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Comunismo n. 95-96 - ottobre-dicembre 2023 - Anno XLV
aggiornato al 12 dicembre 2023

La rivoluzione proletaria in Ungheria

21 marzo - 1 agosto 1919

Una storia documentaria


Rapporti esposti su più riunioni generali dal 2016 al 2023



Sintesi
1. - L’Ungheria al termine della guerra mondiale
    1.1. Un Impero multinazionale - 1.2. La condizione dei contadini - 1.3. L’industria - 1.4. Il movimento operaio e socialista - 1.5. Anarchici e populisti - 1.6. La piccola borghesia urbana
2. - Nuovo assetto nazionale in Europa orientale
    2.1. Fine dell’Impero Austro-Ungarico - 2.2. – L’indipendenza della Cecoslovacchia - 2.3. La capitolazione dell’Ungheria - 2.4. Il crollo finale - 2.5. L’Armistizio di Villa Giusti
3. - La “Rivoluzione delle rose”
    3.1. La spartizione - 3.2. Il PSDU e la guerra mondiale - 3.3 La rinuncia anche al programma socialdemocratico - 3.4. Il pretesto della rivoluzione “prematura”
4. - Il Partito Comunista di Ungheria
    4.1. La guerra mondiale e la prigionia in Russia - 4.2. Portare la rivoluzione in Ungheria - 4.3. Il Gruppo Ungherese del P. Bolscevico russo - 4.4. Il rientro dei prigionieri - 4.5. La fondazione a Mosca del Partito ungherese
5. - Partito e dittatura
    5.1. Moti operai - 5.2. La rifondazione del Partito - 5.3. La situazione precipita - 5.4. Verso la rivoluzione - 5.5. Partito e sindacati - 5.6. Il vero volto della democrazia borghese - 5.7. Si ordisce la simulazione - 5.8. La vana Piattaforma per l’unificazione - 5.9. La borghesia cede il potere - 5.10.- Scatta la trappola dell’ ”unità” - 5.11.- Budapest chiama Mosca
6. - Una dittatura del proletariato in Europa
    6.1. La questione agraria - 6.2. Riforme economiche e sociali - 6.3. Le abitazioni - 6.4. Famiglia e igiene - 6.5. La relazione di Eugenio Varga - 6.5.1. I limiti della socializzazione - 6.5.2. Tecnici e burocrazia - 6.6. Penuria alimentare e cooperative di consumo - 6.7. Istruzione, scienze, arti - 6.8. La costituzione provvisoria - 6.9. La struttura centralizzata del potere sovietico - 6.10. L’ingombrante presenza socialdemocratica - 6.11.- In Austria si ordisce la reazione - 6.12.- Mancò la direzione comunista dei sindacati - 6.13.- L’Armata Rossa - 6.14.- Dibattiti troppo tardivi nel Partito
7. - L’imperialismo muove all’attacco
    7.1. Appello alla difesa della Repubblica - 7.2. L’offensiva dei cechi e dei romeni - 7.3. La rivoluzione non disarma - 7.4. La controffensiva rossa - 7.5. Diplomazia traditrice dell’Intesa - 7.6. Il congresso di giugno - 7.7. Lo scontro fra le potenze - 7.8. Accettare la pace-capestro - 7.9. Argomenti contrari - 7.10.- Il parere di Lenin - 7.11.- La risoluzione del congresso - 7.12.- Appello ai proletari di Francia - 7.13.- Moti in Austria
8. - La fine della Repubblica dei Consigli
    8.1. L’ultimo Comitato Direttivo - 8.2. Lo sciopero internazionale 20-21 luglio - 8.2.1 “Manovre borghesi contro lo sciopero” - 8.2.2. Insufficiente solidarietà internazionale - 8.3. L’ultima resistenza rossa - 8.4. La denuncia dell’Internazionale
9. - Contro-rivoluzione
    9.1. “Il Soviet” sul dopoguerra imperialista - 9.2. Sabotaggio interno - 9.3. Non giunge l’esercito russo - 9.4. Primo tentativo dei bianchi - 9.5. I “soccorsi” americani - 9.6. Il “Governo di Szeged” - 9.7. Codarde manovre della borghesia italiana - 9.8. Il governo “socialista” e l’occupazione romena - 9.9. Dal riformismo al fascismo - 9.10. Il terrore bianco - 9.11. Horty continuità della dittatura borghese
10. - Perché fu sconfitta la rivoluzione ungherese
    10.1. Il giudizio finale di Béla Kun - 10.2. Mancò la direzione del partito sui sindacati - 10.3. La tardiva lotta di tendenze nel partito - 10.4. Dal riformismo al terrore bianco - 10.5. Rompere con il Centro - 10.6. Non “sbloccare” i riformisti a sinistra ma risospingerli a destra!






«Il significato della rivoluzione proletaria ungherese, che ha portato per prima il fuoco della rivoluzione nell’Europa centrale, è incommensurabile» (Lenin)

Lenin, sul retro dell’ultima pagina della sua copia dell’opuscolo di Béla Kun “Von Revolution zu Revolution”, pubblicato nel 1920 a Vienna, scrisse: «Buona fermezza delle convinzioni rivoluzionarie dell’autore, la sua incrollabile fede nel comunismo. Sono buone le convinzioni sul Partito, sul come deve essere. È buona la critica ai socialdemocratici. Ma un difetto enorme è la totale mancanza di fatti. Ciò rende debole l’opuscolo. Su 55 pagine, 40 dovrebbero essere piene di fatti precisi (storia del partito socialdemocratico e della rivoluzione, nonché della controrivoluzione, in Ungheria); dare un quadro dei fatti e lasciare 15 pagine per la loro valutazione. Senza tale rifacimento l’opuscolo è assai debole, inadatto alla diffusione».

Bene compagno Lenin, ricevuto! Proviamo qui a completarlo noi.

Ci è stato agevole descrivere le vicende della rivoluzione ungherese attingendo quasi esclusivamente ai documenti scritti che ci hanno lasciato i suoi meravigliosi dirigenti comunisti e splendidi combattenti. Abbiamo integrato anche alcuni documenti dei loro, e nostri, nemici, quelli insolitamente sinceri.







Sintesi

Al termine del primo macello imperialista mondiale le forze vincitrici dell’Intesa si accingevano a spartirsi il territorio della Grande Ungheria.

La vile borghesia ungherese, alleata ai grandi proprietari terrieri semifeudali, considerò suo primo compito impedire che la rivoluzione democratica si trasformasse in rivoluzione socialista.

La locomotiva della rivoluzione era sotto pressione. Nell’Europa orientale, alla fine della guerra la classe operaia, assieme ai contadini poveri, disorganizzati, era la sola rivoluzionaria. Furono queste le forze che diedero la spallata finale a spazzar via la monarchia degli Asburgo.

La classe operaia, più organizzata e cosciente, aveva rovesciato la monarchia nella prima fase della rivoluzione. Nel forte e battagliero proletariato ungherese trovarono terreno fertile le parole di potere sovietico e di insurrezione armata provenienti dal giovane Partito Comunista (PCd’U).

Mentre le forze armate si disgregavano, sconfitte nella guerra imperialista, l’agitazione e l’organizzazione del Partito convincevano gli operai ad armarsi, approfondendo la crisi.

In breve gli operai dell’industria occuparono, armi in pugno, fabbriche e grandi proprietà agricole, cacciandone proprietari e dirigenti. Nelle città di provincia e nei villaggi si registrarono numerose scaramucce con le residue e scarse forze armate del potere statale.

Però nella maggior parte dei casi l’impiego delle armi non fu necessario dato che la borghesia ripiegò, affidando la sua protezione solo al Partito Socialdemocratico Ungherese (PSdU). Ma questo partito, non avendo sufficiente controllo delle masse, non riuscì a svolgere il ruolo di Noske in Germania.

Così il 21 marzo 1919 il proletariato al potere proclamò la Repubblica Sovietica.










1. L’Ungheria al termine della guerra mondiale


1.1. - Un Impero multinazionale

L’Ungheria – all’interno della bicefala monarchia scaturita dall’Ausgleich del 1867, che segna il passaggio dall’Impero Impero Austro-Ungarico – era uno Stato multinazionale in cui, con la maggioranza magiara di quasi 10 milioni di abitanti, il 54,5% della popolazione, convivevano diverse nazionalità: romeni 16%; slovacchi 11%; tedeschi 10%; serbi 3,5%; ruteni 2,5%, che insieme ne costituivano l’altra metà. La maggioranza magiara opprimeva le minoranze nazionali, quasi che le lotte per l’indipendenza dall’Austria del ’48 avessero trasmesso nelle classi dominanti ungheresi l’esigenza di quella oppressione nazionale che prima avevano subito dagli Asburgo.


Nella mappa i gruppi etnici dell’Austria-Ungheria nel 1910 secondo Distribution of races in Austria-Hungary, di William R. Shepherd, 1911.

Nel 1914 solo l’8% della popolazione aveva diritto al voto, legato al censo e al grado di istruzione. Il fatto poi che il voto doveva essere espresso palese favoriva, soprattutto nelle campagne, la componente magiara. La pratica dell’acquisto dei voti era diffusa: per garantirsi l’elezione in un collegio bastavano fra le 30 e le 100 mila corone.

Dal 1868 il sistema scolastico si era uniformato a quello austriaco, con frequenza obbligatoria e gratuita dai 6 ai 12 anni. Ma di fatto l’istruzione era manchevole: su 13 milioni di ragazzi in età scolare un terzo era analfabeta, il 28% non era neppure iscritto alla scuola e più del 70% degli iscritti non ultimava la scuola elementare. L’80% delle scuole elementari e il 65% delle medie-superiori erano private o gestite dalla Chiesa. Quasi ovunque mancava l’insegnamento nella lingua della minoranza nazionale.

La Chiesa cattolica, alla quale aderiva il 63% degli abitanti delle “Terre della Corona di Santo Stefano”, la “Grande Ungheria”, godeva di una posizione privilegiata nello Stato. Vi erano poi il 14,3% di ortodossi, il 12,6% di calvinisti, il 6,4% di luterani e il 4,5% di ebrei. Fin dal 1895 le maggiori confessioni religiose erano riconosciute legalmente su un piano di parità. Anche se non esisteva un concordato con la Santa Sede, nelle lotte per l’indipendenza del XIX secolo, le gerarchie cattoliche si erano schierate dalla parte imperiale, con posizioni reazionarie e antisemite. Allo scoppio del primo macello mondiale si collocarono nel campo interventista.


1.2. - La condizione dei contadini

La Transilvania era stata per secoli terra di sanguinose lotte di classe. Ricordiamo la sollevazione di Bábolna del 1437 quando i contadini ungheresi e romeni insorsero e occuparono Nagyenyed; sconfitti, a Temesvár (Timişoara) il loro capo György Dózsa venne posto su un trono in fiamme e, narra la leggenda, quattro parti del suo corpo furono inchiodate “per l’eternità” alle porte di Buda, Pest, Gyulafehérvár e Nagyvárad.

Le insurrezioni della Transilvania contro gli Asburgo risalgono a Bocskay (fra il e il e a Rákóczi (dal 1703 al 1711); alla terza grande rivolta contadina di Màdèfala; alla sanguinosa repressione della quarta insurrezione contadina guidata da Horia e Cloşca nel 1784.

Riportiamo ampiamente dal chiarissimo articolo di Béla Kun apparso sulla “Znamja Revolutsij” di Tomsk del 28 ottobre 1917:

«L’Ungheria è il paese dei grandi feudi sconfinati e degli operai agricoli senza terra che vivono nella miseria. Il 35% di tutte le terre ungheresi appartengono ai nobili e alla Chiesa cattolica. La terra, proprietà dei cavalieri cattolici del Medioevo (i quali la ricevettero in proprietà perpetua dai re come premio per i loro leali servigi), non potrebbe mai diventare proprietà dei contadini senza una rivoluzione. La maggior parte della terra appartiene all’alto clero e agli ordini ecclesiastici; quasi tutta la restante parte è invece proprietà dei grandi feudatari. Il contadino raramente riesce ad entrare in possesso di un pezzetto di terra e quando ci riesce avviene a caro prezzo, se cioè qualche feudatario perde al gioco o vive in maniera dissoluta facendo debiti impagabili. In tal caso lo Stato o il governo, per rifarsi dei debiti dei feudatari andati in rovina, si prendono la loro terra, la dividono in particelle e la offrono ai contadini ad alto prezzo.

«La proprietà terriera media di un contadino ungherese non supera le tre desjatine [1 desjatina= 1,0925 ettari, NdR] e le sue condizioni economiche non sono migliori del contadino russo. Non ha denaro; quasi tutte le sue entrate servono per pagare le tasse, dal momento che in Ungheria, così come nella Russia zarista, il sistema fiscale grava sulle spalle dei contadini. Non possedendo denaro i contadini non possono acquistare gli strumenti e le macchine necessarie per coltivare utilmente la terra. In definitiva il contadino è nelle mani dei kulaki e degli usurai, i quali si impossessano inopinatamente di tutti i suoi averi.

«In una situazione del genere, al contadino non rimane che raccogliere ciò che gli resta e andarsene. In gran numero emigrano in America, nella speranza di trovare delle terre libere. Nel 1907 erano emigrati dall’Ungheria – la cui popolazione ammonta a circa 20 milioni – 209.174 uomini, in primo luogo contadini e lavoratori a giornata. Il numero degli emigrati supera il numero delle nascite.

«L’incremento dell’emigrazione ha portato, in conseguenza della riduzione della manodopera, all’aumento dei salari operai. È per questo che i feudatari hanno fatto emanare una legge che impedisce ai contadini di emigrare in altri paesi: in seguito alle misure di polizia sono stati privati del diritto di spostarsi liberamente. Le conseguenze di tali provvedimenti non si sono fatte attendere: anche secondo le cifre della statistica ufficiale il salario degli operai agricoli è stato ridotto al minimo, quello annuo di un servo non supera le 262 corone (105 rubli – in Russia il salario era di circa 300 rubli). Nello stesso tempo il prezzo dei generi di prima necessità è raddoppiato.

«Neanche la situazione politica del contadino ungherese è invidiabile. Il 90% della classe operaia e della popolazione contadina non gode del diritto di voto. Il parlamento difende soltanto gli interessi dei grandi feudatari, le cui richieste sono fatte accettare anche alla borghesia industriale. Ogni legge, ogni provvedimento preso dal parlamento passa per le mani dei grandi feudatari, asservendo in tal modo sempre di più le masse contadine e proletarie della campagna.

«Il contadino ungherese è in completa balia dei gendarmi; per uno sciopero può essere imprigionato per 30‑60 giorni. È il governo stesso a fornire i crumiri ai grandi feudatari, mantenendo a tal fine un numeroso contingente di operai agricoli. Al tempo del raccolto i contadini sono arrestati a migliaia, anche per colpe irrilevanti, privati così della possibilità di guadagnarsi quel tanto di più per assicurarsi la sopravvivenza in inverno, quando sono disoccupati.

«La vita degli operai agricoli e dei contadini è stata questa fino a qualche tempo fa. Ora, mentre centinaia di migliaia di contadini sacrificano la vita nelle trincee, i grandi feudatari e la borghesia non pensano che ai loro affari, accumulando sempre più capitali. Un solo deputato ha saputo dire in parlamento che occorre dare la terra ai contadini, naturalmente a pagamento; alla sua proposta fu data questa risposta: “Sarebbe più giusto reintrodurre la servitù della gleba!”. La maggioranza del parlamento ha applaudito a queste parole.

«È però da ricordare che i contadini e i lavoratori a giornata hanno già provato varie volte a liberarsi dal giogo dei grandi feudatari. Sono state formate diverse alleanze segrete e spesso si è arrivati alla lotta aperta e sanguinosa per la conquista dei diritti politici e della terra. Ma questi tentativi sono sempre stati sconfitti. Alla più piccola mobilitazione dei contadini, perfino nel caso di scioperi pacifici, corrisponde sempre l’intervento dei gendarmi e dei poliziotti che, da servi fedeli dei capitalisti e dei feudatari, fanno rinsavire subito i contadini col fuoco e con le pallottole.

«Negli anni 90 del secolo scorso la terra ungherese ha bevuto il sangue di migliaia e migliaia di contadini. In quegli anni, infatti, furono privati anche di quei pochi diritti politici di cui avevano goduto fino ad allora. I loro capi furono messi in carcere e i contadini meno coscienti si allontanarono dal movimento.

«Dopo la fondazione del Partito Socialdemocratico, furono i socialdemocratici ad assumersi il compito di organizzare i contadini. Malgrado gli sforzi del governo, il loro lavoro fu coronato da successo. Oggi si può dire che il contadino ungherese sta sotto la bandiera della socialdemocrazia internazionale. Sono degne di nota, a questo proposito, le seguenti parole di un attivista contadino: “Noi contadini – ha scritto – consideriamo la terra come mezzo di produzione necessario per il nostro mantenimento. Non pensiamo neanche lontanamente che la terra divenga nostra proprietà privata; vogliamo solamente poter usare la terra. A tutto questo si oppone però una sola cosa: la proprietà privata della terra. Siamo pertanto fermamente convinti che, solo quando la terra sarà diventata nostra proprietà comune, la potremo usare”».

Questa la partizione delle aziende agricole nel 1895:
  % delle
terre
% delle
proprietà
Meno di 3 ha 5,8% 53,6%
Da 3 a 57 ha 46,5% 45,4%
Da 57 a 570 ha 15,4% 0,8%
Latifondisti 32% 0,2%

Situazione che non muterà nel decennio successivo.

Eugen "Jenő" Varga scriveva prima della guerra: «I conti Esterhàzy, per esempio, da soli possedevano circa 294 mila ettari di terra. 700 mila piccoli contadini languivano invece in appezzamenti da 0,5 a 3 ettari. 800 mila contadini possedevano meno di mezzo ettaro, mentre c’erano ancora 4 milioni di lavoratori agricoli che non possedevano neppure un palmo di terra»

Tuttavia, grazie alle innovazioni tecniche e all’estensione delle terre coltivate, la produzione agricola aveva conosciuto una lenta ma continua trasformazione in senso capitalistico. La produzione era aumentata nel periodo che va fino alla prima guerra mondiale a un tasso medio annuo del 2%, passando da 1.814.000 corone nel 1870 a 5.265.000 (stime a prezzi fissi del 1900).

Sempre nell’articolo di Kun del 1917:

«In Russia e in Ungheria i grandi feudatari sanno ormai bene di dover lasciare presto i loro possedimenti.

«Le condizioni dei contadini ungheresi non sono invidiabili, ma la rivoluzione russa ci ha dato la speranza dell’imminente fine delle loro secolari sofferenze. Il contadino ungherese ha potuto finalmente affermare davanti ai conti, ai principi e ai preti il proprio innegabile diritto alla terra. L’odio secolare che cova nel cuore del contadino senza terra minaccia di diventare un fuoco folgorante.

«L’esempio della Russia è contagioso. Per questo che è possibile che presto anche nelle vallate ungheresi si innalzi la bandiera rossa con la scritta “terra e libertà”, dal momento che siamo certi che il breve periodo delle amicizie strette in trincea non potrà rimanere senza tracce anche per il contadino ungherese, che è il più arretrato in Europa».


1.3 - L’industria

Accanto allo sviluppo nel settore estrattivo (carbone e minerali ferrosi) era quello dell’industria metallurgica e meccanica, concentrata quasi esclusivamente a Budapest, che dagli anni ’70 del XIX secolo venne a costituire il settore traente dell’economia ungherese, insieme all’estendersi della rete dei trasporti ferroviari e fluviali e della meccanizzazione agricola.

Notevole fu il ruolo dello Stato nello sviluppo industriale, soprattutto sul finire del secolo quando, accanto a sussidi e crediti senza interesse, attirò sempre nuovi capitali stranieri nei diversi settori industriali. I dati indicano un rapido, a volte vertiginoso sviluppo: nella produzione di carbone si passa da 1.800.000 tonnellate del 1880 a 10.200.000 tonnellate nel 1913, con un incremento del 500%, grazie anche ai continui investimenti di capitale straniero, in particolare dall’Austria, dalla Francia e, in un secondo tempo dalla Germania; nella produzione di ferro e acciaio si passa da 742.000 tonnellate a 3.482.000; nel tessile da 73,9 a 242 milioni di corone; in quello della produzione alimentare da 645,9 a 1.287,7; in quello chimico da 83,8 a 242; nell’edilizia da 51,3 a 136,6; negli altri settori da 160,7 a 418,4 milioni di corone.

L’Ungheria già a fine ottocento era il paese dell’Europa Centro-orientale con la maggior densità ferroviaria, che favoriva lo sbocco alle sue merci.

Alla vigilia della guerra l’industria contribuiva ormai per un buon 28% al reddito nazionale, contro il 65% dell’agricoltura, garantendo al paese di superare l’arretratezza di mezzo secolo prima, ma non consentendo ancora, se si tiene conto il prodotto lordo pro capite, di raggiungere il livello dei paesi industrializzati dell’Europa occidentale (40‑50% inferiore), ponendosi però più vicino all’Austria e all’Italia (solo il 25% inferiore) e al di sopra (del 25‑30%) della Russia zarista e dei paesi dell’area balcanica.

Questo sviluppo dell’industria portò di conseguenza uno spostamento della forza lavoro: dal 1870 al 1910 la percentuale di popolazione occupata nell’agricoltura passò dall’80% al 64,5%, mentre la quota del proletariato industriale più che raddoppiò, dall’11,5% al 23,6%.

I proletari dell’industria erano 700.000 nel 1900 e quasi il doppio nel 1914. In agricoltura un’enorme massa di proletari e semiproletari, circa un terzo della popolazione attiva, erano spinti sempre più dalle gravi condizioni economiche a cercare nella città e nelle sue fabbriche un salario stabile, e più alto del 40‑50% rispetto a quello dei braccianti.


1.4. - Il movimento operaio e socialista

La repressione dei moti nazionali del 1848 videro la tragedia di Nagyenyed quando, secondo lo storico ungherese Ákos Egyed, rumeni della Transilvania e saccheggiatori furono inviati a massacrare 7.500-8.500 ungheresi, 4.400-6.000 rumeni e circa 500 sassoni transilvani, armeni, ebrei e altri. Ma del 1848 anche la lotta vittoriosa dell’esercito del generale Bem contro gli Asburgo e i Romanov, in una delle battaglie della quale trovò la morte Sándor Petőfi, poeta ed emblema della rivoluzione ungherese.

Negli anni 1840 fece la sua apparizione la classe operaia. Si ebbero le lotte dei minatori romeni capeggiate dalla ungherese Katalin Varga; a Elesd una scarica di fucileria uccise trentatré operai ungheresi.

I primi sindacati in Ungheria comparvero solo nel 1860 e nessun movimento di rilievo si ebbe fino al 1867. I tipografi di Budapest avevano una società di mestiere fin dal 1861. Nel 1867 le società dei tipografi tennero un’assemblea i cui lavori si svolsero in tedesco e italiano. In seguito si formarono altri sindacati e nel 1869 fu costituita l’Unione generale dei lavoratori sotto la direzione di Viktor Külföldi il quale aveva già dato inizio nel 1868 al “Giornale dei Lavoratori”, che ne divenne l’organo.

L’anno successivo Mihály Tamcsics fondò “La Tromba d’Oro” di tendenza socialista; ebbe subito noie con l’autorità e fu soppresso. Fino a quel tempo il principale esponente delle idee socialiste in Ungheria era Jòzsef Kritovics, le cui dottrine derivavano in larga misura da Louis Blanc. Sosteneva il “diritto al lavoro” e la creazione di officine nazionali autonome a cui lo Stato, democratizzato mediante l’introduzione del suffragio universale maschile, avrebbe dovuto fornire i capitali. Un lassalliano quindi, tendenza che ebbe un considerevole seguito e in János Hrabie il maggior rappresentante.

Uno scontro si ebbe quindi fra i socialisti lassalliani e i fautori delle società di mutuo soccorso, formate per promuovere il risparmio collettivo e la pace sociale sul modello delle società fondate in Germania. Nel 1870 vi fu una scissione tra i due gruppi.

Fino al 1867 il diritto di associazione era regolato dalla legge austriaca, che poneva severe restrizioni alle riunioni e proibiva gli scioperi. In seguito i sindacati si svilupparono ma dovevano agire in semi clandestinità, celandosi dietro attività mutualistiche od organizzazioni affini. La legge del 1872 riconobbe il diritto di associazione e persino di sciopero, con molte limitazioni, mentre l’incitamento allo sciopero rimaneva reato. Era evidente il tentativo di volgere i sindacati verso pacifiche attività mutualistiche e la collaborazione di classe, sulla base dei principi di Schulze-Delitzsch – considerato uno dei fondatori delle cooperative di consumo e delle banche popolari – allontanandoli dall’influenza delle idee rivoluzionarie e dall’Internazionale.

Le restrizioni al diritto di manifestazione e riunione pubblica furono inasprite e nessun diritto di associazione fu concesso ai lavoratori agricoli.

Fino al 1872 i lavoratori ungheresi non parteciparono ai congressi dell’Internazionale. Nel 1869 un suo emissario, Wilhelm Raspe, comparve a Budapest, ma fu subito arrestato. Al congresso dell’Aja del 1872, tuttavia, era presente un delegato ungherese, Károly Farkas, il quale votò con la maggioranza marxista, contro i seguaci di Bakunin.

Parecchio tempo prima il governo ungherese aveva soppresso l’Unione Generale dei Lavoratori e ne aveva incriminato i dirigenti per alto tradimento, col risultato che l’organizzazione si disperse.

Tuttavia nel 1873 Viktor Külföldi, il cui vero nome era Jakob Mayer, assieme a Jakob Schlesinger, diedero vita al giornale “Cronaca settimanale dei lavoratori”. Insieme ad Antal Ihrlinger tentò di fondare un Partito dei Lavoratori, ma fu soppresso, mentre il giornale, pur avendo spesso noie con la polizia, riuscì a continuare ad uscire.

Fino a questo periodo l’influenza del marxismo fu minima: il Manifesto era stato tradotto (e proibito) e alcuni manifesti della Prima Internazionale erano stati pubblicati nei giornali delle organizzazioni del lavoro.

Nel 1873 il comunardo Léo Frankel tornò in Ungheria e cominciò subito a svolgere una vivace propaganda. Nato a Budapest, nella Comune parigina aveva diretto la politica del lavoro e dell’impiego. Alla caduta della Comune fuggì a Londra dove conobbe Marx e ne abbracciò le idee. Frankel, che non aveva ancora partecipato ad alcun congresso dell’Internazionale, conosceva il marxismo e si mise al lavoro per fondare un partito socialdemocratico ungherese, sul modello del partito tedesco unificato, che era stato appena costituito al congresso di Gotha. Dal 1876 diresse la “Cronaca settimanale dei lavoratori” a Budapest, ma presto si scontrò con Külföldi che nel 1877, all’uscita dal carcere, fondò un giornale rivale “La Voce del Popolo” (“Népszava”). Quell’anno Frankel in qualità di delegato ungherese partecipò al congresso di unità socialista di Gand.

Nel 1880 gli ungheresi riuscirono ad organizzare un proprio congresso generale, che adottò un programma in larga misura socialista. L’anno seguente Frankel fu imprigionato con l’accusa di sedizione per le sue dichiarazioni riguardo l’esercito.

Nel mentre divampò la polemica fra socialdemocratici e anarchici che nel piccolo movimento occupò tutti gli anni `80.

I moderati portarono avanti la loro campagna per una legislazione sulle assicurazioni sociali e per la riduzione dell’orario di lavoro. Del 1884 la legge per il diritto di associazione, entro certi limiti, e, con l’espandersi dell’industria, i sindacati si svilupparono in fretta. Nel 1885 questi lanciarono una campagna per l’abolizione del lavoro domenicale, che fu regolato da norme legali nel 1891. Lo stesso anno fu introdotto uno schema statale di assicurazione contro le malattie, che si ispirava alla legge tedesca, e due anni dopo fece seguito l’assicurazione contro gli infortuni.

L’influenza anarchica nel movimento era andata declinando e la maggior parte dei sindacati era passata sotto quella socialista, essenzialmente riformista. Nel 1889 si tenne il primo congresso pubblico dei sindacati, limitatamente a Budapest.

Nello stesso anno Frankel partecipò a Parigi come delegato socialista ungherese al congresso inaugurale della Seconda Internazionale. Frankel ritornò entusiasta dal congresso, che aveva stabilito il Primo Maggio giornata di lotta e di dimostrazioni di massa in tutti i paesi, con l’obbiettivo principale della giornata lavorativa di otto ore.

Mentre i socialisti austriaci univano le loro forze dietro il programma di Hainfeld, nel 1890 i gruppi ungheresi socialdemocratici confluirono a formare un movimento unico adottando in blocco il programma austriaco. Nacque così il Partito Socialdemocratico Ungherese (PSDU).

Seguì un forte sviluppo dei sindacati che andarono a stabilire rapporti molto stretti con il PSDU. Svilupparono una forma curiosa di triplice organizzazione: formalmente erano società di mutuo soccorso, nel quadro della legge del 1872, emendata nel 1884, forma palese che copriva le due associazioni clandestine, per conto delle quali venivano raccolte sottoscrizioni presso tutti i soci: una per organizzare gli scioperi nelle fabbriche, l’altra per aiutare il PSDU. I sindacati divennero praticamente estensioni del Partito.

Il movimento operaio era stato fino ad allora prettamente cittadino. Solo nel 1890 comparvero al congresso socialdemocratico alcuni delegati delle zone rurali e tanto i sindacati quanto i socialdemocratici si impegnarono per arruolare i lavoratori dei campi. Nel 1891 al tempo del raccolto scoppiarono violenti scontri nell’Ungheria centrale, soprattutto per il salario dei mietitori. I tumulti furono repressi nel sangue. Si rinnovarono ugualmente su più ampia scala tre anni dopo, e nuovamente vennero schiacciati con grande spargimento di sangue; continuarono tuttavia negli anni successivi ed ebbero il loro apice fra il 1896‑97, sempre nelle zone centrali e con estensione alla Transilvania e al Banato. Vi furono anche molti scioperi a Budapest, cui rispose anche in questo caso una sanguinosa repressione statale e la deportazione di alcuni dirigenti sindacali nelle campagne, dove aiutarono a fomentare le agitazioni fra il proletariato rurale.

Contro i grandi scioperi agrari del 1896‑97 il governo fece ricorso a severe misure di repressione. Bandì il partito di Várkonyi e promulgò nel 1898 una nuova legge, che il popolo chiamò “schiavista”. Proibiva tutti gli scioperi e stabiliva pene severe per il reato di “incitamento”. Vi erano misure speciali contro i lavoratori agricoli, cui era vietata l’associazione sotto qualsiasi forma ed imposto il lavoro obbligatorio. Divenne un crimine assentarsi dal lavoro al servizio del proprietario terriero. L’applicazione della legge fu demandata alle autorità di contea, controllate strettamente dai fondiari.

Nel 1900 un altro gruppo di socialisti agrari, guidato da Vilmos Mezöfi, si staccò dal PSDU per formare il Partito Socialista Riorganizzato. Lo stesso PSDU nel 1903 si diede un nuovo ordinamento, sempre sulla base di una stretta alleanza con i sindacati.

Tra le prime leghe contadine le più importanti furono quella dei cosiddetti “scellerati” di István Várkonyi che, da una scissione dei socialisti, nel 1886 fondò il Partito Socialista Indipendente, e quella dei “nazareni” di Jenö Henrik Schmidt. La prima, contro il riformismo socialdemocratico, propugnava un comunismo libertario e organizzò grandi scioperi antigovernativi – quelli duramente repressi nel 1897 – che ottennero forti aumenti salariali dei mietitori e degli altri lavoratori agricoli. L’altra, ispirata dalle dottrine tolstoiane e che predicava la non violenza e l’obiezione di coscienza, era una setta battista caratterizzata da un rigoroso pacifismo, radicata fra i contadini della Transilvania e dell’Ungheria meridionale. Le due leghe si unirono alla fine del 1905 per iniziativa di Sándor Csizmadia – operaio agricolo autodidatta che passò dieci anni in carcere – nella “Unione dei lavoratori agricoli” la quale arrivò a raccogliere oltre 40 mila aderenti prima che il ministro degli Interni, conte Andrássy, ne decretasse lo scioglimento in seguito agli scioperi del 1907.

In quell’anno, a Kolozsvár, contro uno sciopero di edili che continuava da settimane, i padroni fecero arrivare dei crumiri dalla Moravia. Questi però sfilarono assieme agli scioperanti. Presi a fucilate uno del comitato di lotta fu ucciso. Seguirono violenti scontri, lo sciopero continuò e si concluse vittorioso.

Lo sviluppo del movimento operaio era però lento e difficile. Alla fine del secolo gli iscritti alle varie unioni sindacali erano solo il 3% dell’intera classe operaia industriale, nel 1913 erano in totale 110 mila, il 10‑15% della forza lavoro occupata nell’industria. Nel periodo della guerra, fra il 1914 e 1916, si dimezzarono, ma per crescere poi nel 1917 a ben 215.000.

Lo sviluppo parallelo del partito socialdemocratico, fondato nel 1890, fu altrettanto lento – 100 mila aderenti nel 1905 e 300 mila nel 1918 – e contraddittorio. La sua scarsa sensibilità nei confronti delle nazionalità non magiare e sulla questione agraria non lo faceva apparire un partito di riforma sociale e di rivoluzione ma disposto a vivere tra le pieghe della società ungherese, pur non avendo alcuna rappresentanza al parlamento e vivendo di fatto, soprattutto nelle campagne, semiclandestino.

Nel 1905, a seguito delle sollevazioni agrarie, vi fu l’elezione quasi “miracolosa” al parlamento di tre socialisti agrari: Várkonyi, Mezöfi e Andios Achin. Achin fu quasi subito assassinato; gli altri due rimasero in parlamento a “difendere la causa contadina”. Il PSDU fino al 1914 rimase fuori dal parlamento non potendo far eleggere alcun deputato.


1.5. - Anarchici e populisti

In Ungheria i primi movimenti anarchici nacquero nelle campagne e tra gli intellettuali legati al mondo agricolo. Il conte Ervin Batthyány, antesignano del movimento, nel 1895, assieme a Károly Krausz, fondò la rivista “Senza Stato” (“Allam Nelkul”), che con testate diverse uscirà fino al 1914. Batthyány, membro di una famiglia di proprietari terrieri della Pannonia, influenzato da William Morris e Piotor Kropotkin, che aveva conosciuto a Londra, amico inoltre di Ervin Szabó, maggior rappresentante del radicalismo ungherese, era sostenitore di un anarchismo tolstoiano e agricolo. Distribuì le sue terre ai contadini, fondò una scuola per i loro figli, finanziò numerose testate della sinistra libertaria e sindacalista ungherese tra le quali “Fratellanza” (“Testvèriseg”), sempre in opposizione alla politica del PSDU.

Nel 1897 István Varkónyi, fuoriuscito dal PSDU causa la deludente politica agraria, si convertì all’anarco-comunismo e insieme al tolstoiano Jenö Henrik Schmitt fondarono Alleanza Contadina, che pubblicò il giornale “Il Contadino” (“A Foldemuvelo”). Questo movimento, in due conferenze, il 4 febbraio e l’8 settembre dello stesso anno, adottò un programma politico basato sulla proprietà e sull’utilizzo comuni delle terre, rifiutando la loro parcellizzazione, e sulla costituzione di cooperative e di sindacati. Alleanza Contadina fu repressa a seguito delle lotte di quell’anno.

In seguito, sulla scia degli scioperi del 1907, Batthyány fondò a Budapest il giornale “Rivoluzione tartara” (“Tarsadalmi Forradalom”) intorno al quale si formò l’Unione dei Socialisti Rivoluzionari. Si richiamavano al Congresso di Amsterdam dell’Internazionale cosiddetta antiautoritaria. Poco prima dell’inizio della Prima guerra mondiale andarono a costituire l’Unione Socialista Rivoluzionaria. Impegnati in prima fila nella lotta antimilitarista, alla fine del conflitto buona parte dei militanti libertari confluì nel Partito Comunista Ungherese.


1.6. - La piccola borghesia urbana

Anche in Ungheria la Massoneria, che vi aveva seguaci fin dal 1870, si era consolidata tanto che alla fine della guerra mondiale contava ben 126 logge e 13 mila membri, tra i quali i primi ministri Gyula Andrássy e Sándor Wekerle, il sindaco di Budapest Istávan Bárczy, magnati della finanza e intellettuali come Endre Ady. Dal 1908 si era pronunciata apertamente per il suffragio universale e segreto e per l’istruzione pubblica gratuita. Fu Oszkár Jászi, massone dal 1906, a fondare la loggia Martinovics, orientata a “sinistra”, alla quale aderirono numerosi dirigenti del PSDU fra i quali Zsigmond Kunfi, Eugen Varga, József Pogány, Zoltán Rónai e Péter Ágoston. Il programma del Partito Radicale fu redatto dai membri della loggia Martinovics.

Il potere legislativo in Ungheria si basava su un sistema bicamerale formato da una Camera alta e una bassa. La prima raccoglieva i magnati del paese, non era elettiva e aveva, nel 1912, 242 membri di diritto (arciduchi, principi, baroni e conti) e i rimanenti 134 membri designati in parte dalla Corona e in parte dalla stessa Camera, unitamente ai rappresentanti ecclesiastici delle diverse confessioni religiose, ai dignitari dello Stato e della magistratura. La Camera bassa era invece elettiva. Nel 1912 su 453 seggi (413 per l’Ungheria, 40 per la Croazia-Slavonia), 346 appartenevano alla coalizione governativa, del Partito Nazionale del Lavoro del conte István Tisza e indipendenti, mentre i rimanenti 67 erano distribuiti fra Cristiano-sociali, Partito Contadino e Partito dell’Indipendenza di Mihály Károlyi, liberale-borghese, “cadetto”, interventista.

Nel 1908 un gruppo di intellettuali progressisti nell’ambito dell’università di Budapest fondò il Circolo Galilei con lo scopo di condurre una battaglia, soprattutto tra gli studenti, «contro il clericalismo e la corruzione, contro i privilegi, contro la burocrazia, contro l’onnipresente palude di questo paese rimasto semifeudale». In breve, influenzato dal sindacalismo rivoluzionario di Ervin Szabó, arrivò a contare 1.200 aderenti.

Durante la guerra mondiale e soprattutto dopo la prima rivoluzione russa le sue posizioni si radicalizzarono e molti suoi giovani aderenti si impegnarono in azioni illegali di propaganda antimilitarista. Dal 1917 parteciparono alle manifestazioni sindacali contro la guerra e un gruppo di loro progettò attentati contro l’odiato comandante della piazza di Budapest Lukachich e l’ex primo ministro Tisza, che però fallirono.

Il 5 gennaio 1918 diffusero un volantino davanti alle caserme, “Soldati nostri fratelli”, che riprendeva i contenuti della conferenza di Zimmerwald, stampato con l’aiuto di esuli socialdemocratici russi. In seguito a questo la repressione li colpì duramente: molti furono arrestati, il circolo fu chiuso e un processo contro diversi suoi esponenti si tenne a settembre. Dopo un periodo di clandestinità, ad ottobre, a seguito della “Rivoluzione delle rose”, il circolo riaprì. Diversi suoi membri parteciparono alla costruzione del Partito Comunista Ungherese (PCd’U), e faranno anche parte del Consiglio Centrale degli Operai e Soldati di Budapest, mentre altri rimarranno su posizioni democratico-borghesi. Alla caduta della Repubblica dei Consigli, il circolo verrà chiuso.










2. L’assetto nazionale in Europa orientale


2.1. - Fine dell’Impero Austro-Ungarico

La spinta alla rivoluzione in Ungheria provenne dal crollo dell’Impero.

L’Impero Austro-Ungarico ad aprile del 1918 aveva già accumulato crediti di guerra per l’astronomica cifra di 97 miliardi di corone, 2.132 per ogni abitante della monarchia.

Più forze storiche si erano messe in moto nel corso e a seguito del primo macello mondiale e della spartizione dei territori conquistati dagli imperialismi vincitori, verso l’indipendenza delle numerose nazionalità che formavano l’Impero e timidi moti rivoluzionari delle borghesie, ma soprattutto del proletariato e dei contadini esausti e affamati da anni di guerra e carestie.

Burián, ministro degli esteri dell’Austria-Ungheria, a seguito del crollo del fronte bulgaro faceva sapere a Berlino che a ottobre intendeva rinnovare la richiesta di pace, certo che la monarchia non sarebbe sopravvissuta al suo stato di prostrazione. L’allarme di Vienna questa volta fu recepito e anche la Germania, a seguito dei fatti di Spa, avanzò a Wilson una richiesta di armistizio e di trattative di pace sulla base dei 14 Punti. Il governo di Vienna immediatamente appoggiò l’iniziativa dell’alleato, formalizzata dalle due potenze il 4 ottobre. L’accettazione del piano americano significava per l’Impero la perdita della Galizia e di altri territori, ma di fatto la sua fine, in disgregazione per le sempre più pressanti richieste di indipendenza delle nazioni che la formavano.

A Praga già il Consiglio Nazionale dei deputati nazionali e regionali, forte del riconoscimento degli inglesi e degli americani, a metà settembre impose una “tassa-prestito per la libertà”, a cui potè ben poco l’opposizione del governatore imperiale. Nelle industrie ceche si mormorava che l’Intesa aveva riservato ingenti scorte di materie prime da destinare alle officine ceche dal giorno della firma della pace. Si metteva così fuori gioco la concorrenza della Germania. A fine settembre Vienna cercò inutilmente di fare un passo verso la soluzione del problema boemo concedendogli l’autonomia nazionale, ma il Consiglio Nazionale, tramite il suo presidente Kramasch, rifiutò duramente ogni collaborazione con Vienna e la questione ceco‑slovacca fu dichiarata problema internazionale.

Hussarek, primo ministro, e Burián speravano ancora in un atteggiamento più favorevole da parte dei polacchi. Con l’accettazione dei 14 Punti di Wilson le Potenze Centrali avevano infatti anche riconosciuto l’esistenza di una Polonia sovrana entro i suoi confini nazionali. A Vienna ci si attendeva riconoscenza per questo da parte dei polacchi e ci si illudeva che la nuova compagine statale autonoma avrebbe continuato ad accettare lo scettro degli Asburgo.

Gli statisti viennesi avrebbero voluto risolvere anche il problema iugoslavo prima della pace, facendo affidamento sui magiari, cui era chiesto di rinunciare alla Croazia-Slovenia a favore della compagine statale iugoslava, in quanto gli iugoslavi non si sarebbero più accontentati della soluzione “dualistica meridionale” che prevedeva l’unione di croati, bosniaci e dalmati nell’ambito dei territori che appartenevano alla Corona di Santo Stefano. Per convincere i magiari il sovrano inviò l’uomo forte, il conte István Tisza. Fu presa come una provocazione e il primo ministro ungherese, Wekerle, confermò che Dalmazia e Bosnia avrebbero dovuto continuare a far parte della Grande Ungheria.

Il 1° ottobre 1918 Hussarek espose davanti al parlamento di Vienna le nuove concessioni del governo. Indicò una Polonia politicamente autonoma, unita alla monarchia danubiana, una Iugoslavia configurata in maniera analoga, e il progetto di un’autonomia amministrativa per le altre nazionalità. Ma alle sedute che seguirono i deputati non tedeschi imposero un unico ordine del giorno: il distacco degli slavi dalla vecchia Austria. I polacchi si sentivano di fatto già degli stranieri in quanto il Consiglio di reggenza era deciso ad annunciare l’annessione di tutti i territori polacchi al nuovo Stato indipendente.

Da parte ceca Franz Stanjek, un rappresentante dei cechi nella Camera Alta, omaggiò le “legioni” che si battevano nelle file dell’Intesa, disse che i cechi non avrebbero versato una goccia di sangue per l’Austria e che presto da Danzica all’Adriatico si sarebbe estesa una federazione di Stati slavi liberi e sovrani. Il sacerdote Zahradnik, uno dei politici più radicali, espresse la speranza di sedere per l’ultima volta in un parlamento austriaco. Il collega sacerdote sloveno Koroschetz proclamò, in risposta alle aspirazioni ungheresi, che nessuno avrebbe potuto separare i croati e i serbi dagli sloveni.

Dai banchi del governo la rassegnazione prese il sopravvento e nessuno ebbe il coraggio di controbattere. L’atteggiamento risoluto degli slavi spinse ad abbandonare il progetto di concessione di autonomie per abbracciare l’idea di una riforma in senso federale dello Stato. Questa era favorita dal comportamento degli austro-tedeschi. Sorpresi dai moti rivoluzionari a carattere nazionale del 1917‑18, non si sarebbero dati da fare nel luglio per ottenere la proclamazione del “corso tedesco”, il manifesto dell’imperatore che prevedeva la concessione di autonomie in uno Stato federale.

L’eccezione veniva dai socialdemocratici, che avevano sempre mantenuto rapporti con i compagni di partito slavi. La sinistra, guidata da Otto Bauer, simpatizzava con le aspirazioni nazionali contro l’Impero danubiano.

Intanto il proletariato affamato dei distretti industriali e delle città tedesche si rivoltava. Il 18 ottobre a Salisburgo a una rivolta per la prima volta presero parte anche i soldati. Il 3 ottobre il partito socialdemocratico firmava una risoluzione che riconosceva senza riserve alle nazionalità slave e romene dell’Austria il diritto all’autodeterminazione, ma chiedeva lo stesso diritto anche per le popolazioni di origine tedesca. I partiti della borghesia tedesca, l’Unione Nazionale Tedesca ed i Cristiano-sociali fecero propria la risoluzione socialdemocratica ma, ovviamente, all’interno di un’Austria federale e continuando a dichiararsi fedeli alle loro tradizioni religiose e dinastiche.

Un gabinetto popolare guidato dal conte Silva Tarouca, ben accetto agli slavi, avrebbe dovuto dar vita e articolare la configurazione federale dello Stato, l’istituzione del quale era demandata a un manifesto dell’Imperatore. L’11 ottobre il sovrano all’uopo convocò a Baden i parlamentari di tutte le nazionalità e di tutte le correnti politiche. Ma, sulla scorta dei risultati di colloqui personali, l’imperatore dovette constatare il fallimento della missione Tarouca. Il gabinetto popolare non vide mai la luce. Il Manifesto avrebbe dovuto fare i conti con il problema iugoslavo, oltre a quello della compagine statale dell’Ungheria. Il presidente del consiglio ungherese rispose picche, minacciò di negare all’Austria ogni rifornimento alimentare e pretese che il Manifesto contenesse l’esplicita dichiarazione dell’intangibilità dei territori ungheresi, sconfessando il distacco della Croazia.

Il Manifesto vide la luce il 17 ottobre in una versione inadeguata e controproducente ai fini della corona: «Conformemente alla volontà dei suoi popoli l’Austria deve trasformarsi in uno Stato federale in cui ogni nazionalità darà vita ad un’unità statale (...) L’unione dei distretti polacchi con lo Stato polacco indipendente non viene pregiudicata. La città di Trieste con il suo territorio godrà (...) di uno stato speciale». Erano elencate le entità statali che avrebbero dovuto essere create: l’Austria tedesca con il territorio dei Sudeti, la Cechia, il regno ucraino di Haliez (in Galizia), il territorio amministrativamente autonomo della Bucovina, il regno sloveno di Illiria e la libera città imperiale di Trieste. Faceva seguito l’infelice affermazione che il nuovo assetto dell’Austria «non pregiudicava in alcun modo l’integrità dei Territori della Santa Corona Ungherese».

I consigli nazionali di Lubiana e Zagabria rifiutarono qualsiasi forma di approvazione del documento, lo stesso fece il Národní Výbor, il Comitato Nazionale a Praga, che contestarono a Vienna il diritto di fissare i confini dei nuovi Stati.


2.2. – L’indipendenza della Cecoslovacchia

Il movimento nazionale per l’indipendenza del popolo boemo, che faceva capo a Masaryk, già nel 1914 svolgeva una energica propaganda contro l’Austria-Ungheria, molto influente e con appoggi in Russia e in America. Masaryk dal 1890 si era schierato contro il partito dei “costituzionalisti”, che volevano unificare i territori della Corona Boema secondo il modello dell’Ungheria, dichiarandosi viceversa favorevole a un compromesso con i boemi di nazionalità tedesca sulla base del riconoscimento delle autonomie locali. Si dichiarava favorevole ad un impero asburgico a guida slava. Era quindi contrario sia all’alleanza con la Germania sia al mantenimento dello status quo nei Balcani e contrastava i piani degli slavi.

I disordini che serpeggiavano in Europa nel primo decennio del ’900 fecero cambiare idea a Masaryk riguardo alla questione austriaca. Se prima aveva creduto che al suo popolo sarebbe arriso un futuro radioso all’interno dei confini imperiali, vedendo prossimo lo scoppio della guerra, lo scopo diventava quello di realizzare uno Stato ceco indipendente sulle rovine della monarchia degli Asburgo. Solo una vittoria dell’Intesa avrebbe potuto giovare ai cechi.

All’inizio del conflitto, sul fronte russo, l’intero 28° Reggimento di fanteria di Praga, composto in maggioranza da cechi, aveva disertato, passando armi e bagagli allo Zar.

Negli Stati dell’Intesa, in Russia e in America, vivevano milioni di cechi. Nell’impero zarista affluivano di continuo prigionieri di guerra tratti dalle file dell’esercito austriaco. Masaryk li riunì sul piano politico e di movimento, a fianco dell’Intesa, come esercito ceco, prefigurando una Cecoslovacchia nazione combattente, che poteva contare su 60‑70.000 uomini. Questo costituirà in seguito l’ossatura dell’armata anti‑bolscevica, schierata nel 1918 fra le forze della controrivoluzione nella guerra civile. In seguito il cosiddetto Fronte Ceco si ridusse notevolmente: alcuni tornarono in patria, altri rimasero in Ucraina, alcuni passarono nell’Armata Rossa.

Verso la metà di agosto del 1918, quando sul fronte occidentale si era già verificata la svolta, il governo britannico riconobbe la Cecoslovacchia come nazione alleata. A Vienna ne rimasero sorpresi. Intanto Masaryk si recava oltreoceano per cercare l’appoggio americano presso Wilson, il quale si dimostrò del tutto digiuno dei rapporti etnici e politici nell’Europa orientale. Il piano di Masaryk prevedeva uno Stato multinazionale con il predominio ceco a garantire l’illusione dell’unità nazionale.

Il 3 settembre la stampa nazionale americana annunciò il riconoscimento della Cecoslovacchia, alleata degli Stati Uniti, segnando per sempre il destino all’Impero degli Asburgo.


2.3. - La capitolazione dell’Ungheria

L’Ungheria, che non accettava di cedere la Croazia, cercò di presentarsi al mondo come uno Stato nazionale unitario, conforme al proprio diritto costituzionale che la definiva “nazione politicamente unita” dei magiari e delle altre sei nazionalità che vivevano nell’ambito dei Carpazi.

Il distacco dall’Austria era richiesto da tutti i partiti politici ungheresi, temendo che la disintegrazione nazionale del putrescente impero contaminasse anche lo Stato millenario della Corona di Santo Stefano. Le classi dominanti di Ungheria erano decise a salvare il salvabile nel crollo generale degli Asburgo, senza alcun riguardo per l’Austria e la Germania.

A Budapest a metà ottobre 1918 i partiti avevano cercato di dar vita a una maggioranza che garantisse la continuità governativa. Per Wekerle e la sua coalizione i temi scottanti erano sciogliere i legami con l’Austria, rompere con la Germania, pace separata, difesa nelle regioni sudorientali. Intano la borghesia paventava i moti rivoluzionari ormai alle porte. Ma dietro al nazionalista conte István Tisza continuava a raggrupparsi la maggioranza del parlamento.

