
«In Francia la trasformazione avvenne fuori della legalità e con la violenza, cioè con una scossa e in tale maniera che i contadini non soltanto si liberarono del loro giogo, ma ottennero altresì della terra appartenente alle proprietà confiscate del clero e degli emigrati, nella misura in cui non se ne impadronì la borghesia stessa».
Mentre in Prussia la trasformazione fu la conseguenza della sconfitta di Jena.
Ciò in tutta la Germania non avvenne in modo violento, ma legale e pacifico, con lentezza ed esitazioni, sforzandosi di ottenere l’assenso dei signori, protagonisti di tutto il movimento, che ancora nel 1848 non era giunto a termine. A pagare a caro prezzo questa via pacifica e legale furono i contadini, sia con il denaro contante sia con nuove imposte. Scrive F. Engels nella sua introduzione allo scritto di Wilhelm Wolf, “Schlesische Milliarde”: «Possiamo calcolare che la somma pagata dai contadini alla nobiltà e al fisco per liberarsi dei tributi (...) un miliardo di marchi. Un miliardo per riscattare, senza dover pagare più i tributi, una minima parte del terreno che era stato loro strappato da 400 anni! Una minima parte, perché la nobiltà e il fisco si riservarono la parte di gran lunga maggiore».
Anche in Russia dopo la guerra di Crimea, i contadini furono liberati non soltanto dalla servitù della gleba, ma anche dalla parte migliore delle loro terre.
Seppur con scarsi risultati, la rivoluzione pacifica e legale dove si sviluppò portò alla soppressione dei gravami feudali da un lato e dei resti del comunismo primitivo dall’altro, quindi all’instaurazione della proprietà privata della terra, aprendo la via all’agricoltura capitalistica.
In Prometeo novembre 1950, si descrive l’inesorabile avanzare del capitalismo.
«Permanevano caratteri feudali in Germania verso il 1850 perché, meno che alla sinistra del Reno, la nobiltà fondiaria aveva persino conservato la giurisdizione sui suoi sudditi ossia, il signore faceva da giudice civile e penale. Nell’Italia del Sud, prima ancora della rivoluzione francese, funzionava in pieno il sistema della magistratura di Stato culminante nel regio potere. Quei privilegi erano stati invano pretesi dai baroni fin dai secoli delle monarchie angioine e aragonesi.
«La famosa perequazione fondiaria, vanto delle consegne economiche liberali di Roma, dopo che fu realizzato "tutto il potere alla borghesia", ha costituito una delle basi per l’accumulazione capitalista in Italia, convogliando, insieme all’abile maneggio della politica bancaria, il gettito della rendita fondiaria dalle tasche sbrindellate degli ex-baroni nelle casseforti della borghesia industriale e finanziaria predetta. Ben s’intende che, nel processo di sviluppo capitalistico, le persone di molti proprietari di pretesi feudi si trasformavano in persone di industriali, commercianti, banchieri, e ruffiani di vario tipo del capitale».
La questione agraria
Cenni storici
Nel corso del XVIII secolo in certe località la popolazione aumentava e richiedeva una estensione delle risorse alimentari col passaggio a un sistema di produzione più elevato. Kautsky descrive questo importante passaggio: «Un tale sistema si era già sviluppato in Inghilterra dove, in virtù di condizioni particolari, le fondamenta dell’agricoltura feudale furono scalzate da una serie di rivoluzioni, dalla riforma di Enrico VIII fino alla “gloriosa rivoluzione” del 1688, e in cui era stata aperta la via allo sviluppo di un’agricoltura capitalistica intensiva, che sostituì l’allevamento a pascolo con quello in stalla e con la coltivazione di piante foraggere, e che introdusse a fianco dei cereali le piante a tubero. Ma si vide che era impossibile introdurre in modo generale i risultati di quella rivoluzione sul continente europeo senza rivoluzionare i rapporti di proprietà esistenti».
Il vecchio modo di produzione si rese intollerabile, quanto meno per gli agricoltori più grandi, che producevano una notevole eccedenza per il mercato. «Il modo di produzione del Medioevo era perfettamente adatto ai bisogni di una società di eguali, che avevano tutti lo stesso tenore di vita e producevano per il loro uso personale (...) Ora sorgeva il mercato con i suoi bisogni mutevoli, si sviluppava l’ineguaglianza tra i membri del villaggio, di cui gli uni sulle loro terre producevano appena quello di cui avevano bisogno per loro stessi, mentre gli altri producevano un’eccedenza. Gli uni, i piccoli, continuavano a produrre per il loro consumo personale ed erano fortemente attaccati alla comunità di marca, per gli altri essa diveniva un ostacolo, poiché, qualsiasi cosa richiedesse il mercato, essi non potevano produrre sulle loro terre se non quello che prescriveva la comunità territoriale».
Era dunque necessario eliminare quel compromesso fra comunismo fondiario e proprietà privata, ripartire il pascolo comune, sopprimere la coltivazione in comune dei campi e l’obbligo di coltura, accentrare le varie piccole proprietà e fare così del proprietario fondiario un unico proprietario delle terre che così poteva sfruttare sulla base delle esigenze del mercato.
Ma tale sviluppo non produsse nella popolazione rurale una classe capace di costituire il nerbo di questa rivoluzione. L’agricoltura dipendeva dallo sviluppo sociale del modo capitalistico di produzione delle città. «Quella forza e iniziativa rivoluzionaria che l’agricoltura non era riuscita a produrre da sé stessa, le furono arrecate dalle città. Lo sviluppo economico della città aveva completamente trasformato la situazione delle campagne e resa necessaria una trasformazione dei rapporti di proprietà. Lo stesso sviluppo creò nella città quelle classi rivoluzionarie che, sollevandosi contro la potenza feudale, portarono la rivoluzione politica e giuridica nelle campagne, dove esse attuarono le trasformazioni divenute necessarie spesso tra le grida di giubilo della massa della popolazione contadina, ma a volte anche nonostante la sua resistenza».
La borghesia urbana tentò questo riordinamento ma non riuscì a portarlo a termine. Solamente quando le classi rivoluzionarie di Parigi, nel 1789, si sollevarono sotto la guida politica della borghesia, che chiamò i contadini asserviti a scuotere il giogo feudale, soltanto allora la trasformazione dei rapporti di proprietà rurali ebbero uno sviluppo rapido e deciso anche in Francia e, in seguito, nei paesi vicini.
«In Francia la trasformazione avvenne fuori della legalità e con la violenza, cioè con una scossa e in tale maniera che i contadini non soltanto si liberarono del loro giogo, ma ottennero altresì della terra appartenente alle proprietà confiscate del clero e degli emigrati, nella misura in cui non se ne impadronì la borghesia stessa».
