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PAGINA 1
La carneficina compiuta il 7 ottobre 2023 dalle milizie di Hamas e della Jihad Islamica Palestinese – 1.200 uccisi fra cui pacifisti e braccianti immigrati, e 250 rapiti – ha aperto il nuovo e fino a oggi più cruento conflitto fra Stato di Israele e gruppi dominanti arabo-palestinesi che perdura da 24 mesi, con una breve tregua fra gennaio e marzo scorsi, che da Gaza si è allargato a gran parte del Medioriente.
Difficile dire quali fossero le intenzioni dei partiti borghesi che controllano la Striscia di Gaza – ormai ridotta a una parte residuale – e degli Stati capitalisti che li spalleggiano. Ma è evidente che quel massacro – che ha espresso una volontà di genocidio identica a quella che il regime borghese israeliano ha messo in atto – ha compattato per mesi la società israeliana dietro al suo governo, che ha così goduto delle condizioni più favorevoli per scatenare la guerra a Gaza.
Una guerra che, secondo i dati forniti dal Ministero della Salute di Hamas, confermati dalle forze israeliane, ha provocato sino a oggi oltre 67 mila vittime, ha distrutto gran parte del patrimonio edilizio della Striscia – comprese infrastrutture, ospedali, scuole, moschee – e ha provocato una carestia che, secondo il programma alimentare dell’ONU, un mese fa interessava circa 650 mila proletari gazawi.
In circa 200 mila, dei 2 milioni e 300 mila abitanti – secondo il censimento del 2023 – sono riusciti a partire, una minoranza, i più pagando – secondo un dato più volte riportato dal quotidiano Haaretz – circa 4 mila dollari a organizzazioni operanti nel Sinai egiziano. Si tratta quindi soprattutto di famiglie borghesi o degli strati abbienti della piccola-borghesia.
Delle 67 mila vittime palestinesi risulta che il 46% siano minori di 18 anni, quasi mille i neonati, e che il rapporto fra miliziani e civili uccisi sia di 1 a 5 (secondo il governo israeliano 1 a 2). Questo massacro erano prevedibile, data l’area fra le più densamente popolate al mondo e con una popolazione estremamente giovane, considerato l’altissimo tasso di natalità (1 milione e mezzo di abitanti nel 2001; 2 milioni e 300 mila nel 2023; oltre 50 mila nuovi nati nel 2023).
Dopo il 7 ottobre le forze filo-iraniane in Libano (Hezbollah), Siria, Iraq e nello Yemen (Huthi), non hanno scatenato un’offensiva determinata, coordinata e simultanea contro Israele, bensì, secondo quanto dichiarato dal regime iraniano, hanno avuto libertà di decidere ciascuna per sé il grado e il tipo di reazione. Questa si è concretizzata solo nel lancio di missili per tenere in piedi la sceneggiata della solidarietà con la causa palestinese, ma tale da non provocare la guerra aperta con Israele.
Questo non ha impedito però che da agosto 2024, a 10 mesi dall’inizio del conflitto a Gaza, Israele lanciasse una potente offensiva contro Hezbollah in Libano, decapitandone il gruppo dirigente, indebolendo considerevolmente le sue milizie, respingendole a Nord del fiume Litani. La sconfitta è stata sancita dalla tregua siglata il 27 novembre che ha aperto a un nuovo equilibrio fra le forze politiche borghesi libanesi, col tentativo del nuovo governo di procedere al disarmo delle milizie di Hezbollah.
Nemmeno una settimana dopo la firma di tale tregua è iniziata in Siria l’avanzata delle milizie sunnite inquadrate nel Hay’at Tahrir al-Sham (HTS) che l’8 dicembre 2024 hanno conquistato Damasco, deponendo gli Assad, al potere dal 1971.
Per l’imperialismo iraniano si è trattato di un secondo duro colpo, che ha interrotto il cosiddetto “corridoio sciita”, che permetteva una continuità territoriale per movimenti di uomini, merci e armi dall’Iran al Mediterraneo, passando per l’Iraq, la Siria e il Libano.
La caduta degli Assad ha segnato un colpo anche per l’imperialismo russo, che vede a rischio le sue tre basi militari in Siria, quella navale di Tartus, che deteneva dal 1971, e quelle aeree di Hmeimim e di Qamishli.
La presenza russa in Siria era a sostegno della borghesia alawita – minoranza etnica su cui si appoggiava il potere del clan degli Assad e che a marzo è stata attaccata da milizie sunnite protette dal nuovo governo, le quali hanno massacrato in pochi giorni quasi mille persone. A ricordare il cinismo e il machiavellismo della borghesia, ora Israele sostiene la presenza russa nelle tre basi siriane, in chiave anti-turca e per indebolire il nuovo regime siriano, per la qual stessa ragione sostiene i curdi nel Nord a est dell’Eufrate e i drusi a sud di Damasco.
La chiave sono i rapporti di forza fra gli Stati dell’area, che si contendono mercati e territori, con alleanze variabili a seconda delle circostanze – cioè delle convenienze – e dipendenze dai padroni imperiali mondiali, USA, un tempo l’URSS – dopo la controrivoluzione in veste staliniana – e oggi la Russia e la Cina.
Dopo la seconda guerra con l’Iraq degli USA nel 2003 e la devastazione di quello Stato che ne è conseguita, fino ad allora importante potenza capitalista nell’area, rivale diretto dell’Iran, questo ha potuto per 20 anni espandere la sua influenza su Iraq, Siria, Libano, Gaza e Yemen. La guerra a Gaza ha fatto detonare tanti fronti in altrettante guerre, sette, col risultato di menomare questo sviluppo imperialistico iraniano, a favore di Turchia, Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Israele. Tutte potenze borghesi interessate a limitare la potenza iraniana ma tutte pronte a farsi guerra a vicenda.
Anche l’imperialismo cinese, principale rivale di quello USA – che proferisce dichiarazioni a sostegno della causa palestinese e importa il 90% del petrolio iraniano esportato, circa il 15% del suo fabbisogno, finanziando con ciò indirettamente la proiezione imperialista iraniana, che a Gaza si concretizza nel sostegno al Jihad Islamica Palestinese (JIP) e ad Hamas – è al contempo il primo partner commerciale d’Israele, che dalla Cina riceve il 17% delle sue importazioni, più ancora di quanto compra dagli USA, l’11%. Colossali aziende statali cinesi costruiscono e gestiscono autostrade, centrali elettriche e porti, come quello di Haifa. Aziende cinesi specializzate in intelligenza artificiale guidano droni per spiare i palestinesi di Gaza e forniscono sistemi di sorveglianza, riconoscimento facciale e raccolta dati in Cisgiordania.
La reazione russa e iraniana ai rovesci dei primi 15 mesi di guerra – da ottobre 2023 a dicembre 2024 – è stata un “Trattato di cooperazione strategica” fra i due paesi, siglato il 17 gennaio scorso a Mosca.
Nel frattempo Israele ha continuato a trarre vantaggio nel conflitto allargatosi da Gaza all’area mediorientale, perseverando nella strategia del fatto compiuto: ha ripetutamente bombardato le strutture militari di ciò che restava dell’Esercito Arabo Siriano, dell’aviazione e della marina, per indebolire il nuovo regime, e ha guadagnato terreno e villaggi nelle alture del Golan, arrivando a 40 chilometri da Damasco.
Ben poche voci di denuncia si sono levate dalla diplomazia internazionale riguardo alla violata sovranità territoriale della Siria, a confronto col coro di finta indignazione dopo il bombardamento israeliano su Doha in Qatar, ben più limitato, il successivo 9 settembre.
La Siria è stata, e continua a essere, una preda contesa fra gli imperialismi, che fanno leva sulle rivalità etniche, fra le borghesie locali, definite clan data la loro struttura familiare: fra la Turchia a nord e Israele a sud, con Qatar, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita interessate a investire ingenti capitali nella ricostruzione del paese, dopo che gli Stati Uniti hanno sospeso la maggior parte delle sanzioni. Gli interessi dell’imperialismo turco sono tutelati dal nuovo regime siriano, espressione di parte della borghesia sunnita, mentre Israele – come detto – si appoggia ai curdi siriani nel Nordest e ai drusi nel Sud.
Gli Stati Uniti giocano con più pedine nell’area per tutelare gli interessi dei propri capitalisti: la pedina israeliana, la Turchia, che è membro della NATO, l’Arabia Saudita, il Qatar e gli Emirati Arabi Uniti – le cosiddette petro-monarchie del Golfo Persico – con cui durante la visita di Trump a maggio scorso hanno concluso accordi per un valore rispettivamente di 600, 243 e 200 miliardi di dollari.
Il 18 maggio il governo israeliano ha iniziato a Gaza la nuova operazione “Carri di Gedeone”, preparata da pesanti bombardamenti, che dal 20 agosto è diventata “Carri di Gedeone 2” con l’ingresso massiccio di truppe e mezzi di terra; dal 16 settembre hanno iniziato a penetrare nella città di Gaza.
In un momento tanto propizio, dopo i rilevanti guadagni ottenuti in quei mesi di guerra, era da attendersi che il regime borghese israeliano avrebbe approfittato per spingersi a violare la potenza regionale iraniana. Ciò è avvenuto, nella consueta intesa con gli Stati Uniti: dal 13 giugno per 12 giorni l’aviazione israeliana ha colpito infrastrutture militari iraniane, compreso quelle nucleari, ed esponenti del regime nei quartieri borghesi di Teheran Nord. Il breve conflitto è stato chiuso dal bombardamento statunitense di alcuni impianti per l’arricchimento dell’uranio. È seguito un cauto e preavvisato lancio di missili iraniani sulla base militare USA in Qatar, la più grande di quell’imperialismo nella regione. Se delle strutture dedicate allo sviluppo del nucleare, militare e civile, non si conosce l’entità dei danni, sicuramente per le altre sono stati ingenti.
Ma la breve guerra ha anche mostrato come un paese piccolo quale è Israele, con una popolazione di soli 10 milioni di abitanti – dei quali 2 milioni di arabo-israeliani che non prestano servizio militare – abbia grossi problemi a reggere un conflitto di maggiore lunghezza e intensità. I missili iraniani in diversi casi hanno superato il sofisticato e potente, quanto costoso, sistema di intercettazione, provocando danni e vittime, fra l’altro anche fra la popolazione araba.
Ciò evidenzia come, nel quadro del terzo conflitto imperialista mondiale, verso cui marcia deciso il capitalismo, la distruzione di Israele non sia affatto impossibile, e come sia folle per la classe operaia anche di questo paese affidarsi ai successi militari della propria borghesia nazionale. Unica salvezza è nella solidarietà e nella rivoluzione proletaria internazionale, rigettando la politica e la guerra imperialista, innanzitutto del proprio paese, oltre le due colonne d’Ercole che aprono alla rivoluzione comunista: IL NEMICO È NEL NOSTRO PAESE e PROLETARI DI TUTTO IL MONDO UNITEVI.
La breve guerra fra Israele e Iran ha anche mostrato il reale valore dell’accordo strategico siglato a gennaio fra Mosca e Teheran. La Russia non ha potuto e fatto nulla per sostenere l’Iran, confermando le difficoltà legate alla guerra in Ucraina, che assorbe gran parte delle sue risorse.
Ulteriore messa alla prova di questa “cooperazione strategica” è stato l’accordo siglato l’8 agosto fra Stati Uniti, Armenia e Azerbaijan per il corridoio di Zangezur, lungo 43 chilometri, che corre lungo il confine fra Iran e Armenia, collegando l’Azerbaijan alla sua enclave di Nakhchivan, e da lì alla Turchia. L’accordo prevede la cessione della sovranità di fatto del corridoio, in territorio armeno, agli Stati Uniti. L’Iran resta così isolato dall’Armenia, e quindi dalla Russia, che anche in questo caso nulla ha fatto per opporvisi. L’Iran si trova ora a condividere il confine settentrionale a ovest del Mar Caspio solo con l’Azerbaijan, la cui minoranza turcofona è una delle spine nel fianco del regime borghese di Teheran. Si è trattato di un ulteriore guadagno dell’imperialismo turco e di quello USA, a spese di quelli iraniano e russo.
Prima di questo accordo, a luglio, in Siria sono esplose nuove violenze inter-etniche, dopo quelle di marzo fra alawiti e sunniti, questa volta fra beduini e drusi, nel governatorato di Suwayda nel Sud del paese, dove si concentra la minoranza drusa. Ciò ha confermato la fragilità del nuovo regime siriano, la sua incapacità a evitare lo scontro fra i clan borghesi delle diverse etnie. Questo ha avuto due effetti: i curdi nel Nordest hanno frenato il processo di integrazione delle loro milizie nel nuovo esercito siriano e Israele, con la scusa della protezione dei drusi, ha bombardato a Damasco il quartier generale siriano, obiettivo molto vicino al palazzo presidenziale – a monito contro il nuovo regime e contro la Turchia – e si è ulteriormente avvicinata a Damasco con le sue truppe stanziate nel Sud.
Ultimo elemento di questo quadro è lo scontro fra Israele e Huthi, con questi che costantemente lanciano missili contro Israele, uno dei quali mercoledì 24 settembre ha superato lo scudo anti-aereo colpendo Eilat e ferendo alcuni civili. In risposta Israele ha ripetutamente bombardato le infrastrutture yemenite sotto controllo degli Huthi ed edifici istituzionali e politici. Il 30 agosto praticamente tutto il governo Huthi è stato eliminato in un bombardamento in cui sono stati uccisi 12 fra ministri e alti funzionari, fra cui il primo ministro e i ministri di industria, esteri e giustizia.
Guerra e lotta fra le classi
Per quanto sia necessario conoscere le trame e le manovre degli imperialismi nella lotta per la spartizione dei mercati mondiali, questa dinamica è inquadrata dal marxismo all’interno dello sviluppo storico, cioè della lotta fra le classi, sui piani politico e sociale, che, fin dall’incipit del Manifesto del Partito Comunista del dicembre 1847 di Marx ed Engels, è “il motore della storia”.
Tutti gli Stati capitalisti si aggrediscono l’un l’altro. Le alleanze sono sempre fra briganti, come esplicita anche questo rapporto. Il “diritto internazionale” è una finzione, una copertura del fatto reale che contano solo i rapporti di forza fra le potenze. La “sovranità nazionale” rappresenta un’altra corbellatura, giacché gli Stati borghesi deboli sono pedine di quelli più forti. Queste finzioni stanno in piedi fintantoché la struttura economica capitalista non entra in crisi, com’è destino, accelerando e inasprendo la competizione economica, politica e militare, assurgendo a confronto bellico, mai venuto meno, spesso con guerre per procura, e, con l’avanzare di tale processo, divenendo guerra aperta fra gli Stati, fino alla guerra mondiale.
Ma tutti gli Stati borghesi sono prima ancora aggrediti alla loro base, al loro 
interno dalla crisi economica e dalla crisi sociale. La classe salariata è 
spinta alla lotta non dalla propaganda comunista ma dal peggioramento delle sue 
condizioni di vita, risultato dell’avanzare della crisi di sovrapproduzione del 
capitalismo mondiale. Se per gli Stati capitalisti il principio della “sovranità 
nazionale” è una farsa perché il forte domina il debole, per i lavoratori di 
tutti i paesi – di quelli forti come di quelli deboli – è una farsa perché 
ovunque domina e ditta solo il Capitale.
La lotta di classe, che mai cessa, con la crisi economica si riaccende e si 
radicalizza, e di per sé – implicitamente – tende a mettere in pericolo questo 
ordine sociale e politico in ogni Stato. Un pericolo per la borghesia; un 
obiettivo, per i proletari, che diventa esplicito – dichiarato e perseguito 
consapevolmente – solo laddove si rafforzi il raccordo fra la classe operaia e 
il Partito Comunista Internazionale.
Contro questa minaccia interna, la borghesia ha un’arma suprema: la guerra. 
Contro la rivoluzione: la guerra.
Per ogni Stato borghese è più agevole controllare le masse proletarie sottoposte 
alla disciplina militare, nell’esercito e nella società, straziate dai massacri 
di soldati e di civili che la guerra imperialista comporta – utili a deviarle 
contro un fasullo nemico esterno, per sostituire il presunto ideologico 
interesse della Patria a quello della classe lavoratrice – di quanto non lo sia 
controllarle in tempo di pace con le ordinarie forze di polizia.
Ma un proletariato in rivolta non è controllabile in alcun modo. La classe operaia in Italia dal 1943 scioperò in massa anche sotto l’occupazione tedesca e col fascismo. Non valgono le forze e le repressioni poliziesche quando la società ribolle.
Nella breve guerra di 12 giorni fra Israele e Iran, il governo Netanyahu ha affermato che uno degli obiettivi era far cadere il regime degli Ayatollah. Il risultato è stato opposto: la minaccia esterna ha stretto intorno al regime le opposizioni moderate, e ha consentito l’arresto degli oppositori più strenui. Israele ha così accresciuto la stabilità del regime iraniano. Lo stesso meccanismo che si era visto il 7 ottobre 2023: Hamas ha fornito il regalo più gradito a Netanyahu e agli altri boia del suo governo. Con la guerra i regimi borghesi si aiutano l’uno con l’altro: versare il sangue dei proletari per scongiurare la loro rivolta.
Anche in Israele, la pur parziale vittoria militare conseguita sull’Iran ha consolidato il fronte interno, che, passati i primi mesi di unità a seguito della carneficina del 7 ottobre, si era spezzato, con manifestazioni sempre più partecipate ogni sabato a Tel Aviv e in altre città.
Ma l’effetto benefico per il governo e il regime israeliano è durato poco. A 
luglio sono cresciute le manifestazioni contro la guerra a Gaza. In maggioranza 
vi si partecipava per chiedere la restituzione degli ostaggi ancora in mano ad 
Hamas e al Jihad Islamico Palestinese (JIP) – vivi e morti. Restituzione per la 
quale era necessaria a una tregua.
Ma una minoranza di questo movimento denunciava il massacro in corso a Gaza. Da 
luglio è scesa in piazza con le foto dei bambini palestinesi martoriati, a 
dispetto del divieto di polizia e spezzando un tabù nella società israeliana. 
Queste manifestazioni sono andate rafforzandosi.
Vi è poi il fronte dei riservisti, che in numero crescente (il 25% dicono) rifiutano il richiamo per combattere nella Striscia o in Cisgiordania. Risulta che all’incirca il 40% dei riservisti al ritorno dal prestato servizio incontrino difficoltà nel lavoro e peggioramenti economici, spesso dovuti a licenziamenti. La guerra che perdura da 24 mesi colpisce l’economia capitalistica israeliana, peggiorando le condizioni dei lavoratori. È una crisi incipiente ma in atto da tempo, come aveva testimoniato lo sciopero degli insegnanti contro il taglio del salario, imposto per far fronte ai costi della guerra, che il sindacato di regime Histadrut aveva boicottato.
In Israele il movimento contro la guerra mantiene, nella partecipazione e nelle intenzioni, un carattere interclassista e nazionalista. Per il 17 agosto ha fatto appello sia ai lavoratori sia alle aziende affinché per una giornata si “fermasse tutto”. L’Histadrut non ha dichiarato lo sciopero, e solo ha chiesto ai padroni di non applicare ritorsioni verso gli scioperanti. Lo indisse l’anno scorso, il 1° settembre 2024, quando però non oppose la minima resistenza alla ordinanza del Tribunale che dopo poche ore ingiunse di tornare al lavoro.
Non rivolgendosi ai lavoratori, affinché scendano in sciopero tanto contro la guerra quanto per la difesa delle proprie condizioni di vita, spiegando come questi due aspetti siano due facce della stessa medaglia, il movimento contro la guerra non affronta quello che è il problema cruciale, cioè il controllo del sindacato di regime Histadrut sulla classe operaia d’Israele. Fintantoché non si formerà una robusta frazione nei sindacati che imponga la saldatura della lotta difensiva dei lavoratori con quella contro la guerra, in solidarietà con gli sfruttati negli altri paesi, il movimento contro la guerra non si eleverà al piano di una lotta efficace della classe lavoratrice, in grado di mettere in ginocchio l’economia capitalista d’Israele e ostacolare la politica imperialista di quel regime borghese, vassallo dell’imperialismo USA.
La “resistenza” palestinese
Lo Stato di Israele ha imposto fin dalla sua fondazione un odioso e intollerabile regime discriminatorio verso i palestinesi, sancito dalla legge del 2018 che l’ha definito “Stato Ebraico”. I proletari arabo-palestinesi, pur godendo della cittadinanza e di pari diritti civili e politici – tranne quello di poter prestare servizio nell’esercito, a differenza di drusi e beduini – sono la parte più sfruttata della classe operaia in Israele, per anni esclusi dal sindacato di regime Histadrut, e sono con ciò sottoposti a una doppia oppressione, di classe ed etnica.
In Cisgiordania, occupata dal Regno di Transgiordania dal 1948 e poi da Israele nel 1967, a seguito della guerra “dei sei giorni”, la condizione è peggiore, di vera e propria apartheid sotto un rigido regime di occupazione militare. Questa feroce persecuzione, a Gaza è giunta allo sterminio.
Ma questo “salto di livello” nella barbarie non è avvenuto in virtù dei caratteri propri della ideologia sionista, bensì in quanto la irrisolta questione nazionale palestinese si iscrive oggi nel contesto di un mondo approdato ovunque al capitalismo, da oltre un secolo nella sua fase ultima imperialista e oggi in piena marcia verso la terza guerra mondiale. In questo quadro i contrasti fra gli imperialismi, fra le potenze regionali e mondiali, divengono sempre più aspri e le questioni etniche sono usate in modo sempre più cinico per tutelare gli interessi degli Stati borghesi.
La Palestina, da decenni, non è l’Algeria o il Vietnam degli anni ‘50 e ‘60 del secolo scorso, società arretrate, in un mondo con regioni che si stavano appena affacciando alla modernità e alle infamie del capitalismo. Nei decenni immediatamente successivi alla fine del secondo conflitto imperialista mondiale alcune borghesie nazionali erano ancora rivoluzionarie, con possibilità di una espansione della economia capitalistica e in e un equilibrio relativamente stabile fra le potenze imperialistiche.
Oggi Gaza e Cisgiordania sono società pienamente capitalistiche, con una borghesia fradicia, ormai reazionaria, anti-proletaria, corrotta e venduta alle borghesie regionali e mondiali, indissolubilmente intrecciata alla fittissima rete di interessi capitalisti e militari dell’area.