Il 16 ottobre Wekerle comunicò al parlamento le concessioni del sovrano, che accettava la semplice unione personale, il che equivaleva a riconoscere l’indipendenza dell’Ungheria. La comunicazione spinse molti ad entusiastiche manifestazioni di gioia. Mihály Károlyi, contrariamente agli altri, si alzò, fra gli applausi della sinistra, a chiedere il richiamo dell’esercito dal fronte italiano e la separazione dalla Germania. Uno dei suoi amici gridò: “Noi siamo del partito dell’Intesa!”. La maggior parte della Camera reagì indignata. Tisza spese calde parole in favore dell’alleato tedesco. Uscendo dall’aula qualcuno gli esplose un colpo di pistola. Sopravvisse, e il giorno seguente alla Camera pronunciò delle parole che nessuno si aspettava: “La guerra per noi è perduta”. L’Ungheria veniva messa di fronte all’evidenza che anche il più oltranzista dei suoi figli dava la partita per persa.


2.4. - Il crollo finale

I fatti che si susseguono veloci.

Il 20 ottobre a Parigi è presentata al governo francese la lista dei componenti del governo di Masaryk. Lo stesso giorno a Vienna si pubblica la sentenza di morte nei confronti dell’Impero degli Asburgo: il governo americano riconosce che «il Consiglio Nazionale Ceco è de facto un governo che combatte, autorizzato a trattare gli affari militari e politici della Cecoslovacchia». Gli americani inoltre ammettono «la legittimità delle pretese nazionali degli iugoslavi alla libertà nelle accezioni più ampie».

Il 21 i deputati austriaci di nazionalità tedesca si riuniscono nella prima seduta della loro Assemblea Nazionale e proclamano la nascita dell’Austria quale Stato nazionale nei confini delle regioni abitate dal suo popolo. Tutti i partiti, ad eccezione del socialdemocratico, si erano pronunciati senza riserve per la forma costituzionale monarchica.

Il 22 Mihály Károlyi parla al parlamento ungherese, chiede il distacco dall’Austria e una pace separata, la nomina di un ministro degli esteri prettamente ungherese e il richiamo immediato in patria di tutte le truppe ungheresi dai fronti esteri. Il primo ministro Wekerle nella sua risposta lascia capire che l’imperatore e il comando supremo avevano già predisposto in tal senso. Intanto la coppia reale cerca rifugio nel castello di Gödöllő, nei pressi di Budapest.

Ma una notizia arriva dalla regia città libera ungherese di Fiume, abitata da italiani: gli ammutinati del 79° reggimento di fanteria croato avevano disarmato gli Honvéd ungheresi (i “Difensori della Patria”) e occupato importanti edifici. Wekerle dà le dimissioni e Károlyi e i suoi hanno la strada spianata.

Il 24 l’imperatore non può fermare lo sviluppo degli avvenimenti, accetta le dimissioni di Wekerle e approva tutte le richieste del governo uscente relative all’autonomia e all’indipendenza dell’Ungheria. Lo stesso giorno il conte Burián, ministro degli esteri dell’Impero, è esonerato dal suo incarico e ne è nominato successore il conte Julius Andrássy. Ad Andrássy figlio toccò il compito di demolire l’opera che il padre aveva contribuito a creare, l’alleanza fra le Potenze Centrali.

Il 25 ottobre al parlamento di Vienna l’italiano Dott. Conci dichiara che «sulla scorta della nota Wilson i suoi connazionali non si riconoscono più sudditi austriaci».

Il conte Károlyi, assieme ad alcuni esponenti politici radicali, forma a Budapest all’Hotel Astoria il Consiglio Nazionale Rivoluzionario, che si pronuncia apertamente per la soppressione del parlamento e l’attribuzione a sé di ogni responsabilità esecutiva.

Il 26 Andrássy a Vienna fa predisporre la richiesta di pace separata. L’imperatore Carlo la sera informa telegraficamente l’alleato tedesco; 24 ore dopo l’Imperatore Guglielmo da Postdam risponde manifestando dolore e sorpresa.

Il 28 ottobre a Budapest si hanno i primi moti della rivoluzione democratico-borghese.

Sul fronte italiano il feldmaresciallo Svetozar Boroević von Bojna, comandante delle truppe austroungariche che combattono sulla linea del Piave, manda questo dispaccio al comando supremo: «La capacità di resistenza delle nostre truppe cala in maniera evidente e proporzionale al considerevole aumento dei numero di reparti che, appellandosi al manifesto imperiale, all’indipendenza della Polonia e degli Stati ungherese, ceco, slovacco e iugoslavo, si rifiutano di obbedire. Manca infatti qualsiasi strumento per mantenere la disciplina. È della massima importanza rendersi conto delle conseguenze di ciò e prendere delle decisioni che segnino una svolta sul piano politico, se non si vuole che l’esercito e la monarchia cadano preda dell’anarchia e delle imprevedibili conseguenze della catastrofe che ne deriverebbe».

La mattina dello stesso giorno l’imperatore fa ritorno a Vienna. L’ultimo tentativo disperato di rimettere insieme quanto ormai perduto è affidato al “pacifista” Heinrich Lammasch, il quale tenta inutilmente di avviare contatti con il ceco Kramarsch e lo iugoslavo Koroschetz per formare una specie di gabinetto, ma questi ultimi non si prestano alla minima collaborazione.

I giornali austriaci riportano la richiesta di pace separata avanzata da Andrássy al segretario americano Lansing.

Il 29 cechi e iugoslavi si separano ufficialmente dall’Austria. Le truppe ceche che si trovano in patria si mettono a disposizione del nuovo governo. Il Sabor (il parlamento) di Zagabria annuncia l’indipendenza ed avoca a sé ogni decisione di carattere militare e amministrativo.

Il 30 ottobre a Vienna una folla di alcune migliaia di persone si riunisce sotto il palazzo della deputazione per chiedere tumultuosamente la repubblica.

Il 31 l’imperatore concede agli ufficiali e ai soldati che si trovavano in patria di mettersi a disposizione dei Consigli Nazionali per il mantenimento dell’ordine pubblico.

Budapest il conte Mihály Károlyi è nominato presidente del consiglio con poteri illimitati. La sera dello stesso giorno Tisza è ucciso nella sua villa da tre soldati.

Il 2 novembre nelle caserme viennesi i rappresentanti popolari fanno giurare ai militari di complemento fedeltà al nuovo Stato. Su pressione dei socialdemocratici sono costituiti dei consigli dei soldati, è anche formata una guardia rossa di ispirazione bolscevica. In tutto il paese si susseguono proteste contro la monarchia e l’Impero.


2.5. - L’Armistizio di Villa Giusti

L’esercito austro-ungherese è oramai in rotta. In seguito al definirsi della Iugoslavia “paese neutrale” e alla rivoluzione borghese in Ungheria, la catena di comando fra lo stato maggiore e il fronte è interrotta e lungo le ferrovie del Veneto e del Tirolo i treni sono presi d’assalto dai soldati ansiosi di fare ritorno a casa, in particolare gli ungheresi. La flotta da guerra, di stanza nella rada di Pola, con i suoi equipaggi, unitamente alla guarnigione del porto e gli operai dei cantieri, si sono ammutinati e in poche ore sfuggono al controllo degli ufficiali. Il 28 ottobre il consiglio dei soldati rende noto che gli equipaggi abbandoneranno le navi; la data era stata stabilita già tre mesi prima. Un capitano di fregata di nazionalità iugoslava venne messo al comando della flotta dai suoi connazionali, che formavano la stragrande maggioranza degli equipaggi. Per cercar di salvare la flotta, che è nelle mire degli italiani, il 30 l’imperatore la consegna al nuovo Stato iugoslavo. Ai marinai delle altre nazionalità è concesso di tornare a casa. Il 1° novembre un sabotaggio italiano cola a picco la Viribus Unitis, la maggiore delle navi da battaglia di quella che era stata la gloriosa flotta imperiale.

Al comando supremo non resta altro che recarsi a Villa Giusti, presso Padova, per firmare l’armistizio. Il 2 novembre l’apposita Commissione riceve l’ordine dell’imperatore di accettare tutte le richieste degli italiani avanzate il giorno innanzi, che equivalgono a una resa senza condizioni. Al fronte, dallo Stelvio al mare, le truppe nel giro di 12 ore sono al corrente dell’ordine di disarmo. Nella notte l’imperatore depone il comando del suo esercito, che del resto si sta dissolvendo.

Gli Stati nati dal crollo dell’Impero degli Asburgo, la Cecoslovacchia, la Polonia e la Iugoslavia, si affrettano a costituire proprie unità con i resti dell’esercito imperiale. In Iugoslavia il lavoro organizzativo è svolto dai serbi, in buona parte da ufficiali delle legioni che avevano combattuto a fianco dell’Intesa.

In Ungheria rimpatriano in gran fretta soprattutto i contadini, nei complementi o direttamente dal fronte, per non arrivare tardi alla spartizione dei latifondi annunciata dal governo Károlyi. Nelle città è costituita la Guardia Nazionale. Al suo interno i Consigli dei soldati esprimono lo spirito socialista dei reparti.

L’armistizio di Villa Giusti vale su tutti i fronti, anche quello dell’Ungheria meridionale. Ma nuovi predoni iniziano a occupare i territori ungheresi: a sud i serbi invadono l’Ungheria meridionale, la Cecoslovacchia chiede la regione abitata dagli slovacchi, il Consiglio nazionale romeno rivendica i 26 distretti dei Siebenbürgen, ovvero la Transilvania.

A Vienna nel frattempo, da una parte i socialdemocratici, fino ad allora sempre all’opposizione, dall’altra, i cristiano sociali, che si erano sempre proclamati fedeli alla monarchia, portano a compimento la rivoluzione borghese e il 12 novembre proclamano la repubblica. L’articolo 2 della legge che definisce la nuova forma dello Stato recita: «L’Austria tedesca è una parte essenziale della repubblica tedesca».

Turati sull’”Avanti!” del 18 novembre prende posizione sulla questione: «È da augurare – e da favorire – che allo sbrindellamento parcellare, e vorrei dire individualistico, dei nuovi Stati che si emancipano si sovrapponga un libero ma saldo regime federativo, che consenta loro l’effettiva indipendenza politica, anche contro gli intrighi egoistici dei maggiori potentati, e l’autonomia economica, come fu sempre nella concezione e nella idealità socialista». Ma a questo compito, seppure borghese, avrebbe potuto ormai adempiere solo l’intervento rivoluzionario della classe operaia.










3. - La “Rivoluzione delle rose”

3.1. - La spartizione

Ancora una volta, a Vienna come a Budapest, i “rappresentanti” della classe operaia non la mobilitano né le danno un ruolo nella rivoluzione borghese.

Eppure, a seguito della situazione generata dall’andamento sfavorevole della guerra, sino da giugno numerosi scioperi scoppiano in tutta l’Ungheria. A Petrozsény le miniere sono quasi ferme, a Budapest lo sciopero in poco tempo diventa generale, tram fermi, postini e metallurgici solidarizzano con gli operai in sciopero che si rifiutano apertamente di obbedire agli ordini delle direzioni militarizzate. Minacciano i comandanti e gli ufficiali. Un colonnello a Pécs è ucciso dai soldati. Alcuni operai sono arrestati e questo causa uno sciopero nel bacino carbonifero più importante dell’Ungheria. In seguito ad una sparatoria in una officina delle ferrovie gli operai saccheggiano gli uffici e chiedono l’allontanamento dei poliziotti e le dimissioni della direzione.

È in questo clima sociale che in Ungheria si realizza la rivoluzione democratica-borghese, essenzialmente pacifica.

Inizialmente Carlo IV, “di Ungheria, Croazia, Slavonia e Dalmazia”, nonostante la rassicurante disponibilità del conte Mihály Károlyi, incarica János Hadik di formare un governo. Ma solo 24 ore dopo, a seguito della crescente agitazione fra le truppe e i lavoratori a Budapest – il PSDU aveva chiamato allo sciopero generale a sostegno del Consiglio Nazionale – l’arciduca Giuseppe, “Principe d’Ungheria e Boemia”, convoca Károlyi per definire il passaggio dei poteri da János Hadik al Consiglio Nazionale. Il 31 ottobre si forma il governo di cui fanno parte il Partito dell’Indipendenza e del ’48, di tradizione liberale-risorgimentale, e il PSDU, che, dopo molti tentennamenti, si spinge ad accettare i portafogli della Previdenza e del Commercio.

Il giuramento di fedeltà alla Corona prestato da Károlyi nelle mani dell’arciduca Giuseppe dà un carattere di continuità piuttosto che di rottura con il passato. Ma, sull’onda delle proteste montanti, il 1° novembre Károlyi scioglie il giuramento, con una certa riluttanza ma incoraggiato e sostenuto anche dalla Camera Alta, costituita dai rappresentanti dell’aristocrazia magiara, tradizionalmente pronti a salire sul carro dei vincitori: sono passati repentinamente dalla parte del Consiglio Nazionale e della repubblica per cercar di difendere i loro privilegi e interessi.

Lo stesso Károlyi si domanda nelle sue memorie: «Come mai i vescovi, i direttori di banca, i presidenti delle società commerciali e agricole erano così impazienti di rendere omaggio ai nuovi capi, già tanto detestati? La risposta è una sola: avevano paura. E noi, animati dallo spirito di pace trasmessoci dall’esercito, eravamo pronti a perdonare i nostri nemici di ieri e di domani. In seguito dovemmo rimpiangere amaramente la nostra generosità».

Il 16 novembre sarà proclamata la repubblica, dopo la formale rinuncia di Carlo IV a partecipare agli affari dello Stato avvenuta tre giorni prima.

Dalla Russia Jakov Sverdlov, a nome del Comitato centrale esecutivo dei soviet, invia al nuovo governo un telegramma: «Operai, soldati e contadini ungheresi, noi crediamo che vi siete liberati del giogo della burocrazia e dei capitalisti viennesi non perché avevate l’intenzione di lasciarvi sfruttare dai banchieri e dai capitalisti ungheresi (...) Siamo convinti che i soldati e i proletari della monarchia capiranno che la liberazione delle masse lavoratrici non si può ottenere che attraverso una rivoluzione mondiale del proletariato. Vi chiediamo di formare un’alleanza con gli operai e contadini della Russia, alla quale si aggiungeranno tutti gli operai e i soldati del mondo. Con le nostre forze unite otterremo la vittoria finale sul sanguinario capitalismo».

Ovviamente i nuovi governanti, socialdemocratici inclusi, si guardano bene dal diffondere il telegramma russo. Ma un socialista rivoluzionario che lavorava ai telegrafi riesce ad intercettarlo e nel bel mezzo della cerimonia di insediamento del nuovo governo, sopra l’enorme folla assiepata di fronte al parlamento, compaiono tre piccoli aeroplani che gettano il testo in migliaia di volantini!

Protagonista materiale della rivoluzione, ancora una volta, è la classe operaia, seppur non organizzata e ancora senza il suo partito, che è riuscita, assieme alle masse contadine nell’esercito, a rovesciare il potere vecchio di quattro secoli degli Asburgo.

Dalla sconfitta in guerra, con la rovina della vecchia Ungheria e dei suoi strati sia borghesi sia semifeudali, la borghesia si ritrova senza colpo ferire una nazione e il potere statale. Una indipendenza nazionale sortita fuori da una sconfitta nazionale.

Ma con la sconfitta è venuta meno la possibilità di opprimere le popolazioni non ungheresi, anzi, è prevedibile che una parte notevole del popolo ungherese cada sotto dominio straniero.

Al governo di Károlyi si pone subito un primo difficile compito: porre fine alle ostilità e stipulare un armistizio con l’Intesa. 47 sue divisioni dell’armata orientale, al comando del generale Louis Franchet d’Espèrey, sono in marcia alla volta di Budapest.

Il 6 novembre parte una delegazione alla volta di Belgrado, di cui fanno parte, oltre a Károlyi, Oszkár Jászi, un rappresentante del Consiglio dei soldati e il presidente del Consiglio degli operai il socialdemocratico Deszö Bokányi. Le condizioni poste dal generale Franchet sono anche questa volta pesanti: la linea di demarcazione dal corso del fiume Szamos seguirà il Maros fino al Tibisco, passerà per le città di Szabadka (Subotica), Baja, Pécs e Barcs fino al confine croato da dove seguirà il corso della Drava.

Unica concessione ottenuta da Károlyi è la soppressione della clausola 17: l’intervento armato e l’amministrazione da parte dell’Intesa in tutti i territori dove scoppiassero disordini. Serbi e cechi potrebbero fomentare sollevazioni delle minoranze nazionali consentendo l’occupazione militare alleata di vasti territori dell’Ungheria.

L’esercito ungherese sarà ridotto a sei divisioni di fanteria e due di cavalleria, con compiti esclusivi di ordine interno.

Ma gli accordi appena sottoscritti saranno violati dagli imperialismi vincitori che spartiranno fra gli Stati circostanti territori storicamente ungheresi. Praga si annetterà la Slovacchia, la Boemia, la Moravia e la Slesia austriaca, occuperà l’Alta Ungheria la Rutenia subcarpatica, formando così la Cecoslovacchia. La Romania si prenderà la Transilvania. La Slavonia sarà unita al Regno dei Serbi, Croati e Sloveni. Le truppe serbe e francesi avanzeranno fino ad occupare il Banato, che si era reso indipendente il 1° novembre. Fiume, principale porto ungherese, diverrà Stato libero di Fiume, poi annesso al Regno d’Italia.

Il Consiglio supremo dell’Intesa alla fine di dicembre autorizza le truppe cecoslovacche ad occupare le città di Kassa (Košice) e Pozsony (Bratislava), modificando così la linea di demarcazione fissata con l’armistizio di Villa Giusti. In queste città i lavoratori organizzati, i ferrovieri e i colletti-bianchi in procinto di perdere il posto di lavoro, come avevano fatto in precedenza nella Voivodina, protestano con determinazione, nonostante l’esercito intervenga a ripristinare l’ordine e nonostante le misure della nuova amministrazione per contrastare il pericolo bolscevico. All’inizio di febbraio iniziano scioperi contro la disoccupazione, la riduzione dei salari, per forniture alimentari e il ripristino dei diritti politici. In alcune località i nazionalisti cercarono di imporre un’inclinazione anti‑ceca a queste lotte di operai, in maggioranza ungheresi e tedeschi, ma anche slovacchi.

La Romania, sostenuta dai francesi, occupa 23 province ungheresi e il 7 dicembre il Consiglio Nazionale della Transilvania decide l’unione con la Romania, violando quanto stabilito a Belgrado. Anche in questo caso i proletari della minoranza ungherese delle zone occupate dai romeni scendono in lotta e i dipendenti pubblici si rifiutano di prestare giuramento alle autorità romene. Alla fine di gennaio 1919 i postini e i ferrovieri, gli operai delle industrie di Kolozsvár e i tipografi di Nagyszeben chiedono il miglioramento alle loro condizioni; a loro si uniscono i minatori di diverse nazionalità che lottarono fianco a fianco nella valle del fiume Zsil. Qui lo sciopero si trasforma in una rivolta armata dei minatori, che intendono instaurare una “repubblica sociale”: si fa intervenire l’artiglieria a reprimerli nel sangue, con fucilazioni in massa e incarcerazioni.
La prima mappa descrive come cambiarono i confini del territorio ungherese a seguito della spartizione.

La seconda mappa rappresenta la spartizione che sarà imposta dagli imperialismi vincitori con il Trattato del Trianon, firmato il 4 giugno 1920 a Versailles. L’Ungheria perderà circa due terzi del suo territorio, comprendente alcuni milioni di nativi magiari (Legenda: Linee dei confini indicati nella parte destra della mappa: I confini della monarchia austro-ungarica 1914 - I confini interni della monarchia austro-ungarica 1914 - Nuovi confini 1921).

L’Ungheria si trova dunque accerchiata dagli Stati dell’Intesa, mossi solo dai propri interessi predatori di conquista e dominio. Inutili i tentativi del governo Károlyi di cercare un appoggio diplomatico presso di essi. Mihály Károlyi ripiega nelle illusioni affermando il 30 dicembre 1918: «La nostra politica estera è fondata sui principi wilsoniani. Abbiamo una sola ideologia: Wilson, Wilson e ancora Wilson. All’America spetta il compito di rifare l’intera Europa estirpandone l’idea di revanche e creando una pace che non inasprisca i popoli».

Ai primi di dicembre tre ministri del governo Károlyi: Lovászy, Batthyány e Bartha, esponenti dell’ala moderata del suo partito, tentano con le loro dimissioni di imporre un ritorno alla piattaforma originaria del Consiglio Nazionale, di escludere dal governo i socialdemocratici e i Consigli operai e dei soldati, ritenuti organismi bolscevichi, influenzati dai comunisti, che vanno organizzandosi. I tre ministri in questione lavorano apertamente a un colpo di mano controrivoluzionario per dar vita a un governo borghese “puro”, senza i socialisti, confidando nell’appoggio dei vertici militari e politici del passato regime e, soprattutto, della missione militare alleata a Budapest. A sostenerli è pronta anche buona parte dell’emigrazione politica ungherese in Svizzera, la quale ha già avviato contatti con i circoli militari francesi per convincerli a procedere in tempi brevi all’occupazione alleata di Budapest, in funzione antibolscevica. Ma il piano Lovászy, non trovando sufficiente appoggio alleato, fallisce. Da inizio novembre, quando pareva imminente un impegno militare francese in tal senso, è infatti mutato l’approccio di Clèmenceau. Il piano non trova appoggio neppure presso i vertici diplomatici e militari serbi.

Un mese dopo la crisi un rimpasto di governo rafforza il potere di Károlyi, che si dimette da primo ministro per assumere l’11 gennaio la carica di capo di Stato provvisorio, vacante in attesa delle elezioni per l’Assemblea nazionale costituente. Károlyi, inoltre, mantiene per sé il ministero degli esteri, e a Dènes Berinkey, a lui politicamente molto vicino, va l’incarico di primo ministro. I socialdemocratici portano da due a quattro i loro ministri, a cui si affiancano un radicale in sostituzione di Jászi, dimissionario, e un esponente di spicco del partito dei piccoli proprietari, István Nagyatádi Szabò.


3.2. - Il PSDU e la guerra mondiale

Il PSDU sulla guerra aveva tenuto una posizione ambigua, non dando seguito alle direttive del manifesto di Basilea. In seguito divenne apertamente interventista.

Mentre su “La Voce del Popolo”, organo del Partito, il 23 luglio 1914 un articolo di Pogány ribadiva: «Noi non dobbiamo permettere che la febbre della guerra trascini le masse lavoratrici; dobbiamo proclamare apertamente e con coraggio: il popolo lavoratore dell’Ungheria non vuole, non tollera lo spargimento di sangue», a settembre sullo stesso giornale si poteva leggere: «È sui campi di battaglia della Galizia che la classe operaia ungherese combatte per un salario migliore, per un tempo di lavoro più tollerabile, per i suoi minimi diritti politici, contro la barbarie russa, l’assolutismo russo, l’oppressione russa». A novembre il “Bollettino Sindacale” (“Szakszervezeti Értesítő”) fugò ogni dubbio: «La guerra ha posto fine alla lotta tra le classi (...) è negli stessi ranghi che si battono ricchi e poveri, datori di lavoro e operai». Infine a maggio 1915, su “La Voce del Popolo”, Ernö Garami scriverà: «Lo spettro minaccioso dell’invasione russa ha costretto i partiti socialisti in Austria e Ungheria a ritenere che la difesa del paese viene prima di ogni altra cosa (...) Il fatto che noi, socialisti ungheresi, non abbiamo votato le spese militari di fronte all’invasione russa non è dipeso dalla nostra convinzione, ma dal fatto che non avevamo diritto di voto».

Si andava così appoggiando non una guerra nazionale ungherese, contro Mosca e contro Vienna, ma la guerra dell’Impero.

Riportiamo quanto si scriveva su “L’Internazionale Comunista” del novembre-dicembre 1919: «Dall’inizio della guerra il partito social-democratico ungherese, similmente a quelli degli altri paesi, aveva perduto la maggioranza dei suoi iscritti richiamati al servizio militare, e, successivamente, anche per il fallimento morale della social-democrazia. L’enorme maggioranza degli iscritti era sicura che i loro capi si sarebbero pronunciati contro la guerra; gli operai ungheresi speravano che la II Internazionale, riunendo i partiti social-democratici di tutti i paesi, avrebbe reso la guerra impossibile. E quando questa speranza svanì le masse operaie abbandonarono il partito che non aveva fatto un passo contro la guerra, al contrario aveva sostenuto in tutti i modi il programma militare e la dittatura della borghesia. Quando i dirigenti social-democratici entrarono nel governo e quando divenne alla moda negli ambienti piccolo-borghesi aderire al partito social-democratico, vennero ad iscriversi in massa impiegati di banca, vecchi ufficiali, vecchi poliziotti, ecc. Questi nuovi membri entrati nel partito operaio portarono a termine la sua prostituzione e i capi non fecero assolutamente nulla per impedirlo».

László Rudas ne “I documenti della scissione”, del 1922, tratta di quanto i socialdemocratici fecero nei giorni precedenti e durante la rivoluzione proletaria. Nella prefazione dello stesso Rudas all’edizione italiana si legge:

«Come dappertutto così anche in Ungheria furono i socialdemocratici ad ammainare la bandiera rossa davanti a quella nazionale. Furono essi a nascondere al proletariato la bancarotta del capitalismo e l’impossibilità della rivoluzione borghese. Furono essi che, sospendendo la lotta di classe, vollero dare alla borghesia la sensazione della sicurezza e nello stesso tempo al proletariato l’illusione della vittoria. Le frasi sentimentali, confuse, piccolo-borghesi di Kunfi mascheravano bellamente la fredda truffa di Garami.

«La socialdemocrazia voleva impiegare le organizzazioni del proletariato allo scopo di organizzare il capitalismo, che essa si affrettò con tutte le sue forze a sostenere. Il giorno della rivoluzione borghese annunciò agli operai, su grandi manifesti: “Abbiamo vinto!”. Kunfi proclamò subito la sospensione della lotta di classe (...) dopo aver giurato fedeltà nelle mani dell’arciduca Giuseppe e di re Carlo IV. Alla proclamazione della Repubblica si dovette costringerli, il che venne fatto dal piccolo gruppo comunista, nel frattempo formatosi.

«Il Partito socialdemocratico s’atteggiò subito a partito dell’ordine, naturalmente di quello capitalistico, che esso voleva mantenere, data l’impotenza del capitalismo stesso, con l’aiuto del proletariato organizzato. Il socialdemocratico Garami si prese come collaboratore, a questo scopo, Kálmán Méhely, direttore della “Unione nazionale industriali siderurgici”, famigerata organizzazione di lotta dei datori di lavoro; difatti, chi meglio del famigerato direttore della più proterva unione dei datori di lavoro poteva appoggiare la socialdemocrazia nella sua azione di salvataggio del capitalismo? Nessuno poteva avere pratica più di lui nel tenere a freno gli operai! (...)

«Si unirono al Partito socialdemocratico e ai sindacati degli impiegati statali perfino gli uomini della polizia e della gendarmeria (...) si formò anche un’unione socialdemocratica degli ufficiali, cosicché tutta la forza armata e tutta la burocrazia erano nelle mani della socialdemocrazia”. Così dice il “compagno con le stellette”; ma sbaglia, perché non questi erano nelle mani della socialdemocrazia ma, al contrario, la socialdemocrazia cadde nelle mani dei compagni poliziotti, gendarmi, ufficiali e bottegai; e con ciò essa cessò veramente di essere un partito operaio, e diventò un partito piccolo-borghese anche in realtà, come in spirito era già da lungo tempo».


3.3. - La rinuncia anche al programma socialdemocratico

Con un articolo apparso su “Szocialis Forradalom” del 23 ottobre 1918, “Il dado è tratto”, Béla Kun prende decisamente le distanze dal PSDU e attacca senza mezzi termini la sua politica opportunista e riformista al servizio del potere della borghesia, dei grandi proprietari terrieri e della Chiesa, contro il proletariato. Enuncia la necessità per la classe operaia ungherese di un Partito comunista rivoluzionario, che vedrà la sua fondazione qualche giorno più tardi, il 4 novembre a Mosca.

«L’Ungheria sta conoscendo i dolori di una trasformazione storica. Il partito operaio ufficiale non accompagna questo parto con fragore rivoluzionario (...) Piagnucola di concerto con la casa reale e imperiale che, nell’estremo tentativo di salvarsi, cerca di mettere al mondo una Ungheria indipendente, federativa e democratica. Questo partito non chiama la classe operaia dissanguata e affamata a portare l’ultimo colpo ai capitalisti in rotta, alla potenza imperialistica depredatrice e alla casa reale degli Asburgo che si dibatte negli spasmi della morte. No, la sua parola d’ordine è l’unione di tutte le “classi democratiche” per salvare il paese e per creare le condizioni più adatte a concludere “la pace più favorevole possibile”.

«Constata pure che la Costituzione, avendo creato un “abisso insuperabile” tra gli oppressi e gli oppressori, è ormai superata. “Viva dunque la nuova Costituzione fondata sull’eguaglianza di diritti delle classi e delle nazioni”, che garantisce diritti alla borghesia, perpetuandone il potere e conservando anche i fondamenti dello sfruttamento. Viva la pace che – state bene attenti! – gli Stati imperialisti pirati concluderanno “basandosi sulla rivoluzione proletaria di Russia e sui principi di Wilson!”.

«Lottate per il disarmo! (che permetterà alla borghesia di non preoccuparsi che di un piccolo esercito di mercenari ben pagati e pronti a tutto contro il “nemico interno”, cioè il proletariato affamato e sfruttato). Niente esercito popolare, perciò, ma disarmo, e non una parola sull’unità internazionale dei proletari.

«Quanto alla bandiera sotto cui il partito socialdemocratico d’Ungheria vuol trionfare, si tratta di quella della libertà di commercio e della cooperazione pacifica tra gli Stati borghesi.

«Una riforma agraria che dia la terra a chi la coltiva!” ecco la parola d’ordine di Prohászka [vescovo cattolico promotore di iniziative tendenti ad alienare, contro indennità, parte delle grandi proprietà terriere in favore dei reduci di guerra, NdR], cui si associa il conte Istávan Tisza, perché i coltivatori la dovranno pagare a caro prezzo. Ecco ciò che si offre alle rivendicazioni dei contadini senza terra. Di confisca dei beni dei vescovi, dei canonici e dei monasteri non si parla nemmeno. Il partito socialdemocratico d’Ungheria non pretende neanche la secolarizzazione e, nel suo programma in 10 punti, è arrivato perfino a dimenticarsi della laicizzazione della scuola.

«Dice “politica fiscale giusta”, ma non osa nemmeno parlare della progressività dell’imposta sui redditi; a maggior ragione si astiene dal reclamare la soppressione dei beni privati, o perlomeno la confisca dei sovraprofitti acquisiti durante la guerra.

«Preparare” l’introduzione alla giornata lavorativa di otto ore, invece di decretarla immediatamente (...) Vázsonyi applaude, Károlyi esulta, Oszkár Jászi [esponente della borghesia radicale, NdR] aderisce alle rivendicazioni del partito socialdemocratico; quanto a János Csernoch, arcivescovo di Esztergom, non avrà motivo di non ordinare messe in tutte le chiese ungheresi per il successo di un simile programma. Perché dovrebbero fare altrimenti, dato che il PSDU non parte da vere considerazioni di classe, non persegue una egoistica politica di classe in favore del proletariato, non predica odio di classe, non parla di lotta di classe, ma indirizza al contrario il proprio appello a tutti coloro “che non hanno partecipato ai crimini del passato”?

«Questo partito non è il partito della classe operaia, è invece il partito “di tutti”. Si rivolge a tutti, affida a tutti la formidabile forza rappresentata della classe operaia ungherese. A tutti, come le puttane di strada!

«Secondo questo partito è necessaria un’Assemblea nazionale costituente, in cui i deputati di “tutte le classi democratiche del paese”, eletti a suffragio universale, elaboreranno la futura Costituzione. Un’Assemblea nazionale costituente in cui, in compagnia di István Tisza, Apponyi, Andrássy, Károlyi, Prohászka, Vázsonyi, di banchieri, di industriali, di proprietari terrieri e di preti, essi potrebbero puntellare meglio l’edificio pericolante dello Stato borghese (...)

«Scheidemann e i suoi accoliti hanno realizzato la pacificazione tra le classi all’inizio della guerra, in un momento in cui il militarismo era fortissimo. Il PSDU vuole invece, anima e corpo, vendere la classe operaia e la rivoluzione proprio nell’ora in cui il militarismo austro-ungarico è crollato (ma non per merito di questo partito) (...)

«Noi non possiamo che ripetere quanto già scritto da Lenin a proposito dei socialdemocratici russi e degli altri paesi che sono stati già sotterrati, fisicamente e politicamente, dalla rivoluzione: ”Che vergogna temere la resistenza dei capitalisti e, al tempo stesso, chiamarsi rivoluzionario e voler essere considerato socialista! Quale caduta ideologica del socialismo internazionale corrotto dall’opportunismo è stata necessaria perché simili voci potessero risuonare!” (...)

«Ciò che è espresso in quei dieci punti non è più solo l’abbandono degli interessi rivoluzionari della classe operaia, non è solo l’errore di perdere l’occasione favorevole che si presenta al proletariato, ma è qualcosa di diverso.

«Il PSDU possiede un programma di transizione che fu elaborato per essere realizzato nelle condizioni di esistenza della società capitalistica. Questo programma di transizione comporta rivendicazioni democratiche: esso non si distingue dai programmi dei partiti democratici borghesi se non per il fatto di sottolineare più energicamente alcune rivendicazioni riguardanti la classe operaia.

«Il nuovo programma in dieci punti è la negazione stessa di quel programma di transizione. Non solo non ne riprende le rivendicazioni, ma ne presenta addirittura di diametralmente opposte che, invece di contribuire a far progredire la causa del socialismo, servono piuttosto a perpetuare l’oppressione e lo sfruttamento.

«Il programma del partito richiedeva l’armamento generale del popolo. Ed ecco che adesso si esige il disarmo, secondo i desideri di Wilson e dei suoi seguaci, i quali, attualmente, non vogliono mantenere sotto le armi che il numero di uomini strettamente necessario a domare la classe operaia.

«Al posto della confisca delle terre ecclesiastiche, al posto del passaggio senza riscatto delle terre alla proprietà comune di tutto il popolo lavoratore, il partito parla adesso di riforma agraria, terminologia sotto la quale bisogna intendere la divisione in particelle e la vendita a caro prezzo delle grandi proprietà. Insomma, il PSDU ha rigettato il proprio programma di transizione.

«Ebbene, il dado è tratto! (...) Questo non è il partito né del proletariato urbano né dei contadini poveri. La classe operaia ungherese ha perciò bisogno di una nuova organizzazione, di un nuovo Partito. Ha bisogno di un Partito Comunista rivoluzionario che metta fine, una volta per tutte, al regno della borghesia e all’opportunismo della socialdemocrazia».


3.4. - Il pretesto della rivoluzione “prematura”

Nell’opuscolo “Di Rivoluzione in Rivoluzione” (nell’edizione italiana del 1920) Kun affronta un’altra obiezione avversa alla rivoluzione:

«Il movimento operaio di tendenza riformista sacrifica i grandi obiettivi di trasformazione del movimento operaio per vantaggi momentanei o per approfittare della situazione contingente. In generale dietro alle espressioni impiegate dagli esitanti e dagli indecisi, che parlano, a proposito della rivoluzione proletaria, di “prematurità” e di “parto prima del tempo”, si nascondono l’incapacità di agire, la mancanza di volontà e di decisione e, soprattutto, la copertura del fatto che la borghesia e costoro si intendono come ladri. I capi socialdemocratici che prima, durante e dopo ripetevano che la dittatura era prematura per giustificare almeno ai loro stessi occhi la propria natura menzognera di uomini di Stato, intendevano questa prematurità e questa precocità in termini generali. Essi sostenevano che non esistevano ancora i presupposti economici della rivoluzione e ne frenavano perciò la preparazione organica e ideologica.

«Ma il 21 marzo, la presa del potere, l’espropriazione dei mezzi di produzione, l’inizio del tipo di organizzazione economica socialista non furono affatto azioni precoci o premature, né dal punto di vista dell’organizzazione economica del capitalismo né da quello della classe operaia. Una volta che la classe capitalista abbia dimostrato la propria incapacità ad organizzare la produzione, una volta che la classe operaia si sia mostrata disposta a intraprendere la propria missione storica manifestando la sua volontà in questo senso, è provato che la classe operaia – come classe e storicamente – è matura per la presa e la gestione del potere.

«La rivoluzione fu precoce e prematura solo dal punto di vista del Partito rivoluzionario che guidava gli operai, il Partito Comunista, la cui organizzazione non era pronta all’istituzione della repubblica dei Consigli. Il PCd’U, il cui lavoro di organizzazione e di approfondimento dell’ideologia rivoluzionaria fu interrotto dalla fusione con il PSDU, si rivelò incapace di liberare il movimento operaio e gli organismi della Repubblica dei Consigli da coloro che sabotavano ogni provvedimento della dittatura, patteggiando con la borghesia e la controrivoluzione.

«In complicità segreta con il sottoproletariato, già guadagnato alla rivoluzione, questi elementi, solo apparentemente in lotta contro la corruzione, la coltivarono come in una serra, come al tempo della repubblica borghese (...)

«La proclamazione della dittatura, il 21 marzo, non fu il risultato dell’iniziativa del Partito rivoluzionario comunista, ma la conseguenza della situazione venutasi a determinare per la codardia della tendenza antirivoluzionaria del movimento operaio. Rifiutare la presa del potere sarebbe stato da parte del PCd’U un errore storico mai più riscattabile.

«Per contro, la persistenza della vecchia struttura organizzativa del movimento operaio, inadatta all’azione rivoluzionaria, fu la conseguenza della particolare situazione del momento. In tale situazione il PSDU desiderava partecipare al potere, essendo riuscito a far credere alle masse che esso aveva avuto la sua parte nel rovesciamento del capitalismo, che invece difendeva (...)

«I partiti socialdemocratici, organizzati per condurre una politica di puro parlamentarismo – e di collaborazione di classe, che è quasi la stessa cosa – rinunciano all’uso della violenza di fronte alla classe dominante e, al posto della dittatura del proletariato, rivoluzionaria e creatrice, aspettano l’avvento del socialismo per opera di qualche Messia, nel migliore dei casi (...) Perciò, queste organizzazioni non solo si sono imborghesite, ma anche la loro attività è venuta a cessare. Al contrario del proletariato, incline alla rivolta per difendere i propri interessi vitali, la piccola borghesia, confluita da tutte le parti nel partito operaio, è sempre stata al seguito della burocrazia del partito e dei sindacati e l’ostacolo maggiore per il proletariato».












4. - Il Partito comunista di Ungheria

4.1. - La guerra mondiale e la prigionia in Russia

Ábel Kohn, figlio di un notaio ebreo e di madre protestante, che vivevano poveramente a Kolozsvár, in Transilvania, cambiò nome in Béla Kun per la imposta “magiarizzazione” delle minoranze. All’età di 19 anni conobbe Mariska Gárdos, attivista socialista che lo iniziò alla propaganda e alle conferenze per il partito socialdemocratico. Buon oratore, arringava gli operai nelle sommosse contro il regime di Tisza, con le richieste, democratiche, del diritto al voto e della libertà di stampa.

Nell’autunno del 1913 partecipò ai lavori del XXVI congresso del PSDU come delegato di Kolozsvár. Gli operai che rappresentava erano molto critici verso la dirigenza, che non dava seguito alle loro richieste di darsi organizzazioni territoriali del partito, che esistevano solo sulla carta.

Il costo della vita intanto continuava ad aumentare ed iniziarono gli scioperi. Anche le manifestazioni politiche erano all’ordine del giorno.

A fine giugno del 1914 in Bosnia fu ucciso Francesco Ferdinando: è la guerra.

Dopo aver frequentato per qualche mese la scuola per ufficiali volontari, Kun fu spedito al fronte. Un reggimento dopo l’altro di operai e di contadini era avviato in prima linea. Le famiglie erano derubate delle indennità di guerra e chi osava protestare era denunciato. Gli operai noti come membri del PSDU erano inviati nei settori più pericolosi del fronte.

Nel 1916 Kun fu fatto prigioniero dai russi. Nel campo di prigionia di Tomsk trovò gli ungheresi Ferenc Münnich, Béla Jaross, Karoly Reiner, Geza Pavlik, József Rabinovics, Ernő Seidler, Imre Szilagyi e altri, in lotta con gli ufficiali zaristi e contro la disciplina del campo. Si mise subito in contatto con l’organizzazione locale del Partito comunista e ne divenne membro. Collaborò ai suoi giornali di propaganda.

Alla fine del 1917 a Pietroburgo conobbe Lenin e gli altri compagni del Partito. Iniziò a scrivere sulla Pravda articoli sulla rivoluzione russa, sul movimento internazionale, sugli ex prigionieri di guerra, ma anche della classe operaia e dei contadini ungheresi.

La rivoluzione d’Ottobre venne a liberare milioni di prigionieri di guerra. I soldati ungheresi rappresentavano il gruppo più numeroso, 600.000 su 2.400.000 in totale. Di questi 50.000 passarono a combattere nell’Armata Rossa, a difesa della rivoluzione d’Ottobre dai controrivoluzionari e dagli eserciti interventisti. «Gli internazionalisti – l’85% sono Ungheresi – combattono bene, a decine di migliaia hanno dato la vita per il potere sovietico» scrive Sergej Lazo, comandante dei partigiani in estremo oriente.

Nei mesi di febbraio, marzo ed aprile 1918 le organizzazioni degli internazionalisti si estendevano per tutto il territorio dell’impero.

Nel febbraio 1918 presero parte alla battaglia di Narva contro l’esercito tedesco che minacciava Pietrogrado, dove la Guardia Rossa riportò una notevole vittoria. Gli internazionalisti parteciparono a numerose battaglie nella guerra civile su tutti i fronti: nell’armata a cavallo di Semën Michajlovič Budënnyj, nel Turkestan, in Crimea, lungo il Volga e in Siberia.


4.2. - Portare la rivoluzione in Ungheria

Il giornale “Nemeztkozi Szocialista” incitava gli ungheresi al fronte e i prigionieri in Russia a volgere le armi contro i loro oppressori, sull’esempio della rivoluzione russa, gli operai ad occupare le fabbriche, i contadini a impossessarsi della terra. L’effetto della propaganda fu notevole sia sulle centinaia di migliaia di prigionieri di guerra sia, in Ungheria, sulle masse operaie e contadine, alle quali gli opuscoli giungevano nonostante il controllo di speciali reparti dislocati al fronte. Rientrati i prigionieri ripetevano a memoria i concetti espressi dal giornale.

«Per la nuova lotta che l’imperialismo impone al proletariato occorrerebbero nuove armi, nuovi metodi di lotta e nuovi organismi i quali non persistano sui vecchi strumenti e sui vecchi modi di lotta ma che siano invece conformi alle nuove necessità del proletariato (...)

«La concentrazione del proletariato è nel Partito Comunista. I suoi strumenti sono lo sciopero generale, la sollevazione delle masse degli operai delle industrie e dell’agricoltura. I suoi scopi sono l’immediata rivoluzione sociale internazionale, l’organizzazione del proletariato come classe dominante, l’instaurazione della dittatura del proletariato, per passare, con la liquidazione della classe dei privilegiati e con la cessazione di ogni differenza di classe, “dal regno della necessità al regno della libertà” (...)

«Cessa così la legge dei privilegiati, il dominio dei funzionari e dei giudici (...) Tutte le cariche devono essere elettive. Tutti i funzionari debbono poter essere sollevati in qualunque momento, e il loro stipendio non può essere maggiore della paga media degli operai qualificati (...)

«La statizzazione proletaria consisterà in una regolamentazione unitaria della produzione e nell’unificazione delle aziende (...) Come grande compito vi è poi l’organizzazione e la regolamentazione statale proletaria del consumo (...)

«Nella rivoluzione sociale il primissimo compito dei comunisti è quello di organizzare i contadini affinché occupino senza indugio la terra (...) La terra assieme a tutte le attrezzature agricole sia posta a disposizione dei consigli locali, provinciali o regionali dei delegati contadini e degli operai agricoli (...)

«La rivoluzione deve prorompere senza indugio “per smantellare l’ordine sociale esistente” (...)

«Le armi che ci hanno messo nelle mani per opprimere i nostri fratelli (...) debbono essere usate per la nostra liberazione (...) Il proletariato ungherese conquisterà il potere (...) Torniamo compagni in Ungheria (...) e là incontriamoci di nuovo e uniamoci!».

All’inizio del 1918 i comunisti giravano per le baracche dei prigionieri incitandoli ad arruolarsi nella Guardia Rossa, molti contadini tornavano in Ungheria pronti a cacciare i latifondisti e a difendere la terra con le armi.


4.3. - Il Gruppo Ungherese del Partito Comunista Bolscevico

A metà febbraio 1918 il governo rivoluzionario, e con esso i compagni stranieri, si trasferisce da Pietrogrado a Mosca.

A Mosca si trovano anche gli ex prigionieri di guerra ungheresi arruolati nel Partito, fra cui Ferenc Jancsik e Pál Gisztl. Iniziano subito incontri quasi quotidiani all’Hotel Dresden. Qui conoscono il marxismo e la storia del Partito bolscevico.

Il 24 marzo è fondato il Gruppo Ungherese del Partito Comunista Bolscevico, presenti: Béla Kun, Ernő Pór, Ferenc Jancsik, Pàl Gisztl, Tibor Szamuely, Károly Payerhoffer, Arpàd Tubàn, Viktor Kiska e altri. Sono giovani: Kun ha 32 anni, che è l’età media dei comunisti nominati in questa ricerca. Più di metà sono di origine ebraica.

Nel suo discorso Kun riprende a grandi linee la storia del Partito bolscevico e della difesa al suo interno del marxismo contro l’opportunismo menscevico e il revisionismo. L’attività fra i prigionieri di guerra si deve configurare nel lavoro di organizzazione, di educazione e di battaglia al fine di creare un forte Partito comunista in Ungheria. «Tutti i membri del Partito devono essere attivi perché è la convergenza delle loro forze che dà vita al Partito ed è con l’unione delle forze che si realizzano i suoi più difficili compiti. Il Partito non riconosce membri inattivi. È la disciplina che dà al Partito la sua unitaria capacità effettiva. Lo studio, l’attività e la disciplina al Partito sono il distintivo di tutti i suoi militanti».

Subito si decide la pubblicazione del “Szociàlist Forradalom” (“Rivoluzione Socialista”), giornale a quattro pagine in lingua ungherese. Pál Gisztl, tipografo, è incaricato di provvedere alla stampa. Il primo numero, che esce il 3 aprile, riferisce di un corso per propagandisti ed invita tutte le direzioni nei luoghi di lavoro dei prigionieri di guerra ad inviare uno o due membri ciascuno. Arrivano in trenta.

Sempre ai primi di aprile il Gruppo Ungherese e il Comitato dei prigionieri chiamano le direzioni dei prigionieri nelle diverse città a nominare loro delegati a un’assemblea che si sarebbe tenuta dal 13 al 17 aprile. Vi parteciperanno in 400 in rappresentanza di 500‑600.000 prigionieri, arrivati a Mosca anche dall’estrema Siberia. Sono presenti all’assemblea Thomann, in seguito dirigente dei comunisti austriaci, József Rabinovics, Sàndor Kellner, Majtènyi Freistadt, Hochfelder, Károly Vántus, l’operaio Horti da Saratov, il dott. Markus dalla Siberia, ecc. Al compagno Károly Vántus, membro della direzione del partito socialdemocratico ungherese fin dal 1914, è affidata la direzione del corso per propagandisti.

Kun si rivolge ai convenuti: «Tornate a casa e accendete la fiamma in tutto il paese, abbattete tutti gli ostacoli che si presentano sulla strada della liberazione dall’oppressione (...) Senza l’insurrezione armata non otterrete niente (...) Compagni, avete vissuto qui, avete visto la rivoluzione russa, la quale ha dimostrato che il proletariato può trasformare sé stesso soltanto con le proprie mani (...) In patria vi diranno che il paese è in pericolo, e vi spediranno sul fronte francese o su quello italiano o in qualche zona dei Balcani (...) Perché dovreste combattere? Per la patria? Quella patria è la patria della borghesia! (...) Volgete le armi contro i vostri ufficiali, i vostri generali. Andate contro le ville dei signori. Tutti gli uomini semplici fra voi siano educatori della rivoluzione nel proprio battaglione. Parlate di cosa è accaduto qui, raccontate che noi possiamo essere liberati solo dalla rivoluzione».

Nella risoluzione approvata dall’assemblea si legge: «Si prende atto della incrollabile decisione di impegnarsi nella lotta rivoluzionaria e per la insurrezione contro i governi, tanto in Germania quanto in Austria, in Ungheria e in Bulgaria; non si avrà pace fino a che non avremo abbattuto il capitalismo e fino a che sulle sue rovine non avremo edificato la libera Repubblica dei Consigli».

A Mosca, il 6 luglio, il Gruppo ungherese, insieme a prigionieri di guerra austro-ungheresi e a un reparto della milizia rossa di nazionalità lettone, partecipa alla riconquista dell’ufficio centrale della posta, occupato dai socialisti-rivoluzionari (i quali avevano accusato Kun in un volantino di essere una spia tedesca). In tre giorni l’ordine rivoluzionario è ristabilito nei dintorni della caserma Pocrovskìj, centro della rivolta.

Il Gruppo Ungherese lavorava bene, il Szociàlist Forradalom usciva due volte la settimana in 30‑40.000 copie; oltre a numerosi opuscoli rivoluzionari, teneva il corso per propagandisti, pubblicava libri della Biblioteca Comunista.

Lenin all’VIII congresso del PC(b)R, che si svolse dal 18 al 23 marzo 1919 a, a proposito della Federazione dei Gruppi Stranieri disse: «Devo richiamare la vostra attenzione sul rapporto di attività della Federazione dei Gruppi Stranieri (...) Qui si osserva l’effettiva base di ciò che abbiamo fatto per la III Internazionale (...) Centinaia di migliaia di prigionieri (...) ritornando in Ungheria, in Germania, in Austria hanno fatto sì che questi paesi siano ora interamente contaminati dal virus del bolscevismo. E se vi dominano gruppi o partiti solidali con noi è grazie al lavoro di questi gruppi stranieri in Russia, lavoro che ha rappresentato una delle pagine più importanti dell’attività del Partito comunista russo quale cellula del Partito comunista mondiale».

A nome della Federazione dei gruppi stranieri, Lenin, Kun, Marchlewski, Liebknecht e Luxemburg firmarono il manifesto preparatorio del primo Congresso della III Internazionale.


4.4. - Il rientro dei prigionieri

Il 1° maggio 1918 in una lettera di saluto arrivata non senza difficoltà dall’Ungheria, secondo Kun spedita dal compagno Ervin Szabó, i membri del movimento clandestino contro la guerra e del movimento socialista di sinistra si promettevano più stretti contatti con il Gruppo ungherese in Russia. È la conferma che in Ungheria esisteva già un movimento socialista di sinistra clandestino, diffuso in particolare fra gli studenti universitari.

Il ministro dell’interno ungherese, costretto ad occuparsi degli ex prigionieri e della circolazione degli opuscoli comunisti, in una circolare scriveva: «La situazione è aggravata anche dal fatto che questi elementi sono stati testimoni oculari dello svolgimento della rivoluzione russa, quindi non solo sono imbevuti dei principi della rivoluzione russa stessa, ma conoscono i metodi e gli strumenti di sovversione con i quali i proletari russi hanno realizzato i loro scopi rivoluzionari. Scritti di contenuto sedizioso penetrano clandestinamente attraverso la frontiera».

Note segrete informavano le autorità militari della monarchia austro-ungarica dei nomi di migliaia di prigionieri di guerra entrati a far parte della Guardia Rossa. Questi, appena rientrati in Ungheria sono internati nel campo di concentramento di Kenyérmezö e interrogati. Il ministro dell’interno ungherese dette l’ordine segreto di eliminare in ogni modo Béla Kun; stessa sorte indicavano nei loro dispacci le potenze dell’Intesa.