Mentre in Prussia la trasformazione fu la conseguenza della sconfitta di Jena.
Ciò in tutta la Germania non avvenne in modo violento, ma legale e pacifico, con lentezza ed esitazioni, sforzandosi di ottenere l’assenso dei signori, protagonisti di tutto il movimento, che ancora nel 1848 non era giunto a termine. A pagare a caro prezzo questa via pacifica e legale furono i contadini, sia con il denaro contante sia con nuove imposte. Scrive F. Engels nella sua introduzione allo scritto di Wilhelm Wolf, “Schlesische Milliarde”: «Possiamo calcolare che la somma pagata dai contadini alla nobiltà e al fisco per liberarsi dei tributi (...) un miliardo di marchi. Un miliardo per riscattare, senza dover pagare più i tributi, una minima parte del terreno che era stato loro strappato da 400 anni! Una minima parte, perché la nobiltà e il fisco si riservarono la parte di gran lunga maggiore».
Anche in Russia dopo la guerra di Crimea, i contadini furono liberati non soltanto dalla servitù della gleba, ma anche dalla parte migliore delle loro terre.
Seppur con scarsi risultati, la rivoluzione pacifica e legale dove si sviluppò portò alla soppressione dei gravami feudali da un lato e dei resti del comunismo primitivo dall’altro, quindi all’instaurazione della proprietà privata della terra, aprendo la via all’agricoltura capitalistica.
In Prometeo novembre 1950, si descrive l’inesorabile avanzare del capitalismo.
«Permanevano caratteri feudali in Germania verso il 1850 perché, meno che alla sinistra del Reno, la nobiltà fondiaria aveva persino conservato la giurisdizione sui suoi sudditi ossia, il signore faceva da giudice civile e penale. Nell’Italia del Sud, prima ancora della rivoluzione francese, funzionava in pieno il sistema della magistratura di Stato culminante nel regio potere. Quei privilegi erano stati invano pretesi dai baroni fin dai secoli delle monarchie angioine e aragonesi.
«La famosa perequazione fondiaria, vanto delle consegne economiche liberali di Roma, dopo che fu realizzato "tutto il potere alla borghesia", ha costituito una delle basi per l’accumulazione capitalista in Italia, convogliando, insieme all’abile maneggio della politica bancaria, il gettito della rendita fondiaria dalle tasche sbrindellate degli ex-baroni nelle casseforti della borghesia industriale e finanziaria predetta. Ben s’intende che, nel processo di sviluppo capitalistico, le persone di molti proprietari di pretesi feudi si trasformavano in persone di industriali, commercianti, banchieri, e ruffiani di vario tipo del capitale».
Capitalismo e agricoltura
Kautsky evidenzia la dialettica della questione:
«Non vi è dubbio che l’agricoltura non si sviluppa secondo il medesimo schema dell’industria, ma segue leggi sue proprie. Con questo però non si dice affatto che lo sviluppo dell’agricoltura si contrapponga a quello dell’industria e che sia con esso inconciliabile. Noi crediamo invece di poter dimostrare che si affrettano ambedue allo stesso fine, se non li consideriamo separatamente l’uno dall’altro, ma come parti comuni di un processo complessivo».
E ancora: «La teoria marxista del modo di produzione capitalistico non consiste tuttavia semplicemente nel ridurre lo sviluppo di questo modo di produzione alla formula “eliminazione della piccola azienda da parte della grande azienda”, in modo che chi conosca a memoria questa formula ha in tasca la chiave di tutta la moderna economia. Se si vuole studiare la questione agraria secondo il metodo di Marx non si può porre soltanto la questione se nell’agricoltura la piccola azienda ha un avvenire; dobbiamo invece studiare tutti i mutamenti ai quali l’agricoltura soggiace nel corso del modo di produzione capitalistico».
In “Mai la merce sfamerà l’uomo”, del 1953, nel Prospetto Introduttivo scriviamo: «Mentre l’industria manifatturiera può recare ovunque i suoi impianti (...) l’essere il terreno inamovibile e indistruttibile (in generale) crea un altro grado di limitazione (...) Questa ha un’importanza eccezionale (...) nella nostra disciplina (...) ha un’influenza capitale sulla costituzione economica della società, sulle condizioni ed il grado di benessere dei suoi componenti».
Nel nostro “Comunismo” n.51 del dicembre 2001 sintetizzavamo i “Fili del Tempo” sulla Questione Agraria pubblicati nei numeri di Programma Comunista del 1953 e 1954. Nel capitolo “Economia rurale e storia” scrivevamo: «La ricerca sul mutarsi delle forme di produzione e di economia agricola, che si può dire fino ad ieri sono state parte preponderante di tutta l’economia sociale, deve essere estesa a tutto il ciclo storico umano. Il marxismo fa una decisa critica, su sola base scientifica, della partizione molecolare della terra, causa di stasi e di infinita miseria. In materia è importante stabilire la preminenza del metodo storico onde chiarire quello sociale».
Il testo prosegue, sul tema descritto nel capitolo precedente: «Sono rilevanti i fattori della limitazione della terra e della cosiddetta fertilità decrescente. Nei germani, ad esempio, c’è prevalenza di terreni ad uso civico e demanio; mentre nei latini c’è il completo svolgimento del sistema allodiale (possesso privato). I germani, poco numerosi su vaste terre, usano il secolare e millenario sistema dei tre campi: di tre terreni uguali alternativamente uno è coltivato a grano, il cereale più nutritivo, uno a segale, orzo o avena, cereali meno nutritivi, uno resta a riposo (maggese). A lungo non la terra, ma il bestiame, mantenuto nei pascoli comuni, è oggetto di valore e articolo di commercio. Pecunia (denaro) deriva da pecus (bestiame). La proprietà privata deriva sia da spartizione del terreno collettivo tra famiglie sia da violenza, schiavitù, conquista. Nei popoli germanici la coltura in comune sparisce assai tardi; mentre in Italia la spartizione individuale è preromana (il Dio Termine rende il possesso di terra sacro e inviolabile) per la lontanissima conoscenza di colture (vite, ulivo, alberati fruttiferi, irrigazione) superiori a quella cerealicola. In Italia le forme feudali hanno scarsa influenza e spariscono rapidamente tra la caduta dell’impero bizantino e l’epoca dei Comuni in cui ci fu un’agricoltura altamente intensa (orti e giardini) e addirittura pienamente capitalistica».