In occidente la narrazione prevalente nel movimento pacifista è che a Gaza non sia in corso una guerra ma un mero sterminio. È vero invece che sterminio, pulizia etnica, genocidio sono strumenti propri della guerra imperialista. In quella lettura vi sarebbe da un lato uno Stato, speciale per ferocia, dall’altro un “popolo intero e unito” che “resiste”, con o senza armi. Si tratterebbe di un unicum, non di una tappa del capitalismo verso la terza guerra imperialista mondiale. Dei partiti che dominavano e dominano a Gaza, della sua società, dei loro legami con le potenze imperialiste quasi non si parla.
Come sempre l’opportunismo cerca di sgusciare come un’anguilla saltando da una giustificazione a un’altra per non essere inchiodato ai reali fatti sociali.
A Gaza la popolazione, soprattutto il proletariato, che – come sempre in pace e in guerra – soffre più delle altre classi sociali, cerca disperatamente di sopravvivere. “Resistenza” sarebbe “sopravvivenza”? Certo che no, per i suoi sostenitori! “Resistenza” dovrebbe essere una qualche azione politica delle masse, pacifica o armata. Ma né il “popolo” in generale né il proletariato nello specifico a Gaza sono armati. Hamas si è sempre ben guardata dal dare le armi alle masse proletarie perché queste masse le avrebbero usate contro quel partito reazionario e anti-proletario.
Infatti le uniche manifestazioni pacifiche di massa in 24 mesi di guerra sono state contro Hamas – “Hamas barra barra!”, cioè “Hamas fuori fuori!” vi si gridava fra marzo e aprile scorso – per la pace, ossia per la resa. La “resistenza” del proletariato di Gaza è stata contro Hamas. È stato coraggioso e sano disfattismo di classe.
I circa 20 mila miliziani di Hamas sono un corpo separato, meglio pagato e 
contrapposto al proletariato, come ogni polizia in ogni regime capitalista. A 
più riprese, negli anni prima di questa ultima guerra, hanno represso 
manifestazioni di protesta e perseguito oppositori politici e sindacali. È stato 
Hamas ad abolire il Primo Maggio a Gaza.
Con l’avanzata dell’esercito israeliano e il suo indebolimento sono iniziati 
scontri armati fra le famiglie borghesi dominanti nella Striscia, che per anni 
hanno avallato o subìto il suo dominio e che ora iniziano a uscire allo scoperto 
in vista dei nuovi equilibri di potere che potranno determinarsi.
Una conferma della divisione in classi della società gazawa e di come la borghesia tragga profitti sul proletariato anche nella disperata situazione in cui si trova oggi è la dichiarazione di Sheikh Ihsan Ibrahim Ashour, Muftì della provincia di Khan Yunis, del 5 ottobre: «Nel nome di Dio… Ai miei cari fratelli proprietari terrieri nelle zone di sfollamento… A coloro che governano il Paese… Alcuni proprietari terrieri avidi nelle zone di sfollamento hanno approfittato degli sfollati, affittando loro appezzamenti di terreno per piantare le loro tende a prezzi esorbitanti, che hanno svuotato le loro tasche già vuote e hanno tormentato le loro anime già afflitte… Questo fenomeno è aumentato in questi giorni difficili… il loro comportamento è forse diverso da quello degli agricoltori sfruttatori, dei commercianti monopolisti esagerati, degli usurai, e dei briganti che seminano il caos sulla terra, dei criminali e dei truffatori?» (https://t.me/hamza20300/381465).
Il prete islamico naturalmente si appella alle autorità borghesi e al buon cuore delle famiglie abbienti, ma deve dar sfogo alla rabbia dei proletari, evidentemente.
Alcuni giorni prima, il 29 settembre, una parte del clan dei beduini Tabarin, ha organizzato una dimostrazione nel centro della Striscia con una cinquantina uomini di armati contro l’uccisione da parte di Hamas di un loro membro, funzionario responsabile della sicurezza dei convogli di generi alimentari che entrano nella Striscia attraverso il valico di Kisufim, poco a Nord di Khan Yunis (https://t.me/hamza20300/379573).
A Gaza quindi a essere armate sono le milizie dei partiti e dei clan borghesi 
che sfruttano e opprimono il proletariato, alcune delle quali non disdegnano di 
trattare con Israele, come d’altronde ha fatto per anni la stessa Hamas.
A Gaza non c’è il popolo unito in lotta contro l’occupante straniero ma il 
proletariato oppresso dalla borghesia propria e da quella israeliana, che si 
fanno la guerra per conto delle varie borghesie regionali e mondiali sulla pelle 
dei proletari, entrambe interessate e complici del loro massacro e sterminio. 
Come noto, buona parte della borghesia di Gaza vive all’estero e da lì decide 
cosa debbono fare le milizie locali.
Anche in Cisgiordania, nonostante si stia assistendo al più grande martirio della popolazione palestinese dalla fondazione dello Stato di Israele nel 1948, non vi è stata una reazione delle “masse popolari” a sostegno della resistenza, nulla che possa ricordare né la prima né la, più piccola, seconda Intifada. I sostenitori in occidente della fantomatica “resistenza palestinese” fingono di ignorare questo fatto storico di enorme importanza. Come spiegarlo? La repressione israeliana? Certo, ma c’era anche, violentissima, nel 1987 e nel 2000! La contrapposizione fra Fatah e Hamas? Certo, ma Fatah è profondamente screditato in Cisgiordania.
Decisivo è che i proletari in Cisgiordania, come a Gaza, non confidano più per la loro difesa nella liberazione nazionale, pur riconoscendo essere ancora una nazionalità oppressa, perché capiscono che l’oppressione che subiscono dalla borghesia palestinese non è, né potrebbe essere, migliore di quella dalla borghesia israeliana. La questione di classe trascende ormai la questione nazionale.
Manca loro il partito comunista internazionale che dia la prospettiva della lotta sociale, della lotta di classe, in alleanza col proletariato di tutta l’area, compreso quello d’Israele, ciascuno innanzitutto contro la propria borghesia. Questa è l’unica strada per la emancipazione sociale dei palestinesi, e la fine dell’oppressione nazionale.
Al di fuori di questa prospettiva i proletari palestinesi sono una sovrappopolazione sempre più inutile per il capitalismo, mano a mano che la sua crisi economica avanza e che la terza guerra imperialista mondiale si approssima. Nessuno li vuole: né l’Egitto, che ha chiuso dal 1980 la Striscia di Gaza più di quanto non abbia fatto Israele, che, prima del 7 ottobre, almeno faceva entrare 15 mila proletari gazawi al giorno per essere sfruttati; nemmeno lì vogliono gli altri paesi arabi; laddove sono storicamente presenti come profughi, da 4 generazioni, in Giordania, Siria e Libano, sono discriminati in modo analogo e persino peggiore degli arabo-palestinesi cittadini d’Israele!
La loro condizione somiglia sempre più paradossalmente a quella degli ebrei in Europa centrale negli anni ‘30 e durante la seconda guerra mondiale: tutti gli Stati sapevano ma a tutti conveniva il “lavoro sporco” fatto dal Partito Nazionalsocialista e la persecuzione contro gli ebrei, perché utile a stabilizzare sul piano sociale il capitalismo tedesco, cioè a ostacolare la rivoluzione mondiale in preparazione della guerra. Finito quel più grande massacro conosciuto dalla storia – finora – e consumatosi il genocidio degli ebrei, gli Stati borghesi vincitori hanno speculato sulla tragedia, presentandosi come salvatori e, soprattutto, presentando questo olocausto del proletariato mondiale come una guerra giusta, invece che imperialista da entrambi i lati.
A Gaza dunque non è in atto lo sterminio di un popolo che resiste da parte di uno Stato ma una guerra fra due catene di potenze capitaliste in cui sono sterminati i gazawi. L’asimmetria delle forze militari e delle vittime non deve ingannare e l’atroce barbarie non deve accecare. A trattare da mesi con Israele è Hamas, con tutte le potenze dell’area. Da mesi decidono che la guerra deve continuare e con essa lo sterminio.
* * *
Ora gli Stati borghesi più noti sostenitori di Hamas, quali Qatar e Turchia, 
pare abbiano trovato un accordo, a comando dell’imperialismo USA, e intimano ad 
Hamas di accettare la tregua.
Resta escluso, e vittima di questo accordo l’Iran. Evidentemente gli USA hanno 
promesso di dare in pasto a Qatar e Turchia importanti bocconi di profitto, a 
cominciare dalla Siria, in cambio di un abbandono di Hamas, o di un sua messa in 
riga, in vista di un ulteriore attacco e ridimensionamento dell’imperialismo 
iraniano nel futuro prossimo, ben voluto da tutte queste bande borghesi.
Le immagini quotidiane di due anni di guerra a Gaza e l’evidenza che le “soluzioni” proposte dai vari Stati borghesi sono orientate a vantaggio di cerchie di militaristi hanno fatto credere che un rimedio immediato fosse sabotare l’industria degli armamenti.
“Palestine Action”, gruppo formato più di cinque anni fa, nel luglio 2020 imbrattò di vernice gli uffici della società israeliana Elbit Systems a Londra, e da allora ha inscenato di queste azioni, a volte in collaborazione con gruppi ambientalisti e animalisti, contro una serie di altri produttori di armi e associati.
Quando la risposta di Israele all’incursione armata di Hamas nell’ottobre 2023 è diventata sempre più sproporzionata, il gruppo si è fortemente impegnato in manifestazioni filopalestinesi. A giugno ha danneggiato due aerei cisterna nella base RAF di Brize Norton spruzzando vernice rossa nei motori. Palestine Action intende “prevenire il genocidio e i crimini di guerra della borghesia britannica che continua a inviare carichi militari, a far volare aerei spia su Gaza e a rifornire di carburante i jet da combattimento statunitensi e israeliani”.
Il governo è allora ricorso al Terrorism Act del 2000 per definire Palestine Action gruppo terroristico, rendendo reato appartenere all’organizzazione, raccogliere fondi per essa o “esprime un’opinione o una convinzione a sostegno”. Ma il governo continua ad arrestare tutti coloro che violano anche le clausole più innocue della draconiana legislazione antiterrorismo. Gli arrestati durante le numerose e crescenti manifestazioni indette a sostegno di Palestine Action sono ormai nell’ordine delle migliaia. Questo ha però attirato ancora più manifestanti, molti nella terza età o semplicemente indignati, mentre si sbugiarda il mito della democrazia e della libertà di parola. Molti dei manifestanti non corrispondono all’immagine tipica del giovane anarcoide arrabbiato, forse segno della crisi che colpisce i pensionati e la classe impiegatizia e media, che sentono sempre più il terreno crollare sotto i piedi.
Il governo tanto cerca di reprimere le proteste quanto di fare il lavaggio del cervello alla “opinione pubblica” con una campagna di disinformazione, confondendo antisemitismo con antisionismo o solo opposizione alla politica del governo israeliano di Lebensraum, di annessione dei territori occupati.
Il nuovo ministro dell’Interno Shaaban Mahmood il 5 ottobre ha consentito alla polizia di proibire “proteste ripetute” o di vietarle senz’altro.
Ma la ideologia che informa questi gruppi pacifisti si concentra solo sull’aspetto tecnico della guerra ignorando la sua base economica e sociale: il “popolo” oppresso dal “sistema” invece che la classe operaia oppressa dal capitalismo. Non è solo l’industria delle armi a svolgere un ruolo cruciale per il sistema capitalista.
In questa visione ristretta le considerazioni sociali sono ignorate e passano in primo piano quelle nazionali: sostenere la “Palestina contro Israele”, con le parole o con le armi? E, conseguentemente, correre all’ufficio di reclutamento della tua nazione in nome di una immaginaria giustizia futura.
La vera forza che rovescerà il capitalismo, e con esso l’industria degli 
armamenti, risiede nella sempre maggiore consapevolezza dei lavoratori di tutto 
il mondo che tutte le guerre sono contro la classe operaia; che in tempo di pace 
e di guerra la lotta deve continuare per difendere e migliorare i salari e le 
condizioni di lavoro, e che il nemico è sempre in casa nostra, nelle classi 
dominanti.
La guerra in Ucraina continua ormai da più di tre anni e appare sempre più evidente come non sia destinata a finire con un accordo di pace ma ad ampliarsi in un conflitto più largo e letale.
La Russia negli ultimi mesi sta raccogliendo i frutti del complesso adattamento della sua economia e delle sue forze armate alla conduzione di una guerra di lunga durata, con l’utilizzo di grande numero di soldati, di armi e di munizioni, con forte dispendio finanziario.
Il suo apparato industriale è riuscito piuttosto rapidamente a riconvertirsi alla produzione bellica e attualmente, secondo fonti occidentali, è in grado di sfornare sistemi d’arma e munizioni sufficienti per condurre la guerra mantenendo una forte superiorità rispetto all’Ucraina sia per numero di soldati mobilitati sia per disponibilità di armi e munizioni.
Ma, non essendo una potenza industriale della dimensione della Cina o degli Stati Uniti, queste spese possono essere finanziate solo dall’esportazione di gas e petrolio che, a causa delle sanzioni imposte dagli Stati Uniti e dalla Unione Europea, la Russia è costretta a dirottare in buona parte verso la Cina, l’India e la Turchia, dopo che i tradizionali clienti d’Europa hanno fortemente diminuito le importazioni. Ad agosto l’Unione Europea ha acquistato solo l’8% degli idrocarburi russi, mentre Cina e India rispettivamente il 40% e il 25%; la Turchia, membro della Nato, ne ha importato il 21%. Questa forzata riconversione dei mercati è costata una contrazione del prezzo di petrolio e gas. È possibile quindi che a lungo andare la Russia possa avere dei problemi finanziari.
Riguardo alle esportazioni di armi, altra fonte di introiti per la Russia, l’ultimo rapporto del SIPRI relativo al 2024 ne ha registrato un calo consistente (-64%). Mosca mantiene tuttavia la terza posizione con il 7,8% delle esportazioni globali, scavalcata dalla Francia (9,6%) mentre i primi esportatori al mondo restano gli Stati Uniti (43%). La richiesta di armi per il fronte ucraino e le sanzioni internazionali rendono più difficile per la Russia vendere i suoi sistemi d’arma. In prospettiva però la produzione di tipi d’arma provate in guerra e le aumentate capacità produttive del settore potrebbero invertire questo andamento.
Il presidente Putin, in occasione delle recenti esercitazioni Zapad 2025, ha dichiarato che sul fronte ucraino la Russia ha mobilitato più di 700.000 soldati.
A minacciare la stabilità interna sono le perdite umane, molto alte su ambi i fronti. Il numero preciso è nascosto dai due Stati ma è verosimile che almeno 120 mila soldati russi siano morti e almeno tre volte tanti siano stati feriti. Il governo russo rimpingua le file dell’esercito soprattutto con volontari provenienti dalle regioni economicamente più povere del vasto Paese, assicurando loro buone condizioni economiche e attualmente pare riesca a non inviare al fronte i coscritti. L’Institute for the Study of the War (dichiaratamente schierato con la causa Ucraina) ha rivelato che circa 292.000 volontari si sono arruolati a contratto tra l’inizio del 2025 e il 15 settembre, una media di circa 7.900 reclute a settimana, numeri che risultano in linea con i dati forniti anche da fonti della NATO.
I coscritti invece, arruolati in 160.000 con la leva di primavera, non sono mandati al fronte. Questo ha evitato per adesso un movimento contro la guerra. La maggioranza della popolazione sostiene il governo, anche grazie alle pose “isteriche” degli Stati europei e della Nato, che il regime sfrutta per la sua propaganda: la “Santa Madre Russia”, tradizionale e ortodossa, aggredita dal corrotto e miscredente Occidente che, come nel 1941, torna a riarmarsi.
Le relazioni diplomatiche della Russia, interrotte da parte degli Stati d’Europa, hanno dovuto rafforzarsi con la Cina, un alleato molto più potente economicamente. Rapporti diplomatici “normali” pare siano mantenuti con gli Stati Uniti d’America mentre sembra si stia rafforzando anche la collaborazione con l’India e gli Stati dei BRICS, oltre che con molti Stati dell’Africa, soprattutto sub Sahariana.
Il proletariato di Russia, per quanto ne sappiamo, non pare risentire ancora pesantemente delle conseguenze della guerra. Il tasso di occupazione è aumentato, con le fabbriche di armi che lavorano su tre turni e anche i salari pare siano stati incrementati. Si registra però un vistoso aumento dei prezzi dei generi di prima necessità, probabilmente anche a causa delle sanzioni.
In questa situazione il governo russo non ha fretta di arrivare a un cessate il fuoco senza ottenere i risultati che si è prefissato: acquisizione delle quattro province già annesse per decreto alla Russia, anche se non le ha ancora completamente occupate, e una Ucraina non inserita nella Nato e smilitarizzata.
Il tempo lavora per Mosca, nell’attesa che l’esercito ucraino collassi con un 
cambio di governo a Kiev.
Più complessa la situazione sull’altro lato del fronte. Questa guerra è stata 
provocata dagli Stati Uniti e dalla Nato, che sono andati ad “abbaiare” ai 
confini della Russia, come ha riconosciuto qualche tempo fa, in modo colorito ma 
chiaro, perfino papa Francesco. Ma la stanno combattendo le truppe ucraine, 
armate, addestrate e foraggiate dai Paesi occidentali, soprattutto dagli Stati 
Uniti.
Dopo aver contribuito per anni, fin dal 2014, al rafforzamento e all’epurazione delle Forze armate ucraine, dopo l’invasione russa Washington ha fornito a Kiev la maggior parte degli aiuti in denaro e armi spingendo per una controffensiva per la riconquista di tutti i territori occupati dalla Russia, compresa la Crimea.
Ora gli Stati Uniti, ottenuto il loro obiettivo strategico principale, mettere 
gli uni contro gli altri Russia e Stati d’Europa, vogliono lasciarli combattere 
tra loro in modo da trarre profitto dalle forniture militari (come nelle due 
precedenti guerre mondiali) e concentrare i loro sforzi nel confronto con la 
Cina, il loro vero avversario globale.
Raggiunto quel primo scopo, spezzare i legami finanziari e commerciali degli 
Stati europei con la Russia, gli Stati Uniti hanno pregiudicato l’economia di 
entrambi e riportato a forza gli europei alla disciplina atlantica, diplomatica 
e militare. Gli Stati europei ne stanno pagando le conseguenze politiche e 
sociali. La rottura dei rapporti commerciali con la Russia ha aggravato la crisi 
dell’industria in Germania e in altri Paesi.
L’attentato, finora impunito, contro i gasdotti Nord Stream 1 e 2, ispirato dagli Stati Uniti e portato a termine da un commando ucraino con l’appoggio di Stati della Nato, probabilmente la Gran Bretagna e la Polonia, ha dimostrato chiaramente la sudditanza della Germania agli Stati Uniti, mentre l’economia tedesca andava in recessione. Proprio in questi giorni il capo del governo polacco Tusk ha scritto su X: «Il problema col Nord Stream 2 non è che sia stato fatto saltare in aria: il problema è che sia stato costruito» ribadendo la solidarietà agli Stati Uniti e contro la Germania.
L’intento di indebolire Mosca, spingendola a una guerra aperta utilizzando l’esercito ucraino, pare invece che sia fallito perché l’armata russa, dopo alcuni mesi di arretramenti e necessari adattamenti, è riuscita a fermare la controffensiva ucraina e a passare all’offensiva: attualmente sta premendo sull’intera linea del lungo fronte e in questi anni di guerra le Forze armate di Mosca si sono rafforzate.
Invece l’Ucraina è allo stremo, nelle retrovie e al fronte. Le perdite ucraine sono quasi certamente superiori in numeri assoluti, con una popolazione di 40 milioni (di cui 7/8 milioni fuggiti all’estero) contro i 140 milioni della Russia. Sottoposti all’incessante pressione russa i soldati ormai disertano in gran numero mentre il reclutamento di nuove forze diventa sempre più difficile.
Anche sul fronte finanziario la situazione di Kiev è tragica. «L’Ucraina spende il 31% del suo PIL per la difesa, la quota più alta al mondo», ha affermato la presidente della commissione bilancio del Parlamento ucraino; «un giorno di guerra costa attualmente all’Ucraina 172 milioni di dollari», rispetto ai 140 milioni di un anno fa. A metà settembre il ministro della Difesa ha reso noto che nel 2026 l’Ucraina avrà bisogno di oltre 100 miliardi di euro per finanziare la sua difesa.
Gli Stati Uniti hanno preso atto di questa situazione e, al di là delle altalenanti affermazioni del Presidente Trump, da mesi cercano un accomodamento con Mosca, a spese dell’Ucraina naturalmente. Sono decisi a porre termine all’aiuto finanziario all’Ucraina e a scaricare tutto sui Paesi d’Europa. La diplomazia statunitense prima pare accettare che il Donbass e gli altri territori annessi dal Cremlino passino alla Russia, poi il presidente Trump ha parlato di improbabili “riconquiste”. Dietro certamente si nasconde la lotta per la rapina delle grandi ricchezze dell’Ucraina.
Comunque a farne le spese sarà il governo ucraino per il quale cedere il Donetsk equivarrà a palesare che undici anni di massacro al fronte con centinaia di migliaia di morti sono stati inutili. Non si tratta solo del destino dello screditato governo ucraino e della persona di Zelensky ma della tenuta sociale dell’Ucraina dove la rabbia proletaria per tanti inutili sacrifici potrebbe trasformarsi in rivolta aprendo la strada al collasso dello Stato. Proletari che comprenderanno che non hanno mai avuto nulla da guadagnare nella difesa della integrità nazionale e invece tutto dalla sconfitta del proprio paese.
Il vertice tra USA e Russia tenutosi in Alaska a metà agosto, ha confermato questo atteggiamento di Washington, che non ha alcun interesse a scontrarsi direttamente con Mosca. Le due maggiori potenze nucleari al mondo continuano a procedere di comune accordo su vari importanti fronti, dal Medio Oriente allo sfruttamento delle risorse dell’Artico. Dell’Ucraina si accorderanno per una spartizione amichevole, tenuti gli europei fuori dalla porta.