Una direttiva del ministro degli interni ungherese del 28 febbraio 1918 invitava le autorità a controllare attentamente tutti i prigionieri di guerra di ritorno dalla Russia. Fino allora erano tornati solo gli invalidi. Fu istituito un “blocco sanitario” per “una energica azione di depurazione dalle idee bolsceviche”.

In seguito a queste misure ci furono diversi disordini in varie città dell’Ungheria. A Debrecen, nell’Est del paese, un gran numero di ex prigionieri fuggì dalla tradotta che li riportava in patria. Secondo un ordine del ministro ungherese potevano essere usate le armi senza preavviso contro “disertori armati”. A maggio vi fu una sollevazione militare a Trencsén e a Pécs, una informativa del prefetto parlava di «2.337 soldati tornati dalla Russia (...) contagiati dai principi bolscevichi». Le commissioni di disciplina fecero passare per le armi dodici soldati.


4.5. - La fondazione a Mosca del Partito ungherese

A Mosca, il 25 ottobre 1918, in una conferenza dei comunisti delle diverse nazionalità ungheresi, Kun dichiara:

«Noi comunisti bolscevichi (...) abbiamo risolutamente e per sempre rotto con la socialdemocrazia. E ciò perché questo partito è diventato oggi quello della reazione democratica, un partito controrivoluzionario (...) In conseguenza si pone il problema della costituzione del Partito comunista. Non sono trascinato da euforia rivoluzionaria, non credo che saremo al potere a partire da domani, ma il proletariato ungherese prenderà il potere. E noi dobbiamo prepararci, dobbiamo prepararci all’azione rivoluzionaria, all’insurrezione armata che è ormai imminente. Abbiamo il dovere di procedere alla fondazione del Partito Comunista d’Ungheria.

«Dovrà essere un organismo capace di estendersi su tutto il territorio e di interessare tutte le minoranze nazionali ungheresi.

«È evidente che le basi di questo organismo non potranno essere diverse da quelle del Partito comunista di Russia. E ciò perché noi siamo suoi figli, perché siamo nati da esso, ma anche perché oggi la dittatura del proletariato in Russia è la pietra angolare della nuova Internazionale proletaria. Il Partito comunista di Russia è oggi un Partito unito e rigorosamente disciplinato. Anche noi abbiamo bisogno di un simile Partito».

Dopo pochi giorni, il 4 novembre si tiene la conferenza di fondazione del Partito. Kun riprende quanto detto nella precedente riunione rimarcando con forza: «Non è possibile collaborare con il PSDU, anche se i dirigenti del PSDU non avessero occupato poltrone ministeriali e non avessero concluso dei compromessi con i partiti borghesi. Le nostre rivendicazioni non potrebbero essere soddisfatte neanche dalla democrazia più radicale e dal governo più popolare. Noi non vogliamo dalla borghesia delle concessioni particolari. Ciò che vogliamo è il potere, perché solo il suo possesso offre i mezzi per liberare il proletariato. La dittatura del proletariato esistente in Russia da più di un anno non lascia più dubbi al riguardo (...) Nel mondo intero la rivoluzione è ormai in marcia. Oggi i maggiori ostacoli opposti alla rivoluzione sono innalzati dai partiti socialdemocratici ufficiali che, come i menscevichi, hanno volontariamente rinunciato al potere».

Propone infine di adottare la seguente risoluzione:

«Riunita nel pomeriggio del 4 novembre 1918 all’Hotel Dresden di Mosca, la conferenza dei comunisti originari del territorio del vecchio Stato ungherese dichiara che, a conferma del proclama di principio contenuto nell’appello adottato il 25 ottobre scorso, è fondata la Sezione ungherese del Partito Comunista Internazionale. Il nome di questa sezione è Partito dei Comunisti di Ungheria. Esso adotta lo statuto del Partito Comunista di Russia. La conferenza dichiara che, in attesa della fondazione della III Internazionale della classe operaia e della Repubblica Internazionale dei Consigli, il C.C. del PCR viene considerato il rappresentante della classe operaia internazionale e che, per la politica generale, essa si attiene alle risoluzioni e alle decisioni di questo Comitato.

«La conferenza prescrive ad ogni membro del PCR che sia originario dell’Ungheria di lasciare al più presto (secondo le possibilità) il territorio della repubblica dei Soviet di Russia, per mettersi al servizio della rivoluzione internazionale in Ungheria. Viene creato un ufficio estero, al quale sono eletti i seguenti compagni... [i nomi non sono riportati nel giornale].

«La conferenza elegge per dirigere il movimento – legale e illegale – in Ungheria, per un Comitato Centrale – che dirigerà il movimento fino a che una conferenza, legale o illegale, o un Congresso non avranno eletto in Ungheria un nuovo C.C. – i compagni: Károly Vántus, Béla Kun, Ernő Pór, Harinton Beszkàrid, Emil Bozdogh, Mátyás Kovács, Mátyás Krisják, Iván Matuzovitz e Ferenc Drobnik».

Il 6 novembre Béla Kun, Kàroly Vàntus e altri due compagni lasciano Mosca alla volta di Budapest.











5. - Partito e dittatura

Scrive Kun in “Alcune osservazioni ad uso delle persone in buona fede”, epilogo dell’opuscolo di propaganda “Che dice la III Internazionale sulla rivoluzione proletaria d’Ungheria” del maggio 1920, scritto in carcere a Vienna:

«In Ungheria, la situazione era resa complessa dalla particolarità della struttura del movimento operaio che faceva sì che ogni membro di un sindacato fosse nello stesso tempo membro del PSDU. Chiunque facesse parte di un sindacato pagava con la sua quota sindacale la tassa al PSDU, che lo volesse o no, che si dichiarasse socialdemocratico o no. Così ogni membro iscritto al sindacato del PCd’U pagava anche la tassa al PSDU (i primi passi dei comunisti furono rivolti proprio ad ottenere che i comunisti iscritti ai sindacati non fossero obbligati a lasciarli nel momento in cui diventavano membri del PCd’U)».

Ricorda ancora Kun:

«In Ungheria non si era riusciti ad organizzare un PC chiuso. E il periodo che va dalla fine di novembre al 20 febbraio – quando l’imprigionamento dei dirigenti portò alla dispersione delle organizzazioni del Partito – si rivelò in generale troppo breve per la messa a punto di quella organizzazione. Il PCd’U poteva contare sulle masse. La sua agitazione rivoluzionaria e piena di slancio, la sua tattica esemplarmente marxista, le sue parole d’ordine ben scelte, le sue azioni rivoluzionarie coraggiose e inflessibili sollevarono il morale del proletariato e generarono la più profonda simpatia nei confronti dei comunisti. Ma, dal punto di vista organizzativo, queste masse appartenevano all’unità organica dei sindacati e del PSDU (...)

«Ed è fortemente vero quello che dice il nostro amico Radek, che nel corso della dittatura avremmo avuto un gran bisogno di un “grosso randello”, la cui funzione sarebbe stata di danzare sulla schiena di Garbai, Jacob Weltner e Kunfi (...) Indubbiamente i germi della sconfitta si trovavano nella fusione stessa».

In “Di Rivoluzione in rivoluzione” leggiamo ancora Kun:

«L’origine di tutti gli errori, la causa principale della caduta della dittatura, stava nella struttura del movimento operaio, che era primitiva dal punto di vista della tattica.

«Per lunghi decenni il movimento operaio ungherese non fu protagonista della lotta ideologica e tattica tra diverse tendenze che aveva interessato il movimento operaio internazionale. Le differenze, in parte ideologiche, in parte tattiche, che avevano diviso la maggior parte dei partiti operai del mondo, lasciarono quasi indiviso il partito operaio ungherese. Tolto l’ultimo periodo, queste lotte non fecero nascere affatto in seno al partito operaio ungherese gruppi di questo genere, la cui contrapposizione avrebbe potuto quanto meno interessare strati sempre più ampi e creare in questi strati una opinione pubblica.

«Padrona dell’organizzazione delle masse era una burocrazia di partito e dei sindacati intellettualmente apatica, il cui orizzonte era limitato al parlamentarismo (cioè alla caccia ai mandati parlamentari) e ad insignificanti riforme sociali. Più questa burocrazia si rendeva libera dai suoi mandanti, gli operai, più essa diventava estranea agli autentici interessi rivoluzionari delle masse. Più aumentava la sua influenza in politica interna, e più diminuivano la sua disponibilità e la sua fedeltà a condurre la lotta di classe.

«Da un doppio punto di vista la struttura del movimento operaio ungherese era costruita in maniera perfetta perché la volontà delle masse fosse espressa il più indirettamente possibile, vale a dire nella forma più falsificabile. Dall’ultimo decennio del secolo scorso il PSDU non era più che un fiacco sostegno dei sindacati, ma era magistralmente costruito al doppio scopo di tenere, da un lato, separati i mestieri delle masse lavoratrici e, dall’altro, concentrata la burocrazia sindacale, rigidamente unita nell’esercitare un potere assoluto sulle masse. Ecco perché il movimento operaio ungherese aveva così poco del partito politico.

«Dove erano delle organizzazioni di propaganda elettorale, queste non vivevano che nella speranza di raccoglier mandati, per mezzo dei quali le masse non esercitavano alcuna influenza diretta sulla direzione politica del partito. Questa struttura del movimento operaio – identificazione completa fra partito e sindacati, potere assoluto della burocrazia – offriva una garanzia pressoché totale di mantenere il movimento operaio al di fuori della lotta tra le tendenze riformista e rivoluzionaria, tra i seguaci dell’una e dell’altra tendenza, senza rischio di scissioni in seno al partito. Le questioni essenziali dell’ideologia e della tattica del movimento operaio erano regolate come affari interni, svuotati il più possibile del loro contenuto di principio e della loro forma. Chi non si dimostrava incline a considerare la causa del proletariato come un affare interno della burocrazia e voleva rivolgersi alle masse trovava schierato contro di sé tutto l’apparato del partito e dei sindacati.

«Questa unità del movimento operaio ungherese, unità che non fu intaccata neanche dalla guerra imperialista (che portò alla scissione perfino i movimenti operai dei paesi neutrali), non era né unità ideologica né unità d’azione, bensì della burocrazia di partito e sindacale nell’assenza di principi, nell’opportunismo e nel tradimento della lotta di classe. Tutti i compromessi dei capi del partito con la borghesia erano seguiti dal compromesso interno all’organizzazione, che sanzionava ulteriormente il tradimento reiterato della classe operaia e l’abbandono dei suoi interessi vitali.

«Se veniva a cadere davanti alle masse qualche velo di copertura dell’attività della burocrazia, c’era subito a portata di mano un paravento adatto a coprire sempre tutto: la “sacra unità” del movimento operaio. Sotto questo segno l’infame tradimento era consacrato come onorevole, l’opportunismo derivante dall’inerzia anti‑rivoluzionaria era nobilitato come spirito di sacrificio, la pigrizia era trasformata in lavoro instancabile e attivo.

«A meno che non ci si volesse accontentare di una “libertà di opinione”, libera di esprimersi in circoli privati, la tendenza rivoluzionaria – che si andava rinforzando dopo la guerra – aveva bisogno di creare una propria organizzazione».


5.1. - Moti operai

Durante la guerra il PSDU non aveva fatto nulla per organizzare le masse alla rivoluzione. Sottomesso agli Asburgo, concentrava tutta la sua attività sulla conquista del suffragio universale, unica ricompensa ai proletari per il loro sacrificio nel macello mondiale. Nel contempo si adoperava a sradicare con violenza dal partito qualsiasi tendenza veramente rivoluzionaria; tendenze che sorgevano in opposizione alla Direzione del partito, la quale deliberatamente veniva in soccorso della polizia.

Szántó Béla, commissario del popolo per gli affari militari, ricorda che nel gennaio 1918, al grido “Abbasso la guerra! Pace! Viva il proletariato russo!”, la classe operaia, con l’inconscio istinto rivoluzionario degli oppressi, si mise in sciopero, dando il via a una serie di mobilitazioni.

Un abisso separava la classe dai capi, affondati nella palude dell’imperialismo wilsoniano. I lavoratori volevano la lotta, ma nessun dei dirigenti del movimento operaio ungherese, rimasti anche in seguito chiusi sul terreno sindacale, volle porsi alla loro testa con propositi rivoluzionari.

Gli operai si organizzarono contro le dirigenze sindacali/PSDU, alla loro testa, probabilmente, qualche socialista-rivoluzionario, della sinistra del PSDU. Lo sciopero scoppiò senza che la direzione del PSDU lo sapesse o lo volesse. Si adoperò per mettersi alla sua testa per confinarlo nelle rivendicazioni della democrazia. Scoppiato con istintivo impeto rivoluzionario in tutto il paese, fu spezzato tre giorni dopo il suo inizio per l’intervento del governo che schierò l’esercito con cannoni e mitragliatrici ad occupare le strade. Il PSDU utilizzò tutte le energie per risospingere le masse operaie negli opifici. Le maggiori fabbriche però non seguirono le direttive del PSDU i cui delegati inascoltati furono cacciati dagli operai.

Ma questa prima azione della classe operaia non poté avere successo. Il primo movimento rivoluzionario in forze del proletariato ungherese andò a vuoto, mancando della sua giusta direzione di classe.

Il PSDU non tardò a vendicarsi. Ne “La Voce del Popolo” apparvero articoli diffamatori e delatori contro tutti coloro che all’interno del partito si erano prodigati a indirizzare il moto proletario in senso rivoluzionario. Tutto materiale utile al governo Wekerle-Vázsonyi per attuare in seguito le sue persecuzioni.

Per rifarsi una verginità la direzione del PSDU depose il mandato. Ma al Congresso del partito, presente tutta la sua burocrazia e dei sindacati, nell’atmosfera di inaudito terrorismo allora dominante, la direzione fu rieletta all’unanimità. La borghesia stessa, che era stata in ansia in quei giorni, fece pubblicare sulla sua stampa articoli a favore della direzione del partito.

La settimana successiva allo sciopero re Carlo si recò a Budapest per informarsi personalmente sullo stato d’animo interno nel PSDU: gli fu detto che ultimamente nelle file della classe operaia erano penetrati dei sobillatori, ai quali era riuscito di eccitare le masse e manomettere la disciplina del partito e l’autorità della direzione. Al che anche il re si augurò che gli elementi assennati del partito ne riconquistassero la direzione.

Il governo da parte sua si sarebbe impegnato a prevenire il ripetersi di simili disordini nel PSDU: si moltiplicarono i processi e gli arresti, i rappresentanti della tendenza rivoluzionaria che si erano esposti durante lo sciopero e coloro che sostenevano la costituzione dei Consigli operai furono incarcerati. L’organizzazione degli impiegati privati, la cui assemblea generale aveva votato per «la costituzione dei Consigli operai perché il proletariato possa impadronirsi del potere politico e procedere alla distruzione del capitalismo e all’edificazione del socialismo», fu sciolta dal governo.

Nel giugno del 1918 otto giorni durò lo sciopero partito dalla MAV, che produceva materiale bellico. Fu seguito dall’arresto del sindacalista Jenő Landler e da una violenta repressione, non osteggiata dall’inerzia del PSDU. I lavoratori furono richiamati in massa al servizio militare e mandati al fronte. Contro lo sciopero dei tranvieri il governo trovò qualche crumiro, ma i tram che riuscirono a circolare dovettero essere scortati da quattro soldati con le baionette in canna. Il quarto giorno riprese la stampa dei giornali e in breve per le strade tornò la “normalità”. Il ministro del commercio Szterényi in parlamento promise di “schiacciare” la classe operaia. Il PSDU ottenne che al posto della gendarmeria nelle fabbriche si schierasse l’esercito!

La lotta condotta eroicamente dalla classe operaia fu di nuovo sconfitta lasciando il proletariato pieno di rancore. Il suo moto istintivo era rimasto inutile, i suoi capi languivano in carcere o erano stati mandati al fronte.

A metà ottobre del 1918 si era formato un Consiglio Nazionale, il quale sosteneva la nascita della Repubblica, composto da una coalizione di socialdemocratici, Mihály Károlyi e del piccolo partito radicale di Oszkár Jázi.

Per la sera del 28 ottobre era annunciata una grande manifestazione a Budapest. Nei locali del club del partito di Mihály Károlyi contemporaneamente si costituì il Consiglio dei Soldati, composto da giovani ufficiali a favore del Consiglio Nazionale.

Il Consiglio dei Soldati la sera stessa si mise in collegamento col Gruppo degli Operai Rivoluzionari.

Gli operai erano intenzionati a salire a Buda, nella cittadella, per dimostrare davanti l’abitazione dell’arciduca Giuseppe. Al Ponte delle Catene tentarono di rompere i cordoni di soldati e polizia: i soldati si trassero in disparte, la polizia invece sparò sulla folla quattro salve lasciando a terra morti e feriti.

Il giorno seguente gli operai della fabbrica d’armi forzarono i depositi e si armarono. Gli operai delle altre fabbriche aderenti al Gruppo Rivoluzionario erano in gran parte già armati.

Szántó scrive:

«Il gruppo degli operai rivoluzionari divenne ogni giorno più forte. Sempre nuove fabbriche aderivano e mandavano i loro rappresentanti alle adunanze. Sorse un’infuocata vita politica nelle file dei lavoratori. L’ammissione fatta nel mese d’ottobre dalle potenze centrali che avevano perduto la guerra e dovevano chiedere la pace all’Intesa, rafforzò immensamente nelle fabbriche l’influenza dei gruppi rivoluzionari (...) I lavoratori delle maggiori fabbriche appartenevano già per lo più al Gruppo Rivoluzionario, allorché vennero conosciute le notizie della rivolta dei marinai a Pola e dell’agitazione rivoluzionaria dei soldati sul fronte italiano (...)

«Nel Gruppo Rivoluzionario si manifestavano due tendenze, una delle quali voleva costituire in seno al Partito Socialdemocratico un’opposizione, una organizzata frazione di sinistra, mentre l’altra sosteneva la fondazione d’un nuovo partito.

«Al primo gruppo appartenevano lavoratori e in generale chi avevano un passato nel movimento operaio ungherese. Questi, allevati in seno alla unità del partito, ritenevano impossibile una scissione del Partito Socialdemocratico, giacché qui non si avevano organizzazioni di partito, ma solo sindacati, e la scissione del partito socialdemocratico avrebbe condotto – volere o no – a una scissione dei sindacati. Essi quindi insistevano per la formazione di una compatta ala sinistra in seno al partito socialdemocratico.

«I sostenitori della seconda tendenza invece mettevano in rilievo come nel partito la disciplina ostacolasse la libertà d’azione e di movimento, e offrisse solo poche probabilità di successo.

«Le discussioni finirono con la decisione di fondare un’Unione “Erwin Szabó”, che appariva in tal modo adatta a riunire in sé le due tendenze e anche a raccogliere gli elementi rivoluzionari».

La prima attività pubblica del Consiglio Nazionale fu inviare una deputazione, anche con rappresentanza della direzione del PSDU, per indurre gli operai a consegnare le armi, ma non vi riuscì.

Il 1° novembre, quando il crollo militare al fronte della guerra era già palese, il PSDU offrì l’aiuto degli operai alla salvezza della dinastia asburgica, in cambio della promessa del suffragio universale.

Al governo subentrò il conte Mihály Károlyi, con l’aiuto del partito radicale borghese e dei socialdemocratici. La borghesia aveva capito che al momento la sottomissione del proletariato si poteva mantenere soltanto sotto sembianze democratiche, non valendo la violenza militare, con la socialdemocrazia pronta ad assecondare tale forma dell’ordine sociale borghese, nascondendo l’altra faccia del medesimo modo di produzione capitalistico e di dominio di classe.

Lo stesso giorno i ministri designati dal PSDU, Kunfi e Vilmos Böhm, giurarono nelle mani dell’arciduca Giuseppe la fedeltà nella nuova coalizione “democratica” di governo. Kunfi aggiunse al suo giuramento: «È pesante il compito che tocca a me, convinto socialdemocratico, dire che noi non vogliamo agire col metodo dell’odio e della lotta di classe. E noi rivolgiamo appello a tutti affinché, eliminando gli interessi di classe, mettendo in seconda linea le vedute confessionali, ci vogliano aiutare nel grande compito».

Il nuovo governo, per conquistarsi l’appoggio dell’Intesa vittoriosa, acconsentì che l’Ungheria servisse da base militare per l’intervento armato contro la rivoluzione in Russia. Prima che l’Intesa requisisse il materiale di guerra, il ministro della Guerra, il socialdemocratico Vilmos Böhm, lo consegnò all’armata polacca, anch’essa in guerra contro l’Unione Sovietica.

Intanto nelle fabbriche di Budapest e nel resto del paese quasi ogni produzione era cessata, non vi erano materie prime perché in seguito all’occupazione militare i centri industriali erano rimasti senza approvvigionamento di carbone e di ferro.

Anche l’approvvigionamento di alimenti scarseggiava. Malgrado gli sforzi di Károlyi l’Ungheria era la grande inascoltata in tutti i colloqui fra i predoni vincitori: all’Austria andarono 288.000 tonnellate di viveri e vestiario, all’Ungheria, anch’essa in condizioni drammatiche, solo 635.


5.2. - La rifondazione del Partito

Béla Kun e altri compagni arrivarono a Budapest di nascosto nel novembre del 1918. Dopo qualche giorno Kun, su incarico di Lenin, si recò a Vienna per incontrare Friedrich Adler e verificarne la disponibilità a collaborare.

A dirigere i compagni che tornavano dalla Russia e che svolgevano attività di propaganda e agitazione erano i russi Vladimir Justus, Urasov, Meller ed altri, in rapporto con i socialdemocratici di sinistra e con i compagni che lavoravano nel movimento sindacale. Il Circolo Galilei, originariamente società di studi scientifici, divenne una valida copertura del movimento socialista.

Fra Kun, Justus e Urasov si parlò della rifondazione del Partito in Ungheria e della stampa di un giornale comunista. I compagni russi assicuravano la loro partecipazione e attività al movimento ungherese. Justus era entrato nel partito socialdemocratico russo all’età di diciotto anni. Aveva partecipato alla rivoluzione del 1905. Era giunto in Ungheria nel 1912 come emigrato politico e sin da allora aveva lavorato allo sviluppo del movimento operaio ungherese. Urasov era stato già nel 1906, ventenne, membro della direzione del Partito bolscevico degli Urali, diretta da Sverdlov, vi aveva organizzato una tipografia clandestina e dei gruppi di combattenti. A lui era stata affidata l’organizzazione della tipografia per il giornale “Vörös Újság” (“Gazzetta Rossa”).

La prima riunione preparatoria di rifondazione del Partito si tenne in una casa privata. Alla riunione parteciparono 30‑40 compagni. Tra loro molti operai che venivano dal PSDU: Ede Chlepkó, Aladár Hikádé, Ferenc Jancsik, Rezsö Szántón, Ernö Pór, Sándor Kellner, Ernö Seidler, Jenö Lászlö, Béla Szántó, Reszö Fiedler, János Lékai, Antal Mosolygó, Árpád Fickó, Béla Matuzsán, Károly Vántus, József Rabinovics ed altri. Fra i socialisti rivoluzionari vi erano: Ottó Korvin, Erzis Sipos, József Révai, Imre Sallai e altri.

Ricorda la compagna di Kun, Iren Gal, presente alla riunione, che i primi due punti all’ordine del giorno furono la fondazione del Partito e l’uscita del giornale, cui seguirono molti interventi e proposte: Perché è necessario il nuovo Partito? Sarà legale o illegale? Come deve essere il giornale? Di quante pagine? Quale nome dargli? Chi si occuperà della redazione? ecc.

Kun espresse dei dubbi su residui di socialdemocratismo che si rilevavano in alcuni interventi, ma aveva fiducia negli operai che si sarebbero educati nel corso del lavoro rivoluzionario.

Nella nuova sede in Via Viségradi, un paio di giorni dopo si ebbe la riunione di fondazione a cui parteciparono un centinaio di compagni.

Lì fin dalle prime ore del mattino i comunisti si riunivano per ricevere direttive sul lavoro quotidiano. Poi si recavano nelle fabbriche, nelle caserme, nei sindacati, nei villaggi, a far propaganda, convocando assemblee, con scontri accesi con i rappresentanti del PSDU, i quali a volte riuscivano anche a cacciare i comunisti dalle fabbriche e dalle sedi sindacali.

Nella prefazione al libro “La Città Rossa”, scritto dall’operaio comunista Lajos Kiss, Kun scriveva: «Lajos Kiss e i suoi compagni furono fra i primi a stabilire un contatto tra lo stato maggiore rivoluzionario di Via Viségradi e le masse, le più ampie possibili. Andavano e venivano portando volantini e opuscoli di agitazione che il Partito Comunista stampava a centinaia di migliaia di copie, fregandosene delle leggi della repubblica borghese che ne faceva dipendere la diffusione al permesso governativo. Sono loro che organizzarono l’agitazione di questi gruppi di “cavalleria leggera” che si trovavano davanti a tutte le officine, le stazioni, nei tram e che diffondevano con tanta rapidità, con tanto coraggio e ingegnosità le parole d’ordine del Partito, aderendo così profondamente alle rivendicazioni quotidiane degli operai tanto che in poche settimane non c’era più a Budapest un solo operaio che ignorasse ciò che fosse Via Viségradi».

Manifesti, volantini ed opuscoli erano affissi sui muri e diffusi ovunque. Leggiamo da alcuni di essi:

«Cosa vogliono i comunisti? Scopo dei comunisti è liberare gli operai dalla schiavitù del salario. La condizione di questa liberazione sta nella soppressione del capitalismo. Bisogna portar via dalle mani dei capitalisti il capitale, i mezzi di produzione, la terra, le macchine e gli attrezzi, per socializzarli. Bisogna eliminare le differenze di fortuna e di classe, la condizione di salariati e ogni possibilità di sfruttamento. Invano attenderemo dalla democrazia, anche la più perfetta, la preparazione di queste condizioni. Invano l’attenderemo dallo Stato borghese più evoluto, dalla repubblica democratica parlamentare fondata sul suffragio universale, uguale e segreto. Invano l’attenderemo dalla monarchia. Nella repubblica democratica l’esercito permanente, la polizia e l’esercito dei funzionari assicurano il dominio della borghesia sul popolo. Mai la borghesia metterà fine allo sfruttamento.

«Conquistando il potere attraverso la rivoluzione i comunisti non hanno dunque lo scopo di fondare la democrazia, la repubblica democratica. La democrazia assicura diritti ad ognuno. Finché la borghesia ha dei diritti il capitale le assicura anche il potere. I comunisti invece mirano all’instaurazione del potere esclusivo e illimitato del proletariato: la dittatura del proletariato. Sarà questo lo Stato dei proletari.

«Anch’esso sarà uno strumento di oppressione, ma il suo ruolo sarà completamente diverso da quello dello Stato borghese. Lo Stato borghese è uno strumento al servizio del mantenimento dello sfruttamento. Lo Stato proletario, strumento della dittatura del proletariato, opprime la borghesia, togliendole il capitale per ridarlo alla società: così facendo elimina le differenze di classe, lo sfruttamento e, contemporaneamente, ogni forma di oppressione, rendendo infine superfluo ogni potere umano sugli uomini, cioè lo Stato stesso!».

L’azione del Partito comunista era incessante su tutti i fronti con l’agitazione nelle fabbriche e la propaganda fra le truppe interne e di invasione, al fine di attrarre i soldati nel campo rivoluzionario e guadagnare alla causa della rivoluzione tutte le organizzazioni armate dello Stato (ad eccezione della polizia). Il Partito aveva i suoi centri e i suoi collegamenti ovunque, dagli uffici del ministero della guerra fino alle truppe scaglionate sulla linea di demarcazione. Non esisteva una sola organizzazione armata della borghesia – esercito, milizia, ecc. – in cui il Partito comunista non avesse un’influenza organizzata, in molti casi preponderante.

La direzione e le organizzazioni del Partito coglievano ogni occasione per procurarsi delle armi. Tra i soldati smobilitati venne diffusa la parola d’ordine di non riconsegnare le armi nelle caserme. Dal materiale dell’esercito tedesco smobilitato e in ritirata dai Balcani attraverso l’Ungheria il Partito riuscì a procurarsi non meno di 35.000 armi.


5.3. - La situazione precipita

Nel periodo in cui i prezzi dei beni di prima necessità erano aumentati dal 300 al 1.000% i salari erano cresciuti solo del 100‑120%.

Gli immensi debiti di guerra e gli altri oneri statali, che pesavano per ben 40 miliardi di corone, non si potevano trasferire in toto sulla classe operaia, la quale stava pretendendo sempre più energicamente una sussistenza umana e condizioni di lavoro sopportabili. Le masse di operai che rientravano dal fronte reclamavano lavoro o adeguati sussidi di disoccupazione; i proletari agricoli nullatenenti chiedevano le terre, senza pagarle, non avendo di che farlo. Gli invalidi chiedevano il mantenimento, i feriti un compenso, le vedove di guerra un sostentamento per loro e i figli.

Il governo non aveva la forza armata per soffocare queste diffuse richieste, né l’avrebbe potute soddisfare vista la situazione economica. I proletari intanto già durante il regime Károlyi occupavano le fabbriche una dietro l’altra, cacciati i padroni si impossessavano delle amministrazioni e costituivano i primi Consigli di fabbrica.

Nel frattempo in tutto il paese si andava organizzando la controrivoluzione. I latifondisti che temevano per le loro terre, i capitalisti, migliaia di ufficiali che avevano perduto lo stipendio e il potere, come pure il clero, preoccupato della sorte della sua vita parassitaria, cominciarono ad organizzarsi e ad armarsi. Tutti questi vedevano chiaramente che il potere e lo sfruttamento si potevano sostenere solamente coll’oppressione armata e si sentivano chiamati ad armarsi. La coalizione democratica, alla quale erano egualmente cari gli interessi dei latifondisti, dei banchieri, degli ufficiali, nascondeva questa preparazione della controrivoluzione e assisteva complice all’organizzarsi dei bianchi sotto le parole d’ordine del nazionalismo.

Quella reazione si volse contro i nostri compagni rivoluzionari del Partito comunista, che si andava rafforzando e che non si avvolgeva naturalmente nel manto nazionalista, ma minacciava apertamente di sopprimere tutto l’apparato del potere borghese, democrazia compresa.

Scriveva Kun a Lenin il 5 gennaio 1919:

«Da noi la situazione è molto buona, il nostro Partito si ingrandisce di giorno in giorno (...) Tutti gli operai metallurgici sono in agitazione e la maggior parte di essi sta dalla nostra parte. Gli altri esitano ancora, ma li trattiene solo l’idea di conservare l’unità del partito (...) Quanto alla situazione generale, ecco quanto si può dire: la produzione è ferma, non vi sono materie prime e, in seguito all’occupazione militare, i centri industriali sono senza approvvigionamento di carbone e ferro. Pane ce n’è ancora. Gli operai sono in agitazione e la temperatura cresce di giorno in giorno. Come conseguenza di tutto questo i socialisti governativi non riescono a metter fine alla disoccupazione; ogni giorno gli operai occupano qualche officina o qualche fabbrica.

«Tutto lascia supporre che fra qualche giorno il governo non sarà più composto che da socialdemocratici, il che vuol dire che allora la controrivoluzione conoscerà un nuovo slancio. Noi sappiamo benissimo che la nostra sorte si decide in Germania. Tuttavia, indipendentemente da questo, facciamo tutto il possibile per affrettare il momento in cui gli operai si impadroniscano del potere.

«Il nostro giornale (proletario), il “Vörös Ujság” (“Gazzetta Rossa”), è pubblicato in 20.000 esemplari; a partire dalla prossima settimana uscirà tre volte la settimana. Il giornale in romeno “Steagul Rosu”, “Bandiera Rossa”, viene diffuso fra le truppe romene; opuscoli e volantini sono distribuiti anche fra i serbi e i croati. Lo stesso vien fatto con i cecoslovacchi. Tutti gli eserciti si stanno disgregando, mentre da noi gli operai si armano».

Kun faceva poi cenno ai contatti con i dirigenti socialdemocratici austriaci:

«Ho parlato a Vienna con Fr.A. [Friedrich Adler, NdR]: è un grande sciocco; Strasser [Joseph Strasser, NdR] tergiversa.

«Vi prego di inviarci i compagni Sz. e Z. Di esercito francese qui ancora niente, solo alcuni soldati e pochi ufficiali (con i quali abbiamo già stabilito dei contatti). A Fiume ci sono invece circa trentamila soldati francesi, americani e inglesi. Vi preghiamo di farci pervenire con il compagno R. la somma che il compagno F. vi dirà. Abbiamo un bisogno estremo di tale somma, perché abbiamo molti testi da pubblicare. Domani lanciamo un giornale per i soldati, “Vörös Katona” (“Il soldato rosso”). In mancanza della somma in questione non potremmo farlo uscire tutti i giorni.

«Potete stare completamente tranquillo. Mi occupo di ogni cosa in maniera ferma e marxista. Qui non vi sono sommosse da temere, e se ci impossessiamo del potere, nessuno potrà togliercelo».


5.4. - Verso la rivoluzione

Il PCd’U respinse senza esitazione ogni proposta, da qualunque parte provenisse, volta a instaurare qualsiasi potere transitorio al posto del potere sovietico. Fin dalla fondazione del Partito i capi della democrazia tentarono di circuirlo per un accordo volto a una soluzione provvisoria, ad un fronte politico contro il nemico esterno.

Quando Károlyi offrì al PCd’U il portafoglio alla guerra nel governo borghese provvisorio, il Partito lo respinse in maniera tale da escludere ogni equivoco. Quando due capi del PSDU Kunfi e Jacob Weltner proposero di desistere dal lavoro di “disorganizzazione” fra le truppe mobilitate contro gli imperialisti cechi e romeni, il Partito rispose che l’unica questione di cui potevano discutere con loro era la trasformazione dei Consigli operai in modo che non fossero soltanto la rappresentanza del PSDU e dei sindacati riformisti. Per fare questo si sarebbe dovuto procedere alla rielezione dei Consigli nelle fabbriche e lottare per conquistare la maggioranza della classe operaia. Ma per quanto riguarda la questione del potere il Partito non avrebbe ceduto neppure alle decisioni dei Consigli operai.

Il rappresentante del PCd’U al Consiglio operaio e Béla Vágó per conto del CC presero nettamente posizione contro il tentativo di costituire un “governo operaio”, un sedicente “governo puramente socialdemocratico”. Tale governo era richiesto con insistenza dai socialdemocratici di sinistra, che volevano trarre vantaggio dall’orientamento della classe operaia verso il potere dei soviet. All’unanimità il PCd’U oppose a quella proposta una mozione che reclamava l’attuazione immediata del potere dei Consigli. Il Partito proseguì la sua lotta per il potere dei Consigli al di fuori di ogni forma legalitaria e senza lasciarsi intralciare dalle leggi, antiche o recenti, del potere borghese.

Non smorzò la sua lotta neppure quando l’Intesa inviò a Budapest contingenti di spahi dei Balcani, la cavalleria pesante dell’Impero Ottomano, con il consenso del governo borghese-democratico ungherese e dei suoi membri socialdemocratici. Al contrario il Partito estese immediatamente la sua agitazione a quelle truppe, non senza risultato.

Dalla fondazione del Partito fino alla presa del potere le sedizioni armate contro gli organismi del potere borghese si moltiplicavano di giorno in giorno.

Il 12 dicembre 1918 la guarnigione di Budapest sfilò in armi e cacciò il ministro della guerra del governo provvisorio, Albert Bartha, colpevole di aver cercato di riportare il comando dei reggimenti dai Consigli dei soldati nelle mani di ufficiali reazionari. Alla manifestazione parteciparono anche i dirigenti di sinistra del PSDU membri dei consigli militari. Da allora non passò giorno senza scontri sanguinosi fra soldati rivoluzionari e formazioni armate governative.

I comunisti organizzavano insurrezioni militari anche in provincia. Il 25 dicembre gli ussari rivoluzionari di Kecskemét occuparono le caserme e disarmarono gli ufficiali; il 26 a Budapest scontro tra operai e truppe, con numerosi morti e feriti. Il 31 dicembre nelle due più grandi caserme di Budapest combattimento fra i soldati indirizzati dal PCd’U e i governativi, seguito da una manifestazione armata contro la socialdemocrazia.

Nel gennaio del nuovo anno, sotto la direzione del Partito, cominciarono le manifestazioni contro la stampa borghese e la distruzione delle loro redazioni e locali amministrativi. A Budapest e in provincia furono espulsi a forza i direttori e i grossi azionisti delle fabbriche più importati e fu stabilita, in molti casi, la loro occupazione. A Salgótarján, centro della regione mineraria settentrionale, una insurrezione armata fu repressa con sedici morti e oltre novanta feriti. A Szarvas, spalatori e manovali combatterono nelle strade con nove morti e oltre quaranta feriti. Nella seconda metà di gennaio altre insurrezioni armate si susseguirono a Budapest e in provincia. Nelle caserme si organizzava la resistenza armata contro l’ordine del ministro socialdemocratico di disarmare i soldati di orientamento comunista e in particolare le giovani leve. Dopo sanguinosi combattimenti i soldati comunisti nascondevano le armi in dotazione. Anche sottufficiali smobilitati e mutilati si davano a manifestazioni armate.

Il PCd’U proseguiva nell’organizzazione delle forze armate contro il governo borghese e le bande di controrivoluzionari che i grandi proprietari monarchici cominciavano ad organizzare.

Oltre che per l’occupazione delle fabbriche il Partito lanciò la parola d’ordine dell’occupazione delle abitazioni.

Nel febbraio i braccianti, in molte località guidati dai comunisti, iniziavano ad occupare le grandi proprietà terriere.

Il giornale socialdemocratico di Vilmos Böhm così descrive la situazione fra gli operai:

«19 marzo. Al maneggio di Budapest gli scioperanti hanno tenuto una riunione. In alcune migliaia si sono recati al Castello di Buda. Una delegazione si è recata dal ministro socialdemocratico Gyula Peidl e ha richiesto 500 corone come aiuto immediato, e tessere annonarie speciali ai disoccupati per uno sconto del 50% sui prezzi (...) Ha chiesto anche che lo Stato paghi i loro canoni di affitto e ha rivendicato la socializzazione immediata delle terre e delle fonti di produzione. A capo della delegazione era un comunista. I manifestanti sono rimasti per due ore dinanzi al Ministero della protezione sociale e hanno dichiarato che non se ne sarebbero andati finché non fossero state soddisfatte le loro rivendicazioni (...)

«20 marzo. A Budapest, a seguito delle rivendicazioni salariali dei tipografi, la categoria fino ad ora più sicura dal punto di vista socialdemocratico e sindacale, è stato proclamato lo sciopero generale, contro il volere della direzione sindacale. Sono deposti i vecchi dirigenti, che lavoravano da decine di anni per il benessere degli operai, vengono eletti nuovi comitati di sciopero in cui i comunisti hanno un’influenza decisiva. Una parte degli scioperanti vuole impedire l’uscita del giornale socialdemocratico, benché abbia sostenuto tutte le rivendicazioni operaie».

La linea del PCd’U era diretta, netta e senza esitazioni verso l’insurrezione armata, verso il rovesciamento del potere della borghesia e il suo annientamento, verso la dittatura del proletariato.

Il Partito faceva incetta di armi e le utilizzava nei combattimenti quotidiani per il potere.


5.5. - Partito e sindacati

Una concezione opposta divideva i comunisti dai socialdemocratici circa il rapporto fra partito e sindacati.

Questi erano abbastanza forti, ma saldamente ancorati al PSDU, tanto che chi era iscritto ai sindacati di diritto risultava iscritto anche al PSDU, e viceversa. Una forma di laburismo, non del tutto estranea ancora ai partiti della II Internazionale. Tutti i lavoratori industriali che aderivano ai sindacati divenivano ipso facto membri del Partito socialdemocratico. C’era anche, ovviamente, la cosiddetta organizzazione libera, di chi aderiva al partito senza appartenere a un sindacato, questi erano un decimo degli iscritti.

Analogo dissenso sorgeva nella concezione del rapporto fra sindacati e Stato dittatoriale. Ancora durante la Repubblica dei Soviet, alla metà di maggio, Kun dovrà chiarire la natura del Partito, dei sindacati e il loro compito nel sistema dei Consigli:

«L’apparecchio dell’industria socializzata deve appoggiarsi sui sindacati. Questi devono emanciparsi sempre più, trasformarsi in grandi imprese organizzate che comprenderanno dapprima la maggioranza poi la totalità degli operai di una stessa branca dell’industria. Man mano che i sindacati prendono parte alla direzione industriale, i loro sforzi devono tendere a far sì che, a poco a poco, tutto il lavoro di direzione sia nelle loro mani. Perciò i sindacati garantiscono che gli organi economici centrali dello Stato proletario e la popolazione operaia lavorino in perfetta armonia, e che gli operai siano abituati alla direzione della vita economica. È il mezzo migliore per lottare contro la burocrazia dell’organizzazione economica.

«Mai i sindacati hanno avuta una così grande importanza come quella che avranno adesso. Solamente i loro compiti non saranno di natura politica. Il loro compito sarà l’organizzazione e il controllo della produzione. Essi possono raggiungere un grande sviluppo. Tutti affluiscono attualmente verso i sindacati, non per fare carriera, ma semplicemente per vivere. La dittatura del proletariato è giusto il mondo delle società organizzate; chi vuole esistere, chi vuole vivere, deve aggregarsi a una organizzazione. I sindacati non devono fare difficoltà nelle ammissioni. Chi si presenta deve essere accettato.

«Invece è il Partito che deve restare puramente proletario. Il Partito deve essere sottoposto a una severa selezione, non dovrà accettare nelle sue file che quelli che si sono votati anima e corpo all’ideale del socialismo. I sindacati conservano la loro missione e il loro carattere economico. Il Partito, per contro, è un’organizzazione politica. Il fatto di appartenere al Partito significa una grande prova di coscienza, una tenacia inflessibile per la lotta di classe. Il Partito deve formare l’avanguardia di cui il socialismo ha bisogno».

Ma la direzione dei sindacati per lo più svolse un ruolo decisamente controrivoluzionario. La burocrazia sindacale era separata da un abisso dalla massa dei lavoratori istintivamente rivoluzionari. Questo contrasto aveva radici profonde nel modo di considerare i sindacati. È la lucida analisi di Béla Szántó a rafforzare la tesi marxista:

«Per poter giudicare rettamente la funzione dei sindacati, dobbiamo rifarci indietro al punto donde i sindacati attingono la loro ragione d’esistenza e la loro forza vitale, poiché solo in tal guisa possiamo metterci in condizione di poterne fissare la funzione nella rivoluzione proletaria (...)

«Gli interessi contrastanti dei lavoratori e dei capitalisti avevano dato vita ai sindacati, che diventarono immediati e validi strumenti della lotta di classe del proletariato (...)

«La lotta sindacale ha lo scopo di restringere continuamente il grado dello sfruttamento, di proteggere il lavoratore contro lo sfruttamento. Essa quindi rappresenta sempre una lotta difensiva della classe lavoratrice. Il carattere difensivo della lotta sindacale non cambia per il fatto di manifestarsi nella forma offensiva dello sciopero, giacché anche in questo caso essa vuole proteggere il lavoratore dallo sfruttamento capitalista.

«Finché il capitalismo rimane vivo e integro la lotta di classe sindacale della classe lavoratrice può assumere soltanto carattere difensivo, ed è suo compito, in unione con la lotta di classe politica, quello di scuotere la forza e la potenza del capitalismo. Ma se il capitalismo è scosso, la lotta di classe sindacale deve passare dalla difesa alla offesa».

Mentre le strutture territoriali del Partito comunista ebbero un ruolo piuttosto modesto, il grosso dell’attività di agitazione e di organizzazione si concentrava nei gruppi d’azienda comunisti.

Il PCd’U fin dalla fondazione aveva anche radici nei sindacati, dai quali né la burocrazia sindacale né il potere governativo riuscirono a sradicarlo. Il Partito riuscì ad impedire che la burocrazia dividesse i sindacati, con la espulsione dei comunisti e degli operai rivoluzionari.

I comunisti presto costituirono un loro gruppo distinto presso i lavoratori siderurgici e metallurgici. Nel dicembre 1918 il gruppo comunista presentò la seguente mozione nella riunione dei fiduciari e membri dell’organizzazione:

«Capo I.

«Lo sfacelo del capitalismo, prodotto dalla guerra mondiale imperialista, ha per effetto che, a causa dell’arresto della produzione industriale da un lato, della produzione dei mezzi di sussistenza dall’altro, la classe operaia è minacciata dalla miseria. L’arresto della produzione può solo in parte addebitarsi alla mancanza di materia prima e alla distruzione dei mezzi di produzione e di trasporto verificatasi durante la guerra: in massima parte deve ascriversi ai conati dell’oligarchia finanziaria, che cerca di spezzare la potenza della classe lavoratrice affamandola.

«Dal punto di vista della classe lavoratrice, il controllo statale sulla produzione non può approdare ad alcun risultato, giacché la repubblica popolare è solo una forma modificata della signoria capitalista, e lo Stato resta ciò che era prima: semplicemente organo collettivo della classe possidente per l’oppressione della classe lavoratrice.

«Il controllo operaio è l’unico mezzo di transizione mediante il quale la classe lavoratrice, finché non abbia preso il potere nelle sue mani mediante i propri Consigli, è in grado di sbarrare il passo al processo di immiserimento.

«In considerazione di ciò, in tutte le grandi aziende devono venir organizzati i Consigli di controllo di fabbrica, che in qualità di organi del potere operaio controllino la produzione delle fabbriche, la fornitura di materie prime, e così pure il finanziamento e tutto l’andamento degli affari. I Consigli di controllo di fabbrica debbono essere organizzati non come istituzioni paritetiche, ma come unilaterale rappresentanza di potere, e devono espressamente servire non a dirimere controversie tra lavoratori e datori di lavoro, ma, al contrario, per controllare la produzione, ecc. (...)

«Il controllo operaio è solo una transizione al sistema della gestione operaia, per la quale è necessaria condizione pregiudiziale la presa di possesso del potere politico, l’espropriazione dei mezzi di produzione senza indennità agli attuali intraprenditori, e la presa di possesso delle Banche da parte dello Stato proletario.

«In considerazione di ciò, l’assemblea dei fiduciari e membri d’organizzazione condanna ogni sospensione, anche provvisoria, della lotta di classe, ogni attaccamento ai principi costituzionali, e considera come compito immediato della classe lavoratrice la organizzazione dei Consigli di operai, soldati e contadini come fattori del potere proletario, la conquista rivoluzionaria del potere politico, la dittatura del proletariato.

«Capo II.

«I provvedimenti presi dal “Governo popolare” per aiutare i disoccupati non possono essere accettati neppure come soluzione provvisoria. In luogo di tali provvedimenti, e restando ancora nei quadri della borghesia, l’Assemblea domanda quanto segue:

- I lavoratori rimasti disoccupati per mancanza di carbone ricevono l’80% del salario finora percepito, così gli operai specializzati come le donne e i lavoratori ausiliari. Questo 80% non può essere inferiore a 21 corone al giorno per gli operai specializzati, 16 corone per gli ausiliari, 12 per le donne. La sovvenzione ai disoccupati in generale deve commisurarsi al minimo del soprassoldo per il carbone.

- Ai lavoratori ammalati deve corrispondersi l’intero salario.

- I lavoratori smobilitati reduci dal servizio militare devono essere riammessi ai loro antichi posti nelle fabbriche con la mercede e col soprassoldo per il carbone generalmente pagati al tempo della riammissione. Gli smobilitati che al loro ritorno fossero rimasti senza lavoro ricevono il sussidio di disoccupazione.

«Ai sussidi per la disoccupazione provvedono per metà il Governo per metà gli industriali.

«Capo III.

«L’Assemblea dei fiduciari e dei membri d’organizzazione dei lavoratori siderurgici e metallurgici decide che niente si oppone all’ingresso dei suoi membri nel Partito Comunista».


5.6. - Il vero volto della democrazia borghese

La borghesia ungherese era tra due fuochi: l’ultimatum dell’Intesa e il movimento convergente per il potere di grandi masse di operai, di contadini poveri e di soldati in armi. Poteva contare solo sulla socialdemocrazia.

Di fronte ai comunisti il governo presto abbandonò la finzione democratica. Una mattina un distaccamento di 160 poliziotti, armato di mitragliatrici e bombe a mano, circondò la sede del PCd’U e, con il pretesto di una perquisizione, devastò e portò via ogni cosa su 8 camion.

Sándor Garbai, a quel tempo Ministro del commercio, che sarà poi eletto presidente della Repubblica dei Consigli, ebbe a dire: «I comunisti devono essere messi davanti ai fucili, perché nessuno può tentare di scindere il PSDU senza rischiare la vita». Contemporaneamente fu presentata una mozione per escludere i comunisti dai Consigli Operai.

Agli industriali, che avevano dovuto cedere alle forti richieste dei lavoratori per un “sussidio di Natale” costato loro 30 milioni di corone, Garbai concesse un indennizzo del governo di 15 milioni.

Nel gennaio il governo fece occupare militarmente, con enormi eccidi, tutto il distretto di Salgótarján, nel quale molti minatori avevano aderito al PCd’U. Ciò non frenò le adesioni al Partito anche della classe operaia di Sátoraljaújhely, che a sua volta subì il terrore del governo.

A Bratislava gli operai dichiararono la dittatura del proletariato, ma solo dopo 36 ore furono sopraffatti dalle truppe ceche e la città fu definitivamente occupata dalla Cecoslovacchia.

Anche nelle campagne il proletariato lottava. Nel giornale del Comitato di Somogy, di cui si erano impadroniti con la forza i rivoluzionari, apparve la seguente “Lettera aperta al Ministro dell’Agricoltura”:

«I proprietari fondiari si danno a prendere misure che non solo ostacolano la continuazione della produzione, ma renderanno impossibile la futura soluzione del problema della ripartizione della terra. I grandi proprietari hanno perfino trascurato di provvedere ai mezzi necessari per la coltivazione del suolo (...) cessano completamente la concimazione, non migliorano gli impianti, adoperano i braccianti a sveller acacie e altri inutili lavori. Mentono quando dicono che i lavoratori rurali non vogliono lavorare; la verità e che tra i grandi proprietari corre questa parola d’ordine “Preferiamo lasciar marcire il grano nel terreno, non sarà come vogliono i lavoratori, vedremo chi creperà prima”.

«Vi è agitazione nei villaggi, davanti agli occhi di un milione di ingannati si compie questo attentato politico contro la popolazione rurale (...) Invochiamo un provvedimento urgente, che siano puniti di morte coloro che in questo paese con le loro perverse macchinazioni godono dei lamenti degli affamati e stanno preparando una caccia alla carne umana».

Nel Comitato di Arad i lavoratori della terra non si limitarono a minacciare ma agirono spartendosi tra loro le terre. Intervenne allora l’autorità che cercò di soffocare il movimento con gli arresti.


5.7. - Si ordisce la simulazione

All’inizio di febbraio il PSDU convocò un congresso straordinario che espulse la sinistra interna. Nello stesso tempo confermava il suo ruolo di opportunismo e di inganno: Jacob Weltner, capo redattore de “La Voce del Popolo”, dalla tribuna del congresso non si vergognò di affermare: «Bisogna distinguere tra comunisti russi e comunisti ungheresi. I proletari che hanno creato la Russia sovietica sono molto più vicino a noi di qualsiasi borghesia al mondo. Potrà anche arrivare il momento in cui noi saremo costretti ad esercitare la dittatura del proletariato per qualche tempo. Il PSDU resta legato al suo scopo finale: alla società senza classi, al comunismo. Se le condizioni si presenteranno, non avremo bisogno né di Béla Kun, né di Tibor Szamuely, ma sarà il PSDU che la realizzerà».