Nel successivo capitolo “Uscita dal feudalesimo” si inquadrava il trapasso: «Nel rapporto feudale il servo arrecava al padrone una rendita in derrate o in lavoro con giornate di lavoro nel suo giardino e con quote del prodotto del suo campicello; e siamo perciò in un’economia naturale. Il moderno padrone della terra, il proprietario fondiario, gode invece di una rendita in denaro. Al tempo stesso il possesso fondiario da inviolabile diviene alienabile; come il lavoratore agrario da vincolato alla terra, diviene libero. Inizialmente questo processo non è determinato solo dall’inarrestabile esigenza di dare sfogo benefico alle forze produttive manifatturiere, ma è anche accompagnato da pari esaltazione delle forze produttive agrarie».
Kautsky traccia il “naturale” passaggio da un modo di produzione all’altro: «Nell’epoca feudale non c’era altra agricoltura all’infuori della piccola coltura, e le terre della nobiltà erano coltivate con gli stessi strumenti usati dai piccoli contadini. Il capitalismo per primo ha creato la possibilità della grande agricoltura, tecnicamente più razionale della piccola».
Proseguiamo da “Comunismo” 51: «L’economia agraria feudale, caratterizzata fra l’altro dalla sovrapposizione del lavoro della terra e l’industria minima domestica, tiene la produzione rurale lontano dal mercato. L’economia capitalistica trae la piccola azienda contadina nel vortice mercantile. La pretesa indipendenza della piccolissima azienda conduce a un immenso maggiore onere di lavoro per il proprietario del fazzoletto di terra. Ma, entro i limiti capitalistici, non si può contare sulla sparizione della piccola produzione nell’agricoltura».
Tornando a Kautsky: «Il contadino andava sì al mercato, ma soltanto per vendervi l’eccedenza di quanto produceva e per comprarvi solo il superfluo, oltre al ferro, che però adoperava con la maggior parsimonia possibile. Dall’esito del mercato poteva dipendere la sua comodità e il suo lusso, ma non la sua esistenza. Questa comunità autosufficiente era indistruttibile».
Sull’attuale modo di produzione ancora Kautsky: «Lo sviluppo dell’industria e del commercio creava anche nelle città nuove esigenze. Mentre nuovi e più perfezionati attrezzi penetravano nelle campagne tanto più rapidamente e inesorabilmente si faceva attivo il rapporto di scambio fra città e campagna».
Inoltre il militarismo, attirando i figli dei contadini nelle città, diviene la principale causa della diffusione del consumo di tabacco e alcol.
FINE DEL RESOCONTO
PAGINA 7
Ekrem Imamoglu, sindaco di Istanbul e candidato presidenziale del CHP (Partito Repubblicano del Popolo) kemalista e socialdemocratico per le prossime elezioni, è stato arrestato insieme a numerosi sindaci distrettuali e altri burocrati comunali, con accuse di corruzione e legami con il PKK.
L’arresto ha scatenato un imponente movimento popolare, guidato dagli studenti universitari, in gran parte controllato dal CHP con l’aiuto dei suoi piccoli partiti alleati di sinistra come il Partito dei Lavoratori della Turchia e il Partito di Sinistra.
Queste proteste non sono un movimento popolare interclassista come il movimento Gezi del 2013, che fu ignorato da tutti i principali partiti parlamentari, ma un movimento parlamentare borghese in cui le richieste della classe operaia hanno poca o nessuna influenza. La presenza di iscritti ai sindacati DISK e KESK, che hanno buoni rapporti con il CHP, non lo smentisce; in particolare, il Genel-Is del DISK (che organizza i lavoratori comunali) a Istanbul ha espresso solidarietà ai loro datori di lavoro!
Le proteste sono promosse o sostenute dai partiti di tutto lo spettro politico che non fanno parte della coalizione di governo: stalinisti, trotzkisti e anarchici di sinistra fino al fascista e xenofobo Partito della Vittoria, al fascista dissidente Partito Buono e all’ultra-islamista Ancora Benessere. I fascisti sono spesso riusciti a incitare la massa dei manifestanti kemalisti a cacciare i curdi dalle proteste. Il CHP è riuscito a bloccare la richiesta di uno sciopero generale – che lo danneggerebbe direttamente se scioperasse Genel-Is, il grande sindacato di DISK, organizzato nei comuni dell’opposizione – con il boicottaggio delle lezioni universitarie, delle aziende filogovernative e affiliate.
Si stima che in tutto il paese in 3-4 milioni abbiano partecipato alle proteste attuali. Secondo i sondaggi il 73% della popolazione vede le proteste in modo favorevole. Ciò è dovuto sia alla legittimità borghese dell’attuale movimento, per le sue motivazioni e il sostegno di quasi tutti i partiti di opposizione parlamentari, sia alla crisi economica che sta affliggendo il proletariato nel paese.
L’arresto di Imamoglu si è quindi rivelato una mossa del governo che le si è ritorta contro. Secondo i sondaggi, il vantaggio del CHP, precedentemente esiguo rispetto all’AKP, è aumentato al 4%.
Nel frattempo, durante le proteste sono state sospese le trattative tra il governo e i nazionalisti curdi, che avevano raggiunto un punto culminante con l’appello di Öcalan al PKK di sciogliersi e deporre le armi. Questo non significa la rottura. Mentre i nazionalisti curdi hanno espresso solidarietà con Imamoglu, il partito parlamentare nazionalista curdo DEM ha invitato le sue organizzazioni a non partecipare alle proteste per non compromettere le trattative. Nel frattempo la dirigenza del PKK, con base sui monti Qandil, si è dichiarata pronta tanto alla pace quanto alla guerra e, pur sostenendo a parole l’appello di Öcalan, sembra cercare di temporeggiare.
* * *
La violenza della polizia si è scatenata in piazza Kizilay e nelle strade di Istanbul. Ma i discorsi liberali servono solo a confondere. Attribuire questa repressione e violenza al solo governo attuale ci porta al riformismo e all’opportunismo.
Il bersaglio della nostra critica non è la base del movimento, soprattutto quella dei lavoratori, ma i partiti riformisti e socialdemocratici che la guidano. Non basta che le classi sfruttate sfoghino la loro rabbia: la storia ci dimostra ancora una volta che senza la direzione di una dottrina rivoluzionaria tutti questi movimenti alla fine si spengono senza riuscire a cambiare il regime esistente. Lenin ha dimostrato nel “Che fare?” che se un partito fondato sulla dottrina marxista non guida il movimento, tutti questi movimenti finiscono per scivolare nel riformismo. «Non ci può essere pratica rivoluzionaria senza teoria rivoluzionaria».
Gli slogan indicano la natura di un movimento nel modo più breve e conciso. Vediamo quelli avanzati in questi giorni.