Le borghesie d’Europa, che hanno investito miliardi di euro nella guerra, adesso saranno escluse anche dal grande affare della ricostruzione. Questo spiega la loro intransigenza verso ogni accordo di pace che violi la “sacra integrità territoriale dell’Ucraina”. Spingono quindi a far proseguire la guerra, provocare centinaia di migliaia di morti, feriti e mutilati e altre immani distruzioni, sulla pelle del proletariato ucraino, di quello russo, e anche di quello d’Europa, che pagherà anch’esso i costi di questa guerra.
Da qui il grande agitarsi del partito trasversale della guerra, rappresentato dai massimi capi europei e dai cosiddetti “Volenterosi”, che ogni giorno scopre una provocazione di Mosca, che paventa probabili imminenti invasioni, che preme per ulteriori sanzioni alla Russia, si propone di aumentare la spesa militare al 5% del PIL, vara un piano di riarmo grandioso quanto velleitario e soffia sul fuoco per impedire ogni accordo, parlando addirittura di inviare truppe sul suolo ucraino.
L’ultimo allarme, dopo quello della Polonia, è stato lanciato dai piccoli Stati baltici che, temendo di perdere gli aiuti militari gratuiti e l’appoggio militare degli Stati Uniti, lanciano allarmismi per presunti sconfinamenti di aerei russi, droni ecc.
La solidarietà internazionalista col proletariato di Ucraina, di Russia, come di 
Palestina e di tutto il Medio Oriente, parte dalla lotta nel proprio paese e 
consiste nel difendere strenuamente le condizioni di vita e di lavoro, nel 
rifiutare la corsa al riarmo e i sacrifici che ne derivano, nel respingere la 
propaganda militarista e patriottica, nell’opporre alla preparazione della 
guerra tra gli Stati, quella della guerra tra le classi.
Il governo statunitense ha voluto dare una dimostrazione della sua potenza militare e di deterrenza nei Caraibi. Sono coinvolte tre navi da guerra e un sottomarino a propulsione nucleare, presenti davanti al Venezuela dall’inizio di agosto, dotati di capacità missilistiche e di spionaggio, insieme ad aerei da pattugliamento e un contingente militare di oltre 4.000 marines.
L’impiego delle forze armate sarebbe contro i cartelli della droga, tra i quali quelli messicani e colombiani, ma anche il cosiddetto “Tren de Aragua” del Venezuela.
Contemporaneamente il procuratore generale degli Stati Uniti ha aumentato a 50 
milioni di dollari la ricompensa per informazioni che portino all’arresto di 
Nicolás Maduro. Il 26 marzo 2020 il Dipartimento di Stato ne aveva offerti 15 
milioni; nel gennaio 2025 l’amministrazione allora di Biden l’aveva aumentata a 
25 milioni.
Ma, mentre da un lato mettono una taglia sulla testa di Maduro dall’altro 
commerciano con il suo governo: sul petrolio (nella prima metà di agosto gli 
Stati Uniti hanno ricevuto 2 navi con petrolio estratto dalla Chevron), sui 
migranti e altro.
L’imperialismo statunitense torna a mandare in onda il suo fantasy sulla lotta 
al narcotraffico, stavolta con uno spiegamento senza precedenti nei Caraibi. 
Eppure la maggior parte dei carichi di droga dal Sud America gli arrivano sulla 
costa del Pacifico.
È noto invece che il vero obiettivo degli Stati Uniti è il controllo del petrolio, del gas e delle altre risorse naturali di alto valore che si trovano nel territorio compreso tra il Golfo del Messico (che ora vogliono chiamare “Golfo dell’America”) e il Venezuela, compreso il territorio dell’Essequibo, conteso con la Guyana.
Sono anche noti i movimenti militari degli Stati Uniti, coordinati con vari paesi della regione, in atto da tempo ma che stanno ricevendo nuova risonanza.
Il governo venezuelano si scalmana in imprecazioni e grida e invoca l’“anti-imperialismo”, ma cinicamente rinnova patti, accordi, alleanze e affari sia con la borghesia locale sia con le multinazionali, garantendo loro manodopera a basso costo e pace sul lavoro mantenuta dal binomio repressione statale - sindacati filo-padronali.
Il copione prevede l’appello all’unità nazionale contro il nemico esterno. Copione condiviso della maggior parte dei partiti dell’opposizione, di destra e di sinistra, che sventolano le bandiere della difesa della patria. Le centrali sindacali del regime chiedono ai lavoratori di mettere da parte le loro rivendicazioni, perché prima viene la patria. Il chavismo arringa chi “vende la patria” per perseguitare i suoi oppositori e dissidenti e per stordire con minacce e ricatti il movimento operaio.
Proprio come i “gringos” mettono in scena il loro spettacolo di dispiegamento militare, così fa il governo borghese venezuelano. Il 18 agosto il presidente Maduro ha annunciato il dispiegamento di 4,5 milioni di miliziani in risposta alle “minacce” degli Stati Uniti. La Milizia, composta da circa 5 milioni di riservisti, secondo dati ufficiali dubbi, fu creata dall’ex presidente Hugo Chávez. Successivamente divenne una delle cinque Armi delle Forze Nazionali Bolivariane (FANB). Si chiese alle strutture di base dello Stato di formare milizie contadine e operaie “in tutte le fabbriche”. “Fucili e missili per la forza contadina! Per difendere il territorio, la sovranità e la pace del Venezuela”, fu detto, “Missili e fucili per la classe operaia, affinché difenda la nostra patria”, ha aggiunto Maduro.
Per il 23 agosto Maduro ha annunciato la convocazione di una giornata di arruolamento delle “forze di milizia”, che si sarebbe svolta nelle sedi delle caserme, nelle unità militari, nelle piazze pubbliche, nelle piazze Bolivar e nelle sedi delle Basi Popolari di Difesa Integrale. Questa giornata è stata ripetuta il 30 e il 31 agosto. Inizierebbe l’addestramento militare di altri 8,5 milioni di miliziani in un arruolamento permanente. Anche se queste cifre sono controverse, molti lavoratori del settore pubblico sono stati costretti ad arruolarsi come “miliziani”.
Il governo mette in scena questo spettacolo demagogico, approfittando delle smargiassate statunitensi, per diffondere discorsi patriottici e cercare di allontanare le masse salariate dal loro malcontento e dalle motivazioni della lotta di classe. Il corpo delle milizie venezuelane è un contingente mal armato (per non dire disarmato) al quale hanno aderito dei disoccupati e degli anziani alla ricerca di qualche briciola che li aiuti a sopravvivere, deputato alla protezione delle istituzioni e in altri compiti che non implicano lo scontro fisico, il combattimento o l’uso di armi. Ma con questi annunci si riempiono i titoli nella guerra di bugie che si svolge sui media e sui social network.
Non sono mancati gruppi e partiti “di sinistra” che hanno sostenuto l’arruolamento di Maduro, l’appello a farsi “patrioti e anti-imperialisti”, sottomessi alla borghesia, avversi alla lotta di classe e pronti a schierarsi per la controrivoluzione.
Il movimento operaio deve reagire con una posizione di classe, al di fuori della trama di questa narrazione borghese e imperialista. In Venezuela, come in tutti i paesi, la classe operaia non deve lottare contro l’invasione di un esercito di un altro Stato borghese, al fianco del governo borghese. Questo, che la chiama ad arruolarsi nelle milizie partigiane, è sempre contro di essa: è il suo primo nemico. La lotta della classe operaia, finché non conquista il potere politico, non è militare ma sociale, in difesa del salario e di migliori condizioni di vita, ed è anche lotta politica, per sconfiggere il potere della borghesia, non importa se questa ostenta un ruolo nazionale o sottomessa a una potenza straniera.
Nessuna alleanza con la borghesia né unità per la difesa della patria. Il movimento operaio deve avanzare nella sua organizzazione per la lotta contro i capitalisti (pubblici e privati), per un aumento significativo dei salari e delle pensioni e per la riduzione dell’orario di lavoro. L’appello all’unità nazionale e alla difesa della patria sottomette la classe operaia al controllo della borghesia e dei suoi partiti. La classe operaia non ha patria.
Nessuna alleanza con l’imperialismo. Né quello americano, né quello russo, né quello cinese, né nessun altro. Non si può affrontare l’imperialismo americano e avere come amici i governi e le imprese della Cina, della Russia o di qualsiasi altra potenza capitalista. Tutti gli Stati capitalisti sono nemici del proletariato.
Promuovere lo sciopero generale. Tutte le lotte rivendicative dei lavoratori devono confluire nello sciopero generale, che deve essere a tempo indeterminato e senza servizi minimi e deve coinvolgere i lavoratori del settore pubblico e del settore privato.
Ricostituire i sindacati di classe, vere organizzazioni di lotta. Superare la 
divisione dei lavoratori in base alla nazionalità, professione, credo religioso, 
sesso o colore della pelle. Recuperare le assemblee e l’organizzazione di base. 
Organizzazione sindacale basata sul territorio e non sul luogo di lavoro, 
coinvolgendo i disoccupati e i pensionati.
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Il crollo del sistema dei petrodollari, combinato col monopolio petrolifero, direttamente controllato dalla finanza statunitense e non dipendente da un sub-imperialismo arabo, ha spostato in modo significativo la posizione strategica del capitale statunitense, che dal 2018 si sforza di contenere e soffocare il blocco imperialista emergente incentrato sulla Cina attraverso una complessa serie di manovre di divide et impera. Tuttavia, gli strumenti utilizzati oggi dagli Stati Uniti non sono diversi da quelli impiegati in quasi un secolo di egemonia imperiale.
L’aumento dei debiti, fondamentali per l’imperialismo e per l’accumulo di profitti, si scontra con il calo del PIL. Alla fine si accelera il pagamento degli interessi per continuare a vendere debiti, il che non fa che aggravare il problema, portando all’inevitabile default e alla potenziale esplosione di una guerra. Così, sia gli Stati Uniti sia la Cina si preparano al default finanziario e alla guerra.
I metodi con cui la Cina e gli Stati Uniti sono stati costretti a salvarsi dalla crisi finanziaria del 2008, dopo il crollo dei mercati dei mutui subprime e della banca d’investimento Lehman Brothers, rendono inevitabile un’altra crisi finanziaria mondiale. Dopo il 2008 c’è stato un forte aumento del debito societario globale, che è passato dall’84% del prodotto mondiale lordo nel 2009 al 92% nel 2019. Nel 2019 il debito globale era superiore del 50% rispetto a quello registrato durante la crisi finanziaria del 2008. Ciò ha creato una situazione in cui qualsiasi significativa recessione economica espone al rischio di insolvenza le aziende con livelli elevati di indebitamento. L’eccessivo accumulo di capitale ha portato alla formazione di bolle speculative nel settore immobiliare, tecnologico e delle obbligazioni societarie, senza sbocchi redditizi.
Nel 2017 la crescita globale ha raggiunto il massimo, l’anno successivo la produzione industriale ha subito un calo sostenuto, portando il FMI ad affermare che entro il 2019 l’economia mondiale avrebbe attraversato un “rallentamento sincronizzato”, nonostante i bassi tassi di interesse, alimentando i timori di una “bomba del debito” ogni volta che un’altra inevitabile crisi economica fosse scoppiata. Tutti i segnali di una grave crisi erano quindi già presenti.
Nel 2018 la prima amministrazione Trump annunciava la sua prima serie di dazi e barriere commerciali nei confronti della Cina. I dazi colpivano in modo sproporzionato i settori in linea con la politica industriale Made in China 2025 del PCC: semiconduttori, robotica, aerospaziale, biotecnologie, ecc. L’obiettivo non era un commercio equo, ma la soppressione strategica dello sviluppo cinese nella produzione ad alto valore aggiunto. Nonostante la retorica nazionalista, l’imperialismo statunitense ha utilizzato i dazi come leva per costringere la Cina ad aprire i suoi mercati e consentire un maggiore accesso alla finanza statunitense per continuare a estrarre super profitti e contenere la forza crescente della finanza cinese. L’obiettivo reale era costringere ad allentare le restrizioni sulla proprietà straniera di banche e compagnie di assicurazione e rafforzare l’applicazione dei diritti di proprietà intellettuale per proteggere i monopoli statunitensi. I dazi hanno contribuito a creare una crisi artificiale per giustificare i sussidi industriali come il CHIPS Act di Biden, i divieti di esportazione per motivi di sicurezza nazionale (su semiconduttori, intelligenza artificiale) e l’intervento diretto dello Stato nei flussi di capitale e nelle catene di approvvigionamento.
I dazi invece hanno accelerato il rallentamento del commercio e della produzione globale. Si sono ridotti i profitti industriali e soffocato la domanda di investimenti. Il capitale è confluito sempre più in forme speculative e fittizie (immobili, azioni, obbligazioni societarie), portando a bolle speculative e strutture finanziarie instabili.
Il panico sul mercato dei pronti contro termine nel settembre 2019 è stato il primo segnale di allarme, quando il sistema di prestiti interbancari statunitense si è bloccato, costringendo la Federal Reserve, mesi prima del COVID, a iniettare centinaia di miliardi di liquidità. La pandemia non ha causato la crisi, ha piuttosto fatto da catalizzatore e da cortina fumogena, consentendo alla classe dominante di scaricare la colpa su di essa, giustificare l’accumulo di debiti enormi e finanziare l’ulteriore consolidamento dei grandi monopoli finanziari, il tutto immobilizzando la classe operaia attraverso la paura, la confusione e le politiche di emergenza.
Il crollo del 2020 sarebbe stato il peggiore dalla Grande Depressione, con i principali indici che hanno perso dal 20 al 30% tra la fine di febbraio e marzo. Dopo il crollo dei mercati azionari globali, la domanda di merci è crollata e milioni di piccole imprese e lavoratori ne sono stati travolti. Eppure, quasi immediatamente, le più grandi società hanno ripreso slancio, alcune raggiungendo profitti record entro la fine dello stesso anno. Non si è trattato di una ripresa guidata dalla produzione, dall’innovazione o dall’aumento della domanda, ma un trasferimento di ricchezza e potere orchestrato dallo Stato a favore del capitale monopolistico, con i giganti della tecnologia Amazon, Apple, Google, Microsoft e Facebook (Meta) che hanno rafforzato la loro posizione dominante in ogni settore, con decine di migliaia di piccoli e medi rivenditori che hanno chiuso definitivamente i battenti mentre Walmart, Target, Home Depot e altri ampliavano la loro quota di mercato, con gestori patrimoniali come BlackRock e Vanguard che hanno aumentato le loro partecipazioni in quasi tutte le principali società.
L’iniezione di centinaia di miliardi di dollari, combinata con i dazi di Trump, avrebbe fatto crollare il valore del dollaro nel 2020 del 10-20% e alla fine avrebbe preparato il terreno per l’attuale crisi finanziaria e immobiliare cinese, proprio come era stato fatto contro il Giappone nel 1985. Come Nixon aveva aspettato che la situazione di crisi si sviluppasse negli anni ’70 per imporre le proprie politiche ai propri arroganti protetti europei e giapponesi, la borghesia statunitense avrebbe fatto lo stesso, anche se fosse stata costretta ad applicare alcune misure di iniezione di capitale per evitare una corsa alle banche.
Il COVID è servito come comoda copertura per una strategia di svalutazione del dollaro e di imposizione di dazi. A pochi giorni dal crollo di marzo, la Federal Reserve ha abbassato i tassi di interesse a zero e avviato un quantitative easing da 700 miliardi di dollari. L’afflusso di liquidità ha portato a un surriscaldamento dell’economia e, alla fine, a un’inflazione su larga scala, che ha sollecitato una reazione difensiva dei lavoratori e una proliferazione degli scioperi. I titoli hanno iniziato a risalire e il PIL della maggior parte delle principali economie entro aprile è tornato o ha superato i livelli pre-pandemia.
La politica di lockdown della Cina ha anche permesso un maggiore intervento dello Stato nell’organizzazione delle catene di approvvigionamento per mitigare gli effetti della crisi finanziaria. Nel secondo trimestre del 2020, le fabbriche cinesi erano in gran parte tornate operative, mentre le industrie statunitensi ed europee rimanevano chiuse e la maggiore domanda di forniture mediche garantiva che grandi profitti continuassero ad affluire nel Paese. Le rigide regole di lockdown cinesi, con il pretesto del contenimento della pandemia, hanno permesso al capitale di reindirizzare la produzione verso i mercati globali senza surriscaldare la domanda interna, e di mantenere una maggiore disciplina del lavoro, riducendo la combattività dei lavoratori e la pressione salariale nel breve termine.
Nel 2020 il PIL cinese si è contratto del 6,8% su base annua, il primo calo ufficialmente registrato dal 1976. La produzione industriale è diminuita del 13,5% e le vendite al dettaglio sono calate del 20,5%, poiché i lockdown hanno paralizzato l’economia interna. Lo Stato ha fatto ricorso al suo meccanismo di stimolo predefinito: la spesa per le infrastrutture e l’edilizia. Con il lockdown delle economie occidentali, la domanda globale di prodotti medici cinesi è aumentata. Il surplus commerciale della Cina ha raggiunto un livello record, alimentando la ripresa della produzione industriale. Con la fuga dei capitali dal dollaro statunitense e l’afflusso verso il sistema finanziario relativamente stabile della Cina, alla fine del 2020 il renminbi si è apprezzato di oltre il 6% rispetto al dollaro. La Banca popolare cinese è intervenuta sui mercati valutari, riducendo i requisiti di riserva e acquistando indirettamente dollari per arginare l’aumento, utilizzando gli stessi metodi utilizzati dal Giappone negli anni ’70 e ’80 per combattere l’apprezzamento della propria valuta.
La massiccia espansione del credito ai costruttori dopo il 2020 ha gettato le basi della crisi di Evergrande nel 2021-23, quando l’azienda è stata incapace di onorare 300 miliardi di dollari di debiti. Il crollo dei prezzi e delle vendite nel 2021-23 ha avuto ripercussioni sul settore bancario, sul patrimonio delle famiglie e sui governi locali. Gli stimoli hanno creato un eccesso di capacità nel settore immobiliare, delle infrastrutture e del capitale industriale, una caratteristica classica delle crisi capitalistiche.
Il crollo di Evergrande nel 2021 ha innescato una crisi di liquidità, che ha portato al default di oltre 50 costruttori e causato un forte calo delle vendite immobiliari. Le vendite di case di nuova costruzione sono diminuite del 6% nel 2023, tornando a livelli del 2016. I prezzi delle case sono crollati di circa il 30%, con una perdita di circa 18.000 miliardi di dollari di ricchezza delle famiglie. Gli investimenti diretti esteri in Cina hanno registrato un calo significativo, con una flessione del 94% nel secondo trimestre del 2023 rispetto allo stesso periodo del 2021. Non è chiaro dove i governi locali indebitati potranno ottenere finanziamenti, al di là degli importi relativamente modesti che la Banca Popolare cinese può convogliare attraverso le banche statali. Le città cinesi hanno già accumulato circa 15.000 miliardi di dollari di debiti, gran parte dei quali nascosti nel settore immobiliare, avendo contratto ingenti prestiti negli ultimi anni per coprire i costi delle spese legate alla pandemia e ai progetti infrastrutturali.
Ciò significa che la Cina ha sempre più bisogno di capitali stranieri per scongiurare la crescente crisi del debito che rischia di far crollare il settore finanziario e bancario. Si capisce quindi che le attuali politiche di guerra commerciale mirano ad aumentare la pressione sul capitale cinese danneggiandone i profitti industriali, esacerbando la crisi attuale per costringere la Cina ad aprire ulteriormente la sua finanza alla penetrazione del capitale statunitense.
L’accordo di Mar-A-Lago è un documento che delinea la strategia generale che l’imperialismo statunitense intende seguire nei prossimi anni, redatto da Stephen Miran, attuale presidente del Consiglio dei consulenti economici della Casa Bianca, e sostenuto da Scott Bessent, attuale segretario al Tesoro. Si basa essenzialmente sulle precedenti tattiche dell’imperialismo statunitense attuate dalla fine del sistema di Bretton Woods. È una mossa per fare all’industria cinese ciò che fu fatto a quella tedesca e giapponese alla fine del XX secolo. Però, data la diminuita potenza degli Stati Uniti, non sarà più in grado di costringere questi governi ad accettare un tale “accordo volontario” senza combattere, come nel secolo scorso.
I capitalisti statunitensi, mentre ancora brigano per penetrare nel settore finanziario cinese, minacciano l’opzione nucleare. Il bluff, se non riesce, rischia di annullare la supremazia americana, una mossa disperata, che si svolgerà in fasi che corrispondono ampiamente agli atteggiamenti iniziali dell’attuale amministrazione, che considera perfino dei ripetuti crolli economici come danni collaterali necessari.
L’accordo di Mar-A-Lago prevede una svalutazione del dollaro tramite 
l’apprezzamento delle altre valute, come avvenne sotto Nixon, quando tolse gli 
Stati Uniti dal gold standard, e poi di nuovo con l’accordo del Plaza del 1985. 
Il dollaro verrebbe quindi riallineato all’oro o alle criptovalute, controllando 
al contempo quali paesi sarebbero autorizzati o meno a detenere riserve in 
dollari grazie all’ausilio delle nuove tecniche di sorveglianza elettronica.
L’obiettivo è chiaro: mettere ulteriormente in crisi la finanza e l’industria 
cinesi, che dipendono ancora dalle esportazioni negli Stati Uniti e hanno un 
disperato bisogno di capitali per evitare una crisi bancaria catastrofica.