Intanto la classe operaia resisteva al governo che, pur di ristabilire il comando dei capitalisti nelle aziende, cercava di sopprimere i Consigli di fabbrica e sostituirli con i Comitati, legalizzando l’antico sistema dei fiduciari. Allora, a febbraio, i delegati di 26 fabbriche si radunarono davanti alla sede della Lega metallurgica. Nonostante la direzione del sindacato avesse fatto chiudere le porte la riunione si tenne lo stesso. I dirigenti allora dovettero indire l’assemblea dei delegati per passare ai voti. Ma, certi della sconfitta, vista la determinazione della maggioranza a non far passare l’ordinanza governativa, i ministri del PSDU prima minacciarono la loro uscita dal governo, poi fecero cadere sull’assemblea la notizia, del tutto falsa, che i comunisti avevano assalito a colpi di mitragliatrice la sede de “La Voce del Popolo”: “Parecchi redattori sono già morti! La strada è coperta di morti e feriti!”. Fra i presenti scoppiò un tumulto e molti si precipitarono all’uscita. Il giorno seguente lessero sulla stessa “La Voce del Popolo” che «l’assemblea dei delegati aveva approvato all’unanimità l’ordinanza del Ministro».

La manovra era riuscita, il PSDU restava al governo e coglieva l’occasione per perseguire i comunisti. Infatti vi furono degli scontri di piazza durante i quali stavolta fu davvero devastata la sede de “La Voce del Popolo”. I poliziotti intervenuti si spararono l’uno contro l’altro, vi furono molti feriti e sette morti. Fu il pretesto per il governo per arrestare il 20 febbraio quasi tutta la dirigenza del Partito Comunista, con le sedi del Partito e del giornale “Vörös Újság” chiuse e sequestrate. Béla Kun e i compagni arrestati furono duramente picchiati dai “compagni-poliziotti”.

La direzione del PSDU organizzò a Budapest anche una manifestazione contro i comunisti con duecentomila partecipanti, fra loro molte organizzazioni piccolo-borghesi, funzionari amministrativi, polizia, ufficiali in servizio attivo, commercianti, ecc.

L’incarceramento dei comunisti accrebbe l’agitazione nelle file dei proletari, che ne chiedevano energicamente la liberazione. Nei grandi centri industriali la federazione sindacale più importante, quella dei metallurgici, prese posizione a fianco dei comunisti. I tipografi entrarono in sciopero.

Il governo borghese era impotente di fronte alle organizzazioni del PCd’U fra i soldati smobilitati, che raggiunsero presto alcune centinaia di migliaia di effettivi. Ed impotente era anche di fronte a quelle dei disoccupati.

Ai primi di marzo nelle maggiori fabbriche la direzione passò ai Consigli operai d’azienda, forti del diritto rivoluzionario, sul quale solo fondavano la loro attività.

Il nuovo Comitato Centrale del Partito, il cui dirigente era Tibor Szamuely, si trovò in completa clandestinità, ma riuscì a proseguire il lavoro insieme ai comunisti in prigione. Kun riceveva libri e giornali ed ebbe anche una macchina da scrivere. Grazie al lavoro clandestino il Partito riuscì anche a far avere a Lenin un messaggio di Kun, aggirando i fronti e le bande di guardie bianche.


5.8. - La vana Piattaforma per l’unificazione

L’11 marzo Ignazio Bogár, capo della sinistra socialdemocratica, in una visita al carcere chiede a Kun di stendere una bozza di piattaforma su cui procedere alla unificazione del movimento operaio in Ungheria.

Kun risponde: «Per quanto riguarda la questione dell’unità del movimento operaio il mio punto di vista è che solo una unità reale, non apparente, possa giovare all’emancipazione del proletariato. Credo che non vi sia bisogno di dimostrare che l’unità proletaria la quale, come è stato scritto su “La Voce del Popolo” del 9 marzo, conducesse il proletariato nella sua totalità nel terreno dei dirigenti alla Scheidemann (SPD), sarebbe soltanto rovinosa. Sarebbe vantaggiosa solo una unità proletaria, una organizzazione unitaria del movimento proletario, che risultasse fondata su un’autentica unità ideologica e di principi e che non servisse alla collaborazione di classe, bensì alla lotta di classe».

Ricorda poi la lettera di Marx a Bracke nella “Critica del Programma di Gotha”: «Si sa che il semplice fatto dell’unificazione appaga gli operai, ma si sbaglia pensando che questo successo momentaneo non sia stato comprato a un prezzo troppo caro».

Prosegue Kun:

«Di fronte a quegli eclettici che bollano di dogmatismo, di marxismo scolastico e di culto dell’autorità ogni richiamo a Marx (ma che cercano in realtà di sostituire a Marx la loro vuotaggine intellettuale), mi affretto a dichiarare che se questa posizione è vera, non lo è perché l’ha detta Marx. Essa è stata confermata dai fatti.

«Se i bolscevichi russi non avessero messo fine sino dal 1907 alle finezze diplomatiche in seno al partito, come disse Lenin; se Rosa Luxemburg, Karl Liebknecht e Mehring – e perfino i più anemici socialisti indipendenti – non avessero rotto durante la guerra con l’unità esteriore del movimento operaio tedesco; se i socialisti italiani non avessero fatto la stessa cosa durante la guerra in Tripolitania; se tutti costoro non si fossero assicurata una libertà di movimento che permettesse loro di creare una loro propria organizzazione e di assicurarsi delle possibilità di propaganda, io penso che in tal caso la storia del movimento operaio sarebbe stata più povera di avvenimenti rivoluzionari esaltanti e soprattutto di risultati.

«Può darsi che la cosiddetta lotta fratricida, che oppone una parte del proletariato all’altra, non sarebbe stata così aperta, ma c’è da chiedersi se questa lotta non abbia risparmiato al proletariato molti sacrifici inutili, considerando che ogni nuovo anno di capitalismo richiede di tali sacrifici. E vi chiedo, non è pure lotta fratricida quella che oppone i proletari inquadrati nei sindacati a quelli che ne sono fuori?

«Vi sono dei mali inevitabili, dei mali cosiddetti necessari. Le botte che mi hanno assestato e quelle che eventualmente seguiranno, sono dei mali necessari. Per me è un male, ma per il movimento operaio, in fin dei conti, è un bene!

«L’unificazione del movimento operaio è inevitabile. Ma, perché possa avvenire, occorre che prima ci sia la scissione. Non si tratta di un gioco di parole, ma di una legge dialettica».

Kun prosegue con lo specificare i punti della piattaforma di unificazione. La riportiamo qui per intero:

«1. Non accordare alcun appoggio al cosiddetto governo del popolo; astenersi da qualsiasi partecipazione a un governo dello Stato borghese. Rifiutare ogni collaborazione di classe; formare i Consigli degli operai, dei soldati e dei contadini poveri, quali organismi del potere della classe operaia.

«2. Rompere con la cosiddetta politica “territoriale” o, come si dice ora, con la “politica di integrazione popolare”. Attaccare energicamente ciò che si definisce “difesa nazionale rivoluzionaria”, che è la conseguenza della collaborazione di classe; impedire ad ogni costo una nuova guerra contro i cechi, i romeni o i serbi. Un partito proletario può acconsentire a una guerra rivoluzionaria solo nel caso che:

«a. Tutto il potere sia passato effettivamente ed esclusivamente nelle mani del proletariato industriale e agricolo;

«b. Sia cessata realmente ogni comunità di interessi con il capitalismo;

«c. Si abbia ogni garanzia che la guerra non crei nuove oppressioni nazionali.

«3. Si può constatare che la rivoluzione ungherese si trova attualmente in uno stato transitorio, tra la sua fase cosiddetta “generale” e “nazionale” e quella di rivoluzione proletaria pura, cioè di rivoluzione sociale. La rivoluzione ungherese è la manifestazione delle energie rivoluzionarie del proletariato internazionale sviluppatesi in seguito alla bancarotta generale del modo di produzione capitalistico. Le conseguenze di questa costatazione si possono trarre pertanto anche in Ungheria per quanto concerne l’azione politica da dispiegare nell’interesse del proletariato. Eccole:

«a. Niente repubblica parlamentare, ma repubblica transitoria centralizzata dei Consigli dei delegati degli operai e dei contadini poveri;

«b. Soppressione dell’esercito permanente e delle forze armate speciali (polizia, gendarmeria, guardie di frontiera ecc.) e loro sostituzione con l’esercito di classe del proletariato armato; disarmo della borghesia;

«c. Soppressione completa della burocrazia. Autogoverno delle masse proletarie per mezzo dei Consigli dei delegati degli operai e dei contadini poveri, che non siano solo investiti del potere legislativo ma anche di quello esecutivo e giudiziario. Tutte le cariche devono essere elettive, di breve durata e revocabili in qualsiasi momento. Il trattamento economico dei funzionari eletti non deve superare quello dei lavoratori qualificati. Retribuzione più elevata solo agli specialisti, secondo l’esperienza fatta nella rivoluzione russa. Una costituzione politica così concepita garantirebbe l’attuazione delle misure transitorie necessarie per passare al socialismo e assicurerebbe la repressione dei conati controrivoluzionari della borghesia.

«4. Ancor prima dell’attuazione dei provvedimenti transitori e della presa del potere statale, sarebbe opportuno porre la produzione industriale e agricola e la distribuzione di questi prodotti sotto il controllo centralizzato dei Consigli operai e sotto quello decentrato delle Commissioni operaie di controllo (tale controllo in parte in luogo dei Comitati di fabbrica). Contemporaneamente, i Consigli degli operai e dei contadini poveri dovrebbero procedere ad un esatto computo delle forze produttive esistenti, delle materie prime e dei mezzi di sussistenza.

«Le misure transitorie per il passaggio al socialismo dovrebbero essere grosso modo le seguenti:

«5. Confisca della proprietà fondiaria a favore dello Stato proletario, proibizione del lavoro salariato nelle aziende private. Tutta la terra deve essere dichiarata di proprietà dello Stato e, quindi, ogni terra che non sia lavorata dal proprietario e dalla sua famiglia, deve essere espropriata dallo Stato per mezzo dei Consigli dei contadini poveri. Energica lotta contro la ripartizione delle terre. Un mezzo transitorio e breve [sic] può essere costituito, a questo riguardo, dalla formazione di cooperative agricole di produzione.

«6. Nazionalizzazione proletaria delle banche e blocco di tutti i conti in banca e di tutti i depositi.

«7. Nazionalizzazione proletaria delle industrie e dei trasporti, a partire naturalmente dalla grande industria, che sarà concentrata nelle mani dello Stato proletario. Tutte le fabbriche, tutta la produzione e tutti i trasporti devono essere posti sotto direzione operaia (le direzioni potrebbero essere, per esempio, così composte: per un terzo da coloro che sono occupati nell’azienda, per un sesto dalle organizzazioni del ramo industriale in questione, per un sesto dagli organismi di consumo e per un terzo dai rappresentanti degli organismi direttivi dell’economia popolare).

«8. Istituire subito il monopolio del commercio con l’estero e del commercio all’ingrosso. Monopolio di tutti i generi alimentari di prima necessità. Distribuzione riservata ai lavoratori, su presentazione del certificato di lavoro, mediante le cooperative obbligatorie di consumo o mediante le sezioni competenti dei Consigli degli operai e dei contadini poveri (come modello possono servire anche i gruppi di approvvigionamento delle aziende). Allo scopo di rendere reali le entrate del lavoro, passaggio al salario in natura (conferimento diretto dei beni).

«9. Immediato soddisfacimento di tutte le rivendicazioni in materia di protezione del lavoro, secondo il programma di transizione del PSDU. Contemporaneamente, salvaguardia della disciplina del lavoro.

«10. Propaganda del socialismo da parte dello Stato. Immediata separazione della Chiesa dallo Stato. La scuola deve essere messa apertamente al servizio dell’educazione socialista.

«Questa è, a mio giudizio, la piattaforma sulla quale si potrà realizzare l’unità dell’ala rivoluzionaria del movimento operaio e, subito dopo, di tutto il movimento operaio.

«Credo che molti in Ungheria abbiano ormai perso le illusioni sulla democrazia o, più esattamente, sulla democrazia borghese. Non è solo il fallimento della politica di distribuzione delle terre a risultare evidente oggi [il governo Károlyi iniziò una politica di riforma agraria fondata sul principio della distribuzione, contro pagamento di indennità ai proprietari, delle parti eccedenti delle grandi proprietà superiori a 2.800 ettari, NdR], ma sono anche le speranze in una cosiddetta riforma della burocrazia a rivelarsi vane, così come quelle riposte nell’Assemblea Nazionale. Quanto sia menzognera la teoria dell’uguaglianza nella democrazia borghese, raffigurata come democrazia generale, e come tale teoria sia del tutto inadatta all’attuazione dei provvedimenti di transizione al socialismo, appare evidente non appena si prova a mettere gli sfruttatori di fronte agli sfruttati. Quale uguaglianza può esistere tra sfruttatori e sfruttati?

«La dittatura proletaria dovrebbe essere collocata in prima linea o, in altre parole, dovrebbe maturare nel petto di coloro che desiderano seriamente l’eliminazione dello sfruttamento; in questo programma devono unirsi gli elementi rivoluzionari del movimento operaio, seguendo l’esempio dei partiti socialisti svizzero e italiano, dei socialisti indipendenti tedeschi e anche dei socialisti serbi, che hanno fatto loro questo programma.

«Non è gridando alla mancanza di carbone e al capitalismo in frantumi o lanciando la parola d’ordine “non si possono socializzare i ferrivecchi”, o ancora agitando come spauracchio la situazione internazionale che si può impedire a un socialista, che pensi da rivoluzionario, di agire apertamente secondo il programma indicato.

«Il pretesto della situazione internazionale serve oramai soltanto all’imperialismo dell’Intesa, così come tutte le scuse che si riferiscono alla mancanza di carbone, che sbarrerebbe la strada allo sviluppo della rivoluzione proletaria, servono solo a giustificare la cosiddetta “difesa nazionale rivoluzionaria”, vale a dire l’integrità territoriale.

«Chi, invece di promuovere la rivoluzione proletaria, cioè la presa di possesso del potere politico mediante i Consigli, fa propaganda per la difesa nazionale rivoluzionaria contro i cechi e i romeni, affinché le fabbriche dei capitalisti dispongano di carbone, metterebbe volentieri il proletariato ungherese al servizio degli imperialisti dell’Intesa per la buona riuscita di questa guerra.

«Il mio punto di vista è che il proletariato ungherese non arriverà a liberarsi grazie all’invio, a usura, di viveri americani, né grazie alle consegne di carbone da parte dei controrivoluzionari polacchi e ucraini mercenari dell’Intesa, consegne fatte in cambio di munizioni. Tutto ciò non farebbe altro che condurre alla subordinazione all’imperialismo. La liberazione sta in primo luogo nell’alleanza con i proletariati rivoluzionari russi, tedeschi, lettoni e ucraini. Questo è il nostro compito di politica estera in questo momento, ed è così che si potrà pure parlare di azione comune immediata.

«Penso che ormai tutti abbiano perduto la speranza in quell’unione controrivoluzionaria che si chiama Società delle Nazioni. Perfino coloro che confidavano nella missione redentrice della Società delle Nazioni possono forse essere oggi degli attivi sostenitori della solidarietà con il proletariato italiano, francese, inglese e cecoslovacco. E sono sicuro che queste sezioni del proletariato internazionale saranno più solidali con un’Ungheria proletaria piuttosto che con un’Ungheria guidata da un Károlyi.

«La rivoluzione internazionale non è una impostura come la Società delle Nazioni. Ancora in dicembre, se ricordo bene, i seguaci di Wilson affermavano fieri che in Germania e soprattutto in Inghilterra non esisteva, al momento, pericolo di rivoluzione proletaria. Ed ecco che in Germania gli spartachisti non sono più i soli sostenitori della rivoluzione proletaria; ora sono seguiti da socialisti indipendenti e anche da elementi proletari dei socialisti maggioritari. Forse è una lotta fratricida quella che si conduce in Germania? È formata forse da “fratelli” anche la cosiddetta Armata dei Volontari?

«Caro compagno, volete sapere perché il governo impedisce che sia reso noto il testo delle rivendicazioni del Consiglio degli operai e dei soldati inglesi, che qualche giorno fa era stato telegrafato agli operai della fabbrica Csepel, e perché impedisce ogni diffusione di notizie dettagliate sui disordini di Londra? Se riuscirete a trovare uno fra questi uomini di governo che sia disposto a essere sincero, forse vi potrà dire il contenuto di questo telegramma.

«Il fallimento di Berna non poteva non seguire quello della Società delle Nazioni, dal momento che la politica internazionale di Berna era un’appendice di quella di Parigi. Questo significa nello stesso tempo una nuova vittoria per l’Internazionale rivoluzionaria, e l’adesione a questa Internazionale è la condizione prima per la riuscita di ogni sforzo di unificazione.

«Circa l’unificazione, i passi concreti da fare, a mio avviso, sarebbero i seguenti:

«1. Una conferenza generale che riunisca tutti gli elementi rivoluzionari per discutere la piattaforma da me proposta.

«2. Modifica del programma massimo del partito, in modo che vi si possano incorporare i seguenti punti:

«a. Valutazione dell’imperialismo come particolare stadio del capitalismo, costatazione del fallimento del capitalismo, presa di posizione contro il socialismo di Stato e il capitalismo di Stato;

«b. Rapporto proletariato-Stato: naturalmente, la nostra rivendicazione è la Repubblica dei Consigli;

«c. Modifica del programma di transizione nel senso delle tesi su esposte.

«3. Adesione all’Internazionale rivoluzionaria.

«E ancora una cosa.

«Un cosiddetto solido governo socialista non significherebbe affatto che ci si è avvicinati alla dittatura del proletariato, alla democrazia proletaria. In certe circostanze – che si verificano immancabilmente – significa piuttosto un allontanamento da quella direttiva. Il sistema parlamentare e la stessa organizzazione dello Stato borghese sono degli ostacoli per l’autogoverno delle masse proletarie e per il passaggio al socialismo. Non esiste un governo puramente socialista, che sia in grado di mettere in atto la democrazia proletaria, in una repubblica parlamentare. Il potere di un governo socialista non vuol dire democrazia proletaria e avvento delle condizioni politiche che decretano la fine del capitalismo più di quanto il capitalismo di Stato non voglia dire socializzazione. Un esempio caratteristico di ciò è dato dalla nazionalizzazione degli zuccherifici cui si è dato inizio in Ungheria.

«Ecco caro compagno, quanto avevo da dirvi. Credo che non vi sia alcun dubbio che per questo programma – la cui attuazione è, a mio avviso, condizione pregiudiziale per l’emancipazione del proletariato – combatterò quali che siano le circostanze. Lungi dal vergognarmene sono fiero di sapere che in questa lotta siamo appoggiati da Lenin e dai suoi compagni e anche – ve lo posso ormai rivelare – dagli spartachisti tedeschi. Non mi vergogno neppure dell’appoggio espresso in rubli, ma anzi sono fiero del fatto che Radek e io ci siamo mostrati degni della loro fiducia.

«Trovo abbastanza secondaria la questione – tanto controversa per alcuni – di chi porrà in atto in Ungheria la dittatura del proletariato. Penso che in ogni caso non sarà opera di singole persone ma piuttosto delle stesse masse proletarie. Alla testa di queste masse ci sarà colui che per la sua fermezza delle convinzioni e, aggiungo, per il suo coraggio sarà degno di ciò. Dal carcere, dove mi trovo, posso dirvi molto tranquillamente che per me è del tutto indifferente essere presente o no quando si distribuiranno i primi incarichi; desidererei soltanto essere in prima fila nelle lotte del proletariato ungherese, come lo sono stato in Russia. L’azione è la prova del rivoluzionario.

«Noi che ci chiamiamo comunisti – e che per questa ragione siamo rinchiusi in questa istituzione repressiva dello Stato borghese – stiamo aspettando che la lotta tra la tendenza rivoluzionaria e la tendenza riformista del movimento operaio sia decisa dalla giuria dei negozianti del Teréz, dei droghieri del Lipót e dei salumieri del Jòzsef [quartieri di Budapest, Ndr].

«So che questa lotta finale, decisiva per la liberazione del proletariato, anche se non sarà condotta al termine da un partito operaio unito, permetterà tuttavia di riportare all’unità il movimento operaio di tutti i paesi. Dopo la prima tappa della lotta, il movimento operaio sarà di nuovo unito, come è avvenuto in Russia, dove – lo dico a scanso di equivoci – non furono i bolscevichi a porsi sul terreno dei menscevichi.

«A nome mio e dei compagni che sono al corrente di questo affare, vi mando saluti comunisti».

Purtroppo ancora sfuggiva al nostro grande compagno la nozione fondamentale che la rivoluzione comunista la può dirigere solo un saldo e allenato Partito comunista, uniforme in dottrina e in norme tattiche. I partiti sono un prodotto e una forza della lotta fra le classi: non si inventano e non si “manovrano”. Nella dittatura, chi non è con noi – in una organica, provata e disciplinata battaglia – è contro di noi. È necessario molto di più di una accettazione estemporanea e verbale di un testo di unificazione.


5.9. - La borghesia cede il potere

Intanto, il 18 marzo, gli operai della Csepel, il più grande complesso industriale ungherese, vollero celebrare in un grande comizio cittadino l’anniversario della Comune di Parigi e per rivendicare l’immediata scarcerazione dei comunisti. Dichiarando che si sarebbero battuti con ogni mezzo fino a liberarli, conclusero la manifestazione al grido «Viva la dittatura del proletariato!».

Il giorno seguente 20.000 manifestanti sfilarono a lungo per le vie della capitale. Il ministro socialdemocratico Peidl sfuggì all’ira della folla eclissandosi dai suoi uffici per una porta segreta.

Il giorno ancora successivo, il 20, un ultimo scossone rovesciò definitivamente il governo di Mihály Károlyi. L’Intesa, tramite il suo rappresentante a Budapest, il tenente-colonello Vyx, consegnò al governo la famosa “Nota Vyx” con la quale la linea di demarcazione in atto diveniva la frontiera definitiva dell’Ungheria, che così perdeva due terzi del suo territorio.

Lo stesso giorno i tipografi si schieravano con i comunisti ed entravano in sciopero. Il paese restò senza i giornali. I soldati e la truppa del corpo fluviale trascinarono i cannoni fin sul monte Gellért, pronti a cannoneggiare gli edifici governativi in caso di resistenza.

Il governo Károlyi si dimise e consegnò il potere ai socialdemocratici. Ma questi sapevano bene che la maggioranza delle masse proletarie seguiva i comunisti e chiedeva il potere. Károlyi così si pronunciò al consiglio dei ministri:

«Il governo di coalizione è ormai insostenibile, perché, di fronte al paese così demoralizzato nazionalmente, i partiti borghesi hanno perduto ogni sostegno morale. Solo un governo puramente socialista potrebbe conservare l’ordine gravemente minacciato. Il potere reale già da mesi è esclusivamente nelle mani del proletariato organizzato.

«Se non vogliamo adempiere alle condizioni assassine dell’Intesa, abbiamo bisogno di un esercito. Questo esercito unitario, in questo periodo di crisi economica e lotte di classe (i tumulti comunisti sono all’ordine del giorno), può crearlo solo il PSDU.

«L’indirizzo occidentale, la politica wilsoniana è definitivamente naufragata. Abbiamo bisogno di un nuovo orientamento, che ci assicuri le simpatie dell’Internazionale dei lavoratori. In tali circostanze l’attuale governo di coalizione non può che peggiorare la situazione, giacché la completa unità morale del governo è diventata la prima condizione della lotta. Anche di fronte agli attacchi dei comunisti, sempre più accaniti e senza quartiere, si potrebbe mantenere solo un governo puramente socialista, giacché l’odierno assetto di coalizione è reso impossibile presso le masse dal fatto che i comunisti accusano i socialisti di condurre la lotta contro il bolscevismo come mercenari della borghesia.

«A mio avviso un tal governo puramente socialista sarebbe anche benevolmente appoggiato da tutta la cittadinanza nell’opera di difesa del paese contro gli assalti briganteschi dell’imperialismo, e di mantenimento dell’ordine e della sicurezza pubblica, in questo caso il governo socialista potrebbe anche contare sull’appoggio di tutta l’Internazionale.

«A mio parere il nuovo governo socialdemocratico potrebbe ora stabilire un accordo coi comunisti perché, fintanto esso condurrà una lotta per la vita e per la morte contro gli invasori imperialisti, non sorgano nel paese disordini e difficoltà».

Dopo l’esposizione di Károlyi presero la parola due socialdemocratici: il ministro della guerra Böhm si dichiarò d’accordo con quanto detto da Károlyi. Il ministro dell’istruzione Kunfi, anche lui d’accordo con Károlyi, accentuò il fatto che tutta la socialdemocrazia ungherese era per il respingimento della nota Vyx. Ma propose un passaggio intermedio che prevedeva di comunicare all’Intesa il progetto di formare un governo tutto socialdemocratico, minacciando che avrebbe significato il passaggio al “comunismo”. Kunfi riteneva così di far pressione sull’Intesa, la quale si sarebbe dovuta prendere la responsabilità di aver spinto verso il comunismo un paese che non ancora bolscevico solo per favorire l’imperialismo romeno. Kunfi prevedeva quindi che intanto il governo rimanesse al suo posto.

Il ministro del commercio Garami si oppose alla proposta di Kunfi, in quanto tali “minacce” non sarebbero state minimamente prese in considerazione dall’Intesa. Inoltre non si poteva più rinunciare ad un governo socialdemocratico, divenuto ormai una necessità contro la rivoluzione. Anche János Hock, presidente del Consiglio Nazionale, si oppose alla proposta di Kunfi e nello stesso senso si espressero tutti i ministri presenti, Juhász, Szabó, Buza, Szende, Baloghy, Nagy, Vass e Peidl.

Cosicché il consiglio dei ministri prese all’unanimità la seguente deliberazione: «Il governo si dimette, Károlyi rimane in carica e nomina un gabinetto puramente socialista, che in ogni caso respinge la nota Vyx».

L’indomani mattina, il 21 marzo, la riunione dei dirigenti del PSDU scartò la proposta di Buchinger di formare un governo con Károlyi e i radicali. Scartò anche quella, sostenuta da Garami, di ritirarsi, lasciando la borghesia a vedersela con i comunisti, perché avrebbe spinto i lavoratori di sinistra verso il PCd’U.

Weltner così sintetizzò la situazione: «Non si può affrontare la classe operaia; occorre tentare di salvare il salvabile».

Questo, in “Marea Rossa”, scrivemmo su “Il Soviet” del 30 marzo:

«Inattesa e fulminea giunge la notizia di un’altra vittoria della Rivoluzione mondiale: in Ungheria il governo borghese del conte Kàrolyi cede il potere al proletariato massimalista, che instaura il regime dei Soviet e si mette in diretta comunicazione coi compagni di Russia.

«L’Intesa vincitrice perde il controllo della situazione, non solo non può più dirigerla ma nemmeno comprenderla; e quanto essa compie per conseguire un dato effetto, produce l’effetto precisamente opposto.

«La storia non registra forse esempio di situazione così difficile e sgradita pel vincitore di una lunga e terribile guerra. La borghesia occidentale sente la nostalgia di un avversario tradizionale quale era la borghesia degli Imperi centrali, che si poteva costringere a battaglia militare e battere secondo le vecchie regole e le antiche risorse della grande politica.

«Ma dopo la clamorosa vittoria, l’avversario, il vinto, si è dileguato, e al suo posto si leva arbitro del mondo, giudice terribile del vinto e del vincitore, il socialismo mondiale. Nuovo e tremendo avversario, le cui prime minacce si credette disperdere colla guerra e che ora risorge temprato e inesorabile dai campi dilaniati dalla strage. Mentre lo si vuole abbattere o almeno costringere nella Russia ove già trionfa, esso supera i fronti militari territoriali, traversa i cordoni sanitari e dilaga magnifico, irresistibile, per questa vecchia Europa sanguinosa.

«I governi, la stampa della borghesia – pervasi dalla stessa aria incosciente che condusse l’imperialismo germanico al suicidio di Brest-Litovsk – smarriti e perplessi dinanzi alla grandiosità degli avvenimenti, risuscitano colla fantasia l’avversario antico di cui rimpiangono la mancanza, e cercano di far credere che il cammino della Rivoluzione sia... una commedia, ad uso e consumo di quell’imperialismo austro-tedesco-magiaro che ormai più non esiste.

«Una commedia! Già le notizie posteriori mostrano che la guerra di classe è in pieno sviluppo e il gesto del Kàrolyi non l’ha scongiurata, come non poteva indurre la borghesia capitalistica e terriera ad accettare tranquillamente la dittatura espropriatrice del proletariato.

«Per la stampa borghese tutto è una commedia. Essa non vuol vedere la storia. L’enorme ingranaggio della Rivoluzione Russa era per lei mosso dall’oro di Berlino. La rivoluzione Ungherese, la lotta terribile tra Spartaco e i social-Kaiseristi di ieri, è per essa un trucco artificiale delle oscure potenze, che congiurano contro la pacifica celebrazione retorica e sbafatoria del trionfo bellico per il quale lor signori hanno versato tanto... inchiostro.

«La Nemesi storica si vendica così della borghesia. Quando essa uscì trionfante dalla grande Rivoluzione francese e i suoi principii sovvertitori si spandevano pel mondo, invano le classi aristocratiche e feudali inorridirono e imprecarono, invocarono i fulmini del loro Dio spodestato, e maledissero all’opera diabolica della giovane borghesia volterriana spregiudicata e iconoclasta.

«Oggi il cielo storico della borghesia si chiude sotto i nostri occhi, come lo vide chiudersi il vaticinio formidabile di Carlo Marx. Dinanzi alle nuove potenze della Rivoluzione proletaria socialista la classe borghese sente tremare le ragioni del suo dominio e indietreggia smarrita. Il suo giovane senso della storia che ne faceva centotrenta anni addietro una forza di propulsione della società si cambia nel balbettamento degli organismi decrepiti. No, non è la Rivoluzione, è una commedia! Anche Maria Antonietta e Luigi XVI sorridevano incoscienti al passaggio delle urlanti colonne dei sanculotti!

«Ma la storia non si esorcizza. Non la esorcizzarono i preti della Santa alleanza, non la esorcizzeranno i sacerdoti della Plutocrazia borghese».


5.10. - Scatta la trappola dell’“unità”

Sempre il 21 marzo, alla riunione del Consiglio operaio di Budapest, Garbai così argomenta di fronte ai lavoratori la necessità dell’unificazione:

«Noi dobbiamo seguire una nuova direttiva, per ottenere dall’Oriente ciò che ci ha negato l’Occidente. Dobbiamo inserirci nella corrente degli avvenimenti. La forza combattente delle masse proletarie russe è in marcia. Non può succedere un governo borghese; è impossibile che succeda, giacché nessuno all’infuori del partito socialdemocratico può adempire a questa difficile missione. Questa è la nuova direttiva della nostra politica. Vogliamo muovere alla lotta con nuovi mezzi, con nuovi metodi.

«Ma la nostra politica può avere successo solo se stabiliamo la pace tra il PSDU e il PCd’U. Se il Consiglio degli operai lo desidera, non vi è più alcun ostacolo contro ciò, poiché l’unificazione è già pronta. Dobbiamo unirci per tendere ad un’unica meta, e uniti dobbiamo percorre fino alla meta la via irta di ostacoli. Se l’unificazione viene a compimento – essa è già perfetta tra noi – i compagni comunisti devono essere messi in libertà oggi stesso, o domani o dopodomani, ma in ogni caso entro breve termine. Il proletariato di tutto il mondo dovrà venire informato per radiotelegramma che nel nostro paese il proletariato ha preso nelle sue mani la direzione dei propri destini, che il proletariato ungherese offre al governo dei Soviet di Russia la sua fraterna alleanza».

Questo la dice lunga sulla funzione controrivoluzionaria dell’opportunismo socialdemocratico. Contrariamente a quanto deliberato anche dai suoi ministri, i dirigenti del PSDU all’unanimità, ad esclusione di Buchinger, Garami e Peidl, decidono di “accettare” la piattaforma comunista!

Il 21 marzo Jenö Landler, Weltner, Kunfi, Pogány e Haubrich si recano alla prigione. Nella discussione coi comunisti Weltner ammette il fallimento della politica seguita fin allora dal PSDU e afferma che rimane una sola via, ovvero che il PSDU si collochi sulla base del programma comunista, che si ricostituisca così l’unità del movimento operaio, si aderisca alla III Internazionale e che il proletariato assuma il potere sulla base del sistema dei Consigli. Weltner quindi propone l’unificazione dei due partiti.

Kun vorrebbe discutere alcune questioni di principio, ma Weltner e Kunfi ammettono di non aver letto la piattaforma, ma che sanno esservi contenuta la sintesi del programma comunista e che il PSDU l’accetta “senza riserve”. Non vi sarebbe dunque più materia di discussioni. Quindi i presenti propongono il seguente deliberato:

«Il PSDU e il PCd’U oggi, in seduta comune, hanno deciso la completa unificazione dei due partiti. Il nuovo Partito unificato, fino a che l’Internazionale rivoluzionaria non abbia deciso circa la sua definitiva denominazione, assumerà il titolo di Partito Socialista Ungherese.

«L’unificazione si compie sulla base che entrambi i partiti partecipano insieme alla direzione del Partito e del potere governativo. Il Partito assume immediatamente tutto il potere in nome del proletariato. La dittatura del proletariato è esercitata a mezzo dei Consigli degli operai, soldati e contadini. Quindi cadono naturalmente le ventilate elezioni per l’Assemblea nazionale.

«Deve crearsi immediatamente l’esercito di classe del proletariato, e dalle mani della borghesia devono togliersi completamente le armi. Per assicurare la signoria del proletariato e la difesa contro l’imperialismo dell’Intesa, deve concludersi la completa e intima alleanza col governo dei Soviety».

Belle parole! Ma c’era ben di che diffidare della repentina svolta del PSDU: nel giro di un mese gli stessi Weltner, József Haubrich, Böhm e gli altri sono passati dall’incitare gli operai a scagliarsi con le asce contro i comunisti e ad espellerli dai consigli operai ad abbracciare senza riserve la dittatura del proletariato e l’adesione alla III Internazionale.

Tuttavia il deliberato comune viene immediatamente firmato – tragica lezione per il futuro – da Béla Kun, Ferenc Jancsik ed Ede Chlepkó, entrambi operai metallurgici, Béla Szántó e Béla Vágó.

Nel frattempo in città gli operai stanno occupando gli edifici del potere.

A Károlyi, e a quello che rimaneva del governo, tenuti all’oscuro e messi di fronte al fatto compiuto, non resta che abdicare. Riportiamo dalle sue memorie: «Per evitare inutili spargimenti di sangue – ogni forza armata, guardia della piazza, guardia popolare, polizia, esercito, si trovava sotto comando socialista-comunista – sottoscrissi il proclama con cui abdicavo e “consegnavo il potere al proletariato”, che già lo aveva preso da sé e lo aveva proclamato».

I comunisti vengono liberati dalla prigione.

Iren Gal quel giorno, prelevato Károly Vántus, che per sfuggire all’arresto si era nascosto nella casa di Göndör, un giornalista redattore di Az Ember, si reca al carcere. I socialdemocratici Weltner, Pogány, Landler e Kunfi sono già lì davanti. Mentre aspettano che aprano il portone Weltner prende sotto braccio Iren: «Signora, fra tre settimane saremo tutti morti, insieme». La compagna rispose: «Se crede che creperemo, perché siete venuto qui dai comunisti?». «Vogliamo evitare una lotta fratricida – rispose – non vogliamo ucciderci l’un l’altro». Ma alla fine, proprio per la fellonia di Weltner e degli altri socialdemocratici, saranno solo i comunisti a finire appesi agli alberi.

Kun uscito dal carcere confida alla compagna: «Di sicuro abbiamo commesso un errore, ma non riesco ancora a capire quale: è andata troppo liscia». Iren, che legge l’insoddisfazione nei volti dei compagni, specialmente i più giovani, gli risponde: «Hanno accolto l’accordo solo con riserva: sono un nemico interno».

Il 22 marzo si ha la conferenza dei delegati delle sezioni del PCd’U. Kun afferma:

«Abbiamo intrapreso la nostra azione in favore del comunismo in Ungheria affermando che il solo modo possibile per raggiungere il nostro scopo era il passaggio di tutto il potere nelle mani del proletariato. Oggi ciò è stato realizzato. La Repubblica Sovietica Ungherese è costituita.

«Sui princìpi non abbiamo ceduto di un palmo. Il nostro partito fratello, il PSDU, ha dovuto arrendersi a questa evidenza, che cioè esso non avrebbe potuto raggiungere il suo obiettivo attraverso vie democratiche e che eravamo noi ad aver ragione nell’esigere l’instaurazione della dittatura del proletariato.

«Oggi, noi possiamo procedere all’unificazione del movimento in un unico partito operaio sulla base del programma che io ho formulato in prigione in una lettera [ad Ignazio Bogár, NdR], che mi era stata richiesta dall’ala sinistra dei socialdemocratici che si apprestavano ad abbandonare il partito e su iniziativa del compagno Bogár (...)

«Il progetto di pace menzognero e perfido di Wilson ha provocato questa unificazione. Noi siamo fieri e felici di vedere che l’Ungheria è diventata la seconda repubblica sovietica. E vi prego di credere che oggi questa gioia è ancora più grande a Mosca che da noi. Indirizziamo il nostro saluto riconoscente alla Repubblica sovietica russa, che ci ha aiutato fin qui e le cui armate proletarie alleate si trovano già ai piedi dei Carpazi.

«Noi non diremo menzogne, promettendo ogni sorta di belle cose. Bisognerà soffrire e sopportare la fame. Ma sopporteremo queste sofferenze e questa fame per il nostro bene e per l’unione dei proletari di tutto il mondo, perché non vi siano più sfruttatori e sfruttati.

«Ci troviamo davanti a una grande e difficile opera di distruzione e insieme di costruzione e ogni lavoratore dovrà prendervi parte al prezzo di eroiche rinunzie e di sofferenze disinteressate. Quale che sia la fiducia che poniamo in noi stessi, ci sarà bisogno del controllo degli operai, affinché la repubblica sovietica non degeneri in burocrazia sovietica.

«Dopo aver fin qui marciato in testa nel lavoro, noi marceremo ora in testa anche nella lotta e niente ci sarà più caro della causa della liberazione del proletariato, della fondazione della nuova società e dell’introduzione di un nuovo sistema di produzione.

«Invito il proletariato alla più grande vigilanza e al controllo più rigoroso. La dittatura del proletariato non sarà compiuta se non quando si sarà riunito il primo Congresso dei Consigli degli operai, dei soldati e dei contadini poveri. Il primo dovere rivoluzionario del proletariato consiste nel formare immediatamente delle unità di combattimento che consentano di esercitare la totalità del potere politico».

Purtroppo Kun si sbagliava gravemente: Il PSDU era tutt’altro che un “partito fratello” e il “suo obiettivo” non era affatto la rivoluzione ma la contro-rivoluzione. Affermava di accettare la dittatura del proletariato solo perché già instaurata dalla classe operaia, allo scopo di soffocarla.


5.11. - Budapest chiama Mosca

Il 2 marzo era stata fondata a Mosca la Terza Internazionale. Ma le comunicazioni con Budapest erano difficili. Questo il radiomessaggio immediato di Kun, del 21 marzo, che informa Mosca dei fatti.

«L’unificazione fra il Partito Comunista e il PSDU è avvenuta nelle seguenti circostanze: dopo aver ricevuto a mezzogiorno, nella prigione, la visita dei rappresentanti dell’ala sinistra del PSDU (Landler, Weltner, Kunfi, Pogány e Haubrich), il centro e la sinistra socialdemocratici hanno accettato la piattaforma da me proposta. Tale piattaforma sta saldamente alla base della dittatura proletaria del sistema sovietico. Essa è perfettamente confacente ai principi formulati nel programma di Bucharin ed è perfettamente in linea con le tesi leniniane sulla dittatura.

«L’ala destra della socialdemocrazia ha lasciato il partito senza trovare seguito: Ernö Garami, ex ministro del commercio e redattore de “La Voce del Popolo”; Gyula Peidl, ex ministro per il benessere pubblico, e Buchinger, segretario del partito, responsabile della politica estera della socialdemocrazia, mandato dalla Internazionale gialla di Berna in Russia. Le migliori forze mai esistite nel movimento operaio ungherese partecipano al governo, il quale, non essendoci ancora dei veri Soviet degli operai e dei contadini, mantiene il potere come a suo tempo hanno fatto in Russia i comitati militari rivoluzionari.

«È stato formato il direttorio dei membri del governo: per il Partito Comunista io e Vágó, per l’estrema sinistra Landler, incarcerato durante la guerra, e Pogány (essi erano dalla nostra parte anche prima dell’unificazione e, essendo completamente d’accordo con noi, erano i nostri rappresentanti); e infine Kunfi, il quale è qualcosa come il vostro Lunačarskij.

«La mia influenza personale sul Consiglio governativo rivoluzionario è tale da assicurare una salda dittatura proletaria; le masse mi seguono. Adesso dico che cosa abbiamo fatto fino ad oggi nel governo (...)

«Proprio ora è arrivato il compagno ungherese Weighel con una lettera del 1° marzo del compagno Rudnyánszky e col denaro. All’apparecchio c’è anche il compagno Alpári, che il compagno Lenin conosce da Copenaghen. Anch’egli saluta i compagni».

Il 22 marzo dalla sala telegrafica della fabbrica Csepel viene inviato a Mosca un altro messaggio.

«Il governo sovietico ungherese indirizza il suo fraterno saluto alla Repubblica Sovietica di Russia e al suo governo. Dopo aver conquistato il potere, combattendo il comune nemico, l’imperialismo capitalistico internazionale, il proletariato ungherese continua a rivolgere i propri sforzi in vista della vittoria del proletariato internazionale.

«Mandiamo a voi, compagno Lenin, capo del proletariato internazionale e dirigente della III Internazionale, che si riunisce in questo momento, il nostro saluto. Così facendo, annunciamo anche la nostra adesione al primo Congresso della III Internazionale. Noi abbiamo fermamente il potere nelle nostre mani. Questo potere sarà ancor più rinforzato dopo il nostro primo Congresso dei Consigli dei delegati operai, contadini e dei soldati che si riunirà a breve. In questi giorni siamo riusciti a prendere il potere senza spargimento di sangue, ma ora siamo minacciati dagli imperialisti della Intesa. Davanti a questo pericolo incombente, tutta la classe operaia ungherese si è schierata dalla parte della dittatura del proletariato. Ed essa vi chiede assistenza contro i pirati imperialisti.

«A voi il nostro fraterno saluto. Béla Kun, commissario del popolo agli affari esteri».

Mosca risponde alle 9.10:

«Qui Lenin. Il mio sincero saluto al governo proletario della Repubblica sovietica ungherese dei Consigli e particolarmente al compagno Béla Kun. Ho trasmesso i vostri saluti al Congresso del Partito Comunista bolscevico russo. L’entusiasmo è stato enorme. Vi manderemo appena possibile le decisioni del Congresso di Mosca della III Internazionale comunista, come pure un comunicato sulla situazione militare. È assolutamente necessario un permanente contatto radio fra Budapest e Mosca. Saluti comunisti e una stretta di mano. Lenin».

Lo stesso giorno viene inviato un radiogramma di saluto al Governo della Repubblica Sovietica Ungherese:

«L’VIII Congresso del Partito Comunista Russo manda il suo caloroso saluto alla Repubblica Sovietica Ungherese. Il nostro Congresso è convinto che non è lontano il tempo in cui in tutto il mondo trionferà il comunismo. La classe operaia della Russia si affretta con tutte le sue forze a venirvi in aiuto. Il proletariato del mondo intero segue con grande attenzione la vostra ulteriore lotta e non permetterà agli imperialisti di levare la mano sulla nuova repubblica sovietica.

«Evviva la Repubblica comunista internazionale!».

Nel discorso di chiusura del Congresso così si espresse Lenin:

«Compagni, le notizie che abbiamo ricevuto ci danno un quadro della rivoluzione ungherese. Apprendiamo dalle notizie di oggi che le potenze dell’Intesa avevano rivolto all’Ungheria un brutale ultimatum per il transito delle truppe. Il governo borghese, vedendo che le potenze dell’Intesa volevano far passare le loro truppe attraverso l’Ungheria, che sull’Ungheria sarebbe caduto il peso inaudito di una nuova guerra, il governo conciliatore borghese ha dato spontaneamente le dimissioni, ed è entrato in trattative con i comunisti, con i compagni ungheresi che si trovavano in carcere e ha riconosciuto esso stesso che non c’era altra via d’uscita che cedere il potere al popolo lavoratore (Applausi) (...)

«Le difficoltà della rivoluzione ungherese, compagni, sono enormi. Questo paese, piccolo in confronto alla Russia, può essere soffocato dagli imperialisti assai più facilmente. Ma quali che siano le difficoltà che indubbiamente stanno di fronte all’Ungheria, abbiamo qui, oltre alla vittoria del potere sovietico, una nostra vittoria morale. La borghesia più conciliatrice, più radicale, più democratica, ha riconosciuto che in un momento di profondissima crisi, quando il paese, estenuato dalla guerra, è minacciato da una nuova guerra, il potere sovietico è una necessità storica, ha riconosciuto che non può esservi altro potere tranne quello dei Soviet, tranne la dittatura del proletariato» (Opere Vol XXIX, pag.199).

Ma già l’indomani, il 23 marzo, Lenin invia un radiogramma a Kun per sincerarsi che quanto appreso sulla rivoluzione ungherese fosse vero e per mettere in guardia i comunisti:

«Vi prego di comunicarmi quali garanzie effettive avete che il nuovo governo ungherese sarà realmente comunista, e non semplicemente socialista, cioè socialtraditore. I comunisti hanno la maggioranza al governo? Quando si terrà il Congresso dei Soviet? In che consiste concretamente il riconoscimento della dittatura del proletariato da parte dei socialisti?

«È del tutto sicuro che la pura imitazione della nostra tattica russa in ogni particolare, date le condizioni originali della rivoluzione ungherese, sarebbe un errore. Debbo mettervi in guardia da questo errore, ma vorrei sapere quali garanzie effettive vedete.

«Per sapere con certezza che mi rispondete personalmente, vi prego di comunicarmi se e in che senso ho parlato con Voi dell’Assemblea nazionale quando siete stato da me al Cremlino l’ultima volta.

«Saluti comunisti - Lenin».

Al I Congresso dell’Internazionale, che si svolgeva in quei giorni, ancora Lenin avverte il comunista ungherese László Rudas:

«Giudico pericolosa questa unificazione. Sarebbe stato meglio formare un blocco in cui entrambi i partiti avessero preservato la propria indipendenza. In questo modo i comunisti sarebbero apparsi davanti alle masse come un partito indipendente. Sarebbero stati in grado di accrescere la loro forza giorno per giorno e in caso di necessità, se i socialdemocratici non avessero adempiuto ai loro doveri rivoluzionari, si sarebbero potuti prendere provvedimenti fino al punto di una scissione».

Nemmeno l’unificazione dei due partiti trovò l’approvazione unanime dei comunisti. Béla Kun su “La Voce del Popolo” del 27 marzo dovette scrivere un articolo dal titolo eloquente, “L’unità del Partito”.

«Il nostro obiettivo è l’azione, l’azione unita e rivoluzionaria del proletariato. È per giungervi che a suo tempo abbiamo fondato il Partito Comunista. L’obiettivo non era per noi il Partito, ma la liberazione della nostra classe e l’azione unita del proletariato tanto su un territorio delimitato da frontiere quanto oltre quelle frontiere. Ciò che non siamo riusciti ad ottenere allora quanto all’unità del partito, noi riusciremo ad ottenerlo ora solo attraverso una rigorosa disciplina e unità.

«Se, quattro mesi fa, fosse stata possibile un’azione rivoluzionaria unitaria nell’ambito del PSD unito, se ostacoli ideologici, differenze dottrinali e di principio non avessero reso impossibile l’azione unitaria, noi, vecchi militanti del vecchio PSD, non ci saremmo separati da esso: avremmo invece lavorato con tutto il cuore al suo interno. Oggi si è ristabilita l’unità esterna del movimento operaio, ma anche l’unità interna dal punto di vista ideologico (...) Oggi, senza concessioni ideologiche da parte nostra, quest’unità è per noi tutti unità d’azione (...)

«Lotte ce ne saranno ancora! Lotte che non porteranno alla vittoria se non attraverso l’azione rivoluzionaria unita. È a questo tipo di lotte che bisogna consacrare le energie rivoluzionarie degli operai e non a meschine schermaglie provocate da motivi teorici e ideologici (...) La possibilità d’azione unita del proletariato esiste concretamente. Agiamo dunque nell’unità! All’azione!».

È qui chiara l’incomprensione della giusta via per la ricerca dell’unità del movimento, che già si stava attuando magnificamente “dal basso”, e che invece si crede di dover operare “dall’alto”, in una sorta di fronte unico politico, in una ricongiunzione fra partiti con programmi opposti.

Non c’è azione rivoluzionaria senza direzione rivoluzionaria. Non c’è possibilità di successo rivoluzionario senza un Partito organicamente costituito, preparato e allenato a una disciplina coerente al suo programma.

Al 1919 non era più possibile riportare il partito socialdemocratico, dopo la necessaria fuoriuscita dei comunisti, sul terreno del comunismo e della rivoluzione. Nemmeno trascinato dall’impeto del movimento rivoluzionario. I partiti si contraddistinguono per il loro programma e per la loro azione, e il loro divenire si risolve nelle scissioni, storicamente irreversibili.

Quanto di buono restava fra i militanti del vecchio partito avrebbe potuto essere recuperato utilmente solo con adesioni individuali al Partito Comunista.

Il 22 aprile Kun torna a scrivere a Lenin:

«Caro compagno Lenin (...) prima di tutto, devo sottolineare che la rivoluzione proletaria comunista sarebbe scoppiata lo stesso anche senza la famosa nota del colonnello Vyx, ma credo che sarebbe stato troppo sciocco non sfruttare l’occasione che si presentava.

«Sicuramente gli ideologi borghesi (...) arrivano difficilmente a capire come, dopo una rivoluzione così sanguinosa come quella russa d’Ottobre, questo passaggio si sia potuto realizzare in Ungheria in una maniera apparentemente così pacifica. È interessante vedere come sia proprio questo fatto ad affliggere di più i vari Scheidemann. Essi hanno considerato la nostra rivoluzione come un bluff nazionalista. Ma la nostra rottura radicale con il capitalismo ha fatto vedere chiaramente il carattere della nostra rivoluzione. D’altra parte, essi si renderanno conto dei suoi frutti. Senza dubbio, scorrerà ancora del sangue nel corso della rivoluzione ungherese. La controrivoluzione comincia infatti a risollevare un po’ la testa; ma noi gliela mozzeremo (...)

«Noi siamo in una situazione critica. Ma, qualunque cosa accada, tutte le nostre azioni saranno dettate dagli interessi della rivoluzione mondiale.

«Neppure per un momento pensiamo di sacrificare gli interessi della rivoluzione mondiale a quelli di una parte di essa. Anche se ci dovesse attendere una pace alla Brest-Litovsk, noi la concluderemo con lo stesso spirito che ha animato voi al momento della conclusione di quella pace che avete stipulato mio malgrado e contro la volontà dei comunisti di sinistra (...)

«Io vi inviai i decreti che avevamo adottato, ma avrei desiderato che voi aveste visto, come proiettati in un film, gli avvenimenti di questi ultimi giorni: avreste potuto vedere che noi non solo proclamiamo la dittatura, ma anche che la esercitiamo effettivamente. Ciò che avete scritto nel vostro libro contro Kautsky sulla necessità della dittatura ci fornisce la linea direttiva nell’esercizio della dittatura. Non credo che trovereste da ridire su qualche nostro passo o provvedimento.

«Siamo alle prese con difficoltà ancora più grandi di quelle che la Russia conobbe a suo tempo; la nostra situazione in politica estera è ancora più critica.

«Credo tuttavia che, anche dal punto di vista dei princìpi più puri, nulla si potrebbe rimproverare alle nostre azioni. L’accordo che abbiamo concluso, sulla base di un programma, è stato indubbiamente un accordo di principio e di tattica e ha creato dunque un’unità vera. Gli elementi di destra sono stati allontanati dal partito e passiamo al setaccio, a poco a poco, la vecchia burocrazia sindacale.

«So molto bene che non sono io a decidere della sorte del proletariato e che ciò compete al proletariato in persona».