“La soluzione è nelle strade, non nelle urne”. Grande verità, ma perde ogni validità nelle proteste di oggi. Perché, al contrario, l’effetto principale delle proteste sarà mobilitare voti per il CHP e i partiti di sinistra, appoggiati dalla UE, soprattutto dalla Germania, e contro Stati Uniti e Russia che sostengono il governo attuale. Alla base delle proteste è la lotta per il potere tra i due partiti capitalisti, in difesa del marcio parlamentarismo.
“Diritto, Legge, Giustizia”. Ma il diritto è il diritto borghese. Gli attuali partiti “marxisti” adottano un simile slogan perché la loro critica non va al capitalismo, ma al presente governo. La borghesia oggi infrange le stesse leggi che ha stabilito, e domani lo farà il nuovo governo. La base del diritto è la difesa della società di classe.
“Questa lotta non è solo la lotta di Imamoglu e del Partito Popolare Repubblicano, ma per proteggere il futuro di 86 milioni di persone”. Il populismo del CHP vede la società come un insieme senza classi. L’interesse del popolo, la protezione della nazione, ecc. sono favole che la borghesia grida da sempre. Possono gli interessi del proletariato e della borghesia essere gli stessi? Il proprietario di schiavi e lo schiavo possono essere uguali?
Di fatto la borghesia non promette nulla al proletariato. La municipalità del CHP di Smirne si rifiuta di pagare persino i salari dei lavoratori del comune, mentre allo stesso tempo stravolge i sindacati dei lavoratori che sostiene non abbiano classe!
“Qui sfidiamo il fascismo”, “Uniti contro il fascismo”. Cosa distingue davvero il CHP dal fascismo? Non difende già gli interessi della nazione contro quelli della classe? Non sottomette i sindacati alle proprie politiche? Sta già compiendo i passi di un regime fascista per arrivare al potere. Il CHP, che ieri ha ordinando ai leader sindacali di metter fine agli scioperi, sarà il partito che schiererà la polizia contro i lavoratori quando domani andrà al potere.
È inevitabile che un movimento guidato dalla borghesia degeneri, per quanto proletaria possa essere la maggioranza dei partecipanti. La borghesia mira a deviare l’energia delle masse ribelli in azioni senza futuro, alla repressione violenta e nella conquista di voti. Finché i proletari non avranno un proprio sindacato di classe e un proprio partito, continueranno a essere facili vittime dei partiti borghesi e saranno pugnalati alle spalle.
Il proletariato per sfidare la borghesia e i suoi scherani ha solo il programma comunista. L’unico organo che può attuare questo programma comunista e guidare le masse è il Partito Comunista organizzato a livello internazionale. È solo lo Stato diretto dal Partito Comunista, la dittatura del proletariato, che ritorcerà contro la borghesia e ai suoi vili scagnozzi le sue armi.
Le parole politiche del proletariato devono andare solo in questa direzione.
Anno dopo anno, gli scienziati continuano a portare alla luce nuovi tesori dal multiforme passato del mondo naturale, resti di organismi diversi, minerali da molto tempo sepolti. Periodicamente gli scienziati scoprono anche resti della nostra vita sociale passata: oggetti, vasi dipinti, strumenti primitivi, strade, villaggi, cimiteri, siti dove gli esseri umani praticavano l’agricoltura. Attraverso queste scoperte otteniamo accesso a mondi già del tutto ignoti alla nostra memoria collettiva. Siamo in grado di raccogliere informazioni su come i nostri antenati vivevano, e attraverso il loro lavoro fisico interagivano e modellavano il mondo che li circondava. È il lavoro, necessario dell’esistenza della specie, il legame ininterrotto che collega l’uomo moderno anche ai suoi progenitori più antichi.
Queste scoperte, che soddisfano il nostro intelletto e sete di conoscenza sul passato perduto, provano che l’attuale modo di produrre non è universale né eterno, nel susseguirsi delle società umane, nonostante quel che sostengono i nostri ottusi nemici.
Volgendoci invece al futuro, tra decine di migliaia di anni: cosa scopriranno gli scienziati della nostra società attuale? Come minimo troveranno sicuramente un’abbondanza di quegli inquinanti chimici che le attuali fertili menti hanno soprannominato “Forever Chemicals”, sostanze chimiche eterne.
Fra questi i PFAS, composti chimici apparsi nel 1938 con l’invenzione del Teflon, sono utili in una vasta gamma di prodotti, dagli imballaggi alimentari ai mobili e persino ai cosmetici, perché resistenti al calore, all’acqua, agli oli e ai grassi. Sono presenti praticamente in tutti i settori industriali e in tutto il mondo.
L’utilità di queste sostanze tuttavia va di pari passo con i loro effetti negativi sulla salute umana e con la loro incredibile capacità di accumularsi. Ricerche condotte a partire dagli anni ’70 hanno dimostrato che i PFAS, al di sopra di una certa quantità, hanno un impatto negativo sul funzionamento del nostro organismo: aumento dell’incidenza di diversi tipi di cancro, una diminuzione della fertilità e difetti dello sviluppo nei bambini, oltre a una miriade di altri effetti negativi.
Questo, che accade giorno dopo giorno, è stato un sottoprodotto del capitalismo sin dal suo inizio. Per un esempio citiamo Engels nella sua opera “La situazione della classe operaia in Inghilterra”: «Mucchi di immondizia e cenere giacciono in tutte le direzioni, e i liquidi fetidi versati davanti alle porte si raccolgono in pozze maleodoranti». Le condizioni in cui si trovavano questi lavoratori possono essere state in parte alleviate in Occidente, ma sono ancora una realtà per il proletariato dei bassifondi dell’Africa e dell’Asia.
Dagli anni ’70 l’effetto della produzione capitalista sul clima globale è di fatto ignorato dalla borghesia. Giganteschi gruppi di interessi minimizzano questo fenomeno perché combatterlo interferirebbe nella loro capacità di accumulare liberamente. Di fronte a questa crisi, che porterà cattivi raccolti, morti e masse di rifugiati, c’è persino una parte della borghesia che calcola quanto sarà redditizio per l’industria del “aria condizionata”! «Le previsioni climatiche di Morgan Stanley sono state inserite in un rapporto di ricerca sul futuro delle azioni nel settore della climatizzazione. Secondo gli analisti, uno scenario di riscaldamento di 3 gradi potrebbe più che raddoppiare il tasso di crescita del mercato del raffreddamento, che attualmente vale 235 miliardi di dollari, dal 3% al 7% entro il 2030». Consoliamoci: precipitiamo verso la devastazione, ma la borghesia qualcosa di sicuro ne tirerà fuori.