Minacciano di orchestrare un blocco globale delle esportazioni della Cina tagliandola fuori dall’accesso al dollaro, pur preservando il suo status di mezzo di scambio globale. Per sottomettere l’imperialismo cinese, sempre più indebitato, l’imperialismo statunitense, anch’esso sempre più indebitato, deve essenzialmente dichiarare nuovamente il default sui propri prestiti, sfruttando la potenza militare per costringere gli altri imperialismi ad accettare una accentuata subordinazione finanziaria, mentre le Corporations finanziarie statunitensi continuano il loro consolidamento e la loro espansione nel mondo.
Nonostante sia iniziato in Russia, il movimento verso la de-dollarizzazione ha in realtà fatto solo i primi passi nel resto del mondo, e persino all’interno del blocco dei paesi dipendenti dall’imperialismo cinese. Gli Stati Uniti detengono ancora circa il 50-60% delle riserve valutarie mondiali e nessun’altra valuta è attualmente in grado di sostituirle. Tuttavia i colloqui tra i paesi del BRICS su una valuta alternativa spaventano l’imperialismo statunitense.
Riconoscendo la crescente sfida al dollaro come valuta di riserva mondiale, anche a seguito del declino del sistema di riciclaggio dei petrodollari, il piano mira a mantenere il ruolo dominante del capitale finanziario degli Stati Uniti sfruttando la potenza militare per spingere i capitalisti degli altri paesi verso obbligazioni del Tesoro a 100 anni non negoziabili. Per costringere i capitalisti stranieri ad accettare questo accordo è prevista l’introduzione di un periodo di dazi severi, combinati con alti tassi di interesse per ridurre l’inflazione. Allo stesso tempo si chiede al Segretario al Tesoro di applicare una tassa minima dell’1% sugli interessi pagati ai governi stranieri che detengono titoli del Tesoro, da variare in modo punitivo in base al rispetto delle imposizioni statunitensi. Questo, combinato con la minaccia di ritirare le forze armate e parallelamente a negoziati per il ritorno a dazi più bassi, dovrebbe riuscire ad imporre un accordo sulla rivalutazione delle monete e sullo scambio “volontario” dei titoli obbligazionari in corso con quelli a 100 anni.
Morto il sistema dei petrodollari, la borghesia statunitense guarda indietro per svalutare la moneta a proprio vantaggio, forte delle proprie riserve auree, mantenendo il dollaro come valuta di riserva globale. I paesi BRICS nel loro insieme detengono ufficialmente 5.700 tonnellate di riserve auree, il 16% dell’oro esistente a livello mondiale, e le hanno aumentate drasticamente negli ultimi anni. Goldman Sachs ritiene che la Cina abbia acquistato 10 volte più oro di quanto dichiarato ufficialmente. Supponendo che i paesi BRICS emettano una moneta digitale sostenuta dall’oro, con costi di transazione e problemi di cambio inferiori, ciò potrebbe significare miliardi di dollari di profitti per quelle borghesie. A ciò si aggiunge il fatto che la Cina detiene l’80% dei minerali rari del mondo, come germanio, gallio, litio, ecc., e la Russia è una riserva di materie prime, dai metalli ai combustibili fossili all’agricoltura. Tuttavia il possesso dell’oro è ancora sbilanciato a favore dei paesi del G7, che insieme ne detengono 17.500 tonnellate, il 49% delle riserve mondiali. L’impennata del prezzo dell’oro rende oggi più difficile per i paesi BRICS accrescere le loro riserve.
Assistiamo quindi a una corsa globale in classico stile imperialista per il controllo diretto delle materie prime e dell’oro, mentre i blocchi finanziari si affrettano a costituire le loro riserve per garantirsi il dominio dei loro sistemi monetari sul commercio mondiale, in un contesto di corsa agli armamenti e di guerra attiva tra i sub-imperialismi. Le centrali della finanza continuano a cercare il dominio totale del mondo.
Trump afferma, proprio come fece Nixon, di attuare politiche in difesa dei 
problemi interni degli Stati Uniti e per evitare la guerra mondiale. In realtà 
gli astuti borghesi di tutti i paesi cercano di manipolare le leve dell’economia 
e degli eserciti nella difesa dei loro interessi egoistici di classe, mentre 
tutto il loro regime continua a gettarsi a velocità crescente verso la 
catastrofe.
|  | Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale | 
La borghesia sa bene che le masse proletarie non vogliono la guerra e le grandissime manifestazioni di queste ultime settimane in Italia contro il genocidio a Gaza lo confermano con ogni evidenza.
* * *
I regimi borghesi definiscono “esistenziale” ogni loro conflitto per convincere i lavoratori ad accettare il rischio del sacrificio della loro stessa vita, come se essa dipendesse dall’esistenza del regime di classe che li opprime.
E in effetti è vero: la guerra è una lotta esistenziale per ogni borghesia. Ma non perché se sconfitta dalla borghesia avversaria essa perirà. Al contrario, solo perderebbe una quota di profitti, ma resterà sempre classe privilegiata, dominante sulla classe operaia. Continuerà i suoi affari, col privilegio di godere appieno dello sfruttamento della sua porzione del proletariato mondiale. La guerra è esistenziale per ogni borghesia per ben altra ragione: se non riuscirà a convincere e a tradurre i proletari al fronte a massacrarsi coi fratelli di classe in divisa di un altro paese, sarà essa a essere soppressa dalla rivoluzione dei proletari.
La borghesia ha presto imparato a volgere il generoso bisogno di pace dei lavoratori ai fini della sua guerra. Per questo in ogni paese cerca di non apparire come l’aggressore ma l’aggredita. La guerra è sempre fatta in nome della pace, messa in pericolo dall’avversario guerrafondaio. E nemico è sempre un regime peggiore, un’anomalia nella democrazia borghese, una follia, un fascismo.
Quel fascismo, quella guerra, quella follia, sono invece propri del corso naturale del capitalismo, anzi, ne esprimono la sua natura più intima. La guerra matura nel sottosuolo economico della società capitalistica, e il fascismo è il contenuto dei regimi borghesi, che si palesa sempre più col progressivo precipitarsi in essa.
Il regime, il Capo di Stato, l’ideologia eccezionalmente folli e malvagi del nemico fanno comodo a tutte le borghesie, perché giustificano il conflitto, preparano la guerra in “difesa della pace”, della democrazia, della patria. Questi concetti sono ben espressi dalla canzonetta italiana più in voga nelle marce in cui l’opportunismo ancora fa da padrone: “Una mattina mi son svegliata e ho trovato l’invasor...”. Difesa della patria e liberazione da fascismo fanno di una guerra imperialista una guerra giusta, per la quale il proletariato può, anzi deve combattere e offrire la vita.
* * *
Campo di battaglia fondamentale fra il comunismo rivoluzionario e l’opportunismo è il movimento sindacale.
In Italia il movimento contro la guerra a Gaza, che per mesi ha espresso manifestazioni di dimensioni modeste, ha avuto uno sviluppo notevolissimo da fine agosto. Uno dei fattori di tale repentina crescita sono stati i sindacati di base, in particolare l’USB, che per il 22 settembre ha proclamato uno sciopero generale insieme a CUB, SGB e ADL Cobas.
I portuali genovesi dell’USB si erano già impegnati in azioni contro il carico di armi e successivamente in una raccolta di alimenti promossa da una associazione pacifista genovese, poi in parte caricati su barche a vela – su cui è partito anche il Coordinatore nazionale dei portuali di USB – che si sono unite ad altre provenienti dalla Spagna, dalla Tunisia e dalla Grecia con l’obiettivo di portare gli aiuti a Gaza “rompendo il blocco navale”. La raccolta di alimenti ha riscosso una grandissima partecipazione da parte della popolazione genovese, e così pure la manifestazione svoltasi la sera di sabato 30 agosto per salutare le barche che salpavano.
Al termine della manifestazione, con circa 25 mila partecipanti, un portuale dell’USB ha annunciato l’intenzione da parte del suo sindacato di promuovere lo sciopero generale nazionale. Ciò è effettivamente avvenuto in una assemblea con 600 partecipanti presso il Circolo della Autorità Portuale, svoltasi la sera di giovedì 11 settembre, fissando lo sciopero per il successivo lunedì 22.
I nostri compagni hanno diffuso un volantino appositamente redatto alla manifestazione del 30 agosto, lo stesso all’assemblea dell’11 settembre e a un’altra manifestazione il 17.
Un nostro compagno è intervenuto all’assemblea del Coordinamento confederale dell’Usb di Genova, davanti a 37 delegati, sostenendo che nella guerra a Gaza occorre riconoscere non un episodio anomalo nel capitalismo – una sorta di eterna lotta della democrazia contro il fascismo, del Bene contro il Male in forma laica – ma una tappa della marcia del capitalismo verso la guerra mondiale. Ha poi indicato quale strada per fermare questa catastrofe la rinascita di un movimento sindacale di classe e dell’unità dei lavoratori di tutti i paesi. In Italia il movimento contro la guerra in Israele dovrà caratterizzarsi come una azione di lotta della classe operaia.
Allorquando la Cgil si è avveduta che lo sciopero promosso da USB, CUB, SGB e ADL aveva alte possibilità di successo, ha deciso di proclamarne in fretta e furia un altro per il giorno lavorativo precedente, venerdì 19 settembre, al chiaro scopo di indebolire, cioè sabotare, lo sciopero del 22. Questa azione vigliacca si è rivelata un boomerang, con molti iscritti e militanti che si sono infuriati con la dirigenza Cgil, e hanno scioperato il 22.
I nostri compagni sono intervenuti sia nelle manifestazioni per lo sciopero del 19, col volantino già distribuito il 30 agosto, sia del 22, con un nuovo testo.
Lo sciopero del 22 è stato un grande successo, soprattutto per la riuscita delle manifestazioni in oltre 70 città (20 mila partecipanti a Genova, oltre 50 mila a Roma) ma in alcune categorie anche per le adesioni: il dato dell’11,3% è molto positivo per la scuola, dove negli anni recenti gli scioperi meglio riusciti, anche quando proclamati dalla Cgil, non hanno superato il 7%; all’Inps l’adesione è stata del 47%; fra i ferrovieri del 30%.
* * *
È estremamente significativo che questo movimento di indignazione popolare improvvisamente esploso si sia incanalato nelle organizzazioni sindacali della classe salariata e che giovani e mezze classi si siano istintivamente accodati alle iniziative promosse dai sindacati. Ed è anche significativo che a organizzare lo sciopero siano stati i sindacati di base.
È parimenti da segnalare che la gran massa dei partecipanti alle manifestazioni va molto oltre il perimetro di influenza delle organizzazioni politiche borghesi palestinesi, e oltre i partiti ai quali aderiscono le dirigenze dei sindacati di base, permettendo al nostro partito di svolgervi la sua propaganda.
Perché è l’opportunismo che dirige questi sindacati e queste manifestazioni. Compito previsto e sempre rivendicato del partito è battersi contro l’opportunismo nel movimento sindacale, per sventare la manovra borghese volta a deviare lo spontaneo, generoso ma ingenuo pacifismo dei lavoratori ai fini della propaganda per la prossima guerra imperialista.
Nei nostri interventi, con i nostri volantini – unici in queste manifestazione a dare un chiaro indirizzo di lotta ai lavoratori coerente e conseguente col comunismo rivoluzionario – abbiamo evidenziato come la classe operaia sia la sola forza sociale in grado, se diretta dal partito comunista attraverso al cinghia di trasmissione delle organizzazioni sindacali di classe, di impedire lo scatenare la terza guerra mondiale, a cui ci sta conducendo il capitalismo, o di fermarla se dovesse iniziare.
* * *
L’opportunismo sembra affermare qualcosa di simile, ma gioca sull’ambiguità delle sue affermazioni e sulla ingenuità delle masse lavoratrici. Possiamo grosso modo distinguere due gruppi di propaganda opportunista nelle manifestazioni contro il genocidio a Gaza.
Una parte maggioritaria delle dirigenze delle organizzazioni promotrici (ma minoritaria fra i manifestanti nella misura in cui si è gonfiato il movimento) confida nell’azione di alcuni Stati borghesi, i quali, a loro dire, sarebbero migliori di quelli che indica come unici responsabili della guerra. Il conflitto a Gaza, dicono, non è frutto dello scontro fra imperialismi, in cui i gazawi vengono stritolati, ma solo della speciale malvagità di Stati Uniti e Israele. Un fatto culturale, si direbbe, se non peggio: gli americani, i sionisti, gli ebrei...
Questi gruppi finiscono per chiedere salvezza all’intervento degli Stati, con i lavoratori a battersi per governi borghesi “di sinistra”, non avvedendosi che questa alternanza e fasulla contrapposizione è la trappola per impedire che il proletariato prenda la via della lotta, della offensiva, cioè della rivoluzione, restando invece inchiodato alla “difesa della democrazia dal fascismo”.
La maggior parte delle masse che hanno riempito le enormi manifestazioni fra fine agosto e inizio ottobre non è tanto ingenua da non capire quanto anti-proletari e militaristi siano ormai tutti gli Stati del mondo. Non di meno permane la illusione che solo una manifestazione di opinione popolare possa indurre i governi dei paesi cosiddetti democratici a cambiarne la loro politica e a fermare la guerra.
Si finisce per accodarsi alle menzogne dei partiti della sinistra borghese e al balocco parlamento. Si tacce sul fatto che alla guerra imperialista tutti gli Stati borghesi vi saranno condotti da forze materiali che essi mai vorranno e potranno fermare, e che faranno ciò che sarà necessario fare per convincere i proletari a combattere e morire. Ciò già si vede in un partito quale il PD, coi suoi contorsionismi sulla questione del riarmo europeo.
Il pacifismo borghese non chiude alla guerra. Quando il governo italiano “fascista” ha inviato una fregata di scorta ai cittadini italiani a bordo di alcune barche della “Flotilla” – al pari di quanto fatto da Spagna e Turchia – l’esponente del partito più a sinistra nell’arco parlamentare (Fratoianni di Alleanza Verdi Sinistra), dopo essersi complimentato col Ministro degli Esteri ha affermato: «La nostra fregata dovrebbe violare il blocco e garantire essa stessa l’arrivo degli aiuti a Gaza». Entrare in una zona di guerra con navi da guerra significa entrare in guerra! Se la borghesia italiana oggi si collocasse dalla parte opposta dello schieramento fra imperialismi, cioè contro Israele e Stati Uniti, e avesse mandato un contingente per combattere al fianco della cosiddetta “resistenza palestinese”, cioè di Hamas e degli Stati borghesi che la sostengono o la hanno sostenuta, questi guerrafondai travestiti da pacifisti si metterebbero per primi l’elmetto, o meglio lo imporrebbero ai lavoratori!
La possibilità che l’Italia borghese cambi di fronte può oggi sembrare remota ma ricordiamo che in due guerre mondiali l’ha fatto. I capitalisti italiani hanno sempre coltivato un partito anti-americano, dandogli spazio e agibilità politica. Anche settori della destra borghese notoriamente hanno tale orientamento, non fosse altro che, come noto, a fare la guerra anti-americana fu Mussolini, alla coda di Hitler. La borghesia italiana ha anche sempre coltivato amicizie coi partiti nazionalisti palestinesi e con parte del mondo arabo, nonché col regime iraniano. L’ex Presidente Cossiga ha spiegato come l’Unifil in Libano chiudesse 2 occhi per permettere a Hezbollah di armarsi a Sud del fiume Litani. Il regime borghese italiano coltiva il suo orticello imperialista nel Mediterraneo, sulla sua sponda meridionale e più lontano, prima e dopo la seconda guerra mondiale. Dal 1945 ciò avviene nei limiti imposti dall’imperialismo statunitense. In vista della terza non è affatto impossibile un nuovo voltafaccia, come nella onorata tradizione della borghesia nostrana.
Al partito comunista spetta il compito di non far cadere il movimento operaio in questi inganni e manovre. La maggior parte dei lavoratori non vorrà mai la guerra, ma senza la presenza e il radicamento del Partito Comunista Internazionale entro i sindacati facilmente resterebbe disorientata dall’opportunismo, che giustificherà con ogni meschino argomento la partecipazione al conflitto.
Solo la classe lavoratrice potrà impedire o fermare la guerra imperialista, col suo movimento di scioperi sempre più potente. Ma ciò implicherà la rivoluzione, come insegna l’Ottobre 1917: quello dei Bolscevichi è stato l’unico partito nella storia del capitalismo a fermare la guerra.
In Italia il movimento contro la guerra a Gaza si è incanalato nei sindacati. Questo è stato uno dei fattori del suo potenziamento e ha portato a una prima parziale ma positiva evoluzione: da movimento d’opinione interclassista ad azione di lotta della classe lavoratrice contro la guerra. È stato un primo passo in questa direzione ma deciso, nei termini di uno sciopero generale nazionale.
L’importanza di questo schieramento sociale contro la guerra risiede in due aspetti.
Il primo è che i lavoratori sono stati chiamati e indicati quali soggetto nella lotta contro il bellicismo crescente in tutto il mondo. Certo solo noi comunisti sappiamo che solo la rivoluzione internazionale della classe operaia può fermare la guerra imperialista, mentre i lavoratori possono ritenere che sia sufficiente uno sciopero e pacifico a conseguire questo obiettivo. Ma si tratta di un passo nella giusta direzione, e il partito ha finalmente avuto la possibilità di spiegare ai lavoratori in sciopero come solo è possibile affrontare la guerra.
Si è trattato di uno sciopero politico. Tutto è politica, ma la guerra è il punto di incontro e fusione massimo fra bisogni e problemi immediati, elementari, economici, in sintesi sindacali dei lavoratori, e una richiesta politica. Ciò tanto più quanto la guerra si avvicina.
Mentre tutti gli anti-comunisti, trattandosi del conflitto a Gaza, hanno 
imbeccato che non serve scomodarsi per un problema così lontano, lo sciopero ha 
scosso l’istinto internazionalista della classe operaia, convinta che così non 
è.
Il secondo motivo di grande importanza in questa mobilitazione contro la guerra 
a Gaza è che si è avuta per iniziativa del sindacalismo di base. Non per un 
vacuo riconoscimento di primogenitura, ma riconoscendovi una concatenazione di 
azioni e reazioni sociali di notevole peso generale e permanente. Nonché a 
conferma delle dinamiche previste e del conseguente indirizzo sindacale del 
nostro partito, e solo del nostro partito.
I sindacati di base hanno raccolto l’indignazione dei lavoratori e la loro inquietudine per la guerra, e sono riusciti a rispondervi.
La Cgil invece non aveva mai posto nemmeno in discussione l’ipotesi di ricorrere allo sciopero. Si è così verificato ciò che non era mai accaduto: il maggior sindacato di regime ha dovuto rincorrere i sindacati di base. Prima ha scompostamente provato a sabotare lo sciopero promosso da USB, CUB, SGB e ADL per lunedì 22 settembre. Questo era stato annunciato a Genova, giovedì 11 settembre, durante un’assemblea serale al Circolo dell’Autorità Portuale, partecipata da circa 600 lavoratori, trasmessa in diretta sul canale web della Unione Sindacale di Base.
Il 16 settembre la Cgil si è risolta a proclamare essa lo sciopero generale, ma un giorno lavorativo prima, il 19! Per altro, non rientrando nei termini di preavviso imposti dalla legge anti-sciopero, voluta da Cgil Cisl e Uil (legge 146 del 1990), da questo sciopero “separato e in concorrenza” erano escluse tutte le categorie interessate dalla legge! Così moltissimi iscritti e delegati della Cgil si sono infuriati con la dirigenza per la chiara opera di divisione e sabotaggio dell’azione di lotta promossa dai sindacati di base, e altrettanti hanno scioperato il 22 e non il 19. Quella degli insegnanti la categoria che più ha aderito allo sciopero.
Questo fatto, storico per il movimento sindacale in Italia negli ultimi decenni, non potrà non segnare un rafforzamento dei sindacati di base, soprattutto dell’USB, e un indebolimento della Cgil. Ciò anche guardando ai giovani non ancora lavoratori che hanno riempito le manifestazioni e che in futuro si sindacalizzeranno. Ora, intanto, sanno che esiste un sindacato più combattivo della Cgil.
Per reagire alla sberla ricevuta e cercare di rimediare alla vergognosa condotta nei confronti della sua base, favorevole alla mobilitazione, la Cgil ha deciso di proclamare un secondo sciopero generale, questa volta insieme all’USB e agli altri sindacati di base! Anche questo non mai accaduto nel del movimento sindacale in Italia, da quando i primi sindacati di base sono nati, cioè dal 1980.
È successo – purtroppo raramente a causa del noto settarismo delle dirigenze dei sindacati di base – che questi si siano uniti a scioperi generali promossi dalla Cgil. Un esempio positivo è stato lo sciopero generale del 29 novembre dell’anno scorso, al quale la maggior parte dei sindacati di base ha aderito. La dirigenza dell’USB fu l’unica a non farlo e a proclamare uno sciopero il 13 dicembre, da sola.
Lo sciopero unitario fra sindacati di base e Cgil del 3 ottobre è un precedente da far valere nelle prossime battaglie sindacali. Non deve divenire una eccezione legata alla questione del genocidio a Gaza. Entro i sindacati di base bisogna lottare affinché questa strada sia perseguita nelle lotte future, e già dalle prossime settimane. Certamente molti lavoratori iscritti alla Cgil desiderano che si prosegua in questa direzione. Mettere la dirigenza Cgil alla prova sul terreno di azioni unitarie significherà aprire la discussione entro questo sindacato, portare allo scontro la sua struttura con la parte combattiva della sua base, smascherare quelle dirigenze delle aree e frazioni di minoranza pronte a sacrificare decisioni cruciali per il movimento sindacale di classe al mantenimento di posizioni dirigenziali in quel sindacato.
L’unità nelle lotte dei sindacati di base e di questi con la Cgil:
    