6. - Una dittatura del proletariato in Europa

Il 21 marzo 1919 il Consiglio Governativo Rivoluzionario dichiara istituita la Repubblica Socialista Federativa dei Consigli d’Ungheria.

La rivoluzione proletaria ha vinto senza versare una goccia di sangue. Come a Pietrogrado. Vi sono punti singolari nella storia nei quali il potere dello Stato cade nelle braccia di un partito pronto a riceverlo. Difficile poi il potere è mantenerlo.

Il 6 aprile, in una riunione congiunta dei giovani del PSDU e del PCd’U, è fondata l’Associazione dei giovani lavoratori comunisti. Lenin qualche giorno dopo, sinceratosi di quanto avveniva a Budapest, scrive (Comunicato sulla conversazione per radio con Bela Kun, non datato, in Opere Vol 29):

«La politica del governo ungherese è assai ferma e talmente orientata in senso comunista che, mentre noi abbiamo incominciato dal controllo operaio e siamo passati solo gradualmente alla socializzazione dell’industria, Béla Kun, grazie al suo prestigio e certo che masse enormi lo seguivano, ha potuto promulgare subito una legge che trasforma in proprietà sociale tutti gli stabilimenti industriali dell’Ungheria gestiti dai capitalisti.

«Sono passati due giorni e ci siamo pienamente convinti che la rivoluzione ungherese si è subito messa con straordinaria rapidità sulla via del comunismo. La borghesia stessa ha ceduto il potere ai comunisti ungheresi. Essa ha mostrato a tutto il mondo che quando sopraggiunge una grave crisi, quando la nazione è in pericolo, la borghesia non può governare, e che soltanto un potere è veramente popolare, veramente amato dal popolo, il potere dei Soviet dei deputati operai, soldati e contadini.

«Viva il potere sovietico in Ungheria!».

Sempre Lenin nel suo “Saluto agli operai ungheresi” del 27 maggio ammoniva:

«Compagni, le notizie che riceviamo dai dirigenti dei Consigli ungheresi ci riempiono di entusiasmo e di gioia. In Ungheria da poco più di due mesi soltanto esiste il potere dei Consigli, ma nel campo dell’organizzazione il proletariato ungherese, a quanto pare, ci ha già sorpassati. Ciò è comprensibile perché in Ungheria il livello generale della cultura è superiore; inoltre il numero degli operai industriali in confronto a tutta la popolazione è infinitamente più alto (tre milioni a Budapest su otto milioni di abitanti dell’attuale Ungheria); infine il passaggio al sistema dei Consigli, alla dittatura del proletariato è stato in Ungheria incomparabilmente più facile e pacifico.

«Quest’ultima circostanza è particolarmente importante. In Europa la maggioranza dei dirigenti socialisti, tanto della tendenza social sciovinista quanto della tendenza kautskiana, educati da decenni di capitalismo relativamente “pacifico” e di parlamentarismo borghese, si sono talmente impantanati nei pregiudizi puramente piccolo-borghesi, che non possono comprendere il potere sovietico e la dittatura del proletariato. Il proletariato non è in grado di compiere la sua missione storica mondiale di liberazione se non elimina dal suo cammino questi dirigenti, se non li spazza via. Costoro hanno creduto, interamente o a metà, alle menzogne borghesi sul potere sovietico in Russia e non hanno saputo distinguere il contenuto della democrazia nuova, proletaria, della democrazia per i lavoratori, della democrazia socialista, incarnata nel potere sovietico, dalla democrazia borghese, dinanzi alla quale essi si inchinano servilmente chiamandola “democrazia pura” o “democrazia” senz’altro (...)

«Questa dittatura presuppone l’uso implacabilmente duro, rapido e deciso della violenza per schiacciare la resistenza degli sfruttatori, dei capitalisti, dei grandi proprietari fondiari e dei loro tirapiedi. Chi non l’ha capito, non è un rivoluzionario; deve essere cacciato dal posto di dirigente o di consigliere del proletariato (...)

«Lo scopo del proletariato è creare il socialismo, eliminare la divisione della società in classi, trasformare tutti i membri della società in lavoratori, privare di ogni base qualsiasi sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo. Questo scopo non può essere raggiunto di colpo; esso esige un periodo abbastanza lungo di transizione dal capitalismo al socialismo, sia perché la riorganizzazione della produzione è cosa difficile, sia perché occorre del tempo per operare trasformazioni radicali in tutti i campi della vita, e infine perché la forza enorme dell’abitudine alla gestione piccolo-borghese e borghese può essere vinta soltanto attraverso una lotta lunga e tenace. Ed è per questo che anche Marx parla di tutto un periodo di dittatura del proletariato, come periodo di transizione dal capitalismo al socialismo.

«Nel corso di tutta quest’epoca di transizione si opporranno a questo rivolgimento tanto i capitalisti, insieme ai loro numerosi accoliti fra gli intellettuali borghesi, che resistono scientemente, quanto una immensa massa di lavoratori, contadini compresi, su cui pesano ancora troppo le abitudini e le tradizioni piccolo-borghesi, che in generale resistono incoscientemente. I tentennamenti di questi strati sono inevitabili. Come lavoratore, il contadino tende verso il socialismo, preferendo la dittatura degli operai alla dittatura della borghesia. Come venditore di grano, il contadino tende verso la borghesia, verso la libertà di commercio, cioè tende verso il passato, verso il capitalismo “abituale”, “tradizionale”».

Al Congresso nazionale del Partito il 12 e 13 giugno in una discussione sul programma Kun esporrà una lunga e appassionata disamina sui principi e il programma della rivoluzione.

«La dichiarazione di principi contiene tre tesi: la prima è quella dell’adesione alla III Internazionale; la seconda chiarisce il processo dell’evoluzione economica e sociale che ha portato alla dittatura del proletariato; infine, si tratta di elevare all’altezza di principio l’affermazione che la sola via che porta alla realizzazione del socialismo è la dittatura del proletariato». Kun prosegue con un accenno alla sconfitta della II Internazionale e all’inevitabile precipizio del capitalismo nell’imperialismo.

«La guerra mondiale ha annunciato il fallimento totale del capitalismo, perché il profitto, la corsa al denaro, e non la soddisfazione dei bisogni sono i soli motori del sistema capitalista di produzione (...) I capitali fittizi accumulati nei prestiti di guerra esigono degli interessi talmente alti da assorbire non solamente i redditi da capitale, ma che necessitano anche la confisca dei quattro quinti dei redditi da lavoro al fine di poter coprire le spese della guerra».

Passa poi all’effetto della rivoluzione sulla relativamente attardata economia ungherese:

«I mezzi di produzione in rovina, che attestano la distruzione della società capitalista, saranno compensati dall’autoritarismo dello Stato proletario. È un fatto che le imprese d’Ungheria non conoscono un grado di concentrazione paragonabile a quelle di Inghilterra o di America. Ciò non impedisce che con l’organizzazione della produzione realizzata grazie ai mezzi autoritari dello Stato nello spazio di due anni arriveremo ad ottenere dei risultati che lo sviluppo capitalista non ha potuto raggiungere nemmeno in venticinque anni».

E ancora un affondo sul significato di dittatura del proletariato e di chi e come la deve esercitare senza vacillare:

«Sul piano politico esigiamo un esercizio conseguente della dittatura. Spogliamo la borghesia dei mezzi per ristabilire la sua oppressione sul proletariato, la priviamo dei mezzi per ricrearsi un apparato di coercizione fisica e morale al suo servizio che le permetterebbe di restaurare il capitalismo e di ostacolare il corso dello sviluppo socialista. Questa è l’essenza della dittatura del proletariato. Che è quindi come era lo Stato borghese, un apparato d’oppressione. Ma ne differisce per gli obiettivi, poiché questo strumento di oppressione non è destinato alla conservazione del potere, bensì ha il compito di fare cessare qualsiasi oppressione e ogni potere. Questa è l’essenza che si è finora espressa nelle rivendicazioni politiche che il programma contiene (...)

«Non sono d’accordo con i compagni che affermano che, come tutte le dittature della storia finora conosciute, la dittatura del proletariato è quella di una minoranza. Dico solamente che la dittatura del proletariato si trova praticamente nelle mani di una minoranza attiva che trascina il proletariato e tutta la massa dei lavoratori (Molto giusto! Applausi). Questo l’abbiamo appurato ovunque nei movimenti operai: nel più lieve movimento di sciopero, nel movimento sindacale come nelle organizzazioni di Partito, una minoranza pronta a sacrificarsi e cosciente si trascina dietro, fa progredire le masse passive, indifferenti, e dire meno coscienti che costituiscono la maggioranza del proletariato.

«Questa minoranza attiva si è allargata progressivamente. Consideriamo solamente il movimento sindacale e le organizzazioni di Partito e qualsiasi sviluppo del movimento operaio; ricordiamoci i tempi in cui – come il “Manifesto Comunista” constatava – gli operai lottavano individualmente contro il singolo padrone, e passiamo a questa epoca dove, nel movimento operaio internazionale, una minoranza estremamente energica trascina con sé una maggioranza sempre meno passiva. Nel nostro programma bisogna dichiarare risolutamente che la dittatura avrà un carattere transitorio. Come Marx ci ha insegnato nella sua Critica del programma di Gotha, la dittatura costituisce il passaggio dal capitalismo al socialismo, primo stadio del comunismo. Durante questo periodo transitorio lo svolgimento coerente e risoluto della dittatura e il compito di promuoverla con tutti i mezzi competono al Partito operaio rivoluzionario.

«La dittatura si fonda su un principio di autorità. Così come la democrazia in seno ai sindacati o in seno al Partito ha sempre bisogno di una certa autorità, così la dittatura ha anch’essa bisogno di autorità. La necessità di questa autorità si manifesta non solo nei confronti di una massa appartenente alla stessa classe, ma soprattutto e imperiosamente nei confronti della massa borghese nemica, i cui interessi sono contrari ai nostri.

«Tutte le esitazioni significano un ammorbidimento dell’autorità della dittatura, e comporta per il proletariato uno spargimento di sangue superfluo (Molto vero!). Questo significa che l’autorità ammorbidita della dittatura esercita meno terrore sulla borghesia, e così la controrivoluzione può con più facilità ergersi contro di noi. Se vogliamo che la rivoluzione non sia sanguinosa, che costi il minimo di sacrifici, e che – sebbene non conosciamo di sedicenti “umanità” poste al di sopra delle classi – questa rivoluzione sia la più umana possibile, allora bisogna assicurare che l’esercizio della dittatura sia il più forte ed energico possibile. Questo è il solo mezzo per evitare spargimenti di sangue proletario.

«Ciò è anche nell’interesse della borghesia: anche per lei è meglio che non avere i mezzi per affrontare la dittatura del proletariato, che tutto travolge (Molto vero! Applausi)».

Proseguendo Kun affronta la questione della burocrazia:

«Per lo Stato borghese la burocrazia fu, sul piano fisico e su quello morale, uno dei suoi mezzi coercitivi. Nel corso di questo breve periodo transitorio della Repubblica dei Consigli siamo riusciti a distruggere la burocrazia dello Stato borghese (...) Adesso dobbiamo lottare contro due tipi di burocrazia: la vecchia e la nuova (Molto vero! Applausi). La vecchia burocrazia, rudimento e retaggio dello Stato borghese, era pericolosa al tempo dello Stato borghese perché era in azione, adesso perché, non avendo altre cose da fare, architetta complotti controrivoluzionari (Molto vero!). Ciò rappresenta un serio pericolo per la dittatura del proletariato e questo pericolo bisogna che gli operai rivoluzionari d’Ungheria lo annientino (...)

«Della questione dell’insegnamento, voglio dire poche cose. La dittatura del proletariato deve apparire come un vasto istituto d’educazione che prepari al socialismo. Bisogna mettere la scuola al servizio dell’educazione socialista, ciò corrisponde in questo ambito il nostro programma».


6.1. - La questione agraria

In Ungheria, come in Russia, la questione agraria era fondamentale.

Nelle campagne i castelli e le ville nobiliari furono trasferiti ai Consigli dei Contadini e nazionalizzate le terre.

Il Governo dei Consigli espropriò i latifondi, senza ripartirli. Fu espropriato circa il 50% delle terre, ma in realtà dal 35 al 40% delle superficie coltivabili. Le terre effettivamente organizzate in cooperative rappresentavano circa un quarto della superficie totale espropriata. Dove la costituzione delle cooperative era troppo lenta gli operai agricoli procedevano a una ripartizione delle terre in piccoli lotti contigui, divisi in modo egualitario secondo la produttività del suolo.

Si creò una economia di Stato, ma sicuramente un “salto senza transizione”. L’inesperienza giocò a sfavore: nella maggior parte dei casi la direzione dei latifondi restava ai precedenti amministratori, agli specialisti e ai fattori dei proprietari espropriati. Tutta gente insostituibile dal punto di vista tecnico, ma con gravi conseguenze essendo nemici della Repubblica dei Consigli. Si tentò di porre rimedio nominando dei commissari alla produzione agricola, politicamente fidati, con l’incarico di ispettori, ma non avendo nessuna esperienza in merito non sapevano come dirigere una grande azienda agricola. Kun ammette che ci sarebbe voluto del tempo per poter formare alle tecniche di direzione di una grande azienda i più capaci e intelligenti fra i contadini poveri, i quali solo allora avrebbero potuto ben dirigere le fattorie statali create sui latifondi.

Inoltre, da un lato vi era carenza di attrezzature necessarie alla conduzione di centinaia di migliaia di piccole aziende, aratri, erpici, cavalli, ecc., dall’altro in molti direttori di villaggio, che avevano il compito di organizzare la produzione agricola, si erano insinuati alcuni contadini ricchi e perfino rappresentanti dei proprietari terrieri espropriati, che facevano di tutto per incitare la controrivoluzione.

Al Congresso nazionale del Partito il 12 e 13 giugno dirà Kun sulla questione agraria, uno dei temi centrali per il Partito:

«La questione agraria è uno dei punti maggiormente al centro delle nostre preoccupazioni (...) Si pongono molti problemi. Alcuni vorrebbero che si nazionalizzassero subito le cooperative agricole di produzione. Al contrario sono del parere che, fintantoché i coltivatori individuali non abbiano cominciato ad apprezzare – mediante le cooperative di produzione – l’agricoltura collettiva, sia meglio rimanere al sistema delle cooperative di produzione; solo dopo passeremo alla pura economia sovietica (Giustissimo!). Il ritmo dialettico dello sviluppo non significa che noi possiamo saltare talune sue fasi, ma che, considerando i fatti con occhio intelligente e marxista, dobbiamo lavorare con energia rivoluzionaria per abbreviare certe tappe dello sviluppo».

Kun afferma (da “Cosa deve imparare la gioventù dalla rivoluzione proletaria ungherese”, in “All’ombra delle forche“, raccolta di articoli sulla rivoluzione ungherese, Mosca-Gomel, 1924”):

«L’Ungheria è innanzitutto un paese agricolo. È vero che possiede una industria sviluppata e un proletariato composto da operai ottimamente formati, ma la maggioranza della sua popolazione è tuttavia composta d’operai agricoli e da piccoli proprietari (...)

«Con un decreto del 3 aprile la repubblica dei Consigli ordinò che tutte le grandi e medie proprietà, con tutti i loro beni mobili e immobili, passassero senza alcuna indennità in proprietà dello Stato proletario. Un decreto apparso qualche giorno dopo esentava dall’espropriazione le proprietà inferiori a 100 arpenti (1 arpento =0,575 ha).

«Formalmente, le terre così nazionalizzate avrebbero dovuto essere coltivate in cooperative, ma in realtà la direzione di esse rimase nelle stesse mani di prima, quelle degli amministratori delle grandi proprietà, senza che i contadini interessati potessero far valere la loro parola (...)

«In Ungheria, durante la dittatura non ebbe luogo, come è noto, nessuna divisione di terre. La Repubblica dei Consigli socializzò la grande proprietà terriera e la mise sotto amministrazione sociale pel tramite delle cooperative del proletariato agricolo. L’esproprio delle grandi aziende agricole, ad eccezione di poche regioni, fu solo giuridico e non aveva il necessario carattere rivoluzionario. Questo per l’inattività rivoluzionaria del proletariato agricolo e per la necessità di procedere con precauzione per assicurare la continuità della produzione agraria.

«Ciò malgrado i proletari agricoli radunati nelle cooperative formatesi nelle grandi proprietà, erano un appoggio per la dittatura quasi altrettanto grande, anche armato, quanto gli operai industriali. La dittatura ha offerto i maggiori vantaggi immediati e palpabili proprio agli operai agricoli».

Scriveva László Rudas ne “I documenti della scissione”:

«La dittatura del proletariato, per tattica, venne ad un “compromesso” con i contadini, lasciando le piccole proprietà terriere fino a cento iugeri (circa 2.500 metri quadrati) nelle mani dei contadini. Fece questo per guadagnare i contadini piccoli possidenti alla causa rivoluzionaria. Ma lo scopo non venne raggiunto, perché avendo la dittatura del proletariato vinto “senza la lotta” contro la borghesia, il contadiname vide questo compromesso come un segno di debolezza della dittatura stessa. Il proletariato ebbe la dittatura senza lotta, non ebbe occasione di dimostrare la propria forza, non suscitò nei contadini la fiducia nella stabilità della dittatura. Così come accadde in Russia, dove grazie alla dura lotta contro la borghesia e la controrivoluzione, per quante concessioni si fecero ai contadini, questi non le consideravano un segno di debolezza.

«I socialdemocratici, capeggiati da Kunfi, non consideravano neanche questo compromesso coi contadini nella sua vera essenza, e ne approfittarono per estendere queste concessioni anche ai capitalisti, calcolarono meticolosamente il valore in moneta capitalista di una tenuta di cento iugeri, e trovato che essa valeva circa un milione, vollero estendere appunto, questo compromesso, ai milionari e ai proprietari di case».


6.2. - Riforme economiche e sociali

Il proletariato insorto si mise a realizzare con la massima energia il suo programma economico di transizione al socialismo, un lavoro riorganizzatore profondo ed esteso.

Espropriati i capitalisti si crearono gli organi della produzione e della spartizione collettiva: fabbriche e banche nelle mani del proletariato.

A Budapest si contavano 500 Consigli operai, ciascuno elesse da subito un Consiglio di controllo, si nominò un commissario per la produzione che occupava il posto del direttore dell’officina. In alcuni casi tale incarico venne dato al proprietario stesso. La funzione principale del Consiglio di controllo era di assicurarsi che il commissario non concludesse alcun affare finanziario a danno degli operai. Il Consiglio controllava tutta la corrispondenza.

Dalla socializzazione erano escluse le officine con meno di 20 operai, ma questi, procedettero per proprio conto a sostituire il padrone nella direzione della fabbrica.

In seguito le fabbriche che producevano le medesime merci furono unificate. Si cercò di organizzare la produzione nel miglior modo possibile, con i migliori tecnici, a cui veniva dato un salario più elevato.

Altra tappa importante del lavoro di socializzazione della produzione fu l’organizzazione dei Consigli dei delegati, dei Consigli di controllo, e dei Consigli dell’industria. In ogni Consiglio vi era un delegato inviato a comporre il Consiglio centrale della produzione, nel quale si trovavano rappresentati tutti i mestieri e di tutte le industrie, insieme al commissario della Produzione sociale, eletto dal Governo. Insieme al controllo della produzione fu organizzato quello della vendita dei prodotti.

Commissario alla produzione era stato eletto Gyula Hevesi, ingegnere chimico, comunista. Rilevò che la resistenza dei padroni dell’industria privata alla presa di possesso di tutto l’apparato produttivo da parte del proletariato era stata debole e facilmente domabile ed avvenuta senza violenza. «Il Commissariato del popolo per la produzione sociale, l’approvvigionamento e le finanze è stato coordinato in modo che tutto ciò che ha carattere economico sia compito esclusivo dei consigli, e che ogni conflitto tra i soviet locali possa essere evitato».

A riguardo della ripartizione delle materie prime il commissario diceva: «Abbiamo fatto un inventario completo che permette la migliore ripartizione delle materie prime. Non possiamo dire che ne abbiamo in quantità sufficiente, ma tante da soddisfare i bisogni presenti, e siamo in grado di durare lungo tempo con la nostra produzione. Tutte le ordinazioni vengono al Consiglio centrale della produzione, e questo le distribuisce alle officine meglio attrezzate per eseguirle».

Riguardo alla condizione operaia Béla Szántó ricorda:

«Circa i salari i provvedimenti della dittatura dei Consigli si limitarono a parificarli. Sulla base dei salari esistenti furono stabilite le seguenti categorie: a) operai istruiti e specializzati; b) operai non qualificati; c) lavoratori ausiliari; d) apprendisti. Per ciascuna categoria si stabilì una scala di salari. I salari in generale non furono rialzati, solo unificati. Esistevano già salari più elevati del salario massimo della prima categoria, i quali quindi vennero ridotti in corrispondenza alla scala, mentre quelli che prima avevano mercede inferiore furono adeguati. Fu messa in atto la massima: a parità di lavoro, parità di salario. Compreso il lavoro femminile: le lavoratrici furono inserite nelle corrispondenti categorie e assegnato loro lo stesso salario della categoria (...)

«Come il proletariato, dopo conquistato lo Stato borghese, non può metterlo in movimento senza averlo trasformato ai propri fini, così non può conservarsi senza trasformare anche l’organizzazione della produzione. Anzitutto doveva sopprimersi l’apparato di carrieristi impiantatosi sotto il capitalismo, ed eliminare la gerarchia burocratica. Alla testa delle fabbriche stava il Consiglio di fabbrica, che, insieme col menzionato commissario di fabbrica, dirigeva la gestione d’accordo col Consiglio dell’Economia Popolare e coi sindacati. Era appunto in corso anche la parificazione delle mercedi degli impiegati prendendosi come norma il principio che non superassero quelle degli operai specialisti istruiti (...)

«Sembra a molti contraddittorio che la dittatura edifichi il socialismo col sistema dei cottimi, contro cui gli operai hanno sempre combattuto aspramente. Chi lo pensa non capisce il mutamento dello scopo del sistema dei cottimi. Questo in regime capitalistico significa, in confronto col salario a orario, uno sfruttamento intensificato del lavoratore. Nella lotta contro il plusvalore il salario orario vale come un importante riparo e difesa, una considerevole protezione per il lavoratore in confronto col sistema dei cottimi. Ma durante la dittatura del proletariato non si tratta più di produrre plusvalore, bensì di edificare il socialismo. Di fatto il comunismo non c’è ancora, nella realtà ci troviamo ancora soltanto in un tratto del percorso che vi conduce, nel quale la società deve esser concepita e affrontata come essa è in realtà, come la definisce Marx nella sua Critica del Programma di Gotha, “quale essa è appena sorta dalla società capitalistica, sotto tutti i rapporti economici, morali, spirituali, ancora infetta dei vizi materni della specifica società, dal cui grembo deriva”.

«Quindi la dittatura del proletariato non è ancora in condizione di poter applicare il principio: a ognuno secondo i suoi bisogni, che entra in vigore solo nel comunismo. Durante la dittatura del proletariato la ripartizione dei beni deve ancora procedere secondo il lavoro prestato. Poiché la società nel periodo della dittatura dei Consigli “sotto tutti i rapporti, economici, morali, spirituali è ancor infetta da tutti i vizi materni della specifica società, dal cui grembo deriva”, devono anche esser adoperati tutti i preesistenti sistemi di valutare la prestazione di lavoro: cottimo, premi, sistema Taylor ecc. Soltanto quando la società non sarà più infetta dai vizi della madre società capitalistica potrà essere tolta la necessità di valutare la prestazione di lavoro con cottimi, premi, sistema Taylor ecc., e potrà venir attuato il principio: a ciascuno secondo i suoi bisogni.

«La classe operaia capì questo mutamento nella funzione del sistema dei cottimi, per cui il suo ripristino non trovò grande resistenza. La produzione si accingeva a salire, la disciplina del lavoro a restaurarsi. Questa era ineccepibile nell’industria del cuoio e parimenti soddisfacente in quella del legno. Nell’industria siderurgica e meccanica la scarsità di materie prime provocava bensì alcune difficoltà, ma anche qui verso la fine della dittatura la produzione era sul crescere; anzi, vi erano alcuni stabilimenti, in cui superava quella del periodo della guerra mondiale».

Fu istituita la giornata lavorativa di 8 ore per gli adulti e 6 per i giovani, l’unificazione dei salari, le ferie pagate.

Desta un certo interesse quanto scriverà il Romanelli, addetto militare italiano a Budapest:

«L’aforisma eloquente che compendiava il credo bolscevico statuiva: “Solo chi lavora ha diritto di vivere”.

«Una gran parte della borghesia adattandosi alle nuove esigenze, si diede allora alla ricerca di una occupazione. Signore che conoscevano qualche lingua si presentarono ad offrire il loro lavoro negli uffici, altre diedero lezioni o divennero cassiere, giornalaie, fioraie. Uomini che vivevano di rendita, avvocati, professori presero la scopa, il piccone e la vanga, ed altri ottennero di lavorare nella coltivazione degli ortaggi sui due ippodromi di Budapest: le corse dei cavalli essendo state soppresse, perché di sapore troppo aristocratico. Per avere diritto alla tessera dei viveri anche i professionisti si indussero a formare le loro associazioni e farsi iscrivere nella lista del partito comunista».

La dittatura del proletariato, giustamente, fa lavorare anche chi vive in ozio sulle spalle dei proletari. E sicuramente fa loro bene, al fisico e al morale.


6.3. - Le abitazioni

Prosegue Béla Szántó:

«Dopo che la dittatura ebbe socializzato le banche, le fabbriche, le miniere, il terreno agrario, passò a sopprimere lo sfruttamento esercitato sul proletariato dai padroni di casa. Anzitutto ordinò la generale riduzione del 20% delle pigioni delle abitazioni piccole. Intraprese quindi la socializzazione delle case in affitto. A mitigarne la scarsità adottò subito il provvedimento possibile pur senza nuove costruzioni: la ripartizione dello spazio, eliminando la superficie abitata superflua. Dapprima si requisirono le abitazioni lasciate vuote dalla borghesia; ma non potevano bastare ad attenuare sensibilmente la penuria per i lavoratori; così furono sottoposte a ripartizione le comode abitazioni borghesi, riducendo a un minimo le pretese di spazio della borghesia, e negli appartamenti così liberati furono ospitate le famiglie operaie. Nella ripartizione si ebbe cura che i locali delle famiglie rimanessero separati: se a tal fine si rendeva necessaria qualche modifica interna era fatta a cura dell’Ufficio dell’edilizia.

«Si provvide non solo alla suddivisione delle abitazioni ma anche all’arredamento: gli alloggi vennero assegnati ai lavoratori con il loro mobilio; quelli che ne erano privi furono arredati a cura dell’Ufficio di ripartizione dei mobili. Questo raccoglieva gli arredi inutilizzati e ne disponeva anche di nuovi sì da soddisfare ogni richiesta.

«Va da sé che questo sistema non dà la soluzione definitiva della questione delle abitazioni. Tuttavia la dittatura con questi provvedimenti provvisori temperò la politica capitalistica delle abitazioni, mise le comode e igieniche case della borghesia a disposizione dei lavoratori, che fin allora avevano dovuto languire in tane fetide, sudicie e affollate»


6.4. - Famiglia e igiene

Riguardo all’igiene e alla sicurezza sul lavoro, si susseguivano le riforme.

Fu abolita ogni distinzione tra figli nati dentro e fuori del matrimonio. Fu introdotto un periodo di sei settimane di riposo per la maternità, un piano per assicurare adeguato nutrimento ai bambini, un sistema di orfanotrofi per l’infanzia abbandonata.

Fu aggiunta l’educazione sessuale nei programmi delle scuole.

La sanità fu completamente nazionalizzata e resa gratuita. I sanatori di lusso furono trasformati in ospedali comunali gratuiti. I palazzi aristocratici furono trasformati in asili per invalidi e anziani. Nelle dimore di lusso sul lago Balaton furono ricoverati migliaia di bambini proletari malati.

All’università di Budapest furono aperti un dipartimento di psicoanalisi e un ospedale psichiatrico.

Altra importante decisione del Consiglio Rivoluzionario fu la “abolizione” della prostituzione.

Scrive ancora Béla Szántó:

«Le rivendicazioni della moderna politica sociale o furono realizzate dalla dittatura dei Consigli o si trovavano in via d’attuazione.

«Uno dei primi provvedimenti della dittatura fu la proibizione dell’alcool. Sotto il capitalismo serviva a istupidire le masse, mediante l’alcool se ne deprimeva l’autocoscienza per mantenerle sempre abuliche schiave del salario. L’alcool non solo era fonte di degenerazione, oltre che di delinquenza, acuendo la miseria e le sofferenze dei lavoratori. Ad eliminare questi mali fu introdotta la proibizione dell’alcool, con effetti notevoli sotto la dittatura sull’ordine pubblico. Il numero dei reati comuni scese ad un tratto ad un minimo, le risse ecc. cessarono di colpo. Il registro delle pene durante la dittatura, confrontato con quello dell’età capitalistica, mostra meglio d’ogni altra cosa quale importante parte avesse avuto il vizio dell’alcool nell’asservimento del proletariato.

«Nel quarto mese della dittatura il divieto delle bevande alcooliche fu bensì temperato, si permise mezzo litro giornaliero di vino o di birra a testa, ma in bottiglie chiuse. Il divieto del consumo in forma di bevande alcoliche fu mantenuto. Le osterie e le cantine continuarono a rimanere chiuse».

«Le casse di soccorso per malattia istituite dalle fabbriche e dalle associazioni furono soppresse e sostituite da una Cassa generale, con obbligo di iscrizione per tutti i lavoratori. Chiunque, purché non vivesse dei frutti del suo patrimonio o dello sfruttamento dell’altrui forza lavoro, era coperto dall’assicurazione, compresi i soldati. Sicché in questo campo la dittatura ungherese dei Consigli superò anche quei paesi capitalistici che possono vantare la più sviluppata legislazione operaia. L’assicurazione contro le malattie e gli infortuni funzionava in maniera impeccabile, quella contro la invalidità e la vecchiaia era in corso di attuazione. La protezione della maternità e dell’infanzia trovarono la sua soluzione nel quadro dell’assicurazione operaia generale.

«La statizzazione del servizio sanitario fu quasi completamente attuata durante la dittatura dei Consigli. Tutti gli ospedali, i sanatori, i bagni curativi ecc. erano passati nelle mani dello Stato. Parchi privati fin allora inaccessibili furono aperti ai fanciulli, una particolare Centrale provvedeva alle villeggiature estive dei fanciulli e delle famiglie proletarie».


6.5. - La relazione del commissario del popolo Eugenio Varga

Leggiamo nella Relazione:

«Il nostro lavoro si è diviso subito in tre parti: una rivolta alla distruzione, una alla conservazione e una alla ricostruzione. La distruzione è consistita nell’espellere gli antichi proprietari dal possesso dei mezzi di produzione; il lavoro di conservazione ci ha imposto il dovere di non annientare la produzione, distruggendo le forze del capitalismo; il lavoro di ricostruzione consiste nel sostituire l’amministrazione capitalista con l’amministrazione proletaria, cioè con l’amministrazione degli operai tanto nelle gestioni particolari che nell’organismo generale dello Stato.

«Il nostro primo atto fu l’espropriazione delle banche, cioè il loro passaggio all’amministrazione proletaria; questo lavoro è quasi completamente ultimato e riguarda circa ottocento istituti di credito con le loro filiali. Abbiamo, con questa misura, potuto infrenare le tendenze controrivoluzionarie; ma per la vita economica propriamente detta l’espropriazione delle banche non ha molta importanza.

«Come secondo compito, ci siamo prefissi la socializzazione delle grandi proprietà. Per ciò che riguarda la forma, la socializzazione è in gran parte ultimata; ma sostanzialmente essa non poté essere attuata in molti casi e molti grandi proprietari, molti direttori di grandi industrie, di fabbriche ecc. continuano a occupare il loro posto. La loro espulsione è stata resa impossibile dal fatto che in molti luoghi manca una classe operaia cosciente e capace di assumere una gestione.

«Sono stati socializzati circa 1.200.000 ettari di terreno; 3.780.000 ettari continuano a essere gestiti da privati proprietari.

«La socializzazione delle aziende industriali è più avanzata della socializzazione terriera. La socializzazione delle miniere e di molte aziende industriali è già terminata e oltre 1.000.000 di operai lavorano comunisticamente.

«Ecco come sono state organizzate le aziende socialiste: sono stati incaricati di dirigerle dei commissari di produzione e dei Comitati Operai di controllo. Gli organismi capitalistici accentratori, nati durante la guerra, erano solo strumenti di speculazione camuffati. È necessario innanzi tutto che tali organismi siano permeati e sostanziati di spirito socialista. Si sono verificati sempre abusi e se ne verificheranno ancora in avvenire. Fino a quando l’insieme della società non sarà modificato dall’educazione a spirito moderno, dalla concezione moderna della produzione, non sarà possibile introdurre in questi organismi lavoratori coscienti in numero tale da rendere possibile l’esclusione dei millantatori e dei chiacchieroni».

Varga parla in seguito della necessità di controllare il commercio a causa della penuria delle merci, ma aggiunge che appena tolto il blocco e appena riattivata la produzione indigena si potrà essere meno rigidamente severi nell’applicazione delle attuali leggi e ristabilire la libertà di commercio in molti domini. Ciò è già stato fatto per il commercio delle primizie e dei legumi, merci che possono deteriorarsi e che non è possibile accumulare.


6.5.1. - I limiti della socializzazione

«Per ciò che riguarda la terra, le proprietà inferiori a 60 ettari saranno mantenute a regime privato. Anche le aziende dove lavoravano non più di venti operai devono rimanere di proprietà privata. Questi limiti furono osservati nella proprietà rurale, ma non fu possibile praticamente farli rispettare nelle imprese industriali. Non siamo stati noi a socializzare le aziende con meno di venti operai, ma gli operai stessi. È d’altronde comprensibile che operai coscienti, in grado di constatare i benefizi della socializzazione attuata nelle aziende vicine a quella in cui lavoravano, non abbiano voluto ammettere che la loro fabbrica non fosse socializzata perché impiegava solo 19 operai, mentre altre aziende con 20 operai godevano già i benefizi della socializzazione.

«Ci è stato proposto spesso l’esempio russo: in Russia il limite di socializzazione per le fabbriche è stato fissato a cinquanta operai, ma da noi le condizioni erano completamente diverse. In Russia, all’infuori delle piccole industrie cittadine e di villaggio, prevalgono le grandi e potenti officine attrezzate coi capitali venuti dall’occidente; l’industria media, di cui esistono tante varietà in Ungheria, manca completamente in Russia. Ecco perché in Russia il numero limite degli operai è più alto che in Ungheria.

«Uno degli sbagli più gravi commessi nell’organizzare le aziende industriali è consistito nel non avere chiarito abbastanza i rapporti reciproci tra le Commissioni di produzione, i Comitati Operai di controllo e le direzioni tecniche. In molte aziende i commissari di produzione ritengono che il loro ufficio consista nella direzione tecnica, ciò che non è assolutamente. Nelle imprese elementari e più piccole, come ad esempio nei lavori di imballaggio e nella fabbricazione dei mobili, la cosa è ancora possibile. Ma nelle aziende più vaste, nelle quali la direzione tecnica esige conoscenze speciali e approfondite e una preparazione di lunga mano, essa non può essere affidata ai commissari di produzione, per quanto siano buoni proletari. L’ufficio particolare dei commissari di produzione si riduce a giudicare, dal punto di vista politico, se in qualche azienda non si verifichino atti di sabotaggio.

«Questa confusione nei poteri ha determinato numerosi e spiacevoli incidenti: abbiamo cercato di rimediare dovunque era possibile scegliere i commissari di produzione tra i tecnici e gli ingegneri: ma dove esiste ancora un abisso tra le idee dei tecnici e quelle della classe operaia, non è stato possibile affidare ai tecnici e agli ingegneri l’ufficio dei commissari di produzione.

«L’attività dei commissari di produzione sarà in avvenire ancor più nettamente separata dalla direzione tecnica e, in ogni caso, sarà più strettamente regolata. Un altro compito da risolvere in avvenire sarà quello di incorporare nei Comitati operai di controllo delegati dei Sindacati, scelti tra gli operai che lavorano nell’azienda interessata.

«Ma dobbiamo riconoscere che la produzione è impossibile senza i tecnici, e la classe operaia deve, specialmente in provincia, abituarsi all’idea che se i dirigenti intellettuali di un’azienda conservano ancora oggi una particolare maniera di parlare, questo inconveniente sparirà sempre più col diffondersi del costume proletario e l’espandersi delle idee socialiste».


6.5.2. - Tecnici e burocrazia

«Per sostituire i 20 o 30.000 capitalisti che avevano organizzato la produzione è stato necessario creare una burocrazia. Senza questa burocrazia l’opera nostra avrebbe naufragato e l’anarchia avrebbe regnato. È stato impossibile conservare la vecchia burocrazia; sarebbe stato troppo pericoloso. La vecchia burocrazia era stata costituita unicamente per servire gli interessi capitalistici; essa era assolutamente imbevuta di spirito “giuridico”, che si limita a lavorare sulla carta. Conservandola, non avremmo potuto giungere rapidamente a una organizzazione.

«Devo riconoscere che la nuova burocrazia non è affatto l’organo ideale che ci auguravamo. Molta gente non è al suo posto e molti sono giovani senza esperienza, immaturi dal punto di vista politico, e che hanno cambiato con troppa facilità le loro convinzioni politiche. Come Lenin ha detto, riferendosi allo stesso fenomeno verificatosi in Russia, noi dobbiamo liberare la Rivoluzione da questi elementi, che ne sono i pidocchi e le sanguisughe. Compagni! Un tale lavoro si sta compiendo e se voi seguite gli avvenimenti, potete vedere che noi sempre più riusciamo a mettere nei posti di comando della nuova burocrazia i vecchi e sperimentati capi dei Sindacati! (Interruzioni: Bisognava farlo prima! Devono contare solo i competenti!).

«Qualcuno mi ha gridato che sarebbe stato necessario far così fin dall’inizio, ed io rispondo sinceramente: Quando si è compiuta la Rivoluzione, due gruppi di uomini si sono fusi per raggiungere lo stesso fine. L’uno già da un pezzo viveva nell’ideologia comunista e da mesi si preparava a un lavoro di ricostruzione per il momento in cui la dittatura proletaria sarebbe diventata una realtà. L’altro gruppo era, in principio, pieno di paure dinanzi alla dittatura proletaria; nelle prime settimane rimase in condizioni di completo sbalordimento, e solo dopo qualche tempo ha potuto accingersi al compito, che è proprio della dittatura del proletariato. Noi non volevamo che la produzione si arrestasse e che una completa disorganizzazione succedesse all’atto rivoluzionario; fummo costretti a rivolgerci ai compagni disponibili, preparati solo in quanto vecchi comunisti, perché si mettessero al lavoro con passione. Oggi si tratta di scegliere a poco a poco tra di loro i migliori, i più capaci, i più istruiti, tanto tra i vecchi che tra i giovani. A questo modo costruiremo la nuova organizzazione.

«Abbiamo sentito molte lagnanze sugli abusi della nuova burocrazia; non voglio contestarle, sebbene la vecchia ne commettesse molti di più e di molto più grandi; solo che la vecchia burocrazia era un tal labirinto che non era facile scoprirvi gli abusi. Oggi invece gli abusi si palesano immediatamente, appunto perché gli uomini della nuova burocrazia sono ancora molto inesperti e molto maldestri nelle loro concussioni. Oggi abbiamo un numero sufficiente di persone fra cui scegliere e possiamo sbarazzarci di questa gente improvvisata; scacceremo dal servizio proletario gli incapaci e i disonesti.

«Quando parlo di una nuova burocrazia, non intendo riferirmi soltanto agli elementi intellettuali, ma anche a quelli provenienti dalla classe operaia. Credo che gli elementi proletari debbano essere attirati nell’amministrazione dello Stato proletario; se ciò non avvenisse, non esisterebbe uno Stato proletario. Anche tra gli operai c’è però la tendenza a esagerare in modo speciale la burocrazia composta di proletari, e debbo dire apertamente che gli abusi si verificano tanto fra gli operai divenuti funzionari che tra i burocratici intellettuali. E non c’è differenza, per questo lato, tra Budapest e la provincia; anche in provincia esistono dei Direttorii i cui membri riempiono le loro case di tappeti persiani e si rendono colpevoli di numerosi abusi. Una grande opera di ripulimento deve essere compiuta in questo senso».


6.6. - Penuria alimentare e cooperative di consumo

Il 24 maggio al Consiglio Centrale Rivoluzionario Kun aveva parlato della penuria alimentare, gravata dal blocco attuato dai predoni dell’Intesa, e del rapporto fra la città e la campagna:

«La seconda questione che adesso ci preoccupa è quella della penuria. Nessuno ha mai detto che la dittatura del proletariato poteva immediatamente creare il benessere. Quelli che non fanno che lamentarsi non si ricordano dunque che la dittatura del proletariato non è una sorta di Eldorado, già sapevano che il proletariato avrebbe sofferto, conosciuto la fame, sparso il suo sangue e vissuto tutte le miserie d’una guerra imperialista. Specie quando l’apparato economico del capitalismo è andato in bancarotta (...)

«È indiscutibile che dovremo organizzare una distribuzione e un consumo regolamentati più severamente, in modo che i rifornimenti siano uguali per tutti. Certamente il territorio dell’Ungheria è a mala pena sufficiente per rifornire i due milioni di abitanti di Budapest e della sua regione. È indiscutibile anche che sussistono delle riserve che bisogna reperire per rifornire la parte migliore del proletariato d’Ungheria, in modo che questa avanguardia, il proletariato di Budapest, non sia ridotto alla fame».

Al Consiglio Generale rivoluzionario del 31 maggio Kun torna a mettere in evidenza i problemi dell’approvvigionamento alimentare, sui quali i socialdemocratici fomentavano il malcontento:

«È assolutamente certo che, nell’ambito della dittatura, non si potrà risolvere la questione dell’approvvigionamento che in una sola maniera, rompendo radicalmente con le istituzioni che erano caratteristiche del capitalismo, particolarmente nel settore della distribuzione delle derrate alimentari. Compagni, penso che in quest’affare delle cooperative, che oggi provoca tanto nervosismo, non si potrà arrivare a delle soluzioni giuste che tenendo nel dovuto conto il ruolo svolto in passato dalle cooperative e definendo correttamente la loro funzione per l’avvenire.

«È indubitabile che essersi raggruppati nelle cooperative operaie di consumo ha dovuto esigere un grado di coscienza più elevato di chi non vi ha aderito. Si, è un merito aver fatto queste cooperative di consumo che, anche all’epoca del capitalismo, avevano difeso gli interessi degli operai come consumatori. Tuttavia, le funzioni delle cooperative di consumo si sono modificate. Si sono modificate perché, in una società come quella d’oggi dove ci si dibatte contro la penuria, contro una mancanza di merci, non si può assicurare la direzione dell’economia che radunando tutti i consumatori nelle cooperative, delle cooperative obbligatorie per tutti i consumatori (...)

«Se manteniamo le cooperative nella forma attuale, dove non tutti i proletari si trovano raggruppati, se manteniamo i loro gruppi d’acquisto, che nel sistema attuale provocano rincari degli uni sugli altri, facendo vivere meglio un gruppo di proletari a detrimento d’un altro, faremmo allora del cattivo lavoro. D’altronde non possiamo dissolvere questi gruppi d’acquisto fintanto che la nostra organizzazione di ripartizione dell’approvvigionamento non sarà messa in piedi; altrimenti, causeremmo delle difficoltà ancora più grandi (...)

«Ancora una volta torno all’aspetto politico della questione, e ciò perché con la carestia e la fame vogliono forgiare delle armi politiche. Quelli che iscrivono la carestia a debito della dittatura del proletariato commettono un crimine capitale contro il proletariato. Oggi parlare di democrazia non è che demagogia. Una demagogia infame che si sforza di indirizzare le masse proletarie contro la dittatura del proletariato».


6.7. - Istruzione, scienze, arti

La scuola fu sottratta al controllo della chiesa e nazionalizzata.

Inoltre si resero accessibili ai più vasti strati proletari i risultati delle scienze e delle arti. Si costituì l’Unione degli scrittori, alla quale parteciparono Béla Balász, Guya Krudy e Zsigmond Móricz, con György Lukas presidente. A un Direttorio musicale aderirono Béla Bartók, Ernó Dohnányi, Zoltán Kodály e Béla Reinitz. Anche il cinema ricevette impulso: nei centotrentatrè giorni di esistenza della Repubblica dei Consigli l’industria del cinema, nazionalizzata, mise in lavorazione trentun film per la direzione di Sándor Korda, Laszlo Vajda e Béla Ferenc. Fu prodotto un cinegiornale settimanale, il “Notiziario cinematografico rosso” (“Vörös Riport Film”). Anche poeti, scrittori, pittori e scultori appoggiarono calorosamente la Repubblica dei Consigli.

Continua Béla Szántó:

«Tutti i teatri passarono in amministrazione dello Stato. Due terzi dei biglietti erano venduti dai sindacati a prezzi ridotto, e solo un terzo in vendita libera. Per i giovani lavoratori furono allestite speciali rappresentazioni settimanali. Nei cinematografi i fanciulli erano ammessi solo agli spettacoli loro adatti.

«Vi era una Centrale per l’amministrazione delle biblioteche, furono istituite biblioteche tecniche e periferiche. I tesori artistici prima accessibili soltanto alla borghesia e quelli privati furono requisiti e resi accessibili ai lavoratori. Per decentralizzare le istituzioni culturali erano in via di apertura Musei e di Biblioteche in provincia.

«L’obbligo scolastico fu provvisoriamente stabilito fino a 14 anni, nell’animo di prolungarlo a 18. L’ordinamento era basato su un ciclo unico di otto classi, cui avrebbero dovuto seguire altre 4, negli stessi edifici scolastici, o come scuole d’istruzione tecnica, o come scuole preparatorie agli studi scientifici superiori.

«La riforma era pronta per essere attuata nel nuovo anno scolastico da settembre in poi. In relazione al nuovo ordinamento erano già stati preparati dai migliori pedagogisti i nuovi testi. Furono istituite scuole nelle foreste per i tubercolotici, e speciali scuole per i fanciulli affetti da malattie nervose.

«Fu organizzata in tutto il paese l’istruzione libera. Corsi per analfabeti, di lingue, corsi superiori. Soltanto a Budapest e dintorni durante la dittatura furono tenute più di diecimila conferenze ai giovani operai. Furono organizzate Università per i lavoratori, suddivise in due sezioni: Università libere, che provvedevano alla alta cultura scientifica degli operai, e corsi d’istruzione amministrativa, che avevano l’incarico di preparare al servizio amministrativo nei Consigli operai. L’insegnamento tecnico superiore fu reso accessibile ai lavoratori, ed ivi si preparavano i commissari di fabbrica. Le Università per lo studio delle scienze superiori furono trasformate in Istituti di ricerca. Fu aperto un Istituto di ricerche sul materialismo storico.

«La riorganizzazione scolastica richiedeva 12.000 nuovi insegnanti, che dovevano trarsi dai membri delle professioni rese inutili dalla dittatura. Il concentramento delle aziende aveva reso disponibili impiegati privati, giuristi e funzionari, idonei, dopo apposita preparazione, per essere utilizzati come insegnanti.

«Oltre a queste riforme istituzionali la dittatura pose come dovere dello Stato la propaganda del socialismo. Libri e opuscoli di dotti socialisti indigeni e stranieri furono stampati e diffusi in gran copia a cura dello Stato. Ciò che prima agli operai era stato possibile solo con grandi sacrifici ora era loro liberamente offerto: potevano leggere e imparare. Senza la dittatura dei Consigli, la classe operaia ungherese non avrebbe partecipato a simile diffusione del socialismo rivoluzionario».


6.8. - La costituzione provvisoria

Il 2 aprile 1919 è adottata la Costituzione Provvisoria. Nella rivoluzione per il comunismo ogni Costituzione non può essere che provvisoria. In 89 articoli impostava la forma istituzionale della dittatura del proletariato tramite i Consigli degli operai, dei soldati e dei contadini.

Sarà approvata al Congresso dei Consigli Operai e Contadini di Budapest, senza fretta, il 15 giugno.

Il documento stabilisce dettagliatamente, oltre ai principi generali, diritti e doveri dei cittadini, la funzione di ogni organo elettivo, il sistema elettorale ed infine la struttura federale dello Stato. Per le quindici minoranze nazionali sono previsti Consigli nazionali autonomi.

L’Assemblea elegge un esecutivo di tre membri presieduto da Richard Schwarcz e una commissione di tredici membri: sei comunisti e sette socialisti, con il compito di sorvegliare l’operato del Consiglio Rivoluzionario di Governo.

Questi gli articoli più significativi:

«Articolo 1 - Nella Repubblica dei Consigli il proletariato ha assunto tutte le libertà, tutti i diritti e tutto il potere, allo scopo di abolire il sistema capitalistico e il dominio della borghesia e di sostituirvi il sistema produttivo e sociale socialista. La dittatura del proletariato è soltanto un mezzo per eliminare ogni sorta di sfruttamento e dominio di classe e serve a preparare un sistema sociale che non conosce classi, in cui anche lo strumento principale del domino di classe, il potere statale sarà scomparso.

«Articolo 2 - La Repubblica dei Consigli è la Repubblica dei Consigli degli operai, dei soldati e dei contadini. Nella Repubblica dei Consigli non c’è posto per gli sfruttatori. Nei Consigli degli operai, dei soldati e dei contadini è il popolo lavoratore che fa le leggi, le applica e persegue chi ad esse contravviene. Tutto il potere centrale e locale è esercitato dal proletariato nei Consigli.

«Articolo 3 - La Repubblica dei Consigli è una libera federazione di popoli liberi. «La politica estera della Repubblica dei Consigli si propone di raggiungere, con l’aiuto della rivoluzione internazionale, la pace dei lavoratori di tutto il mondo. Vuole la pace senza annessioni e senza riparazioni, sulla base del diritto all’autodecisione dei lavoratori. «Al posto dell’imperialismo che ha causato la guerra mondiale, la Repubblica dei Consigli desidera l’unione e l’alleanza dei proletari di tutto il mondo, la Repubblica internazionale dei Consigli dei lavoratori. Essa si oppone dunque a ogni guerra di sfruttamento, a qualsiasi forma di oppressione e di dominio sui popoli, e rifiuta l’uso degli strumenti della politica estera dello Stato classista, in modo particolare la diplomazia segreta.

«Articolo 4 - La Repubblica dei Consigli mira a trasformare tutti i mezzi di produzione in proprietà sociale dei lavoratori, allo scopo di eliminare lo sfruttamento e di organizzare e aumentare la produzione. Essa nazionalizza perciò tutte le aziende agricole, le imprese industriali, minerarie e di trasporti che oltrepassino il limite della piccola azienda.

«Articolo 5 - (...) Nazionalizzazione degli istituti bancari e assicurativi.

«Articolo 6 - (...) La Repubblica dei Consigli prescrive l’obbligo generale del lavoro, e, parallelamente, proclama il diritto al lavoro. Coloro che sono nell’impossibilità di lavorare e così pure coloro che vorrebbero lavorare ma a cui lo Stato non può dare lavoro sono a carico di questo.

«Articolo 7 - La Repubblica dei Consigli, al fine di garantire il potere delle masse lavoratrici e di impedire la restaurazione del potere degli sfruttatori, arma i lavoratori e disarma gli sfruttatori. L’Armata Rossa è l’esercito di classe del proletariato.

«Articolo 8 - (...) Il diritto di pubblicazione e di stampa appartiene alla classe operaia, la Repubblica dei Consigli fa in modo che la dottrina socialista venga diffusa liberamente in tutto il paese.

«Articolo 9 - Nella Repubblica dei Consigli la libertà di riunione della classe operaia è assoluta (...)