Si potrebbe immaginare che, una società razionale, una volta scoperti questi effetti negativi, avrebbe subito fermato la produzione di una sostanza così dannosa. Il capitalismo globale e le sue frazioni nazionali non sono però “razionali”. O, per lo meno, la loro “ragione” d’essere principale è l’accumulazione del capitale, a qualsiasi costo sociale. Se è possibile trarne profitto, indipendentemente dagli effetti deleteri, allora è “razionale”. Il boom del commercio di tabacco, alcol e droghe ne è un altro esempio.
Sebbene i PFAS, in senso economico, non rappresentino una parte significativa della produzione chimica globale, sono comunque redditizi e utili. Benché la percentuale che rappresentano sia solo del 5%, il margine di profitto si aggira intorno al 16%. A causa della necessità di un ritorno dall’investimento come obiettivo primario imposto alle imprese nella produzione capitalista, la nostra società ignora la realtà dei danni causati all’uomo e alla natura.
Queste sostanze, essendo molecolarmente molto stabili, si accumulano nel tempo. Questo può avvenire nel suolo, nell’aria, nei sistemi idrici. Il bioaccumulo è il termine usato per descrivere il processo attraverso il quale i PFAS, come altri composti, si concentrano nei viventi. Così entrano nell’alimentazione umana. Non c’è praticamente nessun luogo sulla Terra che non sia toccato da questo inquinamento. I PFAS sono stati trovati nell’Artico: si ritiene che responsabili siano gli uccelli migratori che vengono predati. Anche gli orsi polari sono infettati dai rifiuti tossici del capitale.
Nessuno è al sicuro dalle “esternalità” del capitale. Ma è il proletariato internazionale che ne subisce il peso maggiore, dai lavoratori che producono le sostanze dannose fino a quelli nelle discariche dove finiscono a marcire tutte le merci del capitale.
Naturalmente, come tutti i composti chimici, anche i PFAS sono soggetti a degradrarsi, ma ci accompagneranno per molto tempo. Ciò è particolarmente vero in una società che produce questi e altri inquinanti senza avere la capacità economica di eliminarli. Il costo stimato per la rimozione dei PFAS solo dal suolo è di miliardi di dollari.
Ci sono state alcune pressioni all’interno dell’UE e degli Stati Uniti per vietare la produzione di questi composti chimici, ma o hanno preso di mira solo quelli facilmente sostituibili o in realtà non hanno voluto eliminarli davvero. Forse i PFAS seguiranno la sorte dei CFC, della benzina al piombo o dell’amianto, ma la sconfitta della salute davanti al profitto cesserà solo quando un’ondata rivoluzionaria romperà i bastioni a difesa della società di classe.
* * *
Ci sono e ci saranno domande difficili a cui rispondere nel nostro tentativo di riprodurre la nostra esistenza come specie. Anche in una società senza classi saremo costretti a produrre e consumare, in modo controllato, cose che hanno un qualche effetto negativo sulla salute dei viventi. Ma oggi il problema è che l’anarchia della produzione capitalista non solo non permette di rispondere, ma, per la sua stessa natura, nemmeno di impostare le domande in modo serio, in quanto l’unico metro è quello del profitto.
La contraddizione fra il costo sociale e quello monetario sarà eliminata nella nostra società futura. In un sistema di produzione centralizzato e razionale gli esseri umani rinunceranno al sistema che mette tutto e tutti in un bilancio aziendale, con il suo tentativo di massimizzare il profitto locale e attuale e ignorare i costi generali e a lungo termine. Il capitalismo non solo è minato dalla sua “razionalità” all’interno del processo produttivo, costringendolo a eliminare la sua stessa fonte di profitto, il capitale variabile, ma è costretto a saccheggiare e inquinare il mondo.
Il comunismo è il futuro della vita umana. Gli antagonismi interni alla società di classe hanno raggiunto il loro apice e saranno travolti da un movimento rivoluzionario di massa diretto dal Partito Comunista Internazionale. Solo con la distruzione della società capitalista e l’estinzione di tutte le classi i “lavoratori” del futuro potranno tornare a respirare liberamente.
La società capitalista è totalmente incapace di affrontare questo compito titanico, e la specie umana potrà riparare seriamente i danni causati a sé stessa e al pianeta solo quando avrà abbattuto la proprietà privata e sottoposto la tecnologia e la produzione al progetto di vita della specie: il comunismo. Il comunismo, un movimento storico mondiale che nasce dalle fondamenta stesse di questa società in rovina, è «il movimento reale che abolisce lo stato attuale delle cose». Questo movimento è l’unica risposta alla domanda su come gli esseri umani possano risolvere in modo sempre più efficace la contraddizione tra l’esistenza dell’uomo e la natura.
«Questo comunismo, come naturalismo pienamente sviluppato, equivale
all’umanesimo, e come umanesimo pienamente sviluppato equivale al naturalismo; è
la risoluzione autentica del conflitto tra l’uomo e la natura e tra l’uomo e
l’uomo».
PAGINA 8
Nella Critica del programma di Gotha, del 1875, Karl Marx prendeva di mira quella che considerava una corrente particolarmente patetica all’interno del movimento operaio contemporaneo: un «tipo di democratismo che si mantiene entro i limiti di ciò che è permesso dalla polizia e non è permesso dalla logica». Marx vedeva nelle richieste di questa corrente “niente di più della vecchia litania democratica che tutti conoscono: suffragio universale, legislazione diretta, diritti popolari, milizia popolare, ecc.”. Oggi, un secolo e mezzo dopo, ci troviamo di fronte alla stessa litania, divenuta assai più assurda che ai tempi di Marx, dato che il capitalismo, spesso sotto le vesti della democrazia borghese, che resta la sua forma politica più caratteristica, ha rivoluzionato il mondo.
Ci riferiamo ai ruderi del “socialismo democratico”. Coloro che aderiscono a questa ideologia fondamentalmente piccolo-borghese sono di frequente molto sensibili alle mancanze della democrazia borghese: laddove promette libertà e uguaglianza denunciano assenza di libertà e disuguaglianza; laddove promette il governo del popolo lamentano il governo di una piccola minoranza; laddove promette l’emancipazione delle minoranze ne scoprono l’oppressione. In una parola, sono delusi dalla democrazia realmente esistente, cioè borghese. La loro soluzione è semplice, anche se banale: serve più democrazia. Invece di chiedersi cosa comporti esattamente in sé la democrazia e se sia davvero la panacea unica per i problemi e i mali del mondo, si limitano ad assumere che questi problemi siano dovuti a una mancanza di democrazia. Alle volte arrivano a dire che la forma di democrazia attualmente esistente non sia la vera democrazia.