- potenzierebbe gli scioperi;
    
- permetterebbe ai sindacati di base, laddove come probabile la Cgil convocasse 
scioperi “col freno a mano tirato”, di poche ore, divisi per regioni e territori, 
di rilanciare con scioperi più prolungati e uniti, esponendo nuovamente la Cgil 
al rischio di ritrovarsi a rincorrerli;
    
- metterebbe i lavoratori ancora inquadrati nella Cgil a maggior contatto col 
sindacalismo conflittuale;
    
- non potrebbe non mettere in discussione l’unità sindacale con Cisl e Uil, 
pietra angolare del sindacalismo di regime da oltre 70 anni;
    
- nella misura in cui si rafforzerà la lotta operaia, porterebbe alla spaccatura 
della Cgil, alla nascita di un grande sindacato di classe in Italia, dando un 
colpo micidiale al sindacalismo collaborazionista e di regime.
Si tratta quindi di fatti fecondi di possibili importanti conseguenze frutto 
dell’intervento dei sindacati di base nel movimento contro la guerra e il 
genocidio a Gaza. Che confermano quantomeno due fondamentali indirizzi sindacali 
del Partito Comunista Internazionale:
    
1) In Italia il sindacato di classe rinascerà fuori e contro i sindacati di 
regime (Cgil, Cisl, Uil, Ugl);
    
2) L’unità d’azione del sindacalismo conflittuale – in un fronte unico sindacale 
di classe che includa sindacati di base e le minoranze conflittuali in Cgil – in 
scioperi unitari è la strada maestra per accelerare il processo di rinascita del 
sindacato di classe.
Oltre a quanto sopra vi sono altre due conseguenze importanti prodotte 
dall’intervento dei sindacati di base nel movimento contro la guerra a Gaza:
    
1) Si sono svolti due scioperi generali – minoritari nelle adesioni ma che hanno 
scosso entrambi l’economia capitalistica e portato in piazza centinaia di 
migliaia di lavoratori in oltre 70 città – nell’arco di soli 11 giorni: questo 
non è mai successo dalla fine della seconda guerra mondiale;
    