«Articolo 10 - La Repubblica dei Consigli sopprime il privilegio culturale della borghesia e offre ai lavoratori la possibilità concreta di accedere all’istruzione. Assicura (...) l’insegnamento gratuito fino ai massimi livelli.

«Articolo 11 - La Repubblica dei Consigli difende la vera libertà di coscienza dei lavoratori separando completamente la Chiesa dallo Stato, la scuola dalla Chiesa. Ognuno può professare liberamente la propria fede (...)

«Articolo 13 - Nella Repubblica dei Consigli tutti i rivoluzionari stranieri godono del diritto d’asilo.

«Articolo 14 - La Repubblica dei Consigli non riconosce differenze razziali o di nazionalità (...)».


6.9. - La struttura centralizzata del potere sovietico

«Articolo 15 - Nella Repubblica dei Consigli il potere supremo è esercitato dall’Assemblea Nazionale dei consigli federativi (...)

«Articolo 19 - Il Comitato Direttivo Centrale federativo, che è eletto dall’Assemblea Nazionale dei consigli federativi, è composto al massimo da 150 membri. Ogni nazionalità presente è rappresentata proporzionalmente alla sua popolazione.

«Articolo 20 - Quando l’Assemblea Nazionale dei consigli federativi non siede il Comitato Direttivo Centrale ha la direzione suprema degli affari del paese ed esercita il potere legislativo, esecutivo e giudiziario. Il Comitato Direttivo Centrale prende anche parte direttamente all’amministrazione degli affari dello Stato. Inoltre i suoi membri formano dei Comitati Suppletivi e di Controllo che affiancano il lavoro dei Commissari del popolo (...)

«Articolo 21 - Il Comitato Direttivo Centrale presiede al funzionamento dei Consigli degli operai, dei soldati e dei contadini e anche di tutti gli organi da questi dipendenti. Prevede all’attuazione della costituzione dei Consigli e mette in esecuzione le decisioni dell’Assemblea Nazionale dei Consigli federativi (...)

«Articolo 23 - Il Comitato Direttivo Centrale è responsabile del proprio operato di fronte all’Assemblea Nazionale dei Consigli federativi.

«Articolo 24 - Il Comitato Direttivo Centrale elegge il Consiglio di Governo e il suo presidente.

«Articolo 25 - Membri del Consiglio di Governo sono i Commissari del popolo [inizialmente 13 più 26 vice commissari]. Il Consiglio di Governo nomina i commissari a capo dei singoli Commissariati del popolo e delle sezioni del Consiglio Economico Nazionale (...)

«Articolo 26 - Il compito del Consiglio di Governo è dirigere gli affari della Repubblica dei Consigli conformemente alle direttive dell’Assemblea Nazionale dei Consigli e del Comitato Direttivo Centrale (...)

«Articolo 31 - I membri del Consiglio di Governo sono responsabili davanti all’Assemblea Nazionale dei Consigli federativi e al Comitato Direttivo Centrale.

«Articolo 32 - I Commissariati del popolo sono i seguenti: Consiglio Economico nazionale; Esteri; Difesa nazionale; Interni; Giustizia; Benessere sociale e sanità pubblica; Istruzione pubblica; Affari tedeschi; Affari ruteni.

«Articolo 33 - I Commissariati del popolo e il Consiglio Economico Nazionale possono emanare, ognuno per la sua sfera di competenza, decreti e direttive (...)».

Negli articoli successivi della Costituzione sono dettagliate le specifiche competenze, composizione ed elezione dei Consigli e Commissariati.

Gli articoli dal 38 al 65 indicano le modalità di formazione e i poteri esecutivi dei Consigli Locali degli operai, dei soldati e dei contadini [provinciali, delle città, dei villaggi; a Budapest di quartiere] per la gestione diretta degli affari.

È evidente il carattere fortemente centralizzato della struttura.

I Consigli erano sorti in modo spontaneo tra gli operai, i soldati e i contadini. Fin dalla fase finale della guerra, dopo il 21 marzo, sono istituzionalizzati per decreto del Consiglio Rivoluzionario di Governo. La Costituzione Provvisoria prevedeva fra i loro compiti dirigere l’amministrazione e la produzione, mantenere l’ordine proletario, selezionare i funzionari, accantonare e distribuire le derrate e raccogliere e custodire le armi. Nei Consigli tutti i maggiori di diciott’anni, donne e uomini, sono elettori ed eleggibili e il mandato, salvo revoca possibile in ogni momento, dura tre mesi. Il mandato degli eletti è imperativo; il Consiglio delibera tramite voto in assemblea generale.

Gli articoli dal 66 al 77 si occupano del “diritto al voto”: «Nella Repubblica Socialista Federativa dei Consigli d’Ungheria il diritto di voto spetta soltanto al popolo lavoratore. Sono elettori ed eleggibili a membri dei Consigli coloro che abbiano compiuto 18 anni e che vivano, come operai o impiegati o altro, di un lavoro utile dal punto di vista sociale». Quindi, nella Repubblica dei Consigli non sono elettori né eleggibili i borghesi, i fondiari, gli aristocratici, con il loro personale: sbirri, preti, ecc.

Gli articoli dal 78 all’83 disegnano la politica finanziaria della Repubblica.

I restanti articoli si occupano dei diritti delle nazionalità, ben in vista nel programma dei comunisti e per il quale si sono da sempre battuti.


6.10. - L’ingombrante presenza socialdemocratica

Al posto dei ministri del governo dimissionario, sono nominati i Commissari del popolo, 39 fra commissari e vice.

Ma i rapporti di forza fra i due partiti nell’apparato del potere sono nettamente a favore dei socialdemocratici che possono contare su 700/800 mila iscritti. A questi vanno la presidenza del Consiglio Rivoluzionario di Governo, a Sándor Garbai, e ben undici sui tredici Commissariati. Ai comunisti, che contano circa 40 mila iscritti, vanno solo due Commissariati: quello degli Esteri (Béla Kun) e quello dell’Agricoltura (Károly Vántus), e la maggioranza delle cariche di vice‑commissari.

I comunisti, sebbene appoggiati dai sentimenti e dalle iniziative della classe operaia, si trovano in minoranza all’interno dell’apparato dello Stato comunista! In forza di un grave equivoco sulla cosiddetta “democrazia proletaria”, termine spurio che noi fin da allora consigliammo di accantonare.

Il Gran Consiglio Rivoluzionario degli operai e dei soldati di Budapest è eletto il 7 aprile, unificando i preesistenti Consigli. Un Comitato, composto da nove socialisti e un comunista, compila una lista di cinquecento nomi: 400 socialisti e 100 comunisti, sempre in base ai rapporti di forza tra i due partiti prima della fusione. Ma gli operai dell’VIII Distretto, in disaccordo con la lista del Comitato, presentano una seconda lista composta da militanti fedeli, sindacali e anarchici.

Il Consiglio tiene la sua prima riunione l’11 aprile sotto la presidenza di Weltner. È eletto “presidente onorario” Lenin. Si istituisce un direttorio composto da 80 membri, dei quali 64 sono delegati (46 socialdemocratici e 18 comunisti), 10 sono rappresentanti delle circoscrizioni della città e 16 rappresentanti del Consiglio Rivoluzionario di Governo (10 socialdemocratici e 6 comunisti). Questo direttorio nomina un Presidium di 5 membri, 4 socialdemocratici e 1 comunista.

Risulterà chiaro che, nonostante la formale unificazione dei due partiti sulla piattaforma comunista, l’egemonia socialdemocratica su questo organismo non verrà mai meno durante tutta la durata della Repubblica ungherese dei Consigli.

Riprendiamo ancora dalla rivista “L’Internazionale Comunista” del novembre-dicembre 1919, ove si descrive la composizione dei Soviet in Ungheria. «Dopo la proclamazione della Repubblica dei Soviet le masse operaie si allontanarono con disprezzo dai loro vecchi capi social-democratici, che con perfida doppiezza cercavano di aizzare gli elementi operai poco coscienti contro l’avanguardia della classe operaia – contro il Partito comunista in lotta per la liberazione del proletariato.

«È stato facile approfittarsi di questo stato d’animo per escludere una volta per tutte dal movimento operaio i capi social-democratici; sarebbe stato persino superfluo per raggiungere questo scopo ricorrere a una propaganda intensa; dare agli operai la possibilità di eleggere liberamente i loro rappresentanti sarebbe stato ampiamente sufficiente.

«Il Commissariato nazionale all’Interno era perfettamente cosciente della situazione e scelse un sistema elettorale che collocava nelle Commissioni dei candidati il centro di gravità per le elezioni delle masse operaie; i membri di queste Commissioni erano stati delegati dal Commissariato in modo proporzionale, in modo tale che i socialdemocratici ottennero la maggioranza. Gli operai votarono per circoscrizione su liste proprie di ogni circoscrizione: ogni lavoratore ha dovuto votare su una lista composta da 200 a 300 candidati. Ovviamente solo quelli nella lista ufficiale dei candidati, composti dalle Commissioni, sono stati eletti ai Soviet.

«Se tale era lo stato delle cose nella stessa capitale, la situazione era ancora peggiore in provincia. Per dare un’idea approssimativa della composizione dei soviet provinciali è sufficiente sottolineare che all’ultimo congresso dei Soviet la maggior parte dei discorsi pronunciati erano impregnati di spirito controrivoluzionario e antisemita e che fu assolutamente impossibile pubblicarne i processi verbali».

I comunisti si dovettero occupare anche di una diffusa corruzione. Leggiamo Kun (“Alcune considerazioni circa l’utilizzo delle persone in buona fede - Il fine giustifica i mezzi - Che dice la III Internazionale della rivoluzione proletaria d’Ungheria”, Mosca, 23 maggio 1920):

«Nel corso della dittatura degli elementi abbietti e fraudolenti sono certamente ritornati in superficie. In un numero molto consistente, perché l’organizzazione non molto estesa dello Stato proletario abbia potuto eliminarli in un così breve periodo (...) La vita pubblica in Ungheria è stata in ogni epoca un immenso letamaio e non è oggi che una montagna di rifiuti.

«È tuttavia certo che tra gli elementi dirigenti della Repubblica dei Consigli non si sono mai trovate persone corrotte nel vero senso della parola.

«Ma esisteva una corruzione molto più profondamente radicata. Connivenza segreta con la borghesia, protezione dei controrivoluzionari, collaborazione in sordina con i residui delle organizzazioni padronali: ciò era più pericoloso di tutte le macchinazioni di piccoli o grandi ladri.

«Durante tutto il periodo della dittatura, questi infedeli della rivoluzione si sono occupati di intessere protezioni reciproche e hanno covato in seno controrivoluzionari di ogni specie al fine di beneficiare di compensi dopo la caduta della dittatura. «Noi comunisti non abbiamo alcun interesse a nascondere l’esistenza della corruzione durante la dittatura. Abbiamo previsto che ce ne sarebbe stata. Non solamente dopo le esperienze di Russia, dove i comitati eccezionali hanno messo fine con una severità implacabile alla corruzione. Ci vengono anche in mente le parole di Marx: “Certamente la tempesta trasporta anche l’immondizia, che non ha l’odore delle rose in nessuna epoca rivoluzionaria, ogni sorta di sporcizia si attacca a noi. Entweder oder lässt (prendere o lasciare)”. Non c’è stata e non ci sarà rivoluzione che potrà evitarla (...)

«Oltre l’immondizia ereditata dal capitalismo che si manifesta in occasione di tutte le rivoluzioni, la corruzione, durante la dittatura d’Ungheria, aveva anche una causa speciale. In conseguenza dell’applicazione “moderata” della dittatura proletaria, preconizzata dai socialdemocratici, gli elementi della borghesia e soprattutto della piccola borghesia avidi di rapina si infiltrarono in diverse istituzioni sovietiche.

«Qui, al riparo dagli organi di controllo difettosi dell’apparato dello Stato proletario non ancora assestato, questi elementi sabotavano non solamente le ordinanze della dittatura ma, conformemente alla loro appartenenza di classe e alla loro ideologia, si sforzavano di procurarsi i mezzi di un benessere che superava di gran lunga le condizioni di vita delle masse proletarie. Molto spesso ce l’hanno fatta. Sono riusciti a causare dei danni materiali e morali alla Repubblica dei Consigli (...)

«I comunisti possono presentarsi con la coscienza tranquilla davanti al tribunale della III Internazionale, non negano che ci sono stati dei corrotti nei propri ranghi (...) Tuttavia dobbiamo trarre le conseguenze per l’avvenire: essere consapevoli che è necessario interdire seriamente il Partito alle due maggiori fonti di corruzione: la socialdemocrazia e il sottoproletariato».


6.11. - In Austria si ordisce la reazione

La socialdemocrazia austriaca sosteneva apertamente i controrivoluzionari ungheresi, ai quali assicurava diritto di asilo e piena libertà d’azione. Si adoperava inoltre a stornare dalla classe operaia austriaca le simpatie che cominciava a dimostrare verso la rivoluzione ungherese.

A Vienna fin dal 12 aprile si era formato lo Antibolsevista Comitét (ABC, Comitato Antibolscevico). Vi faceva parte un gruppo di vecchi politicanti esuli ungheresi, quasi tutti appartenenti alla vecchia aristocrazia filomonarchica. Il loro maggior esponente era il conte Istavàn Bethlen, che aveva dichiarato di essere disposto a collaborare attivamente all’eliminazione del bolscevismo in Ungheria, acconsentendo anche ad una occupazione alleata di Budapest, purché non dei romeni o dei cechi, e garantendo la formazione di un governo democratico di coalizione aperto pure ai socialdemocratici moderati come Garami. In contropartita chiedeva il ritorno alla situazione territoriale precedente la nota Vyx.

Nel Comitato Antibolscevico erano anche i conti Pál Teleky, Zichy, György Szmrecsány, Tivadar Batthyàny e Màrton Lovàszy, che sin dal tempo di Kàroly avevano cercato di unificare le forze controrivoluzionarie della grande borghesia e della grande proprietà. Questi avevano l’appoggio di una parte degli ufficiali guidati da Gyula Gömbös, che più tardi divenne presidente del consiglio dei ministri. La reazione del’alto clero e i prelati si affrettarono a sostenerli.

Il Comitato, sostenuto dai vertici militari francesi, costituì un governo controrivoluzionario ad Arad, in Romania, e svolse attività illegali in Austria fino ad azioni di guerriglia con un tentativo di infiltrare un gruppo armato al posto di confine di Bruck sulla Leitha.

A Vienna, nella notte del 2 maggio alcuni aristocratici, assieme ad ufficiali bianchi membri del Comitato Antibolscevico, assaltarono la sede della rappresentanza diplomatica della Repubblica ungherese dei Consigli e la svaligiarono. Il console ed alcuni impiegati furono trascinati fuori dai controrivoluzionari e rinchiusi in un convento. La polizia socialdemocratica di Vienna “indagò”: gli ungheresi furono liberati ma il denaro rubato non fu ritrovato né i responsabili dell’attacco mai rintracciati. Nella preparazione della rapina erano coinvolti anche dirigenti socialdemocratici di destra ungheresi, in rapporto con diplomatici stranieri a Budapest.

Fra questi il capitano di corvetta inglese Freeman, che nella prima quindicina di maggio tentò un’azione per rovesciare con la forza la Repubblica dei Consigli. La risoluta sollevazione degli operai impedì la realizzazione del progetto. Si trattò di un piano in grande. Il 5 maggio il centrista Böhm si dimise dal comando dell’Esercito rosso. Poi, per il fallimento della congiura, le dimissioni vennero ritirate.

In Ungheria il Comitato Antibolscevico era stato preceduto dall’Associazione Ungherese di Difesa Nazionale, nata il 30 novembre 1918 come associazione di veterani, presieduta da Gyula Gömbös, ex capitano dell’esercito. Il 22 febbraio 1919 fu messa fuorilegge dal governo Berinkey, insieme al PCd’U. Trasferì la sua sede centrale a Szeged, dove elaborò un programma politico dichiaratamente antisemita e protofascista conosciuto come “Idea di Szeged”, divenendo uno dei nuclei intorno ai quali si formarono le forze armate controrivoluzionarie dell’ammiraglio Horthy.

La grossa borghesia si era data una propria organizzazione, gli Ebredö Magyarok (“Ungheresi ridesti”), già attiva durante il governo Kàroly, al quale rimproverava “una smodata democrazia”. Ne facevano parte la intelligenza, i funzionari fuggiti dai territori occupati dall’Intesa, gli studenti e la piccola borghesia. Ebbe un ruolo di primo piano nella caduta della dittatura e nel regime del terrore bianco di Horty.

In un’intervista accordata al corrispondente del quotidiano viennese “Abend” del 10 maggio Kun aggiunse: «Non è soltanto ad Arad che un governo controrivoluzionario si è costituito; a Vienna, altri tre vi hanno stabilito i loro quartieri. Anche nella borgata di Szatmárneméti c’è un contro-governo. Tutti provengono dalla vecchia aristocrazia feudale; dei piccoli gruppi di magnati della finanza gli si sono uniti. Tutti questi contro-governi non sono soltanto in lotta contro di noi ma anche tra di loro».


6.12. - Mancò la direzione comunista dei sindacati

Riprendiamo l’articolo di Béla Szántó:

«I sindacati ungheresi non capirono il momento psicologico adatto per il passaggio all’offensiva. Essi continuarono a trattare e a concludere concordati di tariffe, che però non era possibile osservare. Si lagnavano del rilassamento della disciplina sindacale, mentre invece si erano mutati il carattere e le condizioni della lotta. La classe lavoratrice conduceva ormai la lotta non più per il prolungamento del tempo di lavoro necessario nella giornata lavorativa, non per la riduzione del plusvalore, ma per la soppressione del plusvalore in generale. Se non i capi dei sindacati, certo gli operai avevano capito che si era arrivati a quello stadio della lotta sindacale su cui si esprime Marx (Salario, prezzo, profitto): “Invece della formula conservatrice ‘Un giusto salario giornaliero per una giusta giornata di lavoro’, essi devono scrivere sulle loro bandiere il motto rivoluzionario: ‘Abolizione del sistema del salario’”.

«Le masse erano pronte per la lotta, diretta all’abolizione del salario; soltanto mancavano i capi dei sindacati, i quali non riuscivano a capire il mutamento intervenuto a suo tempo nella funzionalità dei sindacati, e – come disse Buchinger – “senza alcuna convinzione” avevano accettato il 21 marzo il programma comunista soltanto per non esser messi da parte dalla massa.

«Questa mentalità dei capi sindacali ebbe il suo riflesso anche nel loro contegno durante la dittatura dei Consigli. Essi si limitarono a mantenere in vita gli antichi sindacati e i loro apparati, e anche qui non riuscirono a capire essere ormai i sindacati entrati nel loro terzo stadio, che adempie a funzioni di ricostruzione, in cui essi devono partecipare all’edificazione del socialismo. Non vi erano più lotte di salario; l’assistenza ai disoccupati era diventata cura dello Stato, e solo in parte attuata mediante i sindacati, giacché per lo più vi provvedevano direttamente le stesse fabbriche.

«Naturalmente, neppure durante la dittatura dei Consigli i sindacati cessarono d’avere una funzione loro, anzi acquistarono una parte importante nell’organizzazione e riassetto della produzione.

«Dopo l’instaurazione della dittatura dei Consigli furono socializzate le banche e gli stabilimenti industriali con più di venti operai. Il Commissariato del popolo per la socializzazione, su proposta dei sindacati, collocò alla testa delle aziende socializzate dei Commissari per la produzione, che dovevano, insieme coi Consigli di fabbrica, curare la gestione delle aziende.

«Contemporaneamente alla socializzazione delle aziende fu anche organizzato il Consiglio dell’economia popolare, nel quale furono chiamati a partecipare tutti i Commissariati del popolo a mansioni economiche, e vi si inquadrarono anche i sindacati. Il Consiglio dell’economia popolare doveva provvedere alla direzione degli affari economici della dittatura dei Consigli, alla eliminazione dell’anarchia del sistema economico capitalistico, all’organizzazione socialista della produzione e della ripartizione. Ogni sindacato ebbe una sua mansione nell’organizzare la propria specialità.

«Così i sindacati ottennero il diritto d’invigilare se il sistema di produzione delle singole aziende fosse vantaggioso o no, se singole aziende dovessero chiudersi o essere tenute in esercizio, se dovessero unirsi con altre o ampliarsi.

«La lotta non era più indirizzata all’elevamento dei salari o alla diminuzione delle ore di lavoro, non al prolungamento del tempo di lavoro necessario nella giornata lavorativa, e quindi alla riduzione del plusvalore, e neppure all’eliminazione della possibilità di produrre plusvalore, cioè alla soppressione del salariato; ma i sindacati avevano come unica missione l’edificazione del socialismo. Quei sindacati e quei capi di sindacati che riuscirono a capire questo mutamento funzionale del sindacato diedero opera meritoria durante la dittatura dei Consigli».

Questa sottomissione dei sindacati al Partito e alla rivoluzione fu rifiutata dai dirigenti dei sindacati, i quali risposero che il movimento sindacale era sempre stato la base e sostanza di quello politico e che non potevano abbassarsi al ruolo di organi economici, puramente consultivi.

Di fatto il Partito non riuscì a conquistare la direzione dei sindacati cacciandone i dirigenti socialdemocratici, manovra resa, del resto, impossibile data la coesistenza di questi nel Partito.

Nella Prefazione di László Rudas, a “I documenti della scissione”, continuiamo a leggere:

«I sindacati accoglievano chiunque senza distinzione di classe, fu così che la dittatura proletaria ad un tratto s’accorse che tutti erano proletari, e che come per incanto erano cessate le differenze di classe, col fatto che ogni capitalista aveva in tasca una tessera sindacale, e s’era inquadrato fra i lavoratori.

«Fu durante il Congresso del Partito unificato, del 12 giugno 1919, che i bonzi sindacali, che erano la maggioranza e non potevano essere controbattuti dai comunisti, i quali erano al fronte a combattere, considerarono arrivato il momento di prendere apertamente posizione contro la dittatura del proletariato. Fu allora che Béla Somogyi tentò di mandare a monte il Congresso dei Consigli con un discorso d’ostruzione; al Congresso del Partito invece fu Kunfi a ricoprire il ruolo che più gli si addiceva: questi due, dopo aver in precedenza, in conferenza segreta, deliberato di cospirare con le missioni dell’Intesa, vollero ricondurre la dittatura verso lo Stato borghese, eleggendo una direzione reazionaria.

«Queste macchinazioni, sebbene in un primo momento fallissero, destarono uno sconquasso nelle file dei proletari che combattevano e lavoravano nelle fabbriche, dove iniziò a passare la parola d’ordine del “socialismo nazionale”. Seppure l’Armata Rossa segnasse numerose vittorie ai fronti, in breve, mancando del giusto indirizzo rivoluzionario e sabotato dai socialtraditori, il Governo dei Consigli fu costretto ad ordinare la ritirata!».

Il sabotaggio dei capi sindacali si protrasse fino alla caduta della Repubblica dei Consigli quando lo stesso Payer, capo dell’organizzazione dei metallurgici, i quali avevano dato 14.000 soldati all’esercito rosso, passò all’opposizione. A 48 ore dalla caduta dei Consigli il nuovo governo socialdemocratico, formato in gran parte da dirigenti sindacali, sfrenava il terrore bianco.


6.13. - L’Armata Rossa

Subito dopo la proclamazione della Repubblica dei Consigli, il 23 marzo venne emanato l’ordine del Consiglio Governativo per l’organizzazione dell’Esercito rosso. Erano da impiantare delle forze armate organizzate solide e atte al combattimento in difesa della Repubblica dei Consigli. Tibor Szamuely, sostituto del Commissario del popolo per le forze armate, in uno dei suoi ordini del giorno apparso su “Il Soldato Rosso“ del 30 marzo, giornale del Commissariato del popolo per l’esercito, chiamava alla guerra rivoluzionaria:

«Il proletariato può solo liberarsi e gli operai possono avere fiducia solo nella loro forza. Ma il segreto della forza è nella fiducia del proletariato in sé stesso, nella sua coscienza rivoluzionaria. È questa coscienza che deve fornire le fondamenta della disciplina rivoluzionaria del proletariato, sulla quale dobbiamo edificare e sulla quale edificheremo la nuova armata rivoluzionaria del proletariato.

«Sono gli interessi del proletariato internazionale che chiama sotto le nostre bandiere tutti i lavoratori d’Ungheria. Il nodo di tutto è nell’Armata Rossa. È adesso che si recluta questa avanguardia occidentale della sacra lotta, della lotta di liberazione di tutti gli oppressi e di tutti gli sfruttati del mondo. Che la coscienza rivoluzionaria si immerga nei cuori e nelle braccia di tutti i soldati! Ci sono solo due strade possibili davanti a questa armata: Vincere o morire!

«In questa lotta noi non possiamo perdere che le nostre catene, e possiamo guadagnare tutto un mondo (...) La ricompensa dello sviluppo rivoluzionario sarà la liberazione del proletariato mondiale! Soldati Rossi, avanti».

Il reclutamento era previsto solo tra i proletari, su parere favorevole dei fiduciari militari, o del Partito, dei sindacati o dei Consigli degli operai e dei contadini. Al suo interno furono mantenuti i gradi gerarchici, per identificare gli incarichi. I comandanti di divisione e superiori erano nominati dai Commissari del popolo per la difesa nazionale, gli altri erano eletti dalla truppa. Fu imposto un Servizio d’Informazione con il compito di collegamento tra il Consiglio Rivoluzionario di Governo, il Partito unificato, lo Stato Maggiore dell’Armata Rossa, il comando del fronte e il centro interurbano.

Vennero eletti Commissari del popolo alla difesa, addetti alla sezione organizzazione truppe, Ferenc Münnich, Ottó Steinbrück e altri, fidati comunisti con esperienza acquisita nella rivoluzione russa. Con una rapidità eccezionale, dopo cinque settimane dalla proclamazione della Repubblica dei Consigli il Governo poteva passare in rassegna sul viale Andrássy i battaglioni armati degli operai delle fabbriche di Budapest. «Anziché le truppe dei saccheggi e delle ritirate qui abbiamo davanti il cosciente, entusiasta e disciplinato proletariato industriale» (Béla Kun).

In realtà la mobilitazione presentò numerose difficoltà. Attingiamo ancora alla rivista “L’Internazionale Comunista” del novembre-dicembre 1919.

«Il governo sovietico ungherese non riuscì a creare un vera Armata Rossa perché gli fu impossibile smobilitare l’Armata di Volontari del vecchio governo borghese. Questa era stata formata con molto clamore patriottico e nazionalista. La smobilitazione era impossibile, essendo l’Ungheria Sovietica circondata da tutte le parti da nemici armati, pronti a invaderla in ogni momento. Ciascuno dei suoi nemici – Iugoslavia, Cecoslovacchia e Romania – disponevano di forze superiori a quelle dell’Ungheria. Non restava quindi che rinominare “Armata Rossa“ l’esercito nazionale esistente. Se poi si aggiunge che la lotta contro i romeni e i cecoslovacchi doveva di per sé avere un carattere nazionalista, avremmo una idea sufficientemente precisa dello stato d’animo dell’esercito dei Soviet Ungheresi.

«È vero che immediatamente dopo la proclamazione della Repubblica dei Soviet fu intrapresa una mobilitazione di soldati rossi, ma senza alcuna selezione. Le istruzioni scritte indicavano che solo gli operai muniti di certificati sindacali professionali o di raccomandazioni del partito potevano entrare nell’Armata Rossa, ma nella pratica questa regola non fu mai osservata (...)

«Allora si prese la decisione di mobilitare gli operai, ma anche questa volta le cose non passarono grazie ai socialdemocratici. Temendo di perdere la loro influenza sugli operai mobilitati, applicarono il sistema dei battaglioni operai, organizzati dai sindacati professionali e di officina. Questi battaglioni riflettevano dunque tutti i lati negativi dei sindacati professionali da cui provenivano: non ci si poteva aspettare né slancio rivoluzionario né abnegazione eroica. I sindacati professionali ungheresi non si erano mai distinti per spirito rivoluzionario, ma dopo la rivoluzione di novembre, quando li invasero elementi piccolo-borghesi, se ne persero anche le tracce».

Nella giovane Armata Rossa si manifestò subito la contrapposizione tra il Commissario alla guerra Pogány, proveniente dal PSDU, e il vice commissario Szamuely, comunista, divisi sulla legittimità della violenza rivoluzionaria. Alcune unità dell’Armata Rossa e diversi membri del Consiglio operaio di Budapest il 3 aprile manifestarono contro Pogány, invasero gli uffici del Commissariato minacciando di linciarlo e lo costrinsero alle dimissioni. I socialdemocratici chiesero la testa di Szamuely, proponendo di inviarlo come ambasciatore a Mosca. La mediazione fu l’assunzione ad interim da parte di Kun e Böhm del Commissariato alla guerra e lo spostamento di Szamuely al Commissariato all’istruzione. Questa crisi portò un cambiamento importante: i vice commissari assunsero le stesse funzioni dei commissari, dando origine ad una gestione collegiale dei Commissariati formata da due o tre membri.

Quasi contemporaneamente all’Esercito rosso, il 26 marzo, fu organizzata anche la Guardia rossa, costituita da operai e da ex soldati, allo scopo di assicurare l’ordine proletario interno. I nomi dei candidati furono pubblicati otto giorni prima dell’entrata in servizio, in modo che la popolazione potesse denunciare il passato o la non lealtà politica del candidato. In realtà, sotto la direzione del socialdemocratico Haubrich, annoverò tra le sue file molti poliziotti e funzionari del vecchio regime.


6.14.- Dibattiti - troppo tardivi - nel Partito

Sempre al Congresso nazionale del Partito di inizio giugno, diviso nelle sue due anime, si impone la discussione sulle questioni della tattica.

Inizia una contrapposizione già sul nome del Partito: i socialdemocratici vorrebbero mantenere il nome di Socialista, i comunisti sono per Partito Comunista d’Ungheria, alla fine – a significare la non risolta questione – si ripiega su Partito degli Operai Socialisti-Comunisti d’Ungheria.

È ancora Kun a prendere la parola per rimarcare il programma di azione rivoluzionaria che il Partito deve attuare senza esitazione, in polemica con Kunfi, che rivendicava un atteggiamento più conciliante riguardo alla borghesia.

Ma ormai era tardi. Al momento dell’azione il Partito deve aver già chiaro al suo interno quello che è e quello che deve fare, e come. Lo Stato è una macchina che può essere guidata da una mano sola. E quella mano deve essere informata ad un solo fine, a una sola dottrina, a un solo metodo.

«Cari compagni, l’unità non è solamente una questione di unità di programma e non solamente una questione d’unità nelle forme. L’unità non si trova che nell’unità dell’azione rivoluzionaria (...)

«L’azione rivoluzionaria, ecco cosa ha creato l’unità in questo Partito; un’azione rivoluzionaria risoluta che non guarda indietro, che non cerca delle vie di ritorno a ritroso, ma che guarda in avanti e che tende con tutte le sue forze alla liberazione del proletariato, all’instaurazione del socialismo, primo stadio del comunismo, il comunismo propriamente detto.

«È del tutto naturale che ci possono essere delle opinioni divergenti riguardo all’uso dei metodi della dittatura; ma se qualcuno cerca di privare la dittatura del criterio dei suoi metodi, non si tratta più di divergenze sui metodi della dittatura. La dittatura è un’oppressione, un’oppressione incontestabile che esiste durante il necessario periodo della transizione. Se sostenendo parole d’ordine umanitarie qualcuno vuole sopprimere questa oppressione, allora non si tratta più di divergenze sui metodi della dittatura, ma di un attacco contro la dittatura stessa».

Infatti i socialdemocratici di destra e di centro, sempre sull’altro fronte, si adoperavano ad invalidare ogni ordinanza rivoluzionaria ricorrendo all’alibi di un sedicente “umanesimo proletario”, scontrandosi con i comunisti e con i pochi socialdemocratici di sinistra.

«Adesso devo rimproverare qualche cosa al compagno Kunfi; è nei fatti che abbiamo spesso e inutilmente puntato ai piedi, e questo è tanto più inutile perché se c’è qualche cosa cui puntare è piuttosto alla gola che ai piedi del nemico (Evviva entusiastiche e applausi). Io, contrariamente al compagno Kunfi, non conosco morale comune a tutte le classi, di umanità comune a tutte le classi. Il capitalismo possiede la sua propria morale di classe cui dobbiamo opporre la morale di classe propria del proletariato. Anche se il compagno Kunfi chiama questa considerazione machiavellismo, non conosco che questa morale che corrisponda agli interessi di classe del proletariato.

«C’è ancora una cosa che vorrei evidenziare dall’intervento del compagno Kunfi. Ha detto che abbiamo scimmiottato la rivoluzione proletaria russa. Protesto contro questa accusa (...) Prima di procedere alla fusione dei due partiti quest’argomento era stato spesso sollevato e anche allora avevo sempre sottolineato che non dovevamo prendere lo stesso punto di partenza della Rivoluzione proletaria russa, ma che occorreva mettere a profitto tutti i risultati ideologici e pratici dai metodi della Rivoluzione proletaria russa: e grosso modo, comunque li abbiamo messi a profitto.

«Questa è la ragione per la quale, nello spazio di due mesi e mezzo, abbiamo, dal punto di vista dell’organizzazione, ottenuto maggiori risultati che la Rivoluzione russa in un anno. Sottolineo nuovamente che non si può saltare nessun grado dello sviluppo, si può solamente abbreviarne le fasi. I mali di cui hanno parlato molti compagni, la disorganizzazione per esempio, la mancanza di organizzazione sono inevitabili nella attuale fase in divenire. Ma giustamente, proprio perché conosciamo le esperienze della Rivoluzione proletaria russa, possiamo fare coraggiosamente fronte a questi mali. Possiamo criticare noi stessi la rivoluzione proletaria ed estirperemo anche questi mali in breve tempo».

Kun passa poi a rintuzzare il trito argomento che la dittatura coarta la “vita intellettuale”: «Non è alla dittatura e neanche all’impiego dei metodi fin qui applicati e alle forme stesse della dittatura che si può imputare il sonno della vita intellettuale, il fatto è che in questo paese lo spirito non produce nulla Si, ma la vita intellettuale che è in declino è quella vita intellettuale avvelenata dagli spiriti al servizio della borghesia, che sono parte dei mezzi di coercizione al servizio dello Stato borghese, quelle che si definivano le belle lettere borghesi (Approvazioni ed applausi) (...) La vita intellettuale finirà per trovare la sua propria fioritura. È indubitabile che non avrà niente in comune con la letteratura di “M” [“Oggi”, rivista di arti e letteratura, NdR] che è un prodotto della decadenza borghese (...) Non è il vecchio terreno che può far fiorire delle opere valorose e durevoli dal punto di vista del proletariato».










7. - L’imperialismo muove all’attacco

Il generale Smuts, delegato dell’Intesa, il 4 aprile 1919, propose di stabilire una nuova linea di demarcazione e una zona neutra a oriente della Tisza. Il governo della Repubblica dei Consigli non accettò e fece la contro-proposta di convocare una conferenza dei rappresentanti di Austria, Cecoslovacchia, Iugoslavia, Romania e della Repubblica Ungherese dei Consigli per determinare le nuove frontiere politiche. Tale proposta non fu nemmeno presa in considerazione, come vedremo più avanti.


7.1. - Appello alla difesa della Repubblica

Il 19 aprile, alla riunione del Consiglio Centrale Rivoluzionario degli operai e dei soldati di Budapest, Kun deve mettere al corrente di queste gravi minacce che incombono sulla rivoluzione:

«Senza alcun abbellimento vi dirò dunque tutto quello che sappiamo della situazione militare e della politica estera attuale, e tutto ciò che possiamo dedurre dalle informazioni e dagli indizi. Nella Repubblica Ungherese dei Consigli due correnti mondiali stanno per scontrarsi: quella del capitalismo imperialista e quella del socialismo bolscevico. Noi siamo nel mezzo di questo scontro.

«Compagni, siete al corrente dello scambio di opinioni che c’è stato tra noi ed il generale Smuts, venuto presso di noi col mandato dell’Intesa. Noi non aderiamo alla dottrina dell’integrità territoriale, ma vogliamo vivere, e per questa ragione non abbiamo accettato di arretrare la linea di demarcazione. Non abbiamo voluto rigettare sotto il giogo del capitalismo i nostri fratelli proletari liberati nella regione della zona neutra. Questo avrebbe significato, di fatto, la privazione per il proletariato di Ungheria dei mezzi fisici per vivere. Adesso i boiardi della Romania hanno sferrato l’offensiva. Questo argomento mette in evidenza la lotta di classe internazionale, la lotta tra la rivoluzione internazionale e la controrivoluzione internazionale.

«Giudicando la situazione con buon senso e sangue freddo, sappiamo quale sarà lo sviluppo degli eventi. Quando abbiamo instaurato la dittatura del proletariato in Ungheria non abbiamo certamente creduto d’essere capaci militarmente, in una guerra vera, di misurarci con le truppe dell’Intesa. Non pensavamo che, con le sei divisioni che l’armistizio concedeva alla Repubblica dei Consigli di mantenere sotto le armi, avremmo potuto fermare le offensive minacciose incombenti da tutti i lati.

«Abbiamo sottolineato e sottolineiamo che la sorte della Repubblica Ungherese dei Consigli l’abbiamo fondata sulla rivoluzione proletaria internazionale (voci: Bene!). L’offensiva romena è stata lanciata. Le nostre truppe sono esauste per i combattimenti interni, e inoltre sono inesperte. Sappiamo molto bene che non si può organizzare in anticipo un’armata, che non si può creare in anticipo e dall’esterno una nuova disciplina rivoluzionaria; un esercito, un esercito proletario rivoluzionario, un’armata di classe, una disciplina proletaria rivoluzionaria non possono nascere e svilupparsi che combattendo la controrivoluzione (Vive approvazioni e applausi).

«Stando alle ultime notizie l’offensiva romena avanza con successo, e Szatmárnémeti è caduta. Lì è stata ristabilita la dittatura della borghesia, lì è cessato il potere proletario e simultaneamente è stata ristabilita la proprietà privata, o più esattamente l’anarchia della proprietà privata. Adesso, le truppe romene si trovano nei pressi di Nagyvárad e molto presto in questa città l’ordine sfruttatore del capitalismo sarà ristabilito. Una parte, una piccola parte delle nostre truppe ha resistito con molti sacrifici; hanno lottato fino all’ultima goccia di sangue; l’altra parte delle nostre truppe ha abbandonato le posizioni e le loro unità si sono disgregate.

«Debrecen è una città che ci consola, a Debrecen, il proletariato armato non soltanto non ha ceduto le armi, ma tiene il potere più saldamente che mai. Dalle parti di Békéscsaba la situazione militare è ugualmente negativa. Una parte delle nostre truppe si è sbandata, l’altra al contrario resiste. Dappertutto i romeni attaccano con degli effettivi superiori disponendo di un armamento e un equipaggiamento migliori di quelli del giovane esercito del giovane Stato proletario. Per il momento sugli altri fronti non si segnalano offensive. L’Intesa vuol farci subire la sorte della Comune di Parigi (Non glielo consentiremo!). Il fronte ceco non si è ancora mosso, così come il fronte meridionale, ma non saprei dire se in questo stesso istante l’offensiva non si sia scatenata. È possibile di no, ma è anche possibile di si. E se non è oggi può esserlo domani.

«Non voglio che nessuno si disperi, ma devo dire che la situazione è tanto grave quanto l’armamento e l’equipaggiamento; la ragione è che abbiamo ereditato del materiale in cattivo stato e che il poco tempo a disposizione non ci ha consentito di migliorarlo. Certi ambienti ci hanno fatto sapere che nel caso il proletariato rinunciasse al suo potere, o quanto meno rimandasse l’instaurazione del socialismo, l’offensiva dell’Intesa non avrebbe luogo. Se non vogliamo il sistema della proprietà privata, se non vogliamo il ritorno del capitalismo, ma se, compagni, vogliamo il mantenimento della dittatura del proletariato, se vogliamo che in questo paese non regni la borghesia ma il proletariato, allora bisogna agire, bisogna subito fare il conto delle forze di cui disponiamo per opporle alle forze imperialiste nemiche.

«Bisogna prima di tutto contare su noi stessi; perché, è vero che la rivoluzione internazionale è dalla nostra parte, resta comunque necessario l’utilizzo di tutte le nostre forze fino al momento in cui riceveremo il soccorso attivo della rivoluzione proletaria internazionale. Il nostro primo dovere consiste nell’inviare al fronte tutti quelli di cui qui a Budapest possiamo fare a meno, tutti quelli che non sono indispensabili nell’amministrazione centrale, tutti i proletari e tutti i rappresentanti del proletariato!

«È adesso che abbiamo bisogno d’essere uniti. Qui, in questo momento, tutti i punti di vista meschini devono tacere, qui, in questo istante, abbiamo bisogno di una unità di ferro tale che niente al mondo la possa disgregare (Molto giusto!). Che quelli che partono al fronte siano certi che qui la direzione centrale della dittatura è in buone mani; e quelli che rimarranno qui al loro posto, potranno essere sicuri che laggiù, sui diversi fronti, la sorte della rivoluzione è affidata in buone mani (Molto giusto! Bravo!). E se così sarà, compagni, se il proletariato, il proletariato di Budapest – di cui voi siete i delegati, i rappresentanti – lungi dall’essere caduto in letargo, ma al contrario sa manifestare abnegazione fino all’estremo limite, allora siamo salvi, la rivoluzione proletaria è salva e il tempo che ci sarà dato ci consentirà d’attendere la rivoluzione proletaria internazionale.

«E se dovremo cadere, ebbene, cadiamo in modo che la rivoluzione proletaria internazionale ne tragga vantaggio. Non ho mai avuto l’abitudine di considerare le cose solo dal punto di vista del proletariato d’Ungheria. Non le ho neanche considerate dal punto di vista del proletariato d’un solo paese, prima dell’avvento del potere proletario qui in Ungheria, e non lo faccio neppure adesso. Non esiste che un solo punto di vista, quello della rivoluzione proletaria internazionale (Molto bene!).

«Anche qualora si giungesse dopo un certo tempo alla nostra capitolazione, faremo resuscitare nuovamente la rivoluzione proletaria internazionale (vivi applausi prolungati). I proletari di tutti i paesi sono in effervescenza. A Vienna, il proletariato in armi lotta per la dittatura. Le truppe della Repubblica sovietica russa hanno infranto le frontiere della Galizia orientale, una parte delle quali avanza già verso Tschernowitz; tuttavia il soccorso è ancora lontano. Da qui a che i proletari dei paesi vicini vengano attivamente in nostro soccorso, bisogna appoggiarci sulle nostre forze, sulle forze rivoluzionarie del proletariato d’Ungheria (Molto giusto!). Il vostro compito è stimolare queste forze rivoluzionarie. Avete la missione di organizzare, impiegare e di mettere a profitto queste forze rivoluzionarie».


7.2. - L’offensiva dei cechi e dei romeni

Alla fine di aprile ebbe inizio l’offensiva delle truppe romeno-boiarde. Si mossero anche le truppe controrivoluzionarie ceche, due divisioni al comando del generale italiano Piccione. Parigi dava le disposizioni. L’esercito reale romeno si era portato sulla linea del Tibisco, le truppe ceche avevano attraversato il Sajò e minacciavano Miskolc. Intanto a Szolnok, nell’Ungheria centrale, i controrivoluzionari uscivano dai loro nascondigli. A dar man forte vi erano anche tre divisioni serbe e tre francesi a sud e sud-ovest, altre due francesi a nord-ovest. Era in totale una forza d’urto di almeno 17 divisioni, pronte ad agire per spazzar via la Repubblica dei Consigli.

Il 23 aprile alla rassegna dei battaglioni operai delle officine così parlava Kun:

«Ecco 16.000 operai armati, le armi sono esclusivamente nelle mani dei proletari, ed è questa la dittatura rivoluzionaria del proletariato (...) Ricordatevi per quali sofferenze, persecuzioni, miserie e per quali martirii siamo passati durante il capitalismo per arrivare a questo punto. Pensate all’epoca quando eravamo disarmati davanti alle sciabole dei poliziotti e alle baionette dei gendarmi: adesso le armi sono nelle nostre mani. È questa la dittatura rivoluzionaria del proletariato, la Repubblica dei Consigli (...) Non siamo soli, anche in altri paesi il proletariato prende le armi per fare la propria rivoluzione, per instaurare la sua dittatura, per fondare la III Internazionale che non sarà altro che la Repubblica Internazionale dei Consigli».

Ma il giovane esercito rosso, in massima parte composto da operai, ancora privo di esperienza e a causa del tradimento della maggior parte degli ufficiali, non riuscì ad arginare l’offensiva romena, che in meno di due settimane occupò la zona più fertile del paese. Da nord i cechi avanzavano fino a Salgó-Tarján, dove era una delle più importanti miniere di carbone dell’Ungheria, ad appena 70/80 chilometri da Budapest.

Kun si vide costretto ad inviare a Wilson, ai governi romeno, ceco e iugoslavo proposte di pace che chiedevano l’immediata cessazione delle ostilità, la non ingerenza negli affari interni dell’Ungheria, il rispetto e la difesa dei diritti delle minoranze nazionali ungheresi; di restare oltre la linea di demarcazione.

Dal fronte iugoslavo il diciannovenne Sándor Márai, corrispondente della Magyarország, nell’aprile si reca a Bácska e così descrive gli avvenimenti: «Il governo [comunista] lì ha riportato il massimo ordine (...) Il tribunale rivoluzionario funziona a pieno ritmo. I consigli dei contadini e degli operai organizzano con la massima competenza e sensibilità i villaggi secondo le esigenze dei Soviet. E cercano di riportare la pace, interpretando un sentimento che appartiene ai proletari di tutto il mondo. I soldati infatti bramano la tregua, serbi e ungheresi non vogliono più essere nemici, appendono fazzoletti bianchi sulle baionette. Sono contadini, e anche se usano lingue e uniformi diverse, nei gesti, nella nostalgia dei loro campi, nel calmo fumare della pipa, sono uguali. Se la violenza rigurgita è colpa dei padroni. Un giorno, per esempio, una pattuglia di ungheresi invita i commilitoni serbi a sbevacchiare vino in un’atmosfera di concorde allegrezza. D’improvviso irrompe un ufficiale di Belgrado che esplode una raffica di mitra uccidendo due ungheresi. Ecco la dimostrazione: sono le élite a perpetrare l’odio, nel timore che gli ungheresi spargano il pernicioso seme della dittatura del proletariato, perché la truppa rivoluzionaria passa volantini ai fratelli serbi e questi li leggono attentamente, li tengono dentro le giubbe, sopra le camicie. Non si può impedire con il rigore militare e con la frusta che l’ideale dei Soviet si diffonda nel mondo».
 


7.3. - La rivoluzione non disarma

Malgrado tutte le difficoltà, al fronte e nelle retrovie, il proletariato volle festeggiare il Primo Maggio. A Budapest si lavorava attivamente ai preparativi e il giorno della sfilata tutta la città era per strada. Ricorda Iren Gal che «parteciparono al corteo oltre in centomila, vi erano anche socialisti e comunisti da altri paesi: austriaci, polacchi, cechi, slovacchi, francesi, romeni e italiani. Sulla bandiera di questi ultimi c’era scritto “Frazione Comunista Italiana”; vennero i compagni russi, i serbi e i croati, fu un Primo Maggio veramente internazionale. Alla sera scesi sul lungo Danubio. Sulla Cittadella cominciarono i fuochi artificiali. Le finestre del Castello splendevano di luce rossa e fuochi rossi ondeggiavano sul Danubio. Vicino e lontano si udivano le note dell’inno della rivoluzione proletaria, l’Internazionale!».

Ma le notizie dal fronte erano allarmanti. Sul fronte interno, con le macchinazioni dei socialdemocratici, e già vi era chi voleva far dimettere il governo dei Consigli.

Il 2 maggio si tenne la prima seduta del Consiglio Governativo rivoluzionario. Béla Kun parlò con sincerità spietata, come aveva imparato da Lenin:

«L’esercito rosso ha consegnato Szolnok senza lotta. I cechi puntano su Miskolc. Non c’è una vera forza militare. Il valore combattivo delle truppe è nullo. Il quartier generale si trova a Gödöllö. Böhm ha sospeso tutte le operazioni militari (...) ha chiesto la tregua a tutti e tre i paesi nemici».

Kun informa che nel corso della notte il Consiglio di Governo si era riunito d’urgenza, che gli era stato chiesto di dimettersi e di consegnare il potere a un direttorio di dodici membri. Secondo altri invece avrebbero dovuto richiamare i battaglioni operai, comunicare loro che la situazione era catastrofica e avvisarli che se non avessero combattuto fino all’ultimo uomo la situazione era disperata e Budapest sarebbe caduta.

Kunfi propose le dimissioni del Governo dei Consigli; anche Weltner pretendeva che il potere passasse a un direttorio, il quale avrebbe dovuto assumersi il compito di esercitare la dittatura. Szamuely chiese loro: «se si deve continuare ad esercitare la dittatura del proletariato, perché si dovrebbe dimettere il Governo dei Consigli, il quale, appunto, non fa altro che esercitare la dittatura del proletariato?».

Béla Szántó definì la consegna del potere una vigliaccata e un atto di abbandono nei confronti della classe operaia. Jenö Landler dichiarò che i socialdemocratici di sinistra si erano schierati con sincera convinzione per la dittatura del proletariato: senza la dittatura del proletariato sarebbe stato impossibile realizzare il socialismo. Il Consiglio Governativo rivoluzionario doveva restare al suo posto, nell’interesse della classe operaia e del proletariato di tutto il mondo.

Fu così che il Governo dei Consigli convocò per le sette di sera il Consiglio operaio centrale di Budapest, per discutere se continuare nella resistenza o se arrendersi all’Intesa, soluzione alla quale molti socialdemocratici già tendevano. Oltre seicento delegati, sentite le argomentazioni di Kun e resisi conto che si poteva trattare solamente o di vittoria completa o di sconfitta completa, decisero di resistere.

Riportiamo alcuni passi del discorso di Kun:

«Compagni! Le truppe dell’imperialismo francese e romeno stanno marciando contro la Budapest proletaria. Le nostre truppe [del precedente esercito nazionale] sono in ritirata, fuggono vigliaccamente, sono orde completamente sbandate che si daranno al saccheggio (...) Questo è grosso modo il quadro, compagni (...) Szolnok si trova probabilmente già nelle mani dei romeni (...) Le nostre truppe fuggono dall’ala meridionale e trascinano con sé anche coloro i quali, sotto il comando del compagno Seidler, hanno responsabilmente resistito. La prima e quinta divisione, dalla parte del nord Tibisco, tornano ubriache verso Budapest (...) Ci sono ancora qua e là dei gruppi che, guidati dall’istinto proletario, provano a fare qualcosa (...)

«Qui a Budapest ci sono i battaglioni operai delle fabbriche (...) Nelle caserme c’è l’equipaggiamento completo per quindici battaglioni (...) Dobbiamo consegnare Budapest, oppure lottiamo per Budapest? (grida fortissime: Combattiamo!) (...) Vi sono due concezioni. La prima è proporre le dimissioni provvisorie della dittatura, l’altra è lottare fino all’ultima goccia di sangue (grida: Così, così!).

«Lottiamo fino a che dell’Ungheria sovietica resta un solo palmo di terra (applausi entusiastici) (...) Non è permesso abbandonare il potere, non è possibile. L’abbandono del potere sarebbe un’infamia. (...) Finché ne abbiamo i mezzi bisogna lottare con tutte le nostre forze per il mantenimento della dittatura del proletariato. Bisogna lottare fino all’ultima cartuccia (...)

«Il Consiglio Governativo rivoluzionario, vedendo che non c’è alcun modo di esprimere una resistenza militare efficace, ha cercato in ogni modo di ottenere la pace, del genere di quella di Brest-Litovsk, ha tentato e tenta di salvare un territorio dove la nostra causa potrebbe radicarsi di fronte al capitalismo, non solo per abbattere il mondo capitalista qui in Ungheria, ma può essere il punto di partenza per il proseguimento in occidente della rivoluzione proletaria internazionale.