Nel suo «Appunti sul libro di Bakunin» “Stato e anarchia”, Marx ci informa che «Le elezioni sono una forma politica persino nelle più piccole comunità russe e nelle cooperative (artel). Il carattere delle elezioni non dipende da questi nomi, bensì dalle basi economiche, dai legami economici tra gli elettori».
Lenin riprende lo stesso tema in “La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky”, dove castiga l’opportunista nel titolo per la sua invocazione della democrazia “pura”: «Se non si vuole prendere in giro e il buon senso e la storia, è chiaro che è impossibile parlare di “democrazia pura” finché esistono differenti classi; si può parlare unicamente di democrazia di classe (...) “Democrazia pura” è la frase menzognera del liberale che vuol trarre in inganno gli operai. La storia conosce la democrazia borghese, che prese il posto del feudalismo, e la democrazia proletaria che prende il posto di quella borghese».
Attualmente la stragrande maggioranza dei Paesi del mondo è governato secondo le diverse varianti della democrazia borghese: cioè regimi democratici adatti alle esigenze e agli interessi della borghesia, la classe che gode della proprietà dei mezzi di produzione. Estendendo i diritti politici a tutta la popolazione e dando voce alle masse, la borghesia assicura la continuazione del proprio dominio di classe. Infatti, in una società priva di privilegi politici a priori, chi dispone del potere economico è destinato inevitabilmente a governare. Proprio per questo motivo la borghesia, nelle sue grandi rivoluzioni contro l’Ancien Régime, ha spazzato via i privilegi politici della nobiltà e del re e, così facendo, ha sostituito il suddito feudale col cittadino.
L’uguaglianza dei cittadini è solo il riflesso politico dei rapporti economici su cui si fonda la società borghese. In questa società, in cui vige la proprietà privata dei prodotti destinati allo scambio, gli individui si confrontano come proprietari di merci. Sono “liberi”, in quanto scambiano “volontariamente” le loro merci; e sono “uguali”, in quanto si incontrano in qualità di proprietari di merci e scambiano merci di uguale valore. Qui, nel rapporto di scambio di merci, che costituisce la base della produzione capitalistica, tutte le distinzioni di rango sociale e i privilegi tradizionali sono stati cancellati. Esistono soltanto proprietari di merci.
Nel Capitale Marx ha dimostrato che lo sfruttamento e la schiavitù della forza-lavoro salariata sono perfettamente compatibili con questo scambio libero di merci. Il lavoratore vende la sua forza-lavoro in cambio di un salario; lui e il capitalista si scambiano le rispettive merci sul mercato, senza che sia necessaria alcuna coercizione extra-economica. Ma la forza-lavoro ha un valore d’uso speciale: quando viene utilizzata crea nuovo valore, più valore di quello necessario per il suo mantenimento e riproduzione. Questa è la fonte della ricchezza capitalistica. Alla fine dell’intero processo, al lavoratore – una volta scambiato il suo salario con alimenti, vestiti, canone d’affitto e altri beni essenziali – non rimane altro che la sua capacità di lavorare, la sua forza-lavoro. Per sopravvivere dovrà tentare di vendere ancora una volta questa sua unica merce. Il capitalista, nel frattempo, ha ricevuto il prodotto dell’operaio che, una volta venduto sul mercato, non gli ha soltanto restituito l’equivalente del capitale variabile (salario) che ha anticipato, ma anche un plusvalore che può essere utilizzato per assoggettare altra forza lavoro.
È così che la libertà e l’uguaglianza dei proprietari di merci si trasformano dialetticamente nel loro opposto, lo sfruttamento e la schiavitù di alcuni da parte di altri. Come dice Marx: «La legge dell’appropriazione poggiante sulla produzione e circolazione delle merci, o legge della proprietà privata, si capovolge, per propria dialettica interna e inevitabile, nel suo diretto contrario».
Non c’è da stupirsi quindi se, nel costruire l’ordine politico che gli è più congeniale, la borghesia non abbia avuto bisogno di ricorrere al rozzo sistema dei privilegi politici che caratterizzava lo Stato feudale. La libertà e l’uguaglianza non sono affatto incompatibili con la produzione borghese, anzi quest’ultima le presuppone come base. Perciò in questa denominazione astratta e priva di ogni differenziazione di rango, il cittadino ha progressivamente sostituito la nobiltà, il servo della gleba e lo schiavo degli ordinamenti sociali precapitalistici. In qualità di cittadini, gli individui di tutte le classi – almeno nella forma classica della politica borghese – sono autorizzati a votare, cioè a partecipare alla determinazione del governo della borghesia. Essi selezionano il personale che amministrerà lo Stato borghese, uno Stato la cui missione fondamentale, la difesa della proprietà privata e del capitale, non viene mai messa in discussione.
La democrazia «cambia ogni volta che cambia il demos» (Engels), ovvero ogni volta che cambia la situazione economica e sociale degli elettori. Il demos, in una tipica società capitalista, comprende l’intera popolazione adulta. Ma all’interno di questa popolazione la forza economica dominante, e quindi anche la forza intellettuale dominante, è la borghesia stessa. Il suo comando sui mezzi di produzione le garantisce anche il comando sui mezzi di produzione intellettuale; e quindi, «ad essa in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale». E poiché la democrazia borghese aborrisce i privilegi politici speciali, cioè tratta ogni membro della società come un “cittadino” astratto, è naturale che coloro che hanno privilegi economici si ergano a dominare le posizioni di governo. Hanno il tempo, il denaro e le risorse per farlo, e dopo tutto «le idee dominanti non sono altro che l’espressione ideale dei rapporti materiali dominanti, sono i rapporti materiali dominanti presi come idee». Inoltre, la stessa macchina statale non può essere considerata separatamente dal potere economico della borghesia, poiché dipende dall’accumulazione di capitale per il proprio potere, un potere che esercita per salvaguardare quella stessa accumulazione. Lo Stato è un organo per l’esercizio del dominio di classe della borghesia e le forme democratiche che assume non cambiano questo fatto fondamentale.
Come scrive Lenin: «Lo storico marxista Kautsky non ha mai sentito dire che una cosa è la forma delle elezioni, la forma di una democrazia, e un’altra è il contenuto di classe di un dato istituto».
Così, nel corso della storia, il meccanismo democratico è stato utilizzato come strumento di governo da diverse classi dominanti, dagli schiavisti ateniesi ai patrizi romani fino alla borghesia moderna. La semplice forma della democrazia non garantisce in alcun modo il dominio di alcuna classe: il suo esito dipende «dalle basi economiche, dai legami economici tra gli elettori» (Marx).