2) La seconda mobilitazione, del 3 ottobre, è avvenuta infrangendo la legge 
anti-sciopero: Cgil e Usb si sono appellate a un comma, di natura reazionaria, 
di tale legge, che permette la deroga in caso di “pericolo per l’ordine 
costituzionale”, con ciò confermando il loro anticomunismo. E si è scioperato 
nonostante il pronunciamento contrario della Commissione di Garanzia, che 
ovviamente non ha preso per buona la interpretazione delle due dirigenze 
sindacali, evidentemente pretestuosa. Se arriveranno sanzioni ai sindacati e ai 
lavoratori cosa faranno Cgil e sindacati di base? Risponderanno con lo sciopero? 
Si tratta anche in questo caso di un precedente pericoloso per sindacalismo di 
regime e per il padronato, e d’insegnamento per i lavoratori: se si è 
sufficientemente uniti, di fronte a un movimento di massa, non c’è legge che 
possa fermare lo sciopero!
Estratti dai manifestini che abbiamo distribuito alle manifestazioni del 30 agosto, 22 settembre, 3 e 4 ottobre
Due anni di guerra hanno fatto crescere nel mondo l’indignazione e la collera e per il massacro, assurto a genocidio, della popolazione della Striscia di Gaza. Sempre più persone sentono finalmente il bisogno di agire collettivamente contro questa barbarie e di dimostrare che indifferenza, individualismo, rassegnazione – alimentati dal capitalismo – non sono una dato irrevocabile.
In Italia un passo in avanti molto importante in questa direzione è stato compiuto dai sindacati di base – coi portuali dell’USB di Genova che hanno aperto la strada – che hanno convocato lo sciopero generale, elevando un vasto movimento d’opinione a un’azione di lotta della classe lavoratrice.
Ciò è fondamentale perché la guerra a Gaza ha dimostrato che nel capitalismo contano solo i rapporti di forza non le opinioni, anche se espresse da milioni di persone.
Non è appellandosi alle Istituzioni e al Diritto internazionale che si può sperare di porre fine a questo e agli altri conflitti, perché i soggetti a cui ci si appella, gli Stati borghesi, sono i veri mandanti delle guerre: sia quando direttamente impegnati sia quando agiscono per procura.
Le guerre nel capitalismo non sono provocate dalla malvagità o follia di questo o quel capo di Stato – Hitler, Saddam, Putin, Trump, Netanyahu – né da ideologie particolarmente reazionarie – il nazifascismo, l’islam radicale, il sionismo religioso – ma sempre dagli enormi interessi economici capitalistici tutelati dagli Stati borghesi.
Il capitalismo ha bisogno della guerra per sopravvivere alla crisi economica di sovrapproduzione, che come un cancro lo divora, e per mantenere oppressa la classe operaia, le cui condizioni di vita peggiorano ogni giorno a causa degli effetti della crisi scaricati sulle sue spalle. Per questo i conflitti si moltiplicano, tutti gli Stati si riarmano e premono in direzione di un terzo conflitto mondiale.
A Gaza e in Israele non si muore né per il sionismo né per l’islamismo ma per il capitalismo! Israele è uno Stato vassallo degli USA, come Hamas lo è delle potenze regionali e mondiali che fingono di sostenere i palestinesi – Iran, Qatar, Turchia e dietro di loro la Cina – solo per contendersi mercati e dominio regionale e mondiale, in un intreccio di interessi dentro i quali sono stritolati i proletari palestinesi e di tutta l’area. Così è in Medioriente come in tutto il Mondo.
I sentimenti che il genocidio a Gaza scatena non devono impedire di vedere che non si tratta di una stortura del capitalismo ma di una barbarie che si colloca nella sua marcia verso la guerra. Anche gli Stati in Europa hanno lanciato il loro piano di riarmo e promettono di più che raddoppiare la loro spesa militare portandola fino al 5% del PIL, sottraendo risorse alla sanità, la scuola, le pensioni, i salari. Gaza è il futuro che attende ai lavoratori di tutto il mondo se non sapranno organizzarsi e lottare adeguatamente!
La guerra può essere fermata solo da una forza superiore a quella del capitalismo. Questa forza l’ha solo la classe lavoratrice in tutti i paesi. Lo sciopero contro la guerra dunque non è solo una manifestazione d’opinione ma è soprattutto un atto concreto della classe operaia contro di essa. Di fronte alla richiesta di nuovi sacrifici per il riarmo e la guerra il proletariato risponde con lo sciopero.
Scioperare oggi contro il genocidio a Gaza e contro la macchina della guerra che avanza nel mondo, significa lottare in difesa dei salari, delle condizioni di lavoro, della spesa sociale che tutti i partiti borghesi, di destra e di sinistra, vogliono tagliare. E quando i lavoratori lottano per i propri interessi di classe sociale sfruttata, anche se ne sono inconsapevoli, stanno lottando contro la guerra! Non si tratta di “convincere” la classe dominante, ma di piegarla con la forza dello sciopero, della lotta di classe. Un movimento di sciopero contro la guerra che avanza in tutto il mondo, e che dovrà divenire necessariamente internazionale.
Lo sciopero generale del 22 settembre è stato convocato dai sindacati di base (USB, CUB, SGB, ADL). UIL e CISL hanno detto chiaramente che a loro non interessa. La CGIL, che non aveva mai dichiarato di voler ricorrere allo sciopero contro la guerra a Gaza, ne ha proclamato uno in fretta per il 19 settembre, quando è divenuto chiaro che quello del 22 aveva probabilità di successo notevoli. Questa spudorata azione di sabotaggio contro lo sciopero dei sindacati di base conferma che la CGIL è un sindacato di regime, legato cioè mani e piedi alla classe dominante e al suo regime politico, e che un autentico sindacato di classe può rinascere solo fuori e contro di essa!
Di fronte al successo dello sciopero del 22 e alle proteste di molti iscritti, la dirigenza CGIL ha cercato di rimediare con una clamorosa rettifica della sua condotta e proclamando lo sciopero generale del 3 ottobre insieme ai sindacati di base! Un fatto estremamente positivo perché rafforza e radicalizza lo sciopero.
In tutti i paesi la classe operaia deve battersi contro il sindacalismo di regime, che lega le sorti dei lavoratori a quelle dell’azienda e del capitalismo nazionale – che chiamano “patria” o “paese” – per costruire veri sindacati di classe.
In Germania la maggiore confederazione sindacale, la DGB, sostiene il piano di riarmo. Negli USA il maggior sindacato del settore automobilistico – la UAW – sostiene la politica dei dazi della borghesia statunitense. Anche in Israele, dove da mesi ogni settimana in centinaia di migliaia scendono in piazza contro la guerra e numerosi riservisti hanno rifiutato il richiamo, fino a che il movimento non assurgerà a lotta generale della classe lavoratrice non sarà possibile fermare la guerra voluta dal regime borghese israeliano. Ma per far questo dovrà essere spezzato il controllo del sindacato di regime Histadrut sui lavoratori, che si è opposto allo sciopero generale contro la guerra e allo sciopero degli insegnanti contro il taglio dei salari in conseguenza dell’economia di guerra.
Contro la guerra a Gaza, contro ogni guerra, bisogna battersi entro i sindacati affinché sia agitata la parola d’ordine di uno sciopero generale internazionale contro la guerra imperialista che indichi la strada dell’unità internazionale di tutti i lavoratori, compresi israeliani e palestinesi!
Solo questa solidarietà e battaglia internazionale della classe operaia verrà ad emancipare anche i palestinesi, come tutte le minoranze nazionali, dalla infame oppressione quasi secolare cui sono sottoposti.
Non solo a Gaza si manifesta naturalmente la barbarie della guerra: più vittime ancora hanno provocato la guerra civile in Siria dal 2011 al 2018 e la carestia in Sudan. Ciò che oggi rende speciale la distruzione di Gaza è che da una parte del fronte è condotta da uno Stato democratico – l’“unica democrazia del Medioriente”, si afferma – sostenuto dalla “più grande democrazia del mondo”, cioè dagli USA, sia dalle amministrazioni democratiche sia da quelle repubblicane, e dalle altre democrazie, a cominciare dalla Germania e dall’Italia. La guerra a Gaza ha dimostrato che le democrazie compiono massacri e guerre al pari dei regimi autoritari. E ciò perché sono tutti regimi borghesi, capitalisti: la forma di governo – democratica, autoritaria, teocratica – ha valore solo in quanto più o meno utile a mantenere il controllo sulla classe lavoratrice.
Scioperare oggi contro la guerra a Gaza è il primo passo per impedire la guerra quando essa arriverà in un futuro prossimo alle porte di casa e diventerà mondiale. Allora servirà un vero e forte sindacato di classe in grado di dispiegare scioperi che mettano in ginocchio per giorni il capitalismo nazionale. Questo significherà scontrarsi in ogni paese col proprio Stato borghese e la sua repressione. La guerra imperialista, fra Stati capitalisti, si ferma con la lotta fra le classi, e cioè con la Rivoluzione!
- Contro le guerre imperialiste!
- Per la guerra tra le classi!
- Per la rivoluzione comunista!
La classe capitalista divora profitti sempre maggiori, condannando i lavoratori a crescenti sofferenze: licenziamenti in massa, peggioramenti dell’assistenza sanitaria e impossibilità di sostenere i costi di base per vivere. I lavoratori immigrati sono costretti a condizioni di schiavitù moderna, intimidazioni e allontanamenti forzati.
In risposta le grandi sanguisughe borghesi stanno inviando truppe proprio nelle città dove i lavoratori sono più pronti a organizzarsi per difendersi. Non siamo già oggi in presenza di un movimento che può minacciare il loro potere, ma si posizionano in previsione della grande crisi economica che si avvicina. Perché la crisi produrrà inevitabilmente un’onda di rabbia e di mobilitazione operaia, e lo Stato prepara drastiche misure per mantenere l’ordine.
I lavoratori devono quindi organizzarsi. Ma in modo ben diverso dalle contestazioni senza sbocco e dalle coalizioni in un fronte popolare fra partiti. Tutto questo si è dimostrato inefficace. I fronti popolari, per comprendere tutto lo spettro politico, compromettono e subordinano il movimento dei lavoratori e le sue rivendicazioni. Presuppongono la sottomissione dei lavoratori al capitalismo.
Lo Stato dei capitalisti non concederà mai alcun cambiamento vero, significativo e duraturo se non costretto dalla forza dei lavoratori. Solo il sindacato di classe e lo sciopero generale senza restrizioni possono raggiungere questo obiettivo.
Queste coalizioni e i gruppi finanziati dal Partito Democratico – come “50501”, “Indivisible”, “No kings”, “Workers over Billionaires”, ecc. – che si nascondono dietro nomi attraenti un ampio pubblico, incanalano i lavoratori in parate per le città ma solo chiedono la sostituzione del personale politico borghese, una qualche riforma, o neppure questo! I loro attivisti invitano a scendere in strada e a radunarsi senza uno scopo preciso, indifesi, per essere colpiti con armi cosiddette “meno letali”. Servono solo a sfogare il malcontento e non hanno alcun potere per costringere il nostro nemico di classe a concessioni reali e durature.
È il capitalismo che genera gli orrori vissuti dalla classe operaia internazionale, sia che indossi la maschera da “poliziotto buono” – la democrazia – sia da “poliziotto cattivo” – il fascismo. Sono i capitalisti che attraverso il Partito Democratico e i suoi attivisti dirigono il movimento dei fronti popolari, per incanalare la rabbia dei lavoratori verso l’obiettivo del ritorno al governo del Partito Democratico. Spingono le masse a combattere il regime di Trump, o mantenere le autonomie municipali, a difendere Portland, Chicago, Washington, ecc. La classe operaia non è chiusa in confini ed è costretta a piegarsi alla volontà del capitale sia esso rappresentato dalla polizia municipale e locale proprio come lo è dalle truppe dal governo federale. La nostra liberazione risiede nel nostro impegno per la completa abolizione del sistema capitalista su scala internazionale.
L’antifascismo è un vicolo cieco: implica che la democrazia borghese sia 
qualcosa per cui vale la pena lottare. Il comunismo invece vuole abbattere 
l’intero albero del capitalismo, di cui il fascismo e la democrazia sono due 
rami.
Con l’aggravarsi della crisi del capitalismo, dobbiamo organizzarci non per i 
Democratici o i Socialisti Democratici, ma per il proletariato.
Lavoratori! Organizzatevi nei vostri luoghi di lavoro, unite i sindacati dei lavoratori di tutti i settori e di tutte le regioni in modo da poter coordinare e accrescere la vostra forza collettiva. Piuttosto che organizzare una protesta popolare convocate assemblee dei lavoratori, che uniscano iscritti e non iscritti ai sindacati, in un’azione unitaria. Organizzate uno sciopero generale che blocchi la città o il paese fino a quando non cesseranno i rapimenti dell’ICE.
Questo è il potere e la forza della classe operaia unita contro la classe capitalista, e non il vostro voto pacifico né le schermaglie urbane di minoranze confuse e interclassiste.
Combattete quei vostri dirigenti sindacali che scelgono di allinearsi con i padroni e il loro Stato, e rifiutano di far valere la vostra forza promuovendo mobilitazioni che vi intrappolano nella ruota del criceto della lotta all’interno del quadro capitalista.
Non sempre abbiamo la forza di indire uno sciopero, anche se è la strada giusta da seguire. Lo sciopero generale può essere solo il risultato di sforzi coordinati, preparati per mettere in atto e sostenere una imponente dimostrazione di forza. È fondamentale organizzare sindacati (con o senza il riconoscimento del governo o del padrone), o costruire gruppi di lotta di classe nei sindacati esistenti, che influenzino la base più ampia al loro interno, convocare assemblee dove opporci ai gruppi che vorrebbero compromettere gli obiettivi della lotta e le loro false soluzioni che distolgono o paralizzano l‘insieme del movimento.
Lavoratori! Uscite dalla gabbia delle azioni simboliche e delle coalizioni basate sul compromesso, per favorire un nuovo politico capitalista o per rassegnarvi al “male minore”.
La lotta può essere combattuta davvero con la chiara direzione del Partito Comunista Internazionale, l’unico non disposto al compromesso e votato alla emancipazione della classe operaia.
Come sosteniamo da oltre un secolo, fascismo e democrazia sono lo stesso regime capitalista che comunque continuerà a sfruttare, uccidere, perpetuare il genocidio e sottometterci con ogni mezzo per garantire i propri profitti. I lavoratori non possono permettersi di ripetere gli errori del passato.
Verso organizzazioni dei lavoratori capaci di coordinare azioni di sciopero 
generale!
Verso la costruzione del sindacato di classe!
Negli ultimi mesi sono scoppiate nuove lotte operaie negli Stati Uniti. Queste lotte sono in gran parte il risultato del conflitto tra i lavoratori, che durante tutto l’anno hanno dovuto affrontare salari reali più bassi a causa dell’inflazione, sullo sfondo di elevati profitti aziendali. Si tratta di una lieve intensificazione della lotta di classe, che non può essere paragonata alla “primavera dei lavoratori” del 2023 o agli scioperi generali che hanno recentemente interessato altri paesi, ma che dimostra comunque un aumento della tensione nei conflitti tra lavoratori.
Municipali a Filadelfia
A Filadelfia il problema fondamentale è che l’aumento salariale offerto dal Comune ai lavoratori non basta per vivere. Il 1° luglio gli iscritti al sindacato AFSCME, che comprende circa 9.000 municipali, hanno incrociato le braccia a seguito del fallimento delle trattative tra il sindacato e il Comune, mettendo il sindacato in una posizione difficile. Lo sciopero è il primo in città dal 1986, quando l’AFSCME scioperò per l’ultima volta. Il sindacato aveva inizialmente chiesto un aumento del 5% all’anno per un contratto triennale, l’ha poi aumentato all’8%. Ma è comunque troppo poco per i lavoratori. Il Comune ha risposto con un’offerta ancora più bassa, “finanziariamente responsabile”: un aumento del 2,75% il primo anno e del 3% nei due anni successivi.
Allora, se gli altri servizi hanno avuto solo dei ritardi, la raccolta dei rifiuti è stata sospesa in tutta la città. I sacchi si sono accumulati fino a invadere i marciapiedi e nel giro di una settimana ne hanno riferito i media di tutto il paese. Dei crumiri andavano a scaricare i rifiuti, compresi quelli sanitari e gli oli alimentari, in punti di raccolta illegali, il che ha portato anche ad alcuni arresti.
I lavoratori hanno sostenuto lo sciopero rifiutandosi di attraversare i picchetti e portando i loro rifiuti davanti al municipio.
Lo sciopero è durato solo 8 giorni, fino a un accordo di un bonus di 1.500 dollari alla firma e un aumento del 3% all’anno per tre anni, per l’80% dei lavoratori, quindi non per tutti. Di fatto i comunali di Filadelfia sono costretti ancora a vivere con salari insufficienti. Sarebbe stato necessario uno sciopero più lungo e chiedere aumenti salariali significativi, coordinandosi con altri sindacati e lavoratori della stessa città, generalizzando lo sciopero.
Comunque il sindacato e i lavoratori sono stati accusati di non curarsi della popolazione e di minacciare i profitti delle aziende e i bilanci dei politici borghesi locali.
Senza prevalere sui funzionari sindacali venduti al regime, che intascano il “servizio di trattativa”, senza interrompere ogni collaborazione con i padroni, senza rigettare ogni “responsabilità finanziaria” e senza rifiutare accordi a perdere, i lavoratori saranno costretti ad accettare solo delle briciole pietose.
Fra i netturbini
Republic Services è la seconda maggiore azienda di pulizie del Nord America, con oltre 1.000 filiali negli Stati Uniti. Nel 2024 il suo fatturato è stato di 16 miliardi di dollari e l’utile di 6,682 miliardi, con un aumento dell’11% rispetto all’anno precedente. Circa 7.000-8.000 lavoratori, sindacalizzati nel Teamsters, lavorano presso Republic.
Il 1° luglio, 450 iscritti al sindacato a Boston hanno incrociato le braccia alla scadenza del loro contratto. Republic Services ha rifiutato di accettare le richieste dei lavoratori di allinearsi alle retribuzioni e ai benefici sociali offerti dalle aziende concorrenti nel settore della gestione dei rifiuti. Finora le richieste della direzione del Truckers Union si sono limitate alla parità salariale con i concorrenti e a una migliore assistenza sanitaria. Poco dopo anche gli iscritti al sindacato dei camionisti delle altre filiali della Republic hanno iniziato lo sciopero. Finora sono scesi in sciopero in cinque Stati oltre al Massachusetts: Georgia, California, Washington, Illinois e Ohio. Gli scioperanti, coordinando l’azione tra loro, hanno ulteriormente ridotto i profitti della Republic, ottenendo un maggiore potere contrattuale.
Come tipico esempio delle norme NLRB (National Labor Relations Board) che ostacolano l’organizzazione sindacale negli Stati Uniti, i lavoratori sono divisi da contratti locali separati. Tuttavia, è degno di nota il fatto che a livello nazionale sia stata ugualmente realizzata un’azione di sciopero coordinata e che molti sindacati locali abbiano deciso di partecipare allo sciopero di solidarietà, aumentandone così la forza. Gli scioperi di solidarietà sono stati di fatto resi illegali dalla legge Taft-Hartley del 1947, che ha concesso ai datori di lavoro il diritto di citare in giudizio i sindacati per “violazione del contratto”.
Ma i sindacati locali che hanno indetto lo sciopero di solidarietà stanno scioperando senza il rischio di essere citati in giudizio, sfruttando il fatto che lo sciopero del Massachusetts è uno sciopero ULP (Unfair Labor Practices, pratiche lavorative sleali). Questo tipo di sciopero rientra in un’eccezione legale che lo esenta dalla violazione del contratto. Essere costretti ad agire in questo modo implica che meno della metà dei lavoratori può scioperare, infatti nel momento di massima intensità circa 4.000 lavoratori, ovvero quasi la metà, erano in sciopero.
Finora, per quanto ne sappiamo, solo il sindacato locale di Manteca, in California, ha interrotto lo sciopero e ha siglato un accordo provvisorio, del quale non sono ancora noti i termini.
L’azienda, oltre a rifiutare le trattative, fa ampio ricorso a crumiri per ripristinare il servizio. Ha anche intentato delle procedure legali e ingaggiato avvocati antisindacali specialisti nel lavoro sporco. Una causa federale è stata intentata contro gli iscritti e i delegati del sindacato, accusati di vandalismo per aver fermato dei veicoli, tagliato le gomme delle auto dei crumiri e altre accuse insignificanti, per costringere il sindacato a spendere soldi per la difesa legale.
Tra le altre rivendicazioni dello sciopero figurano la richiesta di condizioni di lavoro più sicure, la resistenza all’installazione di telecamere e all’utilizzo di crumiri. Lo sciopero è una lotta in corso e le trattative riprenderanno probabilmente in un secondo momento.
Portuali in sciopero in Illinois
I portuali continuano lo sciopero contro l’operatore logistico QSL America in tre stabilimenti dell’Illinois. Lo sciopero, indetto dalla IUOE (International Union of Operating Engineers), si è intensificato da maggio. Il sindacato locale conta oltre 24.000 membri in Indiana, Illinois e Iowa. I lavoratori chiedono condizioni di lavoro più sicure e retribuzione degli straordinari. Altre lamentele riguardano ritorsioni, l’utilizzo di lavoratori sostitutivi provenienti da altri Stati, un eccessivo controllo elettronico e tattiche intimidatorie, nonché la scomparsa di un portuale.
Il sindacato è riuscito a interrompere le operazioni a Iroquois Landing, Chicago, dove il servizio ferroviario è stato fortemente limitato e le merci hanno subito notevoli ritardi. I dipendenti della CN Railroad e della UPS hanno dimostrato il loro sostegno rifiutandosi di attraversare il picchetto e costringendo la direzione a intervenire e a far funzionare i treni manualmente. Ciò ha causato l’interruzione del servizio della CN Railroad, attualmente limitato a soli due giorni alla settimana. Inoltre, si registrano ritardi fino a quattro giorni nelle spedizioni internazionali, con conseguenti shock nella catena di approvvigionamento e potenziali perdite di contratti per i clienti della QSL. Anche una delle gru non funziona.
Lo sciopero dura da otto settimane e sta probabilmente costando milioni di dollari all’azienda. Ma QSL appartiene ai gruppi di investimento CDPQ e iCON, capitalisti finanziari con un patrimonio di miliardi di dollari che gestiscono centinaia di miliardi di dollari dei loro clienti. Con tasche così profonde lo sciopero sembra destinato a trasformarsi in una guerra di logoramento.
L’assenza di richieste economiche significative da parte del sindacato è scoraggiante e dimostra che non si tratta di un sindacato forte e combattivo. Senza uno spirito di lotta e senza una estensione dello sciopero e delle richieste è improbabile che l’azienda ceda anche su richieste in gran parte non economiche, anche se subisse un forte calo dei profitti e lo sciopero continuasse a tempo indeterminato.
Nei supermercati in Colorado
Il 4 luglio è terminato lo sciopero in molti negozi Safeway e Albertsons del Colorado. I lavoratori, rappresentati dall’Unione Internazionale dei Lavoratori dell’Alimentazione e del Commercio (United Food and Commercial Workers International Union), avevano incrociato le braccia il 16 giugno. Il nuovo contratto prevede assistenza sanitaria, pensione a fondo pieno e aumenti salariali.
Studenti lavoratori a Washington
Il 6 giugno è terminato lo sciopero di circa 1.200 studenti lavoratori della 
Western Washington University di Bellingham, nello Stato di Washington. Lo 
sciopero era iniziato il 28 maggio. Il sindacato ha ottenuto la tutela contro i 
licenziamenti, permessi più lunghi, sostegno per la salute mentale e adeguamenti 
salariali. Tuttavia, i lavoratori non hanno ottenuto il riconoscimento sindacale 
da parte dell’università. Il gruppo ha deciso di sindacalizzarsi come United 
Western Academic Workers Union nel dicembre 2023.
PAGINA 5
Il giornale quindicinale Compagna appare a Roma, il 5 marzo 1922, in occasione della “giornata internazionale delle donne lavoratrici”. Si definisce “Organo del Partito Comunista d’Italia per la propaganda fra le donne”, dichiaratamente strumento di diffusione del programma comunista, della rivoluzione, del partito.
Si pone in continuità della rubrica “Tribuna delle donne”, affidata a Camilla Ravera nel 1921 su L’Ordine Nuovo, e della rubrica “Per le donne” presente nel 1921 su Il Soviet.
La pubblicazione fu decisa nella Prima Conferenza Nazionale delle Donne Comuniste, secondo le indicazioni della Terza Internazionale. «Il partito – si legge nella rubrica “Notiziario internazionale” su Compagna numero 2 – ha riconosciuto come necessità vitale per il movimento rivoluzionario intensificare la propaganda fra le donne».
Nelle sue quattro pagine, appare un tutto organico e ben organizzato, una voce coordinata che riflette il multiforme dispiegarsi dell’insieme delle attività e indirizzi del partito sul tema femminile. Questo in un momento durissimo di attacchi delle bande fasciste contro la classe e contro il partito.
Esiste una sola classe operaia, che comprende al suo interno tutti i generi. L’oppressione specifica delle donne accomuna però le proletarie alle donne della piccola borghesia. Quindi Compagna è giornale dei comunisti rivolto al proletariato femminile, ma che estende la sua chiamata alla rivolta anche alle donne dei ceti intermedi.
Non vuol essere qualcosa di “facilitato”, “semplificato” per le donne. È solo consapevole, al primo quarto del secolo scorso, della difficoltà per le donne, soprattutto se proletarie, di accedere al sapere: l’analfabetismo era diffuso e in particolare le proletarie erano fortunate se avevano avuto la possibilità di imparare a leggere. Tuttavia si prefissa di avvicinarle al programma del partito e alla teoria comunista affrontando ogni argomento, anche complesso, in un linguaggio chiaro ed efficace, comprensibile dalle donne del tempo, siano esse non intellettuali: operaie, impiegate, casalinghe, contadine...
Tutta la gestione redazionale, amministrativa, di stampa e della diffusione, come provano i puntuali resoconti finanziari, è svolto dalle compagne.
Compagna rappresenta il partito. Vuol essere punto di riferimento per le militanti, vi sono espresse tutte le posizioni del partito e le parole d’ordine e vi si riportano gli avvenimenti di tutta la sua vita, in Italia e nell’Internazionale: le conferenze, le riunioni, le analisi sociali, oltre alle iniziative e i comizi. Tratta della politica comunista riguardo alle problematiche femminili, certo, ma non solo. Dà quindi direttive di azione, in particolare nel campo sindacale.
Il giornale quindi, riporta, sia i deliberati della Internazionale e del 
Comitato Esecutivo del partito riguardanti la questione femminile e le loro 
indicazioni attuative, sia approfondimenti di teoria e di storia, sulla natura 
della società di classe, la base economica del capitalismo, la funzione del 
partito comunista, i motivi della scissione dai riformisti, l’affermarsi del 
fascismo sul tronco della democrazia, la valutazione del momento storico, nel 
1922 ormai in declino per la rivoluzione, il fronte unico sindacale e il 
sabotaggio socialdemocratico dello sciopero dell’agosto...
Una rubrica fissa, “Il movimento femminile comunista in Italia”, riporta ogni 
iniziativa di organizzazione ed episodio di scontro sociale in Italia; sono 
anche sempre riportate notizie del movimento femminile comunista all’estero, 
dalla Russia, dalla Francia, dalla Germania.
Naturalmente sono descritti episodi della vita quotidiana delle proletarie, ma anche di intellettuali e donne delle mezze classi, denunce della loro condizione sociale, traendone la necessità di raggiungere esse il movimento volto alla causa del comunismo.
È curato anche l’aspetto, così importante, della educazione dei figli; vi si fa riferimento a un giornaletto “Il fanciullo proletario”.
C’è persino una “terza pagina” di narrativa che pubblica scritti di comunisti.
Oggi, passati 100 anni, alla lettura Compagna ci appare ancora fresco e attuale. I temi sono i nostri, allora come oggi, il linguaggio è lo stesso, un ragionare semplice, coerente, essenziale, riflesso sia della chiarezza del programma sia della direttiva tattica immediata, sia della impostazione sindacale.
Qui iniziamo a pubblicare alcuni estratti più significativi da quel nostro giornale, un esperimento, si dirà, di breve vita, ma prova di quanto potrà tornare a esprimere il nostro movimento, e, domani, tutti i generi, in una umanità liberata.
* * *
Scrive una sostenitrice nel numero 19, 3 dicembre 1922:
Voci proletarie
Il giornale Compagna apre il mio pensiero a nuovi orizzonti. Esso inquadra il problema femminile in quello ben più vasto dell’emancipazione proletaria e fa consapevole le donne di diritti che loro spetteranno nella società futura.
Continuando...
Non c’è nulla di “nuovo” nel proposito di pubblicare un giornale di propaganda comunista femminile. Cioè: c’è di nuovo un foglio, quattro pagine, un titolo. Ché i nostri quotidiani e i nostri settimanali già si occupavano e si occupano dei problemi comunisti in rapporto agli interessi speciali delle donne lavoratrici. Noi continuiamo e sintetizziamo quel lavoro di propaganda che fu frammentario e discontinuo e che vogliamo più organico. Pubblicando un foglio “per le lavoratrici“ vogliamo interessare queste ai loro problemi, e affezionarle sempre più alla causa di tutti i lavoratori. Il nostro programma è quello del partito comunista d’Italia, che sintetizza le aspirazioni del proletariato rivoluzionario del paese in cui viviamo. Nostro scopo è quello di avvicinare il proletariato femminile al partito comunista (...)
L’epoca rivoluzionaria che viviamo urge le classi lavoratrici all’azione. Questioni di preparazione e di ricostruzione si accumulano e chiedono di essere risolte. Noi abbiamo il compito di selezionare le più urgenti e immediate. Abbiamo la fortuna di un meraviglioso campo sperimentatale, che ci prepara molte soluzioni ai problemi del domani. La rivoluzione russa! Tali soluzioni, nel campo della emancipazione economica e morale della donna lavoratrice, sono un prezioso materiale di studio per noi. Ma occorre soprattutto dare una coscienza di classe alle operaie e alle contadine: portarle nei sindacati e nel Partito. Ci assilla il problema della preparazione rivoluzionaria.
Noi continuiamo su questo foglio per le donne che lavorano, l’opera che i compagni svolgono sulla stampa di partito, accentuando e approfondendo l’esame delle quistioni che alla donna lavoratrice interessano maggiormente.
La crisi economica italiana avrà degli aspetti ancora più sanguinosi di quelli che l’anno scorso e tuttora furono e sono i sintomi del disfacimento del regime. In questa situazione angosciosa è nostro dovere approntare i mezzi di difesa e di offesa, ed accelerare il lavoro di assimilazione della maggior parte possibile del proletariato (...)
Attraverso la lotta per gli interessi economici, non solo le operaie e le contadine, ma bensì le donne di casa della piccola borghesia devono essere attratte nella orbita del partito e del proletariato comunista, dei nostri principi; non perché questi sono “buoni” o “giusti” – che tali qualificazioni sono soggettive – ma perché essi rappresentano la interpretazione di fenomeni sociali e politici ineluttabili, di cui la nostra propaganda prepara le condizioni materiali per il loro affermarsi.
Contro le insidie della stampa borghese
Il giornale è espressione sincera dell’anima, del pensiero, della volontà del proletariato: che inserisce con verità le vicende quotidiane nel grande quadro della vita collettiva, facendone naturalmente scaturire le origini e gli effetti; che con un’opera continua di chiarificazione dà al proletariato la sensazione precisa di come proceda e a che miri la sua lotta; e, senza pericolose illusioni, senza fallaci promesse, senza ipocrite recriminazioni indica al proletariato la sua via, che è dura, aspra, dolorosa, ma che sola può salvare il proletariato da mali ben peggiori di quelli finora sofferti e l’umanità dal ritorno alla barbarie più tetra».
Anche sul numero 2 del 19 marzo 1922:
Alle nostre collaboratrici
Gli articoli che ci vengono trasmessi per le pubblicazioni debbono essere brevi.
Ci occorre una collaborazione intorno a questioni che interessino sommamente le donne lavoratrici. Non accettiamo inutili volate retoriche, lunghe e stucchevoli geremiadi.
Desideriamo scritti di operaie e di contadine su problemi reali che si presentano ogni giorno nella vita sociale delle proletarie. Le compagne intellettuali cerchino di trattare argomenti che suscitino l’interessamento delle operaie, delle contadine e delle impiegate.
Molti articoli ci sono pervenuti; ma pochi fra questi si adattavano al “tono” che intendiamo dare a questo foglio. Alle compagne che non vedono pubblicati i loro scritti non possiamo individualmente scrivere per dire le ragioni della mancata pubblicazione di questi. Valga per tutte il richiamo alla brevità, alla semplicità della esposizione, alla necessità di esprimere “concetti”, sia pure in forma banale, sui cento problemi che la vita del proletariato femminile presenta, bandendo i motivi poetici e sentimentali che spesso non sono neppure di buon gusto e che, comunque, su questo foglio non crediamo di dover fermare.
I nostri principi
Compagna è intitolato questo nostro modesto giornale che intende rivolgersi alle operaie, alle proletarie di casa, a tutte le compagne di classe, anche a quelle ancora inconsapevoli o non ben consapevoli della loro schiavitù e dei loro diritti: alle operaie, alle proletarie di casa che furono indotte a considerare per la prima volta l’ordine sociale esistente dagli orrori della guerra; che si resero conto in seguito, confusamente, dell’ingiustizia di cui sono vittime, e confusamente riconobbero a sé e ai propri compagni il diritto di liberarsene; che salutarono, pur senza ben comprenderla, la Rivoluzione Russa come l’incominciamento di un qualche cosa di nuovo e di migliore creato nel loro interesse; che oggi sentono forse un po’ vacillare la loro fede sol perché essa non era stata e non è alimentata da alcuna conoscenza precisa; e che noi vogliamo raggiungere e illuminare per trasformarle in vere e tenaci compagne di fede e di lotta.
La grande massa delle proletarie insorta insieme con tutti gli oppressi che dopo la guerra audacemente reclamavano un ordine sociale nuovo, non sapeva con precisione contro chi e contro che cosa si levasse, in nome di quale programma combattesse, quali promesse precise fossero rappresentate dalla rossa bandiera che radunava intorno a sé tutto il proletariato rivoluzionario.
Gli operai veramente coscienti ed illuminati dinanzi alla difficoltà della lotta non perdettero la loro fede; costituirono dei nuclei saldi di rivoluzionari in tutti i paesi: i partiti comunisti; si unirono in una potente organizzazione mondiale, l’Internazionale Comunista, che rappresenta l’avanguardia cosciente e organizzata del proletariato internazionale. E questa avanguardia, la quale conosce precisamente la via che il proletariato deve percorrere e le battaglie che dovrà sostenere, cerca di radunare intorno a sé il grande esercito dei proletari e delle proletarie a cui vuole trasmettere la sua conoscenza e la sua fede, e che si propone di guidare e di dirigere nella lotta decisiva.
Con questo nostro modesto giornale noi vogliamo richiamare le proletarie; e non con parole generiche e vaghe diventate, per l’uso che gli uomini e i partiti ne hanno fatto e ne fanno, dei vuoti luoghi comuni: giustizia, fratellanza, umanità, uguaglianza; parole grandi che le donne hanno sentito scendere, e senza alcun effetto, dal pulpito, dall’altare, dalle bocche dei sapienti e dei governanti, e che hanno ormai perduto il loro significato reale.
Vogliamo richiamare le proletarie non soltanto con appelli sentimentali, ma in nome dei nostri principi e del nostro programma che ci proponiamo di spiegare loro con chiarezza e con precisione. Il comunismo è una scienza; i suoi principi elementari fondamentali possono e debbono essere spiegati e diffusi anche fra le masse arretrate anche fra le proletarie; e il nostro giornale come tutti i giornali operai, deve proporsi quest’opera di volgarizzazione e di diffusione della conoscenza e della cultura comunista fra le masse a cui si rivolge.
Noi siamo persuasi che gli operai e le operaie desiderano, anzi esigono dai loro giornali quest’azione di educazione e di illuminazione: gli operai e le operaie quando incominciano ad acquistare la prima coscienza dei loro compiti rivoluzionari, considerano questi compiti con grande serietà; e non cercano nei giornali della loro classe e del loro partito dei facili passatempi, ma dei mezzi di espressione, di difesa e di lotta della classe operaia e dei mezzi di educazione e di apprendimento. L’operaio che lavora tutto il giorno nella fabbrica e che dedica le ore del suo riposo e del suo svago alla lettura del suo giornale, che di questa lettura si fa un piacere e un dovere, vuole trovare nel suo giornale le notizie e gli elementi che lo informino intorno allo sviluppo della sua lotta, al procedere della sua rivoluzione nel suo paese e in tutto il mondo, ai nuovi problemi determinati da questo sviluppo, ai mezzi e ai metodi di lotta di cui deve impadronirsi; se non lo interessassero tali argomenti leggerebbe indifferentemente qualsiasi altro giornale.
Le operaie fra cui incomincia a penetrare e a diffondersi questo nostro giornale, e che, fra le loro infinite incessanti occupazioni, cercheranno un’ora da dedicare alla sua lettura, aspettano indubbiamente di vedersi prospettate e chiarite le promesse del comunismo.
Il nostro giornale deve dunque esser semplice, chiaro, accessibile alle proletarie non molto addestrate nella lettura, appunto perché sempre costrette a lavorare troppo; ma deve pure rispondere al loro desiderio di “sapere“ con precisione in che consista e a cosa tenda la rivoluzione sociale a cui l‘esercito proletario viene chiamato. Sarebbe molto desiderabile che il nostro giornale potesse offrire alle proletarie, perennemente oppresse da una fatica che avvilisce e che uccide spiritualmente ogni giorno un poco, insieme con la conoscenza un po’ di diletto e di semplice e chiara bellezza, nelle illustrazioni, nei racconti, in quella parte che dovrebbe, oltre che indirizzare, esprimere la grande e sana anima, proletaria, la sua la- [qui manca un rigo] il giornale divenisse veramente utile e insieme simpatico e amico alle lettrici. A tutte queste esigenze non potrà sempre rispondere il nostro giornale; ma esso seriamente tende a questi scopi; e, soprattutto, rispondendo al programma contenuto nella sua stessa intestazione, vuole parlare alle compagne di classe in nome del comunismo.
Per questo noi ci proponiamo di esporre con una serie di brevi e semplici articoli i principi fondamentali del comunismo; di chiarire alcune formule che le operaie sentono continuamente ripetere di cui non si rendono chiaramente conto; di prospettare nelle sue linee generali la situazione attuale del proletariato italiano e internazionale; i passi compiuti dalla rivoluzione mondiale, il cammino che le sta dinanzi e la meta a cui tende; ci proponiamo di spiegare alle operaie il significato preciso dei due termini: i borghesi e i proletari, il rapporto esistente tra le classi e lo Stato, fra i proletari e i comunisti; di spiegare che cosa sia il capitale; come si produca e come si accumula, come avvenga lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, come si determini e si sviluppi l’imperialismo; a cui vogliamo contrapporre chiaramente dinanzi alle operaie il regime comunista dimostrando come ad esso di giunga attraverso la Rivoluzione operaia e alla dittatura del proletariato, che è già stata realizzata con la gloriosa Rivoluzione Russa e che la l’Internazionale Comunista si propone di realizzare in tutto il mondo.
Camilla Ravera
[ è qui ]
PAGINA 6
Il morente capitale nel precipitare il mondo nella guerra sfida il proletariato 
alla sua rivoluzione
Questa abbisogna dell’inquadramento sindacale di classe e della direzione sapiente del partito comunista
Documenti
della sinistra
del socialismo ottomano e del Partito Comunista di Turchia 
Mentre la lotta tra Stalin e Zinoviev cominciava a intensificarsi, Fyodor Raskolnikov, che operava sotto il nome di Petrov, uno stalinista, divenne il capo ufficiale della Sezione Orientale, sostituendo lo zinovievista Safarov come sua figura di spicco. Da quel momento in poi la parola d’ordine della Sezione Orientale fu bolscevizzazione. Quasi immediatamente si mise al lavoro per organizzare un nuovo Congresso del partito in stretta collaborazione con Şefik Hüsnü e la sua fazione, che nel frattempo aveva modificato la sua posizione sul kemalismo per allinearsi a quella della Sezione Orientale: sostenere i kemalisti, ma solo quando questi si trovassero in grave pericolo.
Il Congresso si tenne nel febbraio 1925 a Istanbul. Alcuni dei militanti più importanti della sinistra, come Ginzberg, Navshirvanov, Süleyman Nuri e Torosyan, non vi parteciparono perché erano fuggiti in Russia o nel Caucaso ed erano stati esclusi dal lavoro del partito. I comunisti non musulmani erano rappresentati da un nuovo alleato di Şefik Hüsnü, Nikos Zachariadis, un giovane membro greco dell’IWU.
Prima del Congresso tra i delegati emersero due correnti distinte dalla linea centrale di Aydınlık: una destra filo-kemalista, guidata da Ahmet Cevat Emre, e una sinistra, guidata da Salih Hacıoğlu e Nazım Hikmet e sostenuta da alcuni veterani della sezione di Baku, come Hamdi Şamilov e Mustafa Börklüce, che criticava il partito per aver flirtato con i kemalisti, ormai completamente compromessi con l’imperialismo e la reazione. Oltre a Hacıoğlu, l’unico tra i vecchi leader della sinistra presente era Kazım di Van.
Fra le critiche alla destra fu detto: «La nostra causa non è quella degli intellettuali, ma quella dei lavoratori. Abbiamo bisogno anche degli intellettuali, ma la questione principale è quella di elevare la coscienza della classe operaia. Dedichiamo tutte le nostre forze all’organizzazione dei lavoratori e alla conquista della loro simpatia, e stabilire un’unità più sincera e solida tra di noi».
Şefik Hüsnü fece una plateale autocritica. Ma, grazie al sostegno della Sezione Orientale, fu eletto segretario del partito senza opposizione e i suoi poteri furono notevolmente ampliati. Né la corrente di destra né quella di sinistra riuscirono a concretizzarsi durante il Congresso. Il Comitato Centrale che ne risultò fu un compromesso. Il centro di Aydınlık era il più numeroso e comprendeva Vedat Nedim Tör, eletto segretario del CC, Sadreddin Celal e Hasan Ali Ediz; Ahmet Cevat Emre e Şevket Süreyya Aydemir rappresentavano la destra, mentre Salih Hacıoğlu, Hamdi Şamilov e Nazım Hikmet rappresentavano la sinistra.
Il compromesso andava però oltre la costituzione del nuovo CC. La linea della Sezione Orientale, difesa da Şefik Hüsnü, era formulata in modo apparentemente radicale, in modo che gli inesperti militanti di sinistra si impegnassero nell’opposizione, e sufficientemente favorevole al kemalismo da mantenere la maggior parte della destra accodata al centro.
La prima prova del nuovo CC arrivò con la ribellione di Sheikh Said nel Kurdistan settentrionale: un movimento reazionario nazionale relativamente piccolo che fu brutalmente represso dal governo. La direzione del partito sostenne con entusiasmo la repressione kemalista.
Tagliati fuori dal lavoro in Turchia, i dirigenti della vecchia sinistra rivolsero la loro attenzione ai giovani militanti turchi che frequentavano l’Università Comunista dei Lavoratori dell’Est (KUTV), a Mosca o a Baku. La costituzione della frazione dell’Opposizione di Sinistra, guidata da Ginzberg e Süleyman Nuri, fu annunciata al Comintern il 17 novembre 1925. L’appello della sinistra, intitolato Dichiarazione sulla situazione del Partito Comunista Turco, era composto da due sezioni: politica e organizzativa.
Le critiche alla condotta del nuovo CC erano:
    