«Non lo abbiamo fatto volentieri di inviare dispacci urgenti ai governi borghesi dei paesi che si trovano intorno a noi, a Wilson, alla conferenza di pace di Parigi. Non posso prevedere niente di buono. Se l’Intesa ci vuole calpestare, come è probabilmente sua intenzione, qui può farlo più comodamente che in Russia. Ma può anche accadere che riusciremo ad ottenere una pace effettiva, che l’imperialismo sia debole, e ciò significherebbe quello che abbiamo spesso sottolineato seguendo l’insegnamento di Lenin, cioè che possiamo un po’ respirare. Senza questo, senza la pace, non c’è possibilità di creare il socialismo, senza la pace non è possibile il lavoro di costruzione del comunismo.

«Budapest deve essere difesa a ogni costo, perché bisogna difendere il movimento operaio d’Ungheria, questa sezione veramente gloriosa della rivoluzione proletaria internazionale. Il problema è quindi nelle mani del Consiglio operaio di Budapest. Qual è la sua opinione su ciò? Budapest, come può difendere l’Ungheria dei Consigli?».

Gli operai, e non solo i comunisti, si alzarono a parlare in questi accenti: «Fuori dalle fabbriche! Abbasso i sindacati!» – «Il Commissariato del popolo alla guerra metta subito a disposizione dei Consigli operai territoriali l’equipaggiamento adatto, e chiunque sia abile ad impugnare un’arma vada immediatamente in caserma» – «La rivoluzione non ha né l’abitudine né la possibilità di stare a soppesare se qualcosa è sicuro o no: la rivoluzione non è un istituto di assicurazione (...) Abbiamo imparato dalla Comune di Parigi» – «Difendiamo la Repubblica ungherese dei Consigli e la rivoluzione mondiale del proletariato» – «Dichiaro a nome delle mie compagne che, se gli uomini non difenderanno la dittatura del proletariato, dovranno avere a che fare con le loro mogli (...) Anche noi abbiamo la nostra forza di volontà e forti braccia» – «Gli operai delle fabbriche indispensabili lavorino, gli altri partano e difendano il proletariato».

Béla Kun concluse: «Abbiamo viveri, abbiamo le armi (...) Non solo si può difendere l’Ungheria sovietica, ma si può anche assicurare per essa la possibilità di una pace onorevole (...) Il Consiglio Governativo organizza lo spiegamento della più energica resistenza su tutti i fronti. Tutti gli operai di Budapest sono inviati al fronte».


7.4. - La controffensiva rossa

In pochi giorni gli operai delle fabbriche organizzarono un esercito di quasi centomila uomini. Da Vienna era arrivato, ad aprile, un battaglione austriaco di circa mille soldati, al comando di Leo Rothziegel, che partì subito per difendere Debrecen.

L’avanzata dei romeni venne fermata al Tibisco. Dopo appena dieci giorni cominciò la controffensiva sul fronte ceco, con la vittoria completa del nuovo esercito operaio. L’Armata Rossa avanzò rapidamente su tutto il fronte minacciando l’intera Slovacchia. L’esito dell’offensiva era dovuto anche all’indisciplina dell’esercito ceco, per la stanchezza della guerra ma anche grazie alla riuscita propaganda comunista, al di sopra della linea di demarcazione.

La liberazione dei territori slovacchi portò alla proclamazione della Repubblica slovacca dei Consigli a Eperjes (Prešov). Ne era presidente il comunista Antonín Janoušek, proveniente, come la maggior parte dei venti commissari del popolo nominati, dalle file della sezione slovacca del partito socialista-comunista ungherese. La politica seguita fu la stessa di quella attuata a Budapest. In particolare riguardo alle minoranze nazionali: si pubblicava in lingua slovacca l’organo ufficiale della nuova repubblica, il Cervené Noviny (“Gazzetta rossa”), e in ungherese il Kassai Vòròs Ùjsàg (“Gazzetta rossa di Kassa”) e il Kassai Munkàs (“L’operaio di Kassa”).

Kun si rivolse al proletariato di Kassa un paio di giorni dopo la presa della città:

«L’Armata Rossa non è venuta qui per portare una nuova oppressione, come è avvenuto con l’esercito degli imperialisti cechi, ma per liberare i lavoratori, a qualunque gruppo etnico appartengano. A noi non importa sapere che lingua parli questo o quell’operaio, nostro fratello proletario. Noi non conosciamo che un solo nemico: la borghesia, qualunque lingua parli (...) È nella pace che, sul territorio della Repubblica dei Consigli, realizzeremo la nostra parola d’ordine: Proletari di tutti i paesi unitevi! (...)

«Sul suolo slovacco liberato dall’imperialismo viene oggi proclamata la repubblica dei Consigli indipendente. Il primo atto naturale e istintivo del proletariato liberato dal giogo del nazionalismo ceco è stato quello di realizzare il diritto all’autodecisione, che a parole era stato tanto glorificato dagli oppressori, ma che nei fatti era stato da questi perfidamente irriso».

In Slovacchia venne però a mancare l’appoggio delle masse contadine, in seguito alla politica di socializzazione delle terre e alla requisizione forzata dei prodotti agricoli. Come nelle campagne ungheresi i contadini si rifiutarono di accettare la nuova moneta ungherese e si opposero, in maniera più o meno attiva, a quella che veniva ritenuta una indebita spoliazione delle loro risorse in favore degli abitanti dei centri urbani e delle truppe al fronte.

Ma gli operai delle fabbriche e delle miniere, di Pest e della provincia, andarono al fronte assieme ai figli dei contadini poveri. Le retrovie di questo coraggioso esercito rosso il 10 maggio vennero ispezionate da Kun, Böhm, comandante generale dell’armata, Jenö Landler e József Pogány. Kun disse:

«Al posto di soldati in fuga e che saccheggiano gli elementi proletari e semi proletari delle campagne hanno adesso davanti lo spettacolo dei proletari delle officine, coscienti, entusiasti e disciplinati che, sotto tutti gli aspetti, sono capaci di educare e di dirigere i proletari della terra. Come in alcuni luoghi il comportamento trasandato e saccheggiatore delle unità in ritirata aveva suscitato della diffidenza, del panico e talvolta delle reazioni controrivoluzionarie, al contrario l’arrivo di queste truppe operaie ha rafforzato i legami d’alleanza fraterna tra proletari delle città e delle campagne. Il loro comportamento calmo e serio, il loro lavoro d’agitazione contribuirono in tutto il paese ad affermare la dittatura del proletariato. In questi battaglioni, durante il tempo libero che segue le esercitazioni, tutti gli operai sono degli agitatori (...)

«È caratteristico che il numero di coloro che domandano dei giornali e degli opuscoli del Partito è incomparabilmente più grande del numero di coloro che domandano del vino e altri articoli di consumo».

Nell’Armata Rossa ungherese vi erano internazionalisti russi, polacchi, austriaci, italiani (circa trecento), iugoslavi, bulgari, romeni e slovacchi, sull’esempio degli internazionalisti che avevano combattuto nelle file dell’esercito popolare russo e, 50 anni prima, nella Comune di Parigi. Uno dei reparti più combattivi dell’esercito rosso ungherese fu la 80ª brigata internazionale. Molti combattenti caddero nella difesa del fronte del Tibisco e nella campagna del Nord. Furono gli internazionalisti ad andare per primi all’attacco per la liberazione di Losonc (Lučenec in slovacco).

Mentre a nord-est nel breve volgere di un paio di giorni l’Armata Rossa riusciva a risalire vittoriosamente il corso del fiume Hernád, riconquistando Szikszó, Szerencs, Edelény e aprendosi rapidamente la strada verso Kassa (Košice), contemporaneamente a nord-ovest la 1ª brigata, sostenuta dalla 3ª divisione, sferrava l’attacco attraversando il Danubio a Esztergom, conquistando Léva (Levice in slovacco) e Érsekújvár (Nové Zámky) e facendo sperare in un’avanzata ulteriore fino a Pozsony (Bratislava).

Il 3 giugno l’Armata Rossa, che contava circa 35.000 uomini, era riuscita a respingere una coalizione di circa 85.000 unità, e a riportare la situazione sull’intero fronte settentrionale alla linea di demarcazione del 23 dicembre 1918.

Il proletariato romeno, sottoposto a un dispotico regime monarchico, cercò di contrastare l’attacco contro la Repubblica di Consigli ungherese. I ferrovieri già il 1° aprile proclamarono uno sciopero generale, che fu duramente represso dall’esercito e che a Cluj fece seicento prigionieri. Il 9 maggio i lavoratori romeni inviarono al ministero dell’Interno una delegazione del Consiglio esecutivo del Partito Socialista e dei sindacati per chiedere la sospensione delle ostilità. Alla fine del mese i ferrovieri entrarono nuovamente in sciopero rivendicando aumenti salariali e la giornata di otto ore; tali scioperi, inoltre, riuscirono a impedire la partenza di armi e munizioni per il fronte.
Anche nelle file dell’esercito romeno si segnalarono fermenti di rivolta. Il 7 maggio un migliaio di soldati del 97° Reggimento di fanteria manifestarono contro l’intervento e per la smobilitazione, in seguito scoppiarono anche delle rivolte al passaggio dell’Armata Rossa ungherese.


7.5. - La diplomazia traditrice dell’Intesa

Nel maggio 1919 i dittatori della pace di Versailles, a seguito della domanda di aiuto del governo ceco, che con l’avanzata dell’esercito rosso temeva una rivoluzione anche nel suo territorio, si atteggiarono a fingere di ascoltare le richieste di pace del Governo ungherese dei Consigli. Una Repubblica comunista nel mezzo dell’Europa minacciava seriamente il capitalismo in tutti i paesi, non solo quelli dell’Intesa.

Per mezzo delle loro missioni a Budapest, le quali sapevano benissimo che nulla più facilmente della prospettiva di pace poteva minare la decisione a resistere nel proletariato ungherese, invitarono il Governo dei Consigli a ritirare l’Armata Rossa dalla Cecoslovacchia, offrendo in cambio l’evacuazione dei territori al di là del Tibisco da parte dell’esercito romeno.

Questa mossa riuscì a causa della debolezza intestina del Consiglio di Governo. La popolazione era stanca della guerra, che durava da cinque anni. Mentre la maggioranza dei comunisti combatteva al fronte, i burocrati conservatori dei sindacati operai, i quali solo per sabotarla avevano accettato la dittatura del proletariato, riuscirono ad imporre al Governo dei Consigli di proporre l’accettazione della nota dell’Intesa all’Assemblea Nazionale dei Soviet, che la votò a grande maggioranza. Del resto l’Assemblea, nella sua stragrande maggioranza, era formata dai vecchi capi del partito socialdemocratico e nel suo giudizio sulla politica del Consiglio di Governo e sulla situazione politica mondiale somigliava piuttosto a un consesso di controrivoluzionari.

L’esercito rosso si ritirò dai territori occupati della Slovacchia. Ma Clemenceau e alleati non iniziarono le trattative col Governo dei Consigli, né tanto meno ordinarono alle truppe romene di ritirarsi.


7.6. - Il congresso di giugno

Già all’inizio di giugno, su iniziativa del commissario alla difesa Böhm, si era costituita una frazione socialdemocratica segreta composta dai principali dirigenti del vecchio PSDU, tra i quali Kunfi, Weltner, Haubrich, Garbai, Ágoston e Rónai, con lo scopo di escludere i comunisti dal governo.

Il 12 giugno si apre il primo Congresso del Partito Socialista Ungherese dei Lavoratori, che vede la contrapposizione fra i socialtraditori e i comunisti.

La destra vuole l’accordo con l’Intesa, la sinistra la lotta a oltranza.

La rottura emerge al momento di rinnovare il gruppo dirigente, la lista proposta viene bocciata nell’intento di escludere i comunisti. Solo la minaccia di utilizzare la forza da parte dei comunisti riesce ad imporre la lista originale. Ma nello Stato dei Consigli predominano ormai i sindacalisti e i burocrati del vecchio regime, dei quali la destra socialdemocratica è la naturale espressione politica.

I socialdemocratici spingono con insistenza per attenuare le misure della dittatura, in contrapposizione con i comunisti. Kunfi nel suo intervento rispolvera la vecchia distinzione fra “programma massimo” e “programma minimo”:

«Fintantoché la rivoluzione internazionale non si sarà ampiamente rafforzata in diversi Paesi, in maniera tale che i proletari di questi siano in grado di combattere una controrivoluzione, non sarà possibile parlare di una applicazione dell’intero programma della dittatura, ma piuttosto si renderà necessario dare alla dittatura un programma di transizione fino alla realizzazione della rivoluzione internazionale, così come accadeva con il vecchio partito socialdemocratico e con qualsiasi partito operaio dove, accanto al programma definitivo, si trova sempre un programma di transizione. Occorrerà perciò un programma che, accanto al mantenimento di tutti i punti essenziali di quello precedente, elabori una politica di prevenzione capace di opporsi allo sviluppo della controrivoluzione non con mezzi terroristici, ma con misure dettate dalla ragione».

Col pretesto della “difesa dei diritti umani” si erano avuti nelle province scontri armati fra socialdemocratici e comunisti.

A Kunfi replicò Szamuely: «I compagni non sanno che quando a Budapest lanciano la parola d’ordine dell’”umanitarismo” questa si trasforma immediatamente nelle province in “battere i comunisti”. Mentre i compagni a Budapest discutono di un’applicazione più moderata della dittatura del proletariato, la controrivoluzione nelle zone di Sopron e Vas l’applica nella forma: “Colpisci a morte i comunisti, viva i socialdemocratici!”.

Infine al Congresso è un compromesso a stabilire il nuovo nome del partito, che si chiamerà: Partito degli Operai Socialisti e Comunisti d’Ungheria, la cui dirigenza prevede otto socialisti (Kunfi, Böhm, Weltner, Garbai, Landler, Ferenc József Bajáki, Bokányi e György Nyisztor) e cinque comunisti (Kun, Pór, László Rudas, Vántus e Vágó).

In coda al Congresso si riunisce, il 14-15 giugno, quello della Commissione Nazionale d’Organizzazione Femminile, a cui partecipano 286 delegate in rappresentanza di 62 organizzazioni delle provincie e 52 di Budapest.


7.7. - Lo scontro fra le potenze

Dall’intervento del 24 maggio al Consiglio Governativo rivoluzionario di Kun:

«Compagni, è vero che nella situazione politica internazionale attuale non possiamo contare su nessun immaginabile tipo di pace. D’altronde nessuno può contarci. Neanche la Germania, perché la pace che le hanno imposto non sarà una vera pace (...) Se gli Scheidemann la firmano significherà semplicemente che il proletariato sarà combattuto dalla controrivoluzione di Noske, con i suoi corpi di volontari, e non da quella francese o dell’Intesa. La pace che sarà imposta agli austriaci porterà a risultati analoghi. Che si firmi o che non si firmi questa pace imposta agli austriaci condurrà in ogni caso alla guerra, guerra esterna o guerra civile di classe, ma in ogni caso alla guerra.

«Compagni, allo stadio attuale dell’evoluzione storica e della rivoluzione non può esserci pace. Che sia contro il nemico esterno o quello interno, che sia contro una controrivoluzione internazionale o interna, è sempre con le armi in pugno che dovremo combattere. Noi abbiamo la fortuna di non dover combattere contro dei Noske o degli Scheidemann di casa nostra (...)

«No, allo stadio attuale dell’evoluzione dell’imperialismo, la borghesia, se non è costretta, non discute con la classe operaia se non sotto la minaccia delle armi»

Al Congresso dei Consigli Operai e Contadini di giugno Kun espone il rapporto sulla politica estera della Repubblica dei Consigli:

«La vittoria delle potenze dell’Intesa in Europa ha diviso approssimativamente i paesi e gli Stati in tre grandi gruppi. Il primo è costituito dai grandi Stati imperialisti vincitori: Inghilterra, Stati Uniti, Francia, Italia e Giappone. Il secondo gruppo è formato dagli Stati vinti: la Germania e i due Stati dell’ex monarchia austro-ungarica, oltre ad alcuni piccoli Stati vassalli che erano stati ad un tempo sostenitori fanatici e vittime dell’imperialismo dell’Europa centrale. Il terzo gruppo è composto da Stati neutrali e da nuovi Stati, sorti sul territorio dell’ex monarchia austro-ungarica in seguito a lotte armate e a rivoluzioni, ma soprattutto grazie all’assistenza dell’Intesa, cioè la Cecoslovacchia, la Iugoslavia e la Romania comprendente la Transilvania.

«Se si vuole determinare il significato della nostra politica estera occorre innanzitutto studiare la situazione di questi tre gruppi di Stati. Il primo gruppo è quello dei vincitori, il secondo quello dei vinti, il terzo è invece quello degli Stati che dipendono dalla buona volontà dei vincitori e comprende anche certi Stati-cuscinetto, come la Polonia, che servono ai diversi obiettivi dell’imperialismo. La situazione di questi tre gruppi di Stati è determinante dal punto di vista della cosiddetta politica di pace dell’Intesa, politica che si è già rivelata abbondantemente per quello che è.

«Nessuno prenda ciò come un rimprovero, ma c’è voluto senza dubbio un profondo errore di valutazione circa la natura dell’imperialismo per cadere nella trappola della sua politica di pace e del suo pacifismo. Non si tratta qui di un rimprovero a posteriori, poiché non è con i rimproveri che vogliamo abbattere l’Ungheria borghese. Rimane il fatto di essere caduti nella trappola del pacifismo, di esserci lasciati ingannare dalla politica di pace dell’Intesa, il che ha lasciato a noi una pesantissima e disgraziata eredità (Giustissimo! Giustissimo! Applausi).

«Questa politica di pace appartiene ormai da un pezzo al passato. Questo pacifismo, di cui indicherò più avanti le origini capitalistiche, è ormai morto e a noi non resta che continuare la lotta di classe con le armi in pugno e proseguire questa guerra rivoluzionaria, anche se è con dolore che abbiamo dovuto chiamare i nostri fratelli proletari a recarsi al fronte per difendere la Repubblica dei Consigli dalle conseguenze della pretesa politica di pace dell’Intesa e dei suoi Stati vassalli.

«La nostra guerra rivoluzionaria è stata una conseguenza necessaria del pacifismo dell’Intesa, dal momento che esso consisteva molto semplicemente nella volontà di schiacciare ogni rivoluzione (Giustissimo! Giustissimo!). Le rivoluzioni che sono scoppiate nei paesi vinti, e soprattutto quella scoppiata in Ungheria, non potevano attendersi dal pacifismo dell’Intesa qualcosa di diverso da ciò che esso ha portato: l’intervento armato degli Stati vassalli dell’Intesa, il cui imperialismo era ancora più affamato e più vorace degli altri. La politica espansionistica di questi Stati vassalli e di queste pretese nuove repubbliche nazionali è ancora più avida di quella dei grandi Stati che sono per ora ebbri di vittoria.

«Ma questa ebbrezza comincia a cedere il posto, in seguito alle agitazioni proletarie, a un senso di disgusto che si risolverà ben presto nello schifo più completo e in una nausea mortale (Giustissimo! Giustissimo! Applausi) (...)

«La parola d’ordine del pacifismo imperialista richiedeva una pace senza conquiste e senza indennità; era questa l’essenza del wilsonismo. Ora, è sufficiente pensare alle diverse dichiarazioni di Lloyd George, di Clemenceau e di Sonnino, i quali si mostrano irremovibili dalle loro posizioni fondate sulla volontà di conquista e di guerra. Essi sostengono che bisogna punire a colpi di annessioni e di riscatti. Ecco come l’Intesa si smaschera da sola (...)

«La nota che precedette l’instaurazione della dittatura del proletariato in Ungheria fu un esempio tipico del pacifismo dell’Intesa e del wilsonismo. Fu la nota Vyx a contribuire in gran parte alla nostra presa del potere senza spargimento di sangue. Abbiamo dunque dei motivi di riconoscenza nei confronti dell’imperialismo dell’Intesa, beninteso alla stessa maniera come possiamo essere riconoscenti al capitalismo per avere creato, a prezzo del sangue, del sudore e della miseria di milioni e milioni di uomini, le condizioni economiche preliminari alla realizzazione del socialismo (Applausi).

«A proposito delle condizioni che determinano il proseguimento della nostra politica estera di lotta di classe, bisogna anche ricordare gli antagonismi che esistono tra gli Stati dell’Intesa, antagonismi che ci permettono di fare questa politica estera. Gli Stati imperialisti vincitori sono divisi, in gruppi contrapposti, da gravi e profondi antagonismi. È vero che tutti questi Stati sono d’accordo sulla necessità di colonizzare il mondo, ma è anche vero che questi grandi Stati sono costretti a combattersi per la stessa natura dell’imperialismo. Imperialismo vuol dire vita economica unitaria e senza concorrenza all’interno di ciascuno degli Stati nazionali, ma vuol dire anche redistribuzione del mondo che porta a una competizione e a una lotta senza quartiere, a un mercato economico mondiale immerso nell’anarchia totale (...)

«Il problema della libertà dei mari rappresenta un importante ruolo nelle tesi del pacifismo imperialista wilsoniano. Di fronte all’egemonia marittima britannica, la libertà dei mari garantirebbe agli Stati Uniti la possibilità di partecipare più liberamente e in una più grande dimensione al traffico con i paesi europei; infatti si tratta d’ottenere per il capitalismo americano, relativamente stabile ma privo d’una grossa flotta commerciale, degli sbocchi convenienti sui mercati europei (...) La libertà dei mari e l’internazionalizzazione delle colonie sono dei problemi della cui soluzione non potrebbero approfittare che gli Stati Uniti, mentre gli altri Stati, gli altri Stati imperialisti ne subirebbero solo gli inconvenienti (Applausi).

«È assolutamente certo che in nessun caso l’Inghilterra accetterà il principio della libertà dei mari e rinuncerà all’egemonia marittima. Neanche l’Italia rinuncerebbe al principio dell’egemonia che le lascia l’ambizione di diventare la signora incontrastata nell’Adriatico; quindi non può ammettere il principio della libertà dei mari. Per l’Italia, per l’imperialismo italiano, l’egemonia nel Mediterraneo è senza dubbio una questione vitale. Per l’Italia la libertà dei mari equivarrebbe semplicemente lasciare alla Iugoslavia la completa libertà di movimento, a rinunciare dunque a tutte le mire relative alla Iugoslavia e a ciò l’imperialismo italiano non è evidentemente disposto.

«Anche la questione della conquista, della ripartizione delle colonie e dei Balcani appartiene a quell’insieme di problemi che fanno sì che l’imperialismo dell’Intesa sia incapace di presentare una posizione omogenea. In nessun caso la Francia potrà dare il suo assenso all’internazionalizzazione delle colonie. Nemmeno la suddivisione delle vecchie colonie tedesche è un problema che ammette l’internazionalizzazione.

«Tutti questi problemi, come la questione delle sfere d’interesse negli Stati vassalli – da questa zona d’interessi economici la Polonia dovrà dipendere, rinunciando ai benefici che l’accesso al mare le aveva assicurato – tutti questi problemi sono di tale portata che possiamo tranquillamente edificare su di essi la nostra politica estera, e il loro carattere inestricabile ci dà la speranza che alle potenze dell’Intesa sarà impossibile formare un fronte unico contro di noi (...) Senza dubbio, tutti gli Stati imperialisti dell’Intesa sono d’accordo sulla necessità di strangolare il bolscevismo. S’accordano sulla necessità di cancellare la Repubblica dei Consigli, di mettere fine alla sua esistenza.

«Si, ma l’Ungheria non è solamente una Repubblica dei Consigli, non è solamente un focolaio di contagio bolscevico; è anche un territorio economico che si può collegare a questo o quel gruppo d’interessi economici imperialisti. Per il momento, l’Ungheria è un paese dove è impossibile concepire altro potere e altro regime che non sia il potere della dittatura del proletariato (Molto giusto!) Cari compagni, questa è la ragione per la quale l’Ungheria non può essere oggetto di un accordo tra gli imperialisti».


7.8. - Accettare la pace‑capestro

Prosegue ancora Kun:

«Noi che siamo stati posti alla testa del governo di questo paese per diritto rivoluzionario e non sulla base del vecchio diritto, noi rappresentanti di questa classe che, in nome del diritto rivoluzionario, ha preso in mano il potere, dichiariamo solennemente di non avere nulla in comune con la monarchia austro-ungarica che scatenò la guerra (Giustissimo!). Noi non siamo gli eredi legali della monarchia austro-ungarica e dell’Ungheria borghese e feudale che, distinguendosi per la loro esaltazione bellicistica, mandarono al macello milioni di uomini a vantaggio dei filibustieri imperialisti (approvazione e applausi). Non avendo dunque nulla in comune con questa Ungheria e con questa monarchia, noi non siamo disposti a subire le conseguenze della loro guerra (vive approvazioni e applausi). Noi, socialisti e comunisti che deteniamo il potere in nome del proletariato, abbiamo rotto con il passato e con il capitalismo istigatore di guerre. Non possiamo dunque subire davanti agli Stati dell’Intesa le conseguenze della guerra imperialistica (Giustissimo!).

«Cari compagni, la situazione attuale richiede molta attenzione e misure molto meditate. Compagni, avete davanti a voi la copia della nota che Clemenceau ci ha inviato a nome dei governi degli Stati alleati e associati; anche se non definitivamente, essa traccia le frontiere della nuova Ungheria. Così, la spada di Damocle è ancora sospesa sulle nostre teste, poiché là dove la nostra Armata Rossa non è ancora intervenuta e dove le frontiere non sono ancora per niente tracciate, i nostri avversari si son riservati il diritto di trattarci ancora più impietosamente che altrove (Giustissimo! Giustissimo!).

«Ma queste frontiere, o più esattamente i territori delimitati da queste frontiere, sono tali da non potere assicurare, anche se sfruttati al massimo, dei mezzi decenti di esistenza al proletariato. Dal punto di vista internazionale, la situazione è oggi per il proletariato la stessa di quella che esisteva per il capitalismo ungherese prima dell’instaurazione della dittatura del proletariato. Allora, bisognava scegliere tra due tipi di fame, bisognava scegliere per così dire tra due vie per cui si sarebbe dovuta soffrire la fame. Attualmente, compagni, l’alternativa è pressappoco la stessa: o scegliamo di divorarci l’un l’altro sul territorio di questo paese così delimitato, oppure scegliamo di combattere rischiando di farci divorare dagli altri, a meno che non si arrivi in una maniera o in un’altra ad imporre una pace a coloro che vogliono divorarci.

«A prima vista, la scelta sembrerebbe facile, compagni. La cosa più facile sarebbe di continuare la guerra rivoluzionaria, di dire che noi non discutiamo con nessuno e che continuiamo la lotta finché non riusciremo a strappare la pace, una pace che, benché non ci assicurerà completamente possibilità di vita autonoma, ci permetterà tuttavia di sussistere grazie al nostro collegamento con la rivoluzione internazionale.

«Io, compagni, non sono ancora arrivato, né arriverò soprattutto in questo momento, ad accettare una posizione che ci impedisca di discutere e che ci faccia respingere rigidamente la conclusione della pace. Come ero incline ad accettare una qualsiasi pace alla Brest-Litovsk quando la nostra situazione militare era cattiva, così lo sono ancora oggi. Oggi, che siamo in una buona posizione, che vinciamo ai fronti, battendo gli eserciti dei piccoli Stati voraci e imperialisti, oggi che in questi paesi si assiste a crisi di governo provocate dalla sollevazione del proletariato, ebbene anche in questa situazione sono convinto che si debba concludere la pace, che si debba essere disposti ad arrestare gli spargimenti di sangue, animati dalla speranza di una pace relativamente onesta. In ogni caso, dal nostro punto di vista, non potrebbe trattarsi che di una pace alla maniera di quella di Brest-Litovsk o di Bucarest, cioè di una pace che la rivoluzione sconvolgerà ed annullerà! (applausi entusiastici).

«Vado ad esporvi brevemente quali sono le ragioni che me lo fanno sostenere. Oggi la situazione internazionale è incentrata sulla questione del trattato di pace con la Germania e l’Austria. Le condizioni di pace che l’Intesa vorrebbe imporre alla Germania – sottolineo, che vorrebbe imporre – similmente a quelle dell’Austria, sono tali che, in modo assoluto, rendono impossibile qualsiasi economia capitalista in questi due paesi. Se sottoscrivono queste condizioni di pace, i capitalismi di Germania ed Austria sono per sempre condannati. Così questa “pace senza annessioni e senza indennità di guerra” che l’Intesa vuole concludere con la Germania e l’Austria è tale che non significa altro che il saccheggio dell’economia di questi due paesi.

«Si trova un esempio simile a questa pace nel corso della guerra, quando i tedeschi insegnarono come smontare le officine, smantellare del tutto centri industriali completi, impossessarsi della produzione industriale e dei raccolti dei territori conquistati (...) I paesi dell’Intesa sono effettivamente stati ad una buona scuola. Ma come il loro insegnante, la Germania, si trova adesso in una situazione rivoluzionaria essi stessi si troveranno un giorno in una situazione rivoluzionaria (Approvazioni). E, come la Germania fu l’artefice della propria sorte, in quanto gli imperialisti tedeschi si sono suicidati, allo stesso modo l’imperialismo dell’Intesa sarà l’artefice del suo suicidio. Nel caso la Germania sottoscrivesse queste condizioni di pace – e, a mio avviso, non possiamo augurarci di meglio che la Germania e l’Austria sottoscrivano queste condizioni di pace (Molto giusto!) – in questo caso, la possibilità di realizzare dei profitti, il solo motore della produzione capitalista, cesserà di esistere in Germania.

«In Germania, è evidente che il pagamento dei danni di guerra, i carichi lasciati in eredità dalla guerra, l’obbligo di versare delle pensioni d’invalidità e di consentire altri carichi sociali ancora, non solamente assorbiranno completamente i redditi da capitale, ma c’è di più, tanto in Germania, quanto in Austria, saranno obbligati a decurtare anche i redditi da lavoro (Molto vero!). Nei paesi in questione, dove la penuria delle derrate prende proporzioni sconvolgenti e dove il carovita è diventato insopportabile, ciò significherebbe – come fu presso di noi – che il ristabilimento del capitalismo e la presa in carico delle conseguenze della guerra comporterebbero la confisca dei quattro quinti dei redditi da lavoro; tutto ciò provocherebbe immancabilmente la rivoluzione, tanto in Germania quanto in Austria.

«La rivoluzione è oggettivamente inevitabile in Germania e in Austria a causa di fattori meramente economici, senza tener conto dell’attività rivoluzionaria del proletariato, dei fattori determinanti ed esemplari costituiti dalla creazione della Repubblica dei Consigli in Russia e in Ungheria, che agiscono nel senso della rivoluzione sociale. In effetti la classe operaia tedesca non ha alternative se non scegliere tra sopportare, al prezzo della fame, le conseguenze della guerra imperialista o affrancarsi da queste conseguenze, ovvero instaurare il suo proprio potere, il suo dominio, la sua dittatura.

«Questi due paesi non sono i soli a perseguire nuove tappe sulla via della rivoluzione proletaria internazionale. È indubitabile che anche i paesi dell’Intesa, gli Stati imperialisti vincitori, non potranno evitare la sorte che li attende. In effetti in questi paesi – tranne gli Stati Uniti – la presa in carico delle conseguenze della guerra assorbirebbe almeno il cinquanta per cento, e alle volte anche il settanta per cento dei redditi da capitale. I carichi di guerra che gravano questi paesi costringeranno presto o tardi gli Stati imperialisti a voler erodere i redditi da lavoro; ed a ciò bisogna aggiungere che l’attività economica e i mezzi di produzione di questi paesi sono ugualmente stati rovinati (...) In tal modo, anche in questi paesi esistono le condizioni oggettive della rivoluzione proletaria e le condizioni soggettive non mancano ugualmente (...)

«Gli scioperi che si stanno facendo attualmente in Italia e in Francia – e che, secondo le informazioni che abbiamo ricevuto, sono molto più estesi di quanto le Agenzie di stampa ufficiali dicono – sono di solidarietà, scatenati per impedire alle potenze imperialiste dell’Intesa di mettere piede nei due paesi proletari, sui territori delle Repubbliche dei Consigli di Russia e di Ungheria; questi scioperi hanno il fine d’impedire all’Intesa di soffocare la dittatura rivoluzionaria del proletariato e di ostacolare le possibilità d’edificazione del socialismo e del comunismo.

«Cari compagni, ritornando alla questione della pace, sottolineo nuovamente che a mio avviso, a delle condizioni oneste, bisognerà comunque concluderla questa pace provvisoria. Ciò sembrerà forse contrario alla politica da noi seguita al tempo della nota Smuts [Dal 1919 al 1924 primo ministro del Sudafrica; in tale veste partecipò a Parigi alle trattative di pace di Versailles, NdR]. Ci si potrebbe chiedere perché, dal momento che noi non abbiamo voluto sottoscrivere allora le condizioni che Smuts ci presentò, noi siamo oggi disposti ad accettarle. Compagni, ciò che è giusto oggi non sarebbe stato giusto allora e, viceversa, ciò che sarebbe stato giusto allora non può esserlo oggi. Non posso fare a meno di ricordare ancora una volta ciò che diceva il vecchio Liebknecht, cioè che se è necessario si deve poter cambiare tattica ventiquattro volte in ventiquattr’ore (Giustissimo! Giustissimo!). Ciò che dichiaro oggi, e che ritengo giusto, potrebbe tra ventiquattro ore, in seguito a un cambiamento della situazione, rivelarsi non più valido, ritenendo noi giusto fare qualcosa di assolutamente diverso.

«Oggi, alla nota di Clemenceau non possiamo che rispondere questo: siamo disposti a negoziare la pace (Applausi). Noi non vogliamo negoziare solo con la conferenza della pace dell’Intesa, ma anche con gli Stati ostili che ci circondano (Vive approvazioni) e, benché l’Intesa ci detti le sue condizioni, noi ci sforzeremo di trovare un accordo con quei paesi che dipendono economicamente da noi, ma dai quali anche noi dipendiamo. Tentiamo dunque di costruire sulle rovine della defunta monarchia austro-ungarica e su quelle dei Balcani una nuova vita economica, rendiamo possibili il commercio e gli scambi, facciamo del nostro meglio per creare una certa vita economica.

«Nell’attuale stato degli scambi internazionali, mentre i mezzi di comunicazione sono stati distrutti dalla guerra, mentre la flotta sottomarina tedesca ha annientato quasi la metà della flotta da trasporto, mentre nel mondo intero, il materiale rotabile è distrutto, in una tale situazione non possiamo contare sulle importazioni provenienti d’oltremare. I bisogni della nostra società così impoverita di merci dobbiamo soddisfarli con le relazioni coi paesi vicini, con quei paesi che, precedentemente, vivevano con noi in una comunità economica. A mio avviso, fummo legati a questi paesi non tanto dallo scettro degli Asburgo, non tanto dal principio di Stato della Monarchia, quanto dalle necessità dell’economia.

«Bisogna far comprendere ai proletari di questi paesi che non nutriamo alcun intento di oppressione delle nazionalità. Come il “Manifesto Comunista” ci insegna, la dittatura del proletariato, l’innalzamento del proletariato al rango di classe dominante significa la fine di ogni oppressione delle minoranze nazionali. Bisogna ricordare ai proletari di questi paesi che la dittatura del proletariato professa di rispettare tutti i loro diritti d’auto-determinazione, che non vogliamo legare con la forza nessuno alla nostra sorte. Solo li avvertiamo che il proletariato non ha come parola d’ordine la creazione di piccoli Stati, ma il raggruppamento del proletariato in una federazione la più ampia possibile.

«Nelle sue manifestazioni esteriori, l’idea guida della nostra lotta di classe in politica estera è stata sempre quella d’ottenere la convocazione d’una conferenza allargata (...) Non sarà né a Parigi né altrove che si potrà regolare il problema degli Stati che si sono costituiti sul territorio della vecchia Monarchia austro-ungarica (...) Bisogna chiamare ad una conferenza i delegati degli Stati che si sono formati sul territorio della vecchia Monarchia austro-ungarica.

«Compagni, nei giornali di oggi avete letto che i socialisti iugoslavi – la cui maggioranza è di tendenza bolscevica – si pronunciano essi stessi a favore di questa conferenza; penso anche che i socialisti cechi non dovranno aspettare molto a costringere il loro governo a dare il suo assenso a una tale conferenza. Sono persuaso che non avremo che da guadagnarci da questa conferenza. Ci guadagneremo perché vi si rivelerà e diverrà manifesta questa verità, che non nutriamo alcun disegno d’oppressione, che ci attestiamo sulle posizioni del diritto all’autodeterminazione di tutti i lavoratori; rivelerà, invece, che i governi che ci stanno di fronte sono imperialisti e che nutrono l’ambizione d’opprimere altra gente sotto la bandiera della libertà delle nazioni (...)

«L’Intesa ci tiene sotto la pressione del blocco, ci vuole affamare e, inoltre, ha mobilitato contro di noi la controrivoluzione internazionale da una parte, e la controrivoluzione interna dall’altra. Compagni, siatene certi del fatto che anche se firmiamo la pace, ciò non significa che l’Intesa ci lascerà tranquilli. Anche se, eventualmente, impartisse l’ordine alle armate cecoslovacche, romene o iugoslave di ritirarsi dalle nostre frontiere, mobiliterebbe ugualmente la controrivoluzione contro di noi; e se questa ultima misura fosse coronata da successo, ebbene, è assolutamente certo che ci strangolerebbe. E il giorno quando avremo finito con le armate degli Stati imperialisti vicini, allora, l’Intesa susciterà certamente contro di noi un governo dissidente, un contro-governo che essa sosterrà contro ogni diritto, e la rappresenterà in partibus infidelium e che godrà non meno dei suoi favori.

«Compagni, resto dell’opinione che il Consiglio di Governo Rivoluzionario e il suo Ufficio politico hanno fatto bene a soddisfare l’appello lanciato dall’Intesa. Non è dipeso da noi se non siamo riusciti per intero a soddisfare questo appello per intervenute circostanze indipendenti dalla nostra volontà, causate dagli imperialisti cechi. In effetti abbiamo ordinato alle nostre truppe di ripiegare sulla linea che l’Intesa aveva determinato come frontiera dell’Ungheria. Orbene, quest’ordine di arretrare fu dato in seguito ad un’offensiva ceca; che si lanciava all’inseguimento delle nostre truppe per sterminarle. Naturalmente non si poteva rispondere diversamente a questa offensiva se non con una controffensiva, quello che le nostre truppe fecero respingendo i cechi (evviva entusiasti e applausi. Una voce: viva l’Armata Rossa!). Quanto a coloro che hanno detto che si può trattenere una truppa sul punto dove si trovava, ebbene, costoro non furono mai dei soldati. Non dipese da noi se lo slancio dell’offensiva delle nostre truppe è stato impetuoso al punto da respingere un’altra volta l’armata ceca.

«Compagni, rimango dell’avviso che bisogna rendere possibile un accordo. Con delle frontiere un po’ più oneste – perché non si parli come prima della disonestà delle nostre attuali frontiere – a condizione dunque di ottenere un tracciato più accettabile delle nostre frontiere, noi abbiamo il dovere di fare la pace. Tuttavia noi diciamo subito: si tratterà solo di una pace la cui validità non sarà più grande di quella di Brest-Litovsk, perché questa pace che concluderemo con gli imperialisti francesi, cecoslovacchi, romeni e iugoslavi non saremo noi a rovesciarla, ma gli stessi proletariati della Cecoslovacchia, della Iugoslavia e della Romania (Giusto! Vive approvazioni. Applausi).


7.9. - Argomenti contrari

Al congresso si espressero alcuni dirigenti rivoluzionari contrari ad accettare le condizioni poste da Clemenceau a nome dell’Intesa. A prendere la parola fu prima József Pogány, socialdemocratico di sinistra, che dal 12 giugno era al comando di una divisione appositamente formata per la campagna al Nord. Disse che la nota di Clemenceau dovesse essere considerata uno stratagemma ingannevole, e respinta. Ritirarsi sui confini stabiliti dall’Intesa sarebbe stato un colpo mortale per la Repubblica sovietica. Nessun governo, né capitalista né feudale né socialista, avrebbe potuto sopravvivere in tali confini causando grandi miserie e sofferenze per il popolo ungherese.

Pogány, fra gli applausi, disse che l’Armata Rossa sarebbe dovuta tornare all’attacco e mettere alla prova la forza d’animo e il morale delle potenze occidentali e dei loro lacchè dell’Europa orientale. La nota di Clemenceau, continuò, era solo un bluff, che mirava a guadagnare tempo per la Cecoslovacchia, affinché mobilitasse più truppe e per imporre un blocco dell’Intesa sull’Ungheria. Se l’Armata Rossa si fosse mossa subito, suggerì, l’imperialismo ceco sarebbe crollato in dieci giorni, e questo a sua volta avrebbe portato al disastro l’esercito romeno. La resistenza dell’Armata Rossa ungherese all’imperialismo dell’Intesa avrebbe ispirato ed elettrizzato i lavoratori del mondo.

D’altra parte, se l’Ungheria avesse accettato i termini della nota di Clemenceau le grandi potenze avrebbero potuto chiedere il disarmo dell’Armata Rossa. Avrebbero inviato soldati francesi o senegalesi ad occupare l’Ungheria o, più probabilmente, scatenato le guardie bianche organizzate a Szeged per abbattere la dittatura del proletariato.

Qualcuno avrebbe potuto sostenere, aggiunse Pogány, che la sua era una politica irrealistica, dal momento che un piccolo paese come l’Ungheria, non poteva sperare di reggere il confronto con le potenze occidentali sul piano militare. Ma qualunque scelta effettuasse l’Ungheria, alla fine avrebbe dovuto affrontare una lotta per la vita o per la morte con l’imperialismo capitalista. Quindi, «se vogliamo la pace – concluse – dobbiamo decidere di continuare la guerra», perché solo così sarà possibile «entrare nel cuore dei nostri compagni italiani, francesi e inglesi» e garantire «la vittoria militare del proletariato ungherese».

Dopo Pogány prese la parola il comunista Szamuely, commissario alla guerra, che pronunciò il suo discorso a braccio:

«Cari compagni! Quando il proletariato d’Ungheria ha imboccato la strada della rivoluzione e della dittatura del proletariato, era chiaro per tutti che questo passo, questa decisione significava lotta, lotta contro tutti i nemici interni ed esterni del paese; tutti sapevamo che il dovere e il compito più alto e sacro del proletariato rivoluzionario era combattere al massimo delle proprie forze e vincere tutti i suoi oppressori (Giustissimo! Giustissimo!). Se oggi volessimo fermare o addirittura interrompere questa lotta, ciò significherebbe abbandonare il principio della lotta stessa; significherebbe rinunciare alla lotta, il cui scopo è la liberazione di tutti gli oppressi, di tutti gli sfruttati del mondo (Molto giusto! Vivi applausi).

«Cari compagni! Quando abbiamo preso posizione per la dittatura del proletariato, avevamo chiaro che la guerra mondiale non sarebbe finita con una pace capitalistica, ma solo con una guerra civile degli oppressi di tutto il mondo contro i loro oppressori e sfruttatori. Se ora si vuole arrivare a un accordo con i capitalisti dell’Intesa, se si vogliono lasciare senza combattere le aree in cui l’Armata Rossa proletaria è riuscita a porre fine allo sfruttamento e alla schiavitù capitalistica, se ora si sta valutando se dovremmo restituire queste aree senza combattere in modo che la vecchia schiavitù e lo sfruttamento possano esservi ripristinati, io attiro la vostra attenzione sul fatto che è un grave errore farlo credendo che sia possibile concludere la pace con i capitalisti stranieri e allo stesso tempo combattere contro i nostri stessi capitalisti (Esatto! Applausi).

«Penso che non ci possono essere divergenze su ciò; il nostro scopo è la distruzione del capitalismo, la più implacabile e spietata oppressione della borghesia. Se vogliamo adempiere a questo compito entro i confini del nostro paese, non potremo farlo, cari compagni, se faremo delle concessioni ai capitalisti stranieri.

«Cari compagni! Non c’è dubbio che la parola d’ordine del “Manifesto dei comunisti”: “Proletari di tutti i paesi, unitevi!” non è stata ancora pienamente realizzata, mentre la parola d’ordine: “Capitalisti di tutti i paesi, unitevi!” lo è appieno (Giustissimo!). I capitalisti ungheresi possono sempre contare sul sostegno dei capitalisti dell’Intesa (una voce: Non sempre). I capitalisti, i controrivoluzionari ungheresi troveranno sempre un appoggio presso quei capitalisti stranieri coi quali ora vogliono fare la pace».
Il rivoluzionario Szamuely proseguendo il suo appassionato discorso mise in guardia sul rischio di dover accettare le condizioni di pace dei predoni dell’Intesa che si avvicinavano molto a quelle che mesi addietro avrebbe voluto imporre l’imperialismo romeno: la consegna di tutte le armi, le locomotive, i vagoni, la spoliazione completa per schiacciare la rivoluzione proletaria ungherese.

«Ora non vogliono finirci con mezzi così drastici, non vogliono strangolare la rivoluzione in Ungheria con tali mezzi; dicono invece, con intelligenza e astuzia: “Condanniamo ogni inutile spargimento di sangue”. Lo affermano coloro che hanno provocato il massacro di milioni e milioni di uomini, che hanno reso infelici milioni e milioni di vedove e orfani. Ora essi vogliono ordinare alle truppe del vittorioso esercito proletario ungherese di ritirarsi per evitare inutili spargimenti di sangue, per poi ripresentarsi con nuove richieste.

«Non si può parlare di pace finché non saranno fissati i confini dell’intero paese. Sappiamo che sul fronte nord e sul fronte est è stata fatta soltanto una determinazione arbitraria, e non abbiamo alcuna garanzia sullo scopo per il quale alcune divisioni dell’Intesa che si trovano attualmente nelle vicinanze di Szeged vi rimarranno e su quale sarà il loro obbiettivo in futuro (Verissimo! Verissimo!)».

Szamuely esaltò lo spirito combattivo dell’Armata Rossa proletaria ungherese che si era riorganizzata e aveva combattuto valorosamente contro gli invasori dell’imperialismo ceco e romeno, riconquistando territori occupati dal nemico.

«Cari compagni! Se ci riempiono di gioia le notizie dagli Stati capitalistici dell’Occidente sui movimenti rivoluzionari dei lavoratori, sullo sciopero dei lavoratori inglesi, francesi e italiani, che hanno protestato anche con combattimenti di strada contro la guerra di rapina imperialista, contro l’ingerenza negli affari interni della Russia sovietica e dell’Ungheria dei consigli, dobbiamo ricordare una cosa molto importante. Se consideriamo il fatto che i lavoratori russi stanno combattendo contro la guerra di rapina imperialista, contro l’ingerenza dell’Intesa negli affari interni della Russia rivoluzionaria e dell’Ungheria dei consigli, non dobbiamo dimenticare un aspetto molto importante, di cui purtroppo non è stata detta finora una parola nel corso dei negoziati, e questo è l’obbligo della Repubblica ungherese, il suo dovere di solidarietà nei confronti della Repubblica dei consigli russa (Molto giusto! Applausi entusiastici!) (...) Una cosa è certa: non dobbiamo arrenderci e porre fine alla lotta finché il proletariato russo si trova in pericolo, finché l’Intesa non vuole negoziare con il proletariato della Russia, ma vuole calpestarlo con tutti i mezzi a sua disposizione e annegarlo nel sangue. Pertanto non si può parlare di fermarsi o addirittura di interrompere la lotta (Sarebbe un tradimento!).

«Solo quando sapremo chiaramente, definitivamente ed esattamente cosa vuole l’Intesa e cosa darà in cambio, solo quando sarà chiaro che queste concessioni, in cui non credo affatto, saranno offerte sia a noi sia al proletariato rivoluzionario della Russia, solo allora si potrà parlare di raggiungere un accordo con l’Intesa (...) Poiché non vogliamo metterci alla mercé dei boiardi romeni, degli imperialisti romeni, io dichiaro, compagni, e questa mia opinione coincide completamente con l’opinione di ogni soldato dell’Armata rossa, che non dobbiamo metterci alla mercé degli imperialisti dell’Intesa (Giustissimo. Applausi da sinistra). Cari compagni! Nel “Manifesto dei Comunisti” si dice che il proletariato non ha nulla da perdere, che non si può togliergli ciò che non possiede. Ma il proletariato vittorioso, il proletariato che si è emancipato ha molto da perdere. Il proletariato rivoluzionario vittorioso dell’Ungheria ha già spezzato le sue catene. Se non reagisce ora, se si getta in balìa dell’Intesa ora, perderà non le catene, ma il mondo intero (Giusto! Giustissimo. Forti applausi da sinistra)».


7.10. - Il parere di Lenin

Qualche giorno dopo il congresso Lenin scrive a Kun il telegramma:

«A Béla Kun, 18 giugno (...) Avete naturalmente ragione a iniziare trattative con l’Intesa. Bisogna cominciarle e proseguirle, bisogna assolutamente sfruttare ogni possibilità anche soltanto di armistizio o di pace temporanea per permettere al popolo di respirare. Ma non credete un solo istante all’Intesa, essa vi inganna e vuol solo guadagnare tempo per soffocare meglio voi e noi. Cercate di organizzare un collegamento postale con noi mediante aeroplani. I migliori saluti. Lenin» (Opere, XXXIV, p.372).

La risposta di Kun arriva da Budapest lo stesso giorno:

«Caro compagno Lenin! Vi ringrazio per il telegramma nel quale esprimete la vostra approvazione alla mia politica estera. Sono fiero di potermi considerare uno dei vostri più ferventi allievi, ma penso che ci sia un punto sul quale vi ho superato: nella questione della mala fides. Credo di conoscere molto bene l’Intesa e so che essa ci combatterà fino all’estremo. In questa guerra non si può pervenire che ad un armistizio, mai alla pace. Si tratta di una lotta alla morte. Ancora una volta grazie per la vostra nota».



7.11. - La risoluzione del Congresso

Al Congresso dei Consigli Operai e Contadini di giugno Kun propose di adottare la seguente risoluzione:

«1. Il primo Congresso dei Consigli d’Ungheria dichiara solennemente che non solo rinuncia alla questione dell’integrità territoriale, ma anche che, avendo preso i provvedimenti necessari per eliminare le differenze di classe, ha nello stesso tempo soppresso le condizioni che prima consentivano l’oppressione delle minoranze nazionali. In conseguenza di ciò dà ai lavoratori di tutte le nazioni la possibilità di impiegare tutte le loro capacità per il bene superiore dell’insieme dei lavoratori, liberamente, in maniera autonoma e indipendente da ogni altra nazione, e afferma il diritto di autodecisione per i lavoratori di ogni nazionalità.

«2. In linea con il suo internazionalismo, il proletariato si impegna a fare in modo che i lavoratori di origine etnica e linguistica diversa non creino tra loro nuove barriere, nuove frontiere politiche e doganali. Come repubblica federativa dei Consigli, il proletariato vuole realizzare l’unione fraterna dei lavoratori fino a quando la rivoluzione proletaria internazionale non avrà creato le premesse di una repubblica internazionale e unita dei Consigli proletari.

«3. La Repubblica ungherese dei Consigli si dichiara alleata naturale di ogni Stato proletario. Tale alleanza non riposa su una convenzione di diplomazia segreta o su un accordo militare, ma semplicemente sulla solidarietà proletaria internazionale.
«4. La Repubblica ungherese dei Consigli desidera vivere in pace con i lavoratori di tutti i paesi, cerca la loro solidarietà e, di fronte alla controrivoluzione imperialista internazionale, si affida alla protezione del proletariato internazionale.

«5. Al fine di regolare le relazioni tra gli Stati nazionali che si sono formati sul territorio della vecchia Monarchia, la Repubblica ungherese dei Consigli ritiene necessaria la convocazione di una conferenza comune. Il Congresso appoggia l’impegno dimostrato in questo senso dal governo e l’invita ad accelerare la convocazione di questa conferenza.