Gli individui coinvolti nelle relazioni borghesi vedono lo Stato come un mezzo per raggiungere determinati fini che lo Stato stesso impone loro, ad esempio la necessità di disporre della proprietà privata per soddisfare i propri bisogni. E nel frattempo rimane incontrastato il suo vero scopo, salvaguardare le condizioni per la continua accumulazione del capitale. Lo Stato, in realtà, è l’associazione della borghesia contro le altre classi. Il grido contro la corruzione delle lobby aziendali rivela solo una completa ignoranza della natura di classe dello Stato. Questo si basa sul mantenimento dell’economia capitalista per il proprio potere e utilizza la democrazia come mezzo per raggiungere questo scopo. Quando la democrazia non riesce a produrre la docilità richiesta, per quanto rara, si può sempre ricorrere alla nuda forza. La violenza non è in contraddizione con la democrazia, è il suo necessario complemento; quando il bisturi fallisce, si ricorre al bastone.
Marx ha quindi dimostrato come la libertà economica e l’uguaglianza possano trasformarsi nel loro opposto: la non libertà e la disuguaglianza. Ma coloro che accettano questa intuizione nel campo dell’economia spesso rimangono curiosamente restii ad applicarla alla politica. Non si rendono conto che le elezioni basate su un suffragio libero, equo e universale possono servire come strumenti di dominio di classe a causa delle relazioni economiche in cui sono intrecciati i rapporti fra gli elettori. Non riescono a capire che la democrazia «non vale nulla come principio, essendo piuttosto un semplice meccanismo di organizzazione fondato su una semplice e banale presunzione aritmetica, che i più abbiano ragione e i meno abbiano torto» (Il principio democratico, 1921), che il suo carattere «non dipende da questo nome [cioè democrazia], ma dalla base economica, dalla situazione economica degli elettori». Questa situazione economica, determinata dal modo di produzione prevalente, detta il contenuto della democrazia in questione. Perciò il “meccanismo di organizzazione” democratico ha dimostrato la sua compatibilità con formazioni sociali così diverse come lo Stato schiavista ateniese, le assemblee dei villaggi contadini e i sindacati proletari.
La nostra corrente scriveva nel 1920: «La democrazia elettorale borghese cerca la consultazione delle masse, perché sa che la risposta della maggioranza sarà sempre favorevole alla classe privilegiata e delegherà prontamente a questa classe il diritto di governare e di perpetuare lo sfruttamento. Non sarà l’aggiunta o la sottrazione di una piccola minoranza di elettori borghesi a modificare il rapporto. La borghesia governa con la maggioranza, non solo di tutti i cittadini, ma anche dei soli lavoratori».
Dovrebbe essere chiaro, quindi, che una democrazia “pura”, “vera” o “reale” non esiste e non è mai esistita; piuttosto, la natura di una data democrazia è determinata dalla base economica su cui si sviluppa. E questo dovrebbe dimostrare perché “più” democrazia non risolverà i problemi creati dal modo di produzione capitalistico. Al contrario: è solo privando la classe dominante dei suoi diritti politici, dopo averla rovesciata, che la classe operaia, per mezzo della propria supremazia politica senza limitazioni di sorta, opererà la trasformazione dei rapporti economici esistenti ponendo rimedio ai suoi mali.
Ciò non significa che, nell’ambito dei metodi di organizzazione del proletariato, i meccanismi democratici non possano essere utilizzati. Nel corso della lotta rivoluzionaria possono verificarsi situazioni che richiedono la consultazione democratica della classe, o di parti specifiche della classe. Ma attribuire un valore innato alla democrazia significa legare le mani al proletariato in anticipo, limitarlo arbitrariamente a un particolare meccanismo di organizzazione, privandolo della versatilità tattica di cui avrà bisogno per prevalere nella conquista del potere. Nella lotta tra la vita e la morte con la borghesia possono verificarsi momenti in cui il proletariato deve fidarsi del suo organo dirigente (cioè il partito) per agire senza consultare le masse, come ad esempio durante le emergenze militari, quando la maggioranza della classe viene ingannata dalla propaganda borghese, ecc. Rifiutare, in linea di principio, qualsiasi deviazione dal meccanismo democratico di organizzazione significa paralizzare in anticipo la rivoluzione.
Non si può assolutamente parlare di estendere i diritti democratici alla borghesia sotto la dittatura del proletariato. Abbiamo visto che, sulla base del modo di produzione capitalistico, l’uguaglianza dei diritti politici tra le classi è proprio ciò che riproduce e sostiene l’attuale stato di cose; è il dispositivo che corrisponde agli interessi della borghesia come classe economicamente dominante. Per rovesciare questo modo di produzione, quindi, il proletariato deve privare il proprio nemico dei diritti politici e fare in modo che solo i lavoratori esercitino il potere; deve privilegiare sé stesso contro la borghesia.
Il nemico piccolo borghese
Rimane una domanda a cui rispondere: se la richiesta di democrazia “pura”, o di maggiore democrazia in astratto non proviene dal proletariato rivoluzionario, qual è la base di classe di questa richiesta? O, come avrebbe detto Lenin: chi ci guadagna?
La piccola borghesia occupa una posizione particolare all’interno della società capitalista. Stretta tra la classe dominante e la classe degli schiavi salariati, i suoi singoli membri sono costantemente minacciati da una possibile proletarizzazione. Essa compete senza speranza contro la grande borghesia che, con i suoi capitali più grandi e la sua presa sul potere statale, è perennemente destinata a vincere e a gettare i piccoli proprietari nelle file della classe operaia, in breve, a espropriarli dall’alto. Lo Stato borghese, in quanto organizzazione di lotta più avanzata della sua classe, può avere interesse a mantenere uno strato di piccoli proprietari per smussare il rapporto antagonistico del proletariato con la borghesia, ma può farlo solo in contrasto con l’incessante centralizzazione del capitale.
D’altra parte la piccola borghesia è minacciata da un’espropriazione dal basso, cioè da un movimento rivoluzionario del proletariato contro i rapporti di proprietà privata su cui si basa l’esistenza della piccola borghesia. Troppo debole per sfidare la borghesia da sola, deve costantemente cercare di ingannare il proletariato per indurlo a sostenere le sue richieste. Ma non appena il proletariato inizia a sentire la propria forza e a lottare per le proprie richieste, la piccola borghesia, vincolata dal suo interesse per la conservazione della proprietà, tradisce i lavoratori nei momenti decisivi. Questo è il tipo di oscillazione mostrato dalle cosiddette classi medie nel corso della storia, un atteggiamento che deriva dalla sua posizione precaria tra le due grandi classi della società moderna.