- negare l’esistenza di una classe operaia in Turchia;
    
- scopo dei lavoratori di Turchia sarebbe favorire il processo di accumulazione 
del capitale nazionale;
    
- spostare il reclutamento per il partito verso gli studenti universitari 
radicali perseguendo la politica borghese di sinistra.
Ginzberg ha inoltre osservato che la nuova direzione trattava le varie nazionalità presenti in Turchia come “nemici del popolo”, omettendo di criticare l’esodo forzato dei greci.
La sinistra spiegò che aveva obbedito alla disciplina finché aveva potuto, ma era stato raggiunto un punto in cui gli interessi della classe in Turchia erano stati compromessi. Per questo era giunto il momento di formare una frazione di opposizione:
«Le crisi del Partito Comunista Turco, derivanti dalle contraddizioni tra la crescente attività della classe operaia turca in fase di risveglio e la passività piccolo-borghese della direzione ostile del partito, ci costringono, in quanto militanti lavoratori attivi e fondatori del nostro partito, a levare la nostra voce di protesta più energica e insurrezionale nell’interesse del proletariato turco e del Comintern contro la politica collaborazionista borghese del partito turco, che sta distruggendo il partito del proletariato e ingannando il Comintern con bluff creati artificialmente. Gli interessi del proletariato turco esigono un’inevitabile revisione della linea di condotta della Sezione Orientale del Comintern nei confronti della direzione del Partito Comunista Turco. Gli errori di questa linea sono stati sottolineati molte volte prima e dopo il V Congresso.
«Noi, membri del Partito Comunista Turco firmatari del presente documento, in qualità di militanti disciplinati, non solo non abbiamo impedito l’applicazione di questa linea, ma non l’abbiamo violata fino a quando gli errori e i crimini del Comitato Centrale non si sono accumulati in quantità tale da cambiare il carattere della direzione del partito. Chiudere gli occhi davanti a una tale direzione, che per il futuro è diventata oggettivamente un agente della borghesia nel movimento operaio turco, significherebbe commettere un omicidio contro la nostra classe».
Passando così all’offensiva, l’Opposizione di sinistra elencò le sue richieste:
    
«In questo contesto (...) avanziamo le seguenti richieste:
    
«- Convocare una Conferenza di emergenza con gli emigrati del nostro partito, 
con i fondatori del nostro partito, che erano compagni del compagno Suphi, e con 
i rappresentanti dei lavoratori comunisti del KUTV (...)
La Conferenza dovrebbe preparare il Congresso del Partito esaminando i seguenti 
problemi:
    
a) La preparazione della parte teorica del programma,
    
b) Revisione del programma minimo,
    
c) Preparazione delle tesi della politica sulla questione dei contadini e delle 
minoranze nazionali,
    
d) La questione di un fronte sindacale unico e la sua conquista,
    
e) La riorganizzazione del partito sul modello delle cellule di fabbrica e di 
officina,
    
f) Miglioramento dello statuto del partito e della composizione sociale per 
garantire l’egemonia organizzativa e gestionale dei lavoratori nel partito,
    
g) L’organizzazione dell’apparato segreto del partito e la pubblicazione di un 
giornale e di una rivista,
    