La moderazione, l’adesione a una ideale società borghese è quindi ciò che il piccolo borghese desidera di più. Il piccolo borghese vuole la proprietà privata, ma di dimensioni moderate; vuole la concorrenza, ma di intensità moderata; vuole docili i lavoratori, in una parola, vuole la società capitalista senza le sue necessarie conseguenze, conseguenze che minacciano la sua esistenza piccolo-borghese. Non è quindi solo un arci-reazionario, ma un nemico della classe operaia, perché è un nemico della socializzazione e della concentrazione delle forze produttive che costituiscono il grande contributo del capitalismo al progresso sociale e che costituiscono la base della futura società comunista.
Non sorprende quindi che, nell’ambito dell’ideologia politica, le richieste della piccola borghesia si appellino a un ideale democratico “puro”, una forma di democrazia che non è mai esistita e non esisterà mai. Essa condanna la democrazia realmente esistente come falsa, mentre esalta una democrazia ideale e autentica. Si venera il riflesso ideologico della società borghese, l’immagine che essa propaga di sé stessa, come rifugio dalla posizione precaria che il piccolo borghese occupa realmente.
«Il carattere proprio della socialdemocrazia – scrive Marx in “Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte” – si riassume nel fatto che vengono richieste istituzioni democratiche repubblicane non come mezzi per eliminare entrambi gli estremi, il capitale e il lavoro salariato, ma come mezzi per attenuare il loro contrasto e trasformarlo in armonia. Ma per quanto diverse siano le misure che possono venir proposte per raggiungere questo scopo, per quanto queste misure si possano adornare di rappresentazioni più o meno rivoluzionarie, il contenuto rimane lo stesso. Questo contenuto è la trasformazione della società per via democratica, ma una trasformazione che non oltrepassa il quadro della piccola borghesia. Non ci si deve rappresentare le cose in modo ristretto, come se la piccola borghesia intendesse difendere per principio un interesse di classe egoistico. Essa crede il contrario, che le condizioni particolari della sua liberazione siano le condizioni generali, entro alle quali soltanto la società moderna può essere salvata e la lotta di classe evitata».
Il socialismo democratico, in quanto erede moderno della tradizione nota ai tempi di Marx come socialdemocrazia, mostra pienamente queste stesse tendenze. Cerca più democrazia, pura e vera, perché lo richiedono le condizioni particolari dell’emancipazione della piccola borghesia, cioè la necessità contraddittoria di una società capitalista spogliata delle sue necessarie minacce e antagonismi. E poiché la piccola borghesia è troppo debole per ottenere da sola concessioni significative dalla borghesia, deve arruolare il proletariato nella sua causa. Così i socialisti democratici pubblicizzano ai lavoratori la loro chimera di un capitalismo rinnovato, promettendo che le loro sofferenze sono dovute a una mancanza di democrazia e che la “vera” democrazia metterà il potere nelle loro mani. Invece di organizzarsi sul proprio terreno di classe per le proprie richieste, i lavoratori sono incoraggiati a partecipare a campagne interclassiste per l’assistenza sanitaria universale, l’aumento delle tasse sui ricchi, la nazionalizzazione delle industrie, l’abolizione del Senato, il reddito di base universale, ecc. Tutte queste misure, come sottolinea Marx, mirano solo a diluire l’antagonismo tra capitale e lavoro, mantenendo i lavoratori abbastanza docili da essere sfruttati in modo produttivo e i grandi capitalisti troppo deboli per espropriare i loro cugini più piccoli. Soprattutto, il piccolo borghese si preoccupa di mantenere la sua posizione sempre minacciata, con le buone o con le cattive.
Comunismo e democrazia
Se il socialismo democratico si preoccupa di indebolire gli antagonismi insiti nel capitalismo, e quindi di preservare l’esistenza della piccola borghesia e della stessa società borghese, il comunismo si preoccupa di acuire questi antagonismi e di portarli alla loro conclusione storica: il rovesciamento della classe dominante da parte della classe operaia. Il proletariato non ha alcun interesse nella società borghese, che si regge sullo sfruttamento spietato della sua classe. Al contrario, può liberarsi solo abolendo la società borghese e le sue basi materiali.
Lo stesso non si può dire della piccola borghesia, che vuole più di ogni altra cosa mantenere la propria posizione all’interno di questa società. Questa è la fonte della sua attrazione magnetica per il socialismo democratico, che promette un’armonia raggiunta senza la distruzione degli attuali rapporti sociali o della piccola borghesia come classe. Questa ideologia si riduce a un pio desiderio: un’insensata contrapposizione tra l’espressione ideale della società borghese e la sua sporca realtà, tra la democrazia “pura” e la democrazia nella sua realtà sociale. È un tentativo fantastico di perfezionare la società borghese, di conciliare gli opposti, mentre il proletariato rivoluzionario cerca di abolire questa società. L’ideologia del socialismo democratico scoppia come una bolla di sapone al minimo contatto con il mondo reale.
La democrazia, fondata sui rapporti di produzione borghesi, ci ha dato il mondo che vediamo oggi, quello stesso mondo che i socialisti democratici condannano come antidemocratico. Per cambiare questo mondo, la democrazia non basta; nessun semplice “meccanismo di organizzazione” può garantire il successo di una rivoluzione nei rapporti sociali dell’umanità. È piuttosto necessaria la rivoluzione proletaria, che privi la borghesia di ogni partecipazione alla vita politica e utilizzi la sua presa dittatoriale sul potere per abolire con la forza le basi dello sfruttamento capitalistico.
Questo non avverrà finché il proletariato non avrà imparato a stare in piedi da solo e a lottare per i propri obiettivi di classe; finché, in altre parole, non si sarà liberato dall’influenza fuorviante della piccola borghesia e dei suoi ideologi, che vogliono solo arruolare i lavoratori come illusi soldati semplici. I socialisti democratici sono i primi propugnatori di questi errati e incoerenti principi ideologici e quindi dannosi per il movimento operaio. L’esperienza pratica dei fallimenti dell’attuale movimento operaio costringerà inevitabilmente i lavoratori ad acquisire la consapevolezza teorica e pratica del significato dell’inganno democratico e a tagliare i ponti con la piccola borghesia e le sue organizzazioni. L’esperienza pratica del successo delle lotte del movimento operaio, conseguente al rifiuto della mistificazione democratica, farà sì che finché il proletariato rimarrà custode geloso della propria indipendenza di classe e del programma del comunismo, la piccola borghesia non riprenderà mai più il controllo sul movimento operaio.