h) Problema finanziario,
    
i) Revisione del programma educativo dei lavoratori comunisti turchi nel KUTV. 
Nomina di una commissione speciale incaricata di esaminare obiettivamente le 
cause delle morti e dei suicidi dei compagni esiliati e la situazione della 
sezione turca nel KUTV».
In particolare, nell’approccio alla risoluzione dei problemi del partito, la sinistra dimostrò di essere favorevole a un “fronte sindacale unico” piuttosto che a un fronte unito con altri partiti affini. Questo non era una novità per la sinistra: la sinistra di Istanbul si era sempre opposta a qualsiasi tipo di collaborazione con i non comunisti e aveva lavorato attivamente per distruggere i partiti socialisti e socialdemocratici. La sinistra anatolica era arrivata al punto di fondersi con i nazionalisti di sinistra e ne aveva pagato le conseguenze, rischiando di perdere il partito a causa dei suoi discutibili dirigenti. La sinistra di Baku era nata dal rifiuto dell’idea di un fronte comune tra comunisti e kemalisti che aveva portato alla morte di Mustafa Suphi e degli altri compagni.
Per quanto riguarda il riferimento alla riorganizzazione del partito sul modello delle cellule di fabbrica, questo va considerato insieme al testo di Ginzberg del 1924 intitolato “La crescita rivoluzionaria del movimento operaio in Turchia”, dove si parla dell’organizzazione di gruppi nelle fabbriche, nei sindacati e nei quartieri. Possiamo quindi concludere che l’approccio della sinistra non era contrario alla formazione di cellule di fabbrica, ma non limitava l’organizzazione interna a tali organi limitati, bensì era favorevole alla creazione di sindacati e gruppi locali.
Oltre a Ginzberg e Süleyman Nuri, gli esponenti più importanti della sinistra esclusi dal lavoro del partito per opposizione furono Navshirvanov, Kazım di Van e Torosyan. È difficile, anche se non impossibile, rintracciare la sinistra nella storia dopo la formazione della Opposizione di sinistra. Kazım di Van fu cooptato nel Comitato Centrale nel 1926 e non ci sono prove che abbia svolto un ruolo attivo nell’opposizione dopo questo momento.
Il relatore ha infine presentato tre documenti afferenti l’ultima sezione di questo lavoro.
Il primo è la “Dichiarazione della sinistra sulla situazione del Partito Comunista Turco”.
Il secondo è l’articolo intitolato “La situazione in Turchia” pubblicato su “Die Fahne Des Kommunismus” (“La bandiera del comunismo”), il giornale dell’organizzazione di opposizione di sinistra tedesca Leninbund, il 19 luglio 1929.
Il terzo è la Introduzione alla traduzione turca di “La situazione reale in 
Russia” di Trotzki, che si distingue per l’elogio a Trotzki come capo del 
comunismo ma senza identificarsi come trotzkista.
I tre testi saranno riprodotti nella pubblicazione estesa del rapporto.
La classe operaia in Burkina Faso
Nelle precedenti riunioni abbiamo fornito una panoramica sulla storia del Burkina Faso dal precolonialismo ad oggi, nonché una breve analisi della situazione politico-economica del Paese dopo i colpi di Stato del 2022, delle sue relazioni con gli altri Paesi confinanti del Sahel, Mali e Niger, culminate nella prima alleanza militare, poi economica e politica, degli Stati del Sahel (AES), della sua guerra in corso contro l’insurrezione islamista, fattore diretto che ha portato ai colpi di Stato e le sue potenziali prospettive future per la lotta di classe globale.
In questa riunione ci siamo concentrati sui movimenti della classe operaia dal colonialismo ai giorni nostri e sui rapporti di lavoro all’interno dell’economia coloniale.
Il proletariato in Burkina Faso è stato storicamente, e lo è ancora, una minoranza statistica della popolazione lavorativa complessiva, la cui maggioranza appartiene al contadiname. Tuttavia la classe operaia, dagli ultimi giorni del colonialismo fino ad oggi, è stata un fattore decisivo nelle vicende politiche del Paese. In una economia capitalista in sviluppo iniziale, il movimento operaio organizzato che non è stato ancora del tutto cooptato dalla borghesia come nei paesi metropolitani.
Alla fine del XIX secolo, nel pieno della colonizzazione capitalista moderna in Africa, il capitalismo francese trovò nell’occidente del continente strutture sociali precapitalistiche e in gran parte comunitarie, caratterizzate dal lavoro interno alle unità familiari, con il commercio degli schiavi e lo scambio di poche merci ai margini delle comunità. La logica vampiresca del capitale, nascosta dietro l’ideologia della “civilizzazione”, vi vedeva un’area aperta alla sua espansione. L’Alto Volta, poi Burkina Faso, a causa della mancanza di risorse naturali e della scarsa fertilità del terreno, fu deputato principalmente come serbatoio di manodopera per le altre colonie dell’Africa occidentale, in particolare la Costa d’Avorio.
Questa forma di accumulazione primitiva, pur mantenendo una struttura capitalista coloniale, perpetuò forme di produzione non capitalistiche. Ciò non era dovuto solo alla natura puramente di rapina coloniale, che stabilizzava il sottosviluppo capitalistico, ma anche alla resistenza della popolazione indigena.
La popolazione dell’Alto Volta coloniale si suddivideva nella classe coloniale dominante e nei contadini. All’interno della prima si distinguevano la burocrazia amministrativa, gli ufficiali militari e la classe capitalista vera e propria, ovvero gli acquirenti di forza lavoro. Questi diversi ceti erano anche in conflitto fra loro e al loro interno: fra amministrazioni coloniali (nel 1933 tra Costa d’Avorio, Sudan, oggi Mali, e Niger); tra il capitale privato e lo Stato rappresentato dagli amministratori coloniali; tra capitali nazionali, nel caso specifico francesi e britannici.
La colonizzazione francese cercò dapprima di impiantare piantagioni per la coltura del cotone. Tentò anche di mercificare la pratica antica della raccolta delle noci di karité e del kapok (un materiale simile al cotone). Ma questi tentativi non ebbero successo.
Con l’aumento della produzione alimentare nel corso degli anni ’30, crebbe anche la produzione commerciale per il mercato mondiale. Ciò ricevette un impulso con la ferrovia Régie-Abidjan-Niger, inaugurata nel 1910 e ampliata fino a Bobo-Dioulasso, più a sud-ovest di Ouagadougou, negli anni ’30.
Le politiche economiche francesi cercavano di caricare un doppio giogo sugli indigeni: oltre ai mali della produzione capitalista e i suoi rapporti di lavoro, inondando la colonia con merci importate dalla metropoli. Ma anche questo tentativo fallì, poiché i contadini rifiutavano l’economia monetaria, affidandosi alla produzione agricola familiare/tribale per il fabbisogno alimentare e all’artigianato locale.
Per costringere gli indigeni a partecipare all’economia monetaria i francesi imposero un sistema fiscale, in particolare una tassa pro capite nel 1906. Ciò rese necessarie procedure amministrative e contabili e censimenti periodici. Ma ancora negli anni ’30 il divario tra l’economia contadina e quella capitalista era ancora molto ampio. La resistenza dell’economia di villaggio continuò anche dopo la seconda guerra mondiale.
Il dominio coloniale francese imponeva a ogni villaggio un numero di giorni-persona all’anno, prestations, forzate, non retribuite: circa 8 giorni di lavoro a persona tra il 1917 e il 1938. Questo lavoro era utilizzato per costruire e mantenere le infrastrutture locali di base. La manodopera era prelevata dalla sfera non capitalistica a costo quasi zero per l’economia coloniale, poiché i costi del mantenimento e della riproduzione della forza lavoro erano esternalizzati all’economia contadina.
Oltre al lavoro giornaliero forzato era utilizzato anche il lavoro salariato.
Alla fine degli anni ’30, al fine di sviluppare le colture della Costa d’Avorio, che richiedevano una grande massa di manodopera, i francesi introdussero programmi per invogliare le etnie Mossi e Gourounsi a colonizzare la zona. Questa politica ebbe un successo mediocre: le famiglie furono invece attratte dal lavoro salariato e dalla produzione di colture da reddito.
La coscrizione nell’esercito francese era l’altra forma di lavoro forzato. Il suo apice fu raggiunto durante la prima e la seconda guerra mondiale. Abbiamo già menzionato nelle precedenti relazioni la guerra del Volta-Bani del 1915-1916, un’eroica resistenza dei contadini contro le ingenti quote di giovani uomini inviati in guerra. Ciò si trasformò in una lotta armata contro i colonizzatori, di cui abbiamo già ricordato alcuni delle famigerate ritorsioni.
In generale, queste politiche del lavoro imposte dai colonialisti erano ovviamente estremamente impopolari e i contadini si ribellarono in modo sottile ma efficace per evitarle.
I contadini evitavano il lavoro coloniale e le tasse o fuggendo, semplicemente 
trasferendosi in un altro villaggio, o emigrando in Costa d’Oro. La Costa d’Oro, 
colonia rivale britannica, aveva un’economia molto più sviluppata delle colonie 
francesi dell’epoca, non aveva bisogno di una politica di lavoro forzato e 
richiedeva maggiore lavoro salariato
Le infrastrutture pubbliche, strade, ferrovie e collegamenti telegrafici, non 
furono costruite per integrare la colonia o le colonie in un mercato interno 
unificato o per favorire l’industrializzazione, ma per estrarre in modo più 
efficiente manodopera e materie prime verso la metropoli e il mercato mondiale. 
Come osservò Marx il colonialismo non era “progressista” nemmeno secondo gli 
standard del capitalismo: non solo portò a un netto peggioramento della qualità 
della vita degli africani indigeni, ma fallì persino nella ragion d’essere del 
capitalismo, finendo per bloccare lo sviluppo delle forze produttive. Solo il 
rovesciamento del dominio coloniale e la successiva indipendenza politica 
avrebbero potuto consentire alle relazioni capitalistiche di svilupparsi oltre i 
limiti coloniali, preparando così il terreno materiale per l’emergere del 
proletariato e la successiva rivoluzione proletaria. Questo è il motivo 
principale per cui i comunisti hanno sostenuto i movimenti democratico-borghesi 
nelle colonie.
Nel prossimo rapporto sarà documentato e interpretato l’emergere del proletariato sulla scena storica e le sue lotte di classe nell’Alto Volta postcoloniale (oggi Burkina Faso).
Vicende del capitalismo tedesco
Dal 2008, anno della crisi finanziaria globale, il capitalismo tedesco mostra evidenti le contraddizioni che lo attraversano da decenni, una instabilità di un sistema apparentemente solido. Sotto la superficie di efficienza, produttività e stabilità si celano tensioni storiche, fratture regionali e squilibri sociali ed economici che affondano le loro radici nella struttura dello Stato-nazione tedesco e nel modo in cui si è sviluppato il suo capitalismo sin dalla seconda metà del XIX secolo.
I passaggi di questa traiettoria partono dall’unificazione del 1871, passano per 
la divisione Est-Ovest dopo il 1945 e arrivano all’attuale fase del capitalismo 
tedesco nel suo sforzo di espansione, adattamento e resistenza alle crisi.
Fino all’unificazione, avvenuta formalmente nel 1871 a seguito della vittoria 
prussiana nella guerra contro la Francia, la frammentazione in molteplici regimi 
politici (monarchie costituzionali, principati, città libere) avevano ostacolato 
lo sviluppo di un’economia capitalistica nazionale. L’Unione Doganale 
(Zollverein) e l’espansione della rete ferroviaria erano stati i primi passi, ma 
è solo dopo l’unificazione che si può parlare di rivoluzione industriale tedesca.
In pochi decenni, la Germania compie un balzo in avanti eccezionale: l’industria 
passa a rappresentare quasi il 48% del PIL contro il 30% nel 1871; il PIL pro-capite 
raddoppia tra il 1871 e il 1913; la produzione di acciaio arriva a 17,6 milioni 
di tonnellate, seconda solo agli Stati Uniti, e supera di gran lunga Francia 
(4,6) e Regno Unito (7,7); nella chimica (coloranti, fertilizzanti, farmaci, 
esplosivi), la Germania domina il mercato globale con aziende come BASF, Bayer, 
Hoechst. Il settore ferroviario, la meccanica pesante e la produzione di 
macchine utensili sono pilastri dell’economia nazionale. La Siemens e l’AEG 
guidano l’innovazione nel campo elettrico e dell’ingegneria industriale.
In questo sviluppo impetuoso la borghesia industriale tedesca rafforza il suo 
potere economico, ma sul piano politico rimane subordinata alla conservatrice 
nobiltà terriera.
Il proletariato urbano cresce numericamente e in organizzazione, ma rimane fortemente sfruttato. Le città industriali vedono nascere i primi movimenti socialisti e sindacali, mentre la campagna continua a essere dominata da rapporti sociali arretrati. Lo sviluppo del capitalismo tedesco dunque si fonda fin dalle origini su una tensione tra accelerazione economica e blocco politico, tra modernità produttiva e conservatorismo istituzionale.
La Germania imperiale già nel 1913 si era consolidata come il cuore industriale dell’Europa continentale. Questo dinamismo fu alla base della competizione con le potenze coloniali europee.
Durante la Prima guerra mondiale l’intero apparato industriale fu riconvertito allo sforzo bellico. La produzione civile crollò mentre si impennava la spesa pubblica.
Negli anni successivi, tra inflazione galoppante e instabilità politica, la Repubblica di Weimar avviò una ricostruzione con il sostegno americano (Piano Dawes), ma la crisi del 1929 riportò l’economia in ginocchio. Con oltre 6 milioni di disoccupati nel 1932 il malcontento dilagò e gli industriali appoggiarono in modo crescente il partito nazista.
Il Terzo Reich rilanciò l’industria tramite il riarmo: la spesa militare passò da 1,9 miliardi di RM nel 1933 a 15,5 nel 1938; l’occupazione fu rilanciata (con la disoccupazione al 2% nel 1939).
Dopo la sconfitta nella guerra la Germania fu una delle vittime della nuova divisione del mondo in blocchi. Nel 1949 la spartizione dell’Europa tra le potenze vincitrici portò alla nascita di due Stati tedeschi: la Repubblica Federale, asservita agli USA e dichiaratamente capitalista, con capitale a Bonn, e la Repubblica Democratica, sottomessa alla Russia, falsamente socialista, con capitale a Berlino Est.
Il processo di ricostruzione fu molto diverso nelle due metà. La Germania Ovest 
poté contare sull’enorme sostegno del Piano Marshall: ricevette circa 1,4 
miliardi di dollari tra il 1948 e il 1952, destinati soprattutto all’industria e 
alla modernizzazione delle infrastrutture. Grazie a questa spinta iniziale e 
alla struttura produttiva ancora in parte intatta (specialmente a Sud e Ovest), 
si inaugurò il cosiddetto Wirtschaftswunder, o “miracolo economico”.
Durante gli anni ’50 e ’60, la RFT conobbe tassi di crescita straordinari, il 
PIL crebbe mediamente del 7-8% annuo fino al 1966 mentre la disoccupazione nel 
decennio 1950-60 scese dall’11% al 1,2%, mancando i 7 milioni di morti nella 
guerra.
L’industria tedesca divenne fortemente esportatrice. Le automobili (Volkswagen, Mercedes-Benz, BMW), le macchine utensili, i prodotti chimici e farmaceutici posero la RFT ai vertici della produzione mondiale. Questo sviluppo fu accompagnato da un rafforzamento dei sindacati di regime e da un sistema di cogestione (Mitbestimmung) col quale ai lavoratori si faceva credere di poter influenzare alcune decisioni aziendali.
La Germania Est seguì un percorso molto diverso. La RDT adottò una economia presuntamente pianificata, ispirata al capitalismo di Stato russo. Le principali industrie furono nazionalizzate già tra il 1946 e il 1948, dando vita al cosiddetto Volkseigener Betrieb (VEB), la “impresa popolare”. La produzione era orientata soprattutto ai beni intermedi e all’industria pesante, mentre la disponibilità di beni di consumo era limitata. La crescita economica fu stabile, ma più contenuta rispetto all’Ovest, e spesso condizionata da inefficienze strutturali.
Uno dei problemi principali per la RDT fu la fuga dei lavoratori qualificati verso la Germania Ovest: tra il 1949 e il 1961 circa 2,5 milioni di tedeschi orientali emigrarono in cerca di salari più alti e migliori condizioni di vita. La costruzione del Muro a Berlino nel 1961 fu la drastica risposta a questo esodo.
Sebbene nel corso degli anni ’70 la RDT avesse raggiunto livelli ragguardevoli nella meccanica e nell’elettronica di base, rimaneva indietro sul piano tecnologico, ed era fortemente dipendente dagli scambi con l’URSS. Il confronto con la RFT era impari: nel 1989, alla vigilia del crollo del Muro, il PIL pro capite della RDT era meno della metà di quello dell’Ovest, e l’indice di produttività era fermo al 65% del livello occidentale.
La caduta del Muro di Berlino è dell’8 novembre 1989. La riunificazione sul piano economico, giuridico e istituzionale si configurò come una annessione della RDT da parte della RFT. Il marco orientale fu convertito al cambio di 1:1 per salari e pensioni (e 2:1 per i risparmi), svantaggioso per le imprese orientali. In pochi anni gran parte del tessuto industriale della ex Germania Est fu smantellato o svenduto a investitori occidentali. La Treuhandanstalt, l’ente preposto alla privatizzazione, gestì oltre 14.000 imprese, assegnate per più del 70% a soggetti dell’Ovest. Molte furono chiuse. Nei Lander orientali circa 2,5 milioni di posti di lavoro furono persi solo negli anni ’90.
Il divario economico tra Est e Ovest non si è poi ridotto: il PIL pro capite a Est resta oggi attorno al 75-80% della media occidentale; i salari sono più bassi del 15-20%, in alcuni casi anche del 25%; la popolazione giovane ha continuato a migrare verso Berlino, Amburgo, Monaco.
A partire dagli anni 2000 alcune aree, come la Sassonia e il Brandeburgo, hanno 
attratto nuovi investimenti tecnologici, soprattutto nei settori 
dell’elettronica, delle energie rinnovabili e dell’auto (es. Tesla a Grünheide). 
Tuttavia gran parte dei Lander orientali è ancora oggi caratterizzata da una 
maggiore dipendenza dal settore pubblico, bassi investimenti privati e 
spopolamento rurale, suscitando sentimenti di esclusione e disillusione post-riunificazione.
Dopo un primo rallentamento negli anni ’90, causato dai costi dell’unificazione, 
l’economia tedesca conobbe una seconda ondata di espansione nel decennio 2000, 
trainata: dalla domanda cinese (soprattutto nel settore auto e meccanica); dalla 
riduzione del costo del lavoro (riforme Hartz); dalla moneta unica europea che 
ne favoriva le esportazioni.
La crisi del 2008 fu molto profonda, la produzione industriale crollò del 25% in un anno, anche se la Germania fu tra i primi paesi a riprendersi grazie all’export.
Nel 2017 si raggiunse il massimo storico del PIL manifatturiero, iniziando dal 2018 un rallentamento strutturale, poi aggravato dalla pandemia e dall’aumento del costo dell’energia a seguito della guerra in Ucraina.
Il settore automobilistico è oggi in grave difficoltà: la produzione è calata di oltre il 20% tra il 2018 e il 2023; i costruttori cinesi (BYD, NIO, XPeng) stanno erodendo quote di mercato; nel 2023 il governo ha ritirato gli incentivi all’acquisto di veicoli elettrici.
Il caro energia ha inciso pesantemente sui costi industriali, che oggi sono del 30-40% superiori alla media europea, spingendo molte imprese a delocalizzare. Al contempo la carenza di manodopera qualificata e la stagnazione degli investimenti pubblici minano la competitività futura.
La fiducia nel modello tedesco si sta erodendo proprio nei suoi fondamenti 
storici: lavoro, industria e stabilità.
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Essere comunista non significa diventare una persona migliore, significa smettere di essere una persona nel senso borghese del termine. L’individuo e la sua personalità, come la conosciamo oggi, non sono un fatto eterno, ma un artefatto storico, nato insieme alla proprietà privata, allo scambio di merci e alla frammentazione della specie in individui isolati che vendono la loro forza lavoro sul mercato capitalista.
Nei Manoscritti del 1844 Marx sostiene che l’uomo è un essere-specie in quanto si considera come elemento della specie vivente, come un essere universale, e quindi libero. Invece nel capitalismo l’essere umano è mutilato, alienato dalla sua natura, dagli altri e dal proprio corpo, ridotto a un soggetto giuridico intrappolato in un guscio psicologico, in uno stato di oppressione.
L’anti-individualismo e il naturalismo materialista di Marx derivano dalla comprensione che la storia umana, come la storia naturale, si svolge attraverso processi materiali impersonali, che determinano la presunta volontà individuale. Come scrisse a Engels nel 1860, «Il libro di Darwin è molto importante e mi serve come la base nelle scienze naturali della lotta di classe nella storia», affermando che l’evoluzione delle specie e della società segue leggi fisiche che vanno oltre l’intenzione personale.
Oggi numerose prove empiriche lo confermano. Anche le neuroscienze borghesi rivelano sempre più la finzione di un sé sovrano e metafisico. «Non esiste un unico centro cerebrale in cui tutto converge», scrive il neuroscienziato Michael Gazzaniga, «ciò che troviamo invece è che il cervello sinistro interpreta a posteriori i comportamenti e le sensazioni che si sono già verificati, creando l’illusione dell’unità» (“Who’s in Charge?”, 2011). La mente individuale non è autonoma, viene per ultima, è socialmente costruita e materialmente dispersa. Indipendentemente dalla illusione di un sé individuale coerente e stabile, i lavoratori salariati sono costretti con la violenza ad accettare e a conformarsi alla realtà sociale, causando angoscia e miserie incommensurabili.
Il neuroscienziato Antonio Damasio afferma: «La mente è incarnata, non è solo racchiusa nel cervello, nasce dall’interazione tra l’interno del corpo, il sistema motorio dell’organismo, e il mondo esterno» (“The Feeling of What Happens”, 1999). Il pensiero non è una funzione immateriale, ma un prodotto del respiro, della digestione, del movimento e della regolazione ormonale. Le decisioni non sono atti sovrani della volontà, ma reazioni neurochimiche plasmate dalla storia e dai traumi della lotta di classe. L’anima, l’ego, la vita interiore del soggetto moderno è semplicemente una diramazione del sistema nervoso contorto dal capitale.
«La mente umana stessa è una confluenza di reti neurali multiple, spesso in competizione tra loro, che sono plasmate dall’esperienza sociale» (“The Tell-Tale Brain”, 2010). Queste reti fisiche e organiche nascono dal linguaggio, dal lavoro e dalla riproduzione sociale. Non sono fenomeni privati o magici, ma storici e biologici. Gli studi di Frans de Waal sull’empatia nei primati e le ricerche di Sarah Brosnan sull’avversione all’ineguaglianza rivelano che la reciprocità sociale non è un costrutto morale, ma un istinto evoluto della famiglia dei primati. Nessun animale si aggrappa all’illusione dell’autonomia individuale: solo il capitalismo produce questa patologia.
Questa frammentazione è intensificata dalla società di classe. Il trauma psicologico non è un difetto individuale, ma la registrazione biologica della violenza sistemica. Bessel van der Kolk, ricercatore sul disturbo da stress post-traumatico, scrive: «Il trauma provoca una riorganizzazione fondamentale del modo in cui la mente e il cervello gestiscono le percezioni... Cambia non solo il modo in cui pensiamo e ciò che pensiamo, ma anche la nostra stessa capacità di pensare» (“The Body Keeps the Score”, 2014). Lo stress cronico rimodella il sistema nervoso autonomo – frequenza cardiaca, digestione, sistema immunitario – e persino l’espressione genica. Uno studio sui sopravvissuti all’Olocausto condotto da Yehuda et al. (2016) ha dimostrato che il trauma altera i modelli di metilazione dei geni che regolano il cortisolo. Come spiega la biologa Eva Jablonka, «i fattori di stress ambientali, compreso il trauma, possono indurre cambiamenti epigenetici ereditari... modellando i percorsi di sviluppo in risposta alle esigenze ecologiche». Il biologo Massimo Pigliucci aggiunge: «Gli organismi non sono passivi nell’evoluzione, ma modellano attivamente il proprio percorso». La violenza del capitale non si limita a deformare la psiche, ma si inscrive nella biologia.
Eppure, questa stessa capacità di trasformazione è al centro dell’evoluzione delle specie. La mente umana si è evoluta attraverso il lavoro cooperativo volto alla creazione di strumenti, nel linguaggio e nella vita condivisa. Le neuroscienze confermano che la cognizione prospera in ambienti attivi e sociali, non in compiti intellettuali isolati o nella specializzazione meccanica. Ma il capitalismo spezza questa unità evolutiva. Divide il cervello dalla mano, l’intelletto dal corpo, il pensiero dal lavoro. Il lavoro mentale è riservato a una minoranza ideologicamente fedele, mentre la stragrande maggioranza è ridotta a un lavoro ripetitivo. Sotto il comunismo, questa divisione viene abolita. Il lavoro diventa l’attività unificata dell’essere specie: una riproduzione collettiva e consapevole della vita.
La ricerca scientifica non fa che approfondire questa intuizione, già del 
filosofo Averroè nel XII secolo. Il neuroscienziato V.S. Ramachandran scrive: 
«La nozione stessa di un sé singolo è un’illusione. Infatti, anche a livello 
mentale, esso opera collettivamente. La nostra intelligenza non risiede nei 
singoli cervelli, ma nella mente collettiva”.
Scrive Steven Sloman, scienziato cognitivo, in “The Knowledge Illusion: Why We 
Never Think Alone”, «Gli individui non si affidano solo alle conoscenze 
contenute nel nostro cranio, ma anche a quelle immagazzinate altrove: nel nostro 
corpo, nell’ambiente e soprattutto negli altri uomini». A sostegno di questa 
affermazione Sloman attinge a una serie di ricerche nel campo delle scienze 
cognitive che dimostrano che gli individui sopravvalutano costantemente la loro 
comprensione dei sistemi complessi, una “illusione di profondità esplicativa”. 
In un esperimento, i partecipanti erano sicuri di capire come funzionassero 
oggetti di uso quotidiano come i WC o le cerniere, ma quando è stato chiesto 
loro di spiegarne i meccanismi in dettaglio la loro sicurezza è rapidamente 
crollata. Perché ciò che consideriamo “conoscenza” non si trova nel cervello 
individuale, ma è distribuita tra strumenti, linguaggio, istituzioni e 
soprattutto altri uomini. La cognizione umana non risiede in menti isolate ma in 
un sistema interconnesso di pensiero condiviso, da una “comunità della 
conoscenza”.
Possiamo quindi vedere qui gli aspetti fondamentali della tesi marxista anti-individualista sollevata già quasi 200 anni fa e in particolare lo scopo e la necessità dell’organo collettivo del partito all’interno della vita biologica della classe.
La società borghese ci impone di interiorizzare i sensi di colpa, di aggrapparci alla redenzione personale e di soffrire in isolamento. Ci offre l’amore romantico radicato nella famiglia patriarcale, la giustizia legale e le guide di auto-aiuto come sostituti dell’emancipazione collettiva. La nostra norma di comunisti “non amare nessuno, amare tutti” non è indifferenza, è solidarietà impersonale contro la disperazione personale.
Nel comunismo non ci sarà nessuno da perdonare o condannare, nessun registro individuale di peccati e meriti. Non si giudicheranno le singole anime, ma la specie in movimento.
Come tutti gli animali, gli esseri umani sono plasmati da sistemi istintivi: 
attaccamento, paura, coesione, tutti evolutisi per la sopravvivenza collettiva. 
Ma il capitalismo ci costringe a sopprimere questi sistemi e a fabbricare ego 
per sopportare lo sfruttamento. Come osserva il neuroscienziato Bruce Perry, il 
trauma sviluppa eccessivamente le risposte alla paura e blocca l’empatia, 
trasformandoci in organismi difensivi e frammentati. Ciò che la psicologia 
borghese chiama “personalità” spesso non è altro che il tessuto cicatriziale di 
un essere-specie danneggiato.
Eppure questo adattamento difensivo contiene la propria negazione. Quando la 
crisi rompe il guscio dell’ego, gli istinti di classe esplodono. Nel fervore 
della rivolta, il falso sé si dissolve e riemerge la solidarietà proletaria, non 
dall’ideologia ma dalla vita. La storia delle rivolte mostra questo schema: 
durante l’aumento delle lotte, le crisi alimentari e la repressione, l’individuo 
si disintegra e il corpo istintivo della classe si risveglia.
La teoria comunista non è terapia o raffinamento spirituale. È la critica spietata della società di classe e del falso sé che essa produce. Si rivolge al proletariato non come somma di persone, ma come specie che si manifesta attraverso la lotta di classe e la guerra rivoluzionaria. La rivoluzione non è una questione di individui migliori, è la distruzione dei rapporti che li producono.
L’attivismo, le terapie, il tempo libero e l’intellettualismo offrono un rifugio momentaneo, ma confermano la separazione. La catastrofe non arriverà perché non riusciremo a risolvere i nostri problemi di individui, ma perché il capitale non sarà più in grado di riprodurre i suoi rapporti sociali. In quella rottura, il falso sé svanirà. L’umanità ne riemergerà non come uno sciame di ego, ma come una forza della natura. Sarà guidata nel trapasso rivoluzionario dal “cervello collettivo” del Partito, organo della memoria storica delle esperienze e delle lezioni della classe, portatore del programma comunista immutabile.
Dopo le doglie del parto della dittatura del proletariato e della successiva eliminazione delle vestigia del modo di produzione capitalista, la specie sarà finalmente in grado di ottenere la sua riproduzione reale, materiale e razionale.