«6. Mentre all’interno della Repubblica dei Consigli il proletariato conduce “dall’alto” la sua lotta di classe contro gli sfruttatori, esso è costretto a lottare “dal basso” contro la controrivoluzione imperialistica internazionale, contro avversari che sono all’estero ancora al potere e ai quali non può imporre, prima della rivoluzione, la sua volontà con i mezzi abituali della dittatura. Per questa ragione, tutti i passi fatti dal Consiglio rivoluzionario del governo per concludere la pace sono stati giusti e giustificati: il Congresso approva soprattutto l’atteggiamento assunto dal Consiglio del Governo a proposito della recente nota Clemenceau. Approva anche i provvedimenti presi per proteggere i beni stranieri, che permettono alla Repubblica dei Consigli di non essere esclusa dagli scambi economici internazionali.

«7. Nell’interesse di salvaguardare le condizioni necessarie alla vita economica, il Congresso approva anche tutte le misure attraverso le quali il Consiglio del Governo si è opposto alla politica imperialistica di conquista e di affamamento. Quanto alle regioni che sono state liberate e la cui popolazione non è interamente ungherese, l’Ungheria desidera vivere con esse sotto forma di una comunità federativa (vive approvazioni).

«Cari compagni, ci vogliono imporre una pace tale che ci priverebbe anche della possibilità di fornire ai proletari il sale per la minestra, tale che le nostre famiglie non potrebbero cuocere i pasti. Questa pace ci priverebbe anche della possibilità di mantenere qui comunicazioni normali, ci priverebbe del sale, della legna, del carbone e di tutto quello che è necessario per proseguire un’attività economica normale (Molto vero!). La stessa cosa che tentano di fare nei riguardi della nostra repubblica sorella, la Repubblica Socialista Sovietica Federativa di Russia: l’Intesa ci vuol ridurre alla fame. Andiamo incontro a dei tempi difficili, a carenza di beni, a sofferenze e a dure lotte. Per resistere, abbiamo bisogno dell’applicazione rigorosa, conseguente ed energica della dittatura».


7.12. - Appello ai proletari di Francia

Al Congresso Kun propose di lanciare un appello rivolto ai proletari francesi, ritenuti determinanti nell’azione di appoggio alla rivoluzione:

«Da questa tribuna, facciamo appello in primo luogo al proletariato francese, che possiede i mezzi per ostacolare l’offensiva che si prepara contro di noi. Ci rivolgiamo a questo proletariato che, è vero, è disgustato della guerra, tuttavia con il consenso del quale si vuole inviare contro di noi dei soldati di colore, dei gurkha, dei negri, nel nome della santa civilizzazione (...)

«L’imperialismo internazionale minaccia l’esistenza del proletariato ungherese che ha schierato le bandiere rosse della rivoluzione internazionale (...)

«Circondato da piccoli Stati affamati di bottino e privi di scrupoli, sostenuti in tutti i modi possibili dalle grandi potenze imperialiste vittoriose, il popolo ungherese non ha avuto altra scelta se non quella di far fallire le intenzioni spogliatrici di queste bande di filibustieri. Il proletariato d’Ungheria si è sbarazzato per sempre del capitalismo; ha dimostrato ai proletariati degli Stati ancora capitalisti il solo mezzo giusto per risolvere il problema che la guerra aveva evidenziato (...)

«Adesso, la Francia, diventata il centro della reazione, si prepara nella maniera più aperta a sferrare alla giovane Repubblica dei Consigli un colpo destinato ad annientarla (...) Informiamo gli operai fratelli di Francia della situazione reale ed avvertendoli che schiacciando la rivoluzione ungherese distruggono le loro proprie possibilità di rivoluzione, le loro speranze e che contribuiscono ad annientare il loro avvenire (...) Si tratta della vostra medesima causa! Se gli imperialisti francesi e i loro accoliti pervengono alla decisione di farla finita con l’Ungheria rivoluzionaria e se riescono a mettere in ginocchio la Russia Sovietica, non sarà loro difficile soffocare sul nascere tutte le rivendicazioni del proletariato di Francia concernenti il rispetto delle sue libertà e il miglioramento della sua situazione; nello stesso tempo, e per un periodo imprevedibile, potranno ridurre i popoli del mondo intero allo stato di schiavi inermi.

«Educati nello spirito del magnifico esempio rivoluzionario della Comune di Parigi, gli operai d’Ungheria sperano che gli eredi della Comune non diverranno gli strumenti per schiacciare la Comune di Budapest».


7.13. - Moti in Austria

Negli stessi giorni del Congresso ungherese, a Vienna il giovane e debole Partito Comunista d’Austria tenta infruttuosamente di prendere il potere con un’azione preparata a tavolino, purtroppo priva di tattica e programma. A guidare il tentativo è Ernő Bettelheim, comunista ungherese inviato in Austria da Kun il mese precedente per svolgere agitazione in sostegno della Repubblica Ungherese dei Consigli.

Dopo un mese di agitazione il Partito austriaco nomina un direttorio di tre compagni composto da Karl Toman, Franz Koritschöner e Johannes Wertheim che stabilisce la data del 15 giugno per l’insurrezione.

Riassumiamo quanto scrive Otto Maschl, dirigente del Partito austriaco presente alle fasi cruciali della preparazione e dell’insurrezione.

Nei giorni precedenti al 15 giugno appare un appello del Partito rivolto ai membri della Volkswehr, la cosiddetta Difesa Popolare dell’esercito: «Soldati! L’ora della liberazione del proletariato è giunta! I nostri fratelli ungheresi e russi hanno sconfitto il militarismo dell’Intesa! Ora dipende da noi che la rivoluzione internazionale giunga alla vittoria (...) Domenica 15 giugno alle 10 la classe operaia di Vienna dimostrerà in favore dell’instaurazione della Repubblica dei consigli contro la fame e lo sfruttamento, per la rivoluzione sociale! Ogni soldato della Volkswehr ha il dovere di partecipare a questa manifestazione con le armi in pugno (...) Tutti in piazza per il futuro della classe operaia, per la rivoluzione internazionale! Viva la Repubblica dei Consigli dell’Austria tedesca».

Ma il giovane Partito comunista austriaco ha ancora poco seguito nella classe operaia, della quale il Partito Socialdemocratico detiene il quasi totale controllo, e nell’appa-rato militare. Nonostante la insofferenza della classe operaia e la sua istintiva solidarietà con la vicina rivoluzione ungherese, al partito austriaco manca la cinghia di trasmissione, la direzione dei sindacati, tenuta ben salda ancora dalla socialdemocrazia. Senza il Partito e senza il suo controllo sul più vasto movimento opeaio la rivoluzione è impossibile.
Continua Otto Maschl:

«Venerdì 13 giugno si riunì il Consiglio Operaio del distretto di Vienna. Dopo un’esposizione di Friedrich Adler, che mise gli operai in guardia contro azioni sconsiderate, il Consiglio decise a grande maggioranza che spettava soltanto a esso organizzare azioni e manifestazioni e che il colpo di mano preparato per il 15 era contrario agli interessi della classe operaia. I comunisti – meno di un decimo dei delegati [ottennero 27 voti su un totale di 262 presenti] – si trovarono così completamente isolati».

Vista la mal partita il Direttivo comunista si riunisce la sera stessa e, nonostante la viva opposizione di Bettelheim e le proteste di Koritschöner, decide di rinunciare all’insurrezione e di inviare fin dalla mattina successiva i militanti disponibili in provincia per sedare gli animi degli operai che la propaganda del direttorio aveva surriscaldato e per fare revocare l’operazione.

Scrive Maschl in merito ai fatti accaduti fra il 14 e 15 giugno:

«Il 14 giugno mi recai di buonora nella regione di Gramatneusiedl-Ebergassing (a sud-est di Vienna) [dove erano concentrate varie fabbriche tessili, NdR]; vi avevo preparato l’insurrezione e a me spettava il compito di smantellare il dispositivo che era stato creato, facendo sparire anche i mazzi di fiori che le donne e le ragazze avrebbero dovuto offrire ai soldati della milizia, un distaccamento della quale si trovava nelle vicinanze, perché non si opponessero al putsch. Faticai non poco a far passare il contrordine presso il comitato regionale. Gli animi erano sovraeccitati. Già da una dozzina di giorni girava la notizia che l’esercito ungherese avrebbe varcato la frontiera all’alba del 15 giugno, argomento particolarmente efficace in quell’agglomerato che distava appena 20 chilometri dalla città di confine di Bruck-Királyhida. Dopo molte ore di discussione il comitato convenne di accontentarsi di una manifestazione pacifica e mi promise di non occupare i municipi e le caserme della gendarmeria».

Rientrato a Vienna Maschl si reca presso la sede del Partito dove alle 19 doveva svolgersi una riunione dei principali quadri per adottare le ultime disposizioni e per trasformare l’insurrezione in semplice manifestazione di strada. Arrivato nei pressi della sede intravvede la polizia che sta facendo salire una cinquantina dei principali dirigenti del partito su due camion procedendo al loro arresto per ordine del Segretario di Stato, un socialdemocratico.

La mattina seguente, il 15 giugno, una moltitudine si raccolse vicino all’Università. Maschl racconta che lui e altri 5 o 6 militanti, anch’essi sfuggiti agli arresti, salirono su delle tribune improvvisate per annunciare che l’insurrezione era stata rinviata. In cinque o seimila attendevano i loro dirigenti che, arrestati, non arrivarono. Iniziarono a gridare “liberiamoli!”. Maschl e gli altri comunisti dissero alla folla che per questo si sarebbero diretti alla Prefettura, distante 300 metri. Furono ricevuti da un funzionario che, disse, di non avere il potere di esaudire la richiesta e che, se resistevano, li avrebbe fatti arrestare. La folla, cresciuta ancora, si diresse verso il carcere per liberare i prigionieri. Un primo schieramento di poliziotti cedette. Dal secondo cordone si sparò e la polizia a cavallo si lanciò sulla folla con le sciabole sguainate. Alla fine si contarono fra i proletari 20 morti e 80 feriti, oltre a quelli che riuscirono ad andarsene senza farsi curare. La Guardia Rossa non intervenne, da un lato perché era stata avvertita che l’”insurrezione” non avrebbe avuto luogo, dall’altro perché il governo, preventivamente, l’aveva consegnata in caserma.

Al primo pomeriggio i prigionieri, rilasciati, si riunirono nella sede del partito. Si presentò anche Adler, visibilmente sconvolto, il quale disse “paternamente”: «vedete a che cosa porta la scissione». I comunisti risposero: «vedete voi a cosa porta la politica di coalizione con la borghesia».










8. - La sconfitta della Repubblica dei Consigli

Il 7 giugno Kun all’Assemblea del Consiglio rivoluzionario centrale degli operai e dei soldati di Budapest mette in guardia dai pericoli e dalle difficoltà incombenti:

«Cari compagni, l’attuale situazione politica è caratterizzata da tre problemi: vittorie ai fronti; controrivoluzione; lotta alla carestia.

«Le vittorie ai fronti significano che noi avevamo ragione nel ritenere che non è confidando nel pacifismo di Wilson e neanche mettendoci a suo rimorchio che riusciremo a uscire dalla tragica situazione economica in cui il capitalismo e la guerra imperialistica ci hanno sprofondato, ma solo grazie alla guerra rivoluzionaria del proletariato contro la controrivoluzione interna ed esterna.

«Nel paese c’è la controrivoluzione. Il tentativo di sciopero dei ferrovieri, la comparsa della controrivoluzione (anche se sporadica) nel Transdanubio e altri fatti provano che non è possibile evitare il corso dialettico della rivoluzione: la resistenza, la lotta di classe dei capitalisti e dei filistei piccolo-borghesi contro la dittatura del proletariato. Ciò significa che bisogna far rispettare la dittatura, sistematicamente ed energicamente. Ogni esitazione danneggerebbe il prestigio della dittatura e condurrebbe solo a inutili spargimenti di sangue. Se la dittatura sarà forte nell’opposizione a tutti i circoli borghesi e si appoggerà al proletariato in armi unito, se realizzeremo questa dittatura sistematicamente ed energicamente, allora sarà possibile evitare inutili spargimenti di sangue.

«La lotta contro la carestia è da collegare strettamente alla lotta alla controrivoluzione e ai successi riportati ai fronti. L’imperialismo, gettatosi sulla vinta Ungheria, ci strappò i territori che costituivano la nostra fonte alimentare. Fummo privati dei mezzi di sussistenza e ci fu tolta la possibilità di una vita economica indipendente. La carestia è dunque una conseguenza diretta della politica che l’imperialismo ha adottato e adotta ancora contro l’Ungheria. Circondando l’Ungheria dei Consigli, come è avvenuto per la Russia sovietica, il blocco dell’Intesa rende i nostri rifornimenti alimentari enormemente più difficili. A ciò si aggiunge ora un altro blocco, quello che i contadini benestanti praticano contro la città.

«Questi sono i problemi che bisogna risolvere con urgenza. Combattiamo dunque la controrivoluzione, sia quella interna sia quella scatenata dall’estero! Solo la dittatura del proletariato ci consente di fare questa lotta. L’Ungheria borghese sarebbe stata incapace di risolvere uno solo di questi problemi. Caduta nella degradazione del nazionalismo e dello sciovinismo insisteva sulla questione dell’integrità territoriale, che non avrebbe saputo risolvere da sola. Noi non siamo stati condotti sulle posizioni della dittatura del proletariato da considerazioni di integrità territoriale.

«Coloro che avevano qualificato la dittatura del proletariato in Ungheria solo come una millanteria verbale, ebbene noi li abbiamo smentiti con le socializzazioni, con le nostre misure economiche e con l’espropriazione di quanti dovevano essere espropriati, dimostrando che la Repubblica socialista ungherese non è un bluff borghese, ma un’autentica rivoluzione proletaria.

«Compagni, continuo a ripetere che il successo della nostra rivoluzione non dipende solo dal proletariato ungherese. La condizione prima si trova ovviamente nella nostra unità, nella nostra organizzazione, nel nostro spirito di sacrificio e nella nostra tenacia: ma i nostri successi e le nostre possibilità di esistenza dipendono anche da un altro fattore, dalla rivoluzione proletaria internazionale. Quando contiamo le nostre forze, quando ci contiamo e valutiamo le nostre forze, bisogna anche guardare alla situazione della rivoluzione proletaria internazionale al fine di determinare i nostri compiti in funzione anche del sostegno che ci viene da essa.

«Compagni, la situazione odierna è tale che il pacifismo è fallito. Il wilsonismo ha fatto il suo tempo. Non vi è oggi un solo socialista sensato che possa sostenere che il wilsonismo potrebbe risolvere la questione della guerra imperialistica, che si potrebbe cioè liquidare la guerra e le sue conseguenze sulla base del programma di Wilson.

«Oggi, dopo la pubblicazione delle condizioni di pace imposte alla Germania e all’Austria, non vi è più alcun socialista intelligente che dica che si può trovare una via di uscita alle conseguenze della guerra in seno al capitalismo e che il proletariato potrebbe continuare a vivere nell’ambito del sistema capitalistico di produzione.

«Le condizioni preparatorie, oggettive ed economiche della dittatura del proletariato, così come si sono presentate qui, ossia il fallimento completo del capitalismo, il suo crollo totale e conseguente crollo dell’organizzazione dello Stato borghese, si manifestano nel mondo intero. Quelli che credono che esista per la dittatura del proletariato una via di ritorno al sistema economico capitalista, che sia possibile un qualche modus vivendi o compromesso, che sia possibile creare un socialismo piccolo-borghese capace di limitare in qualche modo il capitale, non solo non pensano da marxisti, non conoscono niente del marxismo o lo falsificano, ma ignorano anche le cifre che attestano sul piano mondiale il suo fallimento finanziario (...)

«A proposito dell’agitazione controrivoluzionaria che si manifesta fra i ferrovieri – scioperi tipicamente controrivoluzionari fomentati proprio da coloro che non avevano osato aprir bocca durante i governi borghesi – il Consiglio rivoluzionario del governo ha decretato la legge marziale nel Transdanubio, focolaio controrivoluzionario.

«Cari compagni, a Budapest non c’è bisogno di decretare la legge marziale: ci basta un cenno della mano e la controrivoluzione svanisce. Ma nel Transdanubio si è dimostrata necessaria, per evitare inutili spargimenti di sangue e perché in questa regione il movimento controrivoluzionario – che cominciava a diffondersi tra i contadini agiati e gli strati borghesi delle campagne – non può essere sconfitto se non con il pugno della dittatura dei proletari delle città e delle campagne. Compagni, qui si tratta del nostro dominio, si tratta di difendere il potere del proletariato e di creare le possibilità di edificare una società liberata dallo sfruttamento. A questo scopo bisogna schiacciare chiunque osi levare la mano sulla dittatura del proletariato».

Ma tutto ormai muove contro la Repubblica dei Consigli. I socialdemocratici alla direzione dei sindacati svelano senza più infingimenti la loro natura di traditori e stampelle della borghesia; la controrivoluzione dei bianchi espropriati, aristocrazia e pretume, si arma e attacca; gli eserciti dell’Intesa accerchiano l’Ungheria e la invadono; i predoni di Versailles con il blocco economico ne decretano la morte per fame.

Il trattato di Versailles era stato firmato il 28 giugno 1919.

Un governo controrivoluzionario si forma a Szeged (Seghedino), sostenuto da Clemenceau e dagli altri banditi dell’Intesa, per preparare l’attacco finale alla Repubblica sovietica ungherese.

Il 30 giugno il governo di Bucarest rifiuta il ritiro delle truppe promesso nella nota di Clemenceau del 13 giugno e ordina di avanzare entro la fine di luglio. Il 20 luglio l’esercito rosso l’anticipa in una contro-offensiva.

Gyula Gömbös, membro del governo di Szeged, l’11 luglio aveva scritto una lettera a Ferenc Julier, già ufficiale borghese ma nuovo capo di stato maggiore dell’esercito rosso: «Prendi nelle tue mani la controrivoluzione. Sii pronto, un dato giorno, a dare inizio alla controrivoluzione e a solidarizzare con Horthy». Il generale francese Ferdinand Foch, comandante in capo degli eserciti dell’Intesa, a due giorni dall’inizio dell’offensiva riceveva questa nota: «Siamo convinti che l’offensiva ungherese è destinata a fallire fin dall’inizio. Komlós ci ha fatto avere una copia dei piani di battaglia dell’esercito rosso». I socialdemocratici del centro e della destra ungheresi infatti hanno fatto pervenire al governo di Szeged e ai romeni i piani della manovra. Così tradito l’esercito rosso, dopo le vittorie della prima settimana, finisce in una trappola ed è costretto ad indietreggiare con ingenti perdite.
 


8.1. - L’ultimo Comitato Direttivo

Il 15 luglio si tiene l’ultimo Comitato Direttivo Centrale. Kun interviene:

«La dittatura del proletariato è oggi in Ungheria in crisi. Questa crisi è triplice: crisi di potere, crisi economica, crisi morale. La crisi di potere si manifesta nelle esitazioni del potere centrale e dei poteri locali di fronte alla controrivoluzione; i poteri non danno più prova della fermezza che dovrebbe caratterizzare sempre la dittatura del proletariato. La crisi economica si manifesta soprattutto nel fatto che noi siamo alle prese con difficoltà di vettovagliamento, di produzione e di organizzazione della produzione, difficoltà che attualmente non possiamo superare se non parzialmente. La crisi morale trova espressione nella corruzione che si constata in certe istituzioni del proletariato: abbiamo cominciato a estirparla e continueremo a farlo malgrado le difficoltà.

«Queste tre crisi potrebbero essere riassunte nello stato psicologico che si manifesta attraverso un certo sentimento di rinuncia, che si impadronisce non solo di una parte delle masse lavoratrici, ma soprattutto degli uomini che dovrebbero esserne i dirigenti devoti.

«Questo abbattimento, questa esitazione e questa rinuncia vengono soprattutto dal fatto che molti credono che noi ci siamo ingannati nel giudicare la situazione, allorché abbiamo fatto dipendere la sorte del proletariato ungherese da quella della rivoluzione proletaria internazionale. Coloro che credevano che la rivoluzione proletaria internazionale sarebbe scoppiata a una data precisa, non solo non erano dei buoni marxisti, ma il loro comportamento non differiva affatto – come hanno dimostrato gli avvenimenti – da quello della marmaglia che, sfortunatamente, si unì alla dittatura del proletariato dopo il 21 marzo. Essi non sono stati migliori di quella marmaglia, perché seguirono la stessa politica di opportunismo. Non è infatti molto meritorio essere rivoluzionari quando la rivoluzione è già avvenuta. Ciò che caratterizza il marxista cosciente e il rivoluzionario è il fatto che egli esalta la necessità e la giustezza della rivoluzione presso le masse non ancora coscienti, che dimostra la necessità e la certezza della sua vittoria, quando ciò non è ancora chiaro a tutti (...)

«Se l’Intesa non ci soffocherà non è perché non lo voglia, ma perché non può farlo. Non può farlo non solo perché le mancano le truppe sulle quali contare, ma anche perché al suo interno le condizioni politiche sono carenti.

«Ma superare questa crisi non sarà facile, soprattutto perché è una crisi di potere.

«In Ungheria l’instaurazione della dittatura del proletariato non è stata il risultato di una lotta aspra per la presa del potere. La concomitanza di alcune fortunate circostanze di politica internazionale ha avuto il merito di portare il proletariato al potere. Ne ha sofferto la stabilità della dittatura, in quanto la sua conquista è avvenuta senza lotta: ne è derivata l’idea secondo cui non esiste qui la necessità di proseguire la lotta di classe. Quest’idea, che spinge alla clemenza nei riguardi della borghesia, ha potuto pertanto diffondersi con facilità sortendo l’effetto di indebolire la coscienza di classe e la combattività del proletariato.

«Questa crisi di potere trova la sua migliore espressione nel timore e nella ripugnanza di prendere, di fronte a ogni manifestazione della controrivoluzione, tutte le misure politiche ed economiche radicali e definitive che la situazione esige. Questa incertezza nel potere spiega perché siamo arrivati a questo punto. La soggezione alla controrivoluzione e la tendenza ad evitare azioni armate contro di essa sono una negazione assoluta e totale della dittatura. Il compito della dittatura consiste nell’intimorire gli sfruttatori; si tratta di rendere impossibile, attraverso i mezzi di cui il proletariato dispone, ogni manifestazione controrivoluzionaria e di eliminare i nemici della rivoluzione proletaria (...)

«La crisi economica deriva, anch’essa, da mezze misure. Che provengono da una mancanza di fiducia nella dittatura, da un esercizio della dittatura non sufficientemente fermo. Erano state vietate le spedizioni individuali per l’approvvigionamento nelle campagne, ma l’indomani, sotto banco, si permetteva la prosecuzione di questa pratica (...)

«Si tratta di circostanze che occorre collocare nel contesto internazionale attuale. L’Intesa non si presenta con le sue vere armi, ma con delle promesse, il suo oro e tutti i suoi beni che, in certe frazioni anche del proletariato, accrescono le esitazioni e le tergiversazioni, che rompono l’unità. Ce ne sono che vi corrono dietro, come in passato i sabotatori degli scioperi correvano dietro le promesse della borghesia (...)

«Cosa succederà se il blocco perdura? Vivremo più difficilmente. Ma se il blocco sarà tolto allora dei 30.000 vestiti e dei 300 vagoni di grasso che l’Intesa ci consegnerebbe se ne approprierebbe la borghesia e i proletari non ne vedrebbero neanche il colore. Chi si augura questo spinge i proletari alla rovina totale.

«Tutte le sofferenze di questi tre mesi di dittatura del proletariato e quelle della guerra sarebbero ricompensate con lo sterminio del proletariato. La borghesia non applicherà alcuna clemenza nei riguardi del proletariato. Non facciamo alla borghesia nient’altro di quello che ci ha fatto. E noi siamo ben più clementi riguardo alla borghesia di quanto essa non lo fu nei riguardi dei mietitori in sciopero che fece imprigionare, e in generale nei riguardi del proletariato.

«La putrefazione della vecchia società è percettibile anche oggi, e noi potremo mettervi fine non manifestando alcuna tergiversazione, alcuna esitazione, ponendoci fermamente sulle posizioni della dittatura del proletariato».


8.2. - Lo sciopero internazionale del 20 21 luglio

Il 18 giugno Zinoviev, a nome del Comitato Esecutivo dell’Internazionale Comunista, in fase di organizzazione nelle varie parti del mondo, aveva lanciato un appello ai lavoratori e ai comunisti per mobilitare tutte le forze disponibili alla riuscita di uno sciopero internazionale. Vi si denunciava la controrivoluzione borghese che, dopo i cinque anni del macello mondiale, si alleava, armava e schierava eserciti e bande di controrivoluzionari spietati contro il proletariato al potere nelle repubbliche sovietiche di Russia e d’Ungheria.

L’appello concludeva:

«La sola via d’uscita e la salvezza stanno nella rivoluzione socialista mondiale.

«Il Comitato Esecutivo dell’Internazionale Comunista propone agli operai del mondo intero di esprimere solidarietà con i popoli delle repubbliche sovietiche organizzando una manifestazione contro l’invasione in Russia e in Ungheria. Non è più l’ora delle proteste verbali, è tempo di agire.

«All’alleanza dei briganti capitalisti del mondo intero, i lavoratori devono contrapporre la loro alleanza, l’alleanza internazionale fraterna degli operai. Le stesse grida devono risuonare nelle strade di Londra e Parigi, di Berlino e Roma, di Vienna e Praga, New York e Tokyo. Abbasso l’intervento contro le repubbliche sovietiche! Abbasso il capitalismo! Abbasso il potere della borghesia! Viva il potere dei lavoratori! Viva la repubblica internazionale dei consigli!».

Il 19 luglio il Comitato Esecutivo dell’Internazionale torna a lanciare un nuovo appello ai lavoratori di tutto il mondo a difesa della Repubblica dei Consigli:

«Il Comitato esecutivo dell’Internazionale fa appello ai lavoratori e ai soldati cecoslovacchi, romeni e iugoslavi. Compagni, smettete di svolgere il ruolo di carnefici coatti dei lavoratori ungheresi! Tendete una mano fraterna ai vostri fratelli, i soldati e i lavoratori ungheresi. I lavoratori del mondo intero si scostano con disprezzo da coloro che in questo cruciale momento mancano al proprio dovere. Lavoratori e soldati di Francia! La borghesia del vostro Stato va condannata energicamente per la campagna dei carnefici contro la Repubblica sovietica ungherese. Levate voci di protesta! Strappate il potere dalle mani dei più grandi malfattori che il mondo abbia mai conosciuto. Strappate di mano agli assassini il coltello che abbassano sui vostri fratelli, i lavoratori ungheresi».

8.2.1 - “Manovre borghesi contro lo sciopero”

Scrivemmo nel nostro “Il Soviet” del 20 luglio 1919:

«L’Internazionale, che i profeti della menzogna diedero per morta sotto i colpi delle cannonate del fatale agosto 1914, vive, e dà filo da torcere ai suoi interessati becchini. La riprova della sua vitalità è data dalla incredibile furia di menzogne, di falsificazioni, di corbellerie con cui tutti i portavoce del capitalismo, grossi e piccini, si vanno scagliando contro lo sciopero internazionale del 20-21 luglio (...)

«Alla fine dello scorso dicembre, alla vigilia delle elezioni generali inglesi, Lloyd George dichiarava solennemente nella Camera dei Comuni che né l’Inghilterra né le altre potenze alleate avevano la minima intenzione di intervenire in Russia. I fatti hanno dimostrato tutta la volpina ipocrisia di tali dichiarazioni. Non si sono mandate truppe, è vero, ma non per volontà leale di lasciar la Russia libera di pensare ai casi suoi, bensì perché dopo quattro anni di guerra non si possono lanciare le truppe a nuove avventure di guerra, senza pericolo che esse passino al bolscevismo, come a Odessa, e perché l’invio di truppe mostrerebbe troppo chiaramente alle masse operaie i veri motivi della ritardata smobilitazione.

«Ma, se non si sono mandate truppe, si tiene la squadra inglese nel Baltico a stringere il blocco della fame contro la Russia sovietica impedendole ogni comunicazione, anche di contrabbando, con i paesi neutri vicini, Svezia, Norvegia, Danimarca, Germania; si danno armi, munizioni, viveri, denari ai Kolciak e ai Denikin perché possano rafforzare le loro bande mercenarie della reazione e massacrare in maggior numero gli operai e contadini dei Soviety, si chiude il cerchio intorno alle repubbliche comuniste, per costringerle al fallimento economico, e darne poi la colpa non all’odio di classe del capitalismo internazionale affamatore, ma alla pretesa inattuabilità dei postulati comunisti; si riconosce Kolciak, il futuro massacratore dei lavoratori e restauratore della proprietà privata, e gli si dà ogni appoggio morale e materiale nella lotta contro la repubblica sociale, che quel tristo arnese dello zarismo non potrebbe sostenere un giorno senza i denari e le armi dell’Intesa.

«E poi, con una faccia fresca degna della più genuina tradizione di S. Ignazio, si tenta di ingannare i lavoratori, facendo correre voci di prossimo ritiro delle truppe dalla Russia, di abolizione del blocco, ecc. Intanto il blocco di sottomano si inasprisce, le macchinazioni contro le Comuni di Russia si intensificano: si spera che, quando il proletariato avrà aperto gli occhi, i loro compagni di Russia e d’Ungheria, che primi sventolarono al sole della nuova storia il rosso segno della emancipazione del lavoro, saranno stati già schiacciati dai tanks dell’Intesa, dalle guardie bianche organizzate, istruite, pagate dall’Intesa.

«Il Loyola inglese ha trovato il suo piccolo panciuto imitatore in Italia. Alla vigilia dello sciopero di protesta, Nitti, con la faccia più marmorea del mondo, se ne viene a dire: Ma come? Gli operai italiani scioperano per protestare contro l’intervento in Russia? Ma se noi intendiamo non mischiarci affatto negli affari russi e ungheresi...

«Il trucco è evidente. Intanto, è certo che soldati italiani combattono nel settore d’Arcangelo e a Vladivostok contro le milizie rosse dei Soviety. Armi e munizioni italiane sono inviate a Denikin. E, soprattutto, il governo italiano partecipa con tutto lo zelo dei servi sciocchi al blocco affamatore, la più perfida e odiosa arma brandita dal capitalismo internazionale contro il nuovo diritto dei lavoratori.

«Chi vuole ingannare l’on. Nitti parlando, in tali condizioni, di non intervento e di rispetto alla volontà delle popolazioni russe? Finché il governo italiano non avrà riconosciuto le repubbliche dei Consigli in Russia e in Ungheria, e non avrà ristabilito con questi paesi i rapporti diplomatici, economici, commerciali, esso è complice della politica antiproletaria dell’Intesa, e il proletariato italiano ha il diritto e il dovere di insorgere.

«Né ci fa meraviglia che la stampa borghese – e specialmente quella napoletana – non capisce niente delle ragioni dello sciopero e, mentre fa circolare manifesti di origine evidentemente poliziesca a firma dei soliti “molti operai”, o di anemiche organizzazioni gialle battezzate per l’occasione rosse, si meraviglia perché i lavoratori italiani scioperino... per un paese così lontano come la Russia.

«In questo appunto sta per noi l’importanza della manifestazione, che tutto lascia prevedere grandiosa, nonostante i maneggi e le male arti degli avversari, che però non avranno alcuna presa sugli operai. Lo sciopero del 20-21 dimostrerà che in tutto il mondo il proletariato ha assunto coscienza della sua unità, della sua funzione storica rivoluzionaria: esso sarà una notevole tappa della rivoluzione mondiale in marcia».


8.2.2. - Insufficiente solidarietà internazionale

A Vienna il 21 luglio la maggioranza degli operai sfila manifestando per le strade, le grandi aziende industriali di Berlino cessano il lavoro, a Erfurt, a Kiel, a Norimberga, a Dusseldorf e ad Halle alcune aziende si fermano, anche in Italia, in Francia e in Inghilterra vi sono dei movimenti, lo sciopero scoppia anche nella capitale romena e perfino a Pécs contro le truppe iugoslave d’occupazione.

Ma le manovre borghesi hanno successo e lo sciopero in generale fallisce, fiaccando ulteriormente il generoso proletariato ungherese.

In Francia fallisce perché la direzione della C.G.T. decide di revocarlo dopo che una sua delegazione è stata ricevuta da Clemenceau. Il 21 luglio al posto dello sciopero si tiene il Comitato Confederale Nazionale, e in quell’occasione Jouhaux arriva a dichiarare in un passaggio del discorso concernente i movimenti rivoluzionari in corso nella Russia sovietica e in Ungheria: «la rivoluzione che finisce nella carestia non è la rivoluzione ma la sua distruzione».

Il Comitato Esecutivo della Terza Internazionale il 24 luglio stila un bilancio del movimento: «Lo sciopero del 21 luglio è fallito. I socialtraditori hanno aggiunto un tradimento alla lunga serie dei loro crimini, iniziata nel 1914, contro la classe operaia internazionale. Lo sciopero è fallito in alcuni paesi in cui era stato indetto. E il suo primo risultato è che gli imperialisti dell’Intesa preparano un nuovo attacco contro l’eroica Repubblica dei Consigli d’Ungheria».

Il rapporto dell’Internazionale prosegue descrivendo le manovre del governo controrivoluzionario formatosi a Szeged per preparare l’attacco finale alla Repubblica sovietica ungherese.

«Se le orde delle guardie bianche si scagliano contro gli eroici proletari ungheresi, che hanno liberato il proprio paese dal giogo capitalista, la responsabilità sarà soprattutto dei socialtraditori che hanno fatto fallire lo sciopero del 21 luglio.

Riprendiamo dal testo:

«Il secondo risultato del fallimento di questo sciopero, dovuto alle manovre dei socialtraditori, è che gli imperialisti inglesi preparano di nuovo un attacco contro Pietrogrado (...) E i lavoratori di Pietrogrado si devono difendere una volta di più contro un attacco delle truppe controrivoluzionarie (...) Questo nuovo tradimento dei socialisti ufficiali vi apra ancor di più gli occhi sul fatto che le organizzazioni della Seconda Internazionale sono agenzie della borghesia e che noi non potremo compiere un passo in avanti senza rompere con questi traditori della classe operaia (...) Solo una rivoluzione proletaria vittoriosa nel mondo intero ci permetterà di sbarazzarci una volta per tutte dei terrori della guerra e del capitalismo».

Al Primo Congresso di tutta la Russia dei Lavoratori dell’istruzione e della cultura socialista il 31 luglio Lenin fa un bilancio dello sciopero internazionale:

«Il 21 luglio è stato compiuto un primo tentativo di sciopero internazionale degli operai di Inghilterra, Francia e Italia contro i governi di questi paesi, con la parola d’ordine: cessate ogni ingerenza negli affari della Russia e concludete una pace onesta con la repubblica. Il tentativo non è riuscito. In una serie di paesi, in Inghilterra, in Francia e in Italia, ci sono state ondate di scioperi isolati. In America e in Canada c’è una persecuzione feroce contro tutto ciò che riguarda il bolscevismo.

«Negli ultimi anni abbiamo vissuto la storia di due grandi rivoluzioni. Sappiamo con quanta difficoltà nel 1905 l’avanguardia delle masse lavoratrici si sia lanciata nella lotta contro lo zarismo. Fra quali difficoltà dopo il 9 gennaio, dopo la prima lezione sanguinosa, il movimento degli scioperi si sia lentamente e faticosamente sviluppato fino all’ottobre del 1905, quando per la prima volta uno sciopero di massa ha avuto successo in Russia. Sappiamo come è stato difficile. Lo ha dimostrato l’esperienza di due rivoluzioni, benché in Russia la situazione fosse più rivoluzionaria che in tutti gli altri paesi. Sappiamo con quanta fatica si organizzino, in una serie di scioperi, le forze per la lotta contro il capitalismo. Perciò l’insuccesso di questo sciopero internazionale del 21 luglio non ci sorprende.

«Sappiamo che nei paesi europei la rivoluzione incontra una resistenza e un’opposizione incomparabilmente maggiore che da noi. Sappiamo che gli operai di Inghilterra, Francia e Italia, quando hanno proclamato lo sciopero internazionale per il 21 luglio, hanno superato difficoltà inaudite. È stato un esperimento senza precedenti nella storia, non è sorprendente che non sia riuscito.

«In compenso sappiamo che le masse lavoratrici dei paesi più progrediti e civili, nonostante il furore della borghesia europea contro di noi, sono con noi, comprendono la nostra causa e, quali che siano le difficoltà della rivoluzione e le prove che ci aspettano, quale che sia l’atmosfera di menzogna e d’inganno in nome della “libertà ed eguaglianza” del capitale, dell’eguaglianza fra l’affamato e il sazio, quale che sia questa atmosfera, sappiamo che la nostra causa è la causa degli operai di tutto il mondo e perciò essa vincerà inevitabilmente e ineluttabilmente il capitale internazionale».


8.3. - L’ultima resistenza

I proletari e i comunisti ungheresi rimangono soli a lottare.

Capi del sindacato e persino commissari del popolo socialdemocratici cominciano a trattare con le missioni dell’Intesa, alle spalle del Consiglio di Governo, in cambio di qualche vagone di alimenti. Dichiarano apertamente che se il proletariato rinunciasse al Governo dei Consigli il blocco sarebbe tolto e tornerebbe il benessere e l’abbondanza per la classe operaia.

L’ultima offensiva dell’Armata Rossa avviene in contemporanea con lo sciopero internazionale e, nonostante l’inferiorità rispetto al nemico, ottiene un iniziale successo: attraversa il Tibisco facendo arretrare le divisioni avversarie e occupa alcune decine di chilometri di territorio spingendosi sino a Szentes e Hódmezővásárhely a sud, e Karcag al centro. Ma lo stato maggiore romeno è a conoscenza del piano d’attacco di Julier, informato dai socialisti, e il 24 e 25 luglio lancia il contrattacco al 1° corpo d’armata ungherese e annienta la brigata internazionale che vede la metà dei suoi effettivi catturati dal nemico. In breve l’Armata Rossa è costretta a riattraversare il Tibisco, esposta ad ulteriori attacchi romeni.

Il 26 luglio le potenze dell’Intesa invitano la reazione ungherese a rovesciare la Repubblica dei Consigli. I comunisti tentano di mobilitare la classe operaia di Budapest. Ma i socialdemocratici di destra, maggioritari, col metro democratico non tempestivamente rigettato dai comunisti, vogliono imporre le dimissioni di Béla Kun. Il pretesto è che un governo di emanazione sindacale permetterebbe di conservare alcune conquiste operaie.

Il 31 luglio Kun è al ponte del Tibisco, fra i soldati rossi, nel vano tentativo di fermare la ritirata. Il giorno seguente è a Királyhida, sulla frontiera austriaca, dove s’incontra segretamente con i socialtraditori Böhm, Weltner e Károly Peyer, che a Vienna sono in contatto con l’Intesa, per verificare se vi siano ancora margini di trattativa.

Il 1° agosto, al Consiglio Rivoluzionario, riunito per l’ultima volta, Kun propone di difendere Budapest a oltranza con le milizie operaie, ma il loro comandante, il socialdemocratico József Haubrich sostiene che ciò rappresenterebbe solo un inutile spargimento di sangue. Kun accetta la proposta di Weltner: dimissioni del governo e passaggio dei poteri a un gruppo di dirigenti sindacali incaricati di trattare la pace. La direzione del Partito e il Consiglio Rivoluzionario danno le dimissioni, che in serata Zoltán Rónai legge di fronte al Consiglio Centrale degli operai e dei soldati di Budapest:

«Il 21 marzo la dittatura del proletariato è stata proclamata nella speranza della Rivoluzione mondiale, dell’aiuto militare sovietico e dello spirito di sacrificio del proletariato ungherese. Non una di queste condizioni si è verificata».

Interviene anche Béla Kun:

«La dittatura del proletariato è caduta. Caduta tanto economicamente quanto politicamente e militarmente (...) Noi ci ritiriamo, cercando di conservare l’unità di classe o, comunque, lottando in altri modi, per poter cominciare un giorno con rinnovata forza, più ricchi di esperienze, in condizioni migliori e con un proletariato più maturo, una nuova battaglia per la dittatura del proletariato, aprendo così una nuova fase della rivoluzione proletaria internazionale».

Nel testo “Le lotte di classe e la dittatura del proletariato in Ungheria”, iniziato nel carcere a Budapest nel febbraio-marzo 1919 e terminato a Berlino a fine agosto 1919, Béla Szánto scriveva:

«Quando nella seconda metà del mese di luglio si procedette all’offensiva contro i romeni oltre la Tisza, così nel comando dell’esercito come nello stato maggiore dei singoli corpi d’armata dovettero introdursi dei mutamenti. Gli antichi ufficiali controrivoluzionari furono arrestati dagli stessi soldati. Benché la demoralizzazione dell’esercito si diffondesse a poco a poco, tuttavia l’Armata Rossa batté sonoramente i romeni. Ma gli ufficiali sabotarono dando alle truppe senza alcun motivo l’ordine di ritirata, allo scopo di provocare scompiglio. Una parte delle truppe abbandonò le posizioni e diffuse nell’interno notizie catastrofiche.

«La maggior parte dei Commissari del popolo e i più influenti capi del movimento operaio accorsero al fronte per ristabilirvi l’ordine. Intanto il gruppo dei disfattisti annodava trattative con l’Intesa.

«Il Consiglio di Governo il 1° agosto tenne una seduta. Ivi fu presentato un rapporto ufficiale sfavorevole sulle operazioni militari in corso, mentre altri presentavano le proposte dell’Intesa. La situazione, già minata, non si poteva più salvare. Il Consiglio di Governo deliberò di ritirarsi e già nella stessa seduta si costituì il nuovo governo socialdemocratico. Il Consiglio degli operai fu così posto davanti al fatto compiuto, e sulla sua risoluzione non poté influire il fatto che il rapporto di guerra presentato al Consiglio di Governo non corrispondeva alla realtà. Infatti, proprio quel giorno l’Armata Rossa sconfiggeva i romeni a Szolnok, conquistava un bottino di 16 mitragliatrici, 20 cannoni e molto materiale da guerra, e dopo mezzanotte, già dopo la liquidazione della dittatura dei Consigli, entrava in Szolnok».

Nei giorni successivi però i romeni sfondano a Miskolc e a Szolnok arrivando a ottanta chilometri dalla capitale.

Il governo sindacale con alla testa il socialdemocratico Peidl abolisce subito le conquiste della dittatura e cominciano gli arresti con la parola “Paghino i colpevoli!”.

Ma la sua esistenza è breve. Il 6 agosto un colpo di Stato rovescia questo governo per rimpiazzarlo con quello presieduto dall’imprenditore István Friedrich, dietro il quale trama l’Arciduca Joseph per il ritorno della monarchia. L’Arciduca invia il 12 agosto un telegramma a Clemenceau per comunicargli che il governo da lui sostenuto prepara l’annientamento del bolscevismo.

L’errore decisivo, quello che impedì di modificare a vantaggio del proletariato ungherese il rapporto delle forze nella lotta controrivoluzionaria all’interno e all’esterno, fu che i comunisti credettero possibile recuperare alla rivoluzione la socialdemocrazia, quando, sull’onda del moto operaio, finse di capitolare di fronte alla piattaforma comunista, accettare la rivendicazione del potere ai Soviet e l’adesione all’Internazionale.

Ma i socialdemocratici, anche quelli di estrema sinistra, eccetto uno o due, in particolare Eugen Varga, continuarono nel loro ruolo al servizio della borghesia e della conservazione. Furono loro a impedire ai comunisti di mettere a tacere i capi socialdemocratici più esitanti e ostili. Alcuni parteciparono direttamente alle cospirazioni, anche in armi, per estromettere i comunisti al governo.

Durante il Congresso del partito unificato, quando la rottura fra comunisti e socialdemocratici divenne imminente, furono questi elementi di sinistra ad abbandonare i comunisti per allinearsi, col pretesto dell’“unità”, con i socialdemocratici di destra.

Ricorderà Kun in “Perché la rivoluzione proletaria ha vinto in Ungheria? Nel XV anniversario della Repubblica socialista ungherese dei Consigli”:

«Quanto a noi comunisti, anche se non eravamo assoggettati alla socialdemocrazia e non consideravamo l’”unità” come una cosa vera, ci cullammo tuttavia nell’illusione che saremmo riusciti a controbilanciare le esitazioni dei centristi con la nostra opera di persuasione e che avremmo potuto così portarli dalla nostra parte.

«Sia pure in ritardo, demmo il via ad un movimento segreto ed illegale, che riunisse alcuni quadri di un nuovo partito comunista. In questo lavoro fummo sostenuti non soltanto dai comunisti che godevano giustamente di un’ascendente preponderante, ma anche da tutto un gruppo di dirigenti operai che, dopo il 21 marzo, avevano accettato la piattaforma comunista. Questo tentativo promettente fallì solo in seguito alla caduta della dittatura. Il non aver saputo sfruttare la vittoria riportata sulla socialdemocrazia, la mancata intuizione del ruolo di essa: ecco le cause fondamentali che, data la situazione dei rapporti di forza internazionali, condussero alla caduta della Repubblica Ungherese dei Consigli, quattro mesi e mezzo dopo la sua proclamazione».


8.4. - La denuncia dell’Internazionale

Il 5 agosto l’Internazionale torna ad appellarsi alla classe operaia mondiale:

«È stato compiuto un terribile tradimento. In Ungheria è crollato il potere sovietico sotto il peso del triste tradimento dei predoni imperialisti e dei socialtraditori (...) L’ex partito socialdemocratico ha dimostrato tutta la sua bassezza. Aveva giurato la sua fedeltà alla dittatura del proletariato. Si era accordato con il partito comunista, anzi, si era unificato con questo partito. In sedute solenni, al Congresso dei Consigli e al Congresso del Partito era stata affermata la volontà di combattere fino all’ultima goccia di sangue per il comunismo (...) Questo partito ha tradito il proletariato, la rivoluzione, il glorioso Partito comunista ungherese, l’Internazionale. Alleandosi segretamente con gli assassini di Versailles e con i controrivoluzionari interni (...) Così come gli scheidemanniani e i kautskiani affogano nel sangue la rivoluzione in Germania, così come i "socialisti-rivoluzionari" russi e i menscevichi appoggiano di fatto i generali zaristi (...) così i socialtraditori ungheresi hanno portato alla rovina la Repubblica ungherese dei Consigli, vanto del proletariato internazionale».










9. - Contro-rivoluzione


9.1. - “Il Soviet” sul dopoguerra imperialista

Scrivemmo su “Il Soviet” del 3 agosto 1919:

«Quella breve accolita brigantesca che pretende di dettare da Parigi le norme che debbono regolare il mondo in nome del mandato che ha ad essa affidato la plutocrazia francese, inglese ed americana, persegue inesorabilmente il suo programma di rapina, di spartizione e di sfruttamento.

«Ha cominciato colla eliminazione per lo meno temporanea del più pericoloso suo concorrente, il capitalismo tedesco, il quale sotto la pressione formidabile della iniqua pace, naturale conseguenza della più iniqua guerra, dovrà per parecchi anni dibattersi nella morsa che lo soffoca e da cui non potrà liberarsi se non dopo lungo tempo e immensi sacrifizi.

«Gli altri Stati e staterelli, sia sorti sulle rovine della vecchia Austria sia balcanici, non sono concorrenti da eliminare dalla lotta: essi rappresentano per i grossi capitalisti della Intesa non altro che delle colonie europee.
«Tra quel gruppo di paesi, che per irrisione si considera tra i vincitori, ma che di fatto nei rapporti del comitato parigino è tra i paesi vinti è anche l’Italia, la quale povera di materie prime, di denaro, di fiorenti industrie non può assidersi alla mensa alla pari con i ricchi odierni.

«E se costoro ne ostacolano oggi le pretensioni e cercano di comprimerne le aspirazioni è per non dare agio alla classe capitalistica italiana di svilupparsi in modo che possa divenire domani un concorrente a cui bisogni dare una parte del bottino.

«Mentre queste trattative procedono stentatamente, la Conferenza di Parigi lavora alacremente ad eliminare il suo maggiore nemico: il bolscevismo. Nei primi mesi dopo l’armistizio il rafforzamento sempre maggiore dei comunisti in Russia, i grandi moti spartachiani in Germania, il successo della rivoluzione ungherese, le agitazioni operaie nei vari paesi dell’Intesa sembravano dovessero trascinare rapidamente ovunque a rovina il regime borghese. Ma la storia non prosegue un cammino regolare (...)

«Ora la borghesia segue la tattica guerresca di tentare di eliminare il nemico più piccolo, per poi, eliminato questo, far convergere tutte le sue forze verso il maggiore e perciò ha concentrato tutte le sue forze contro i comunisti di Ungheria.

«Ha armato ed aizzato contro di essi una muta di cani, costituita dai vari nuovi Stati che la circondano e di cui essa sollecita la voracità promettendone a spese del territorio ungherese il possibile ingrandimento; romeni, cechi, serbi, polacchi son scatenati contro l’esercito rosso ungherese, che difende la rivoluzione con sublime energia e fede.

«Per colmo di sua vergogna la Francia borghese, che vede i suoi eserciti bellicosi dissolversi al fuoco ardente e vicino della rivoluzione, scaraventa contro di essa le sue truppe di colore, di cui quasi interamente è costituito il corpo di spedizione che dovrà agire e già agisce contro l’Ungheria proletaria.

«In questo delittuoso tentativo l’Italia ufficiale, patria del non mai abbastanza ricordato Machiavelli, fa il solito doppio giuoco.

«Alla conferenza della pace si fa rappresentare dai più vecchi arnesi dei suoi partiti reazionari, prima Sonnino ispiratore delle leggi repressive contro i sovversivi, poi Tittoni, clericale, reazionario anche lui, tutta gente odiatrice di qualsiasi libertà e sempre disposta a dare il proprio contributo per sacrificarla.

«Nell’interno del paese invece i ministri si affannano a dichiarare che l’Italia non parteciperà in alcun modo ad un intervento armato contro l’Ungheria. Ma non basta il non partecipare coi propri soldati, questo non è un merito del governo borghese, è un merito dei nostri soldati che col fatto hanno proprio in Ungheria dimostrato il loro stato di animo favorevole alla rivoluzione. Il governo dovrebbe non limitarsi a questa passiva e non spontanea inazione, dovrebbe se fosse sincero fare opera positiva per combattere in seno agli alleati il proposito dell’intervento ed in tal senso doveva essere posto il quesito dai nostri compagni.

«Ma noi pretenderemmo troppo, la nostra pretesa sarebbe contraria a quel realismo cui si ispira la nostra dottrina.

«In difesa delle repubbliche comuniste debbono vegliare e vegliano i proletari del mondo i quali debbono intendere e intendono che la rivoluzione proletaria è nella sua intima essenza internazionale e che il regime comunista non può a tempo indeterminato coesistere con quello borghese, ma fatalmente l’uno deve distruggere l’altro, o per meglio dire è quest’ultimo che dev’essere distrutto».


9.2. - Sabotaggio interno

La dittatura avrebbe dovuto esercitarsi contro la socialdemocrazia, non coalizzarsi con essa. Invece quella alleanza impose ai comunisti una politica vacillante nei confronti delle classi aristocratiche e borghesi.

Nel partito socialdemocratico era confluito un gran numero di piccolo-borghesi: impiegati, funzionari e ufficiali, oltre agli strati inferiori delle forze armate (poliziotti e gendarmi) che, in quel momento, tendevano a spostarsi a sinistra.

Tranne pochi ministri del precedente governo che si erano rifugiati nei migliori sanatori, gli aristocratici, gli ufficiali e ogni borghese di sentimento controrivoluzionario si aggiravano liberi in tutto il paese perché il commissario alla giustizia, un socialdemocratico, si opponeva a ogni limitazione delle libertà personali.

Oltre all’immondizia ereditata dal capitalismo, che sempre si manifesta in tutte le rivoluzioni, la corruzione era stata consentita dall’applicazione moderata della dittatura. Elementi avidi della borghesia e soprattutto della piccola borghesia si erano infiltrati in diverse istituzioni sovietiche. I socialdemocratici sabotavano ogni provvedimento repressivo, appoggiati dalla massa degli impiegati di Stato lasciati per “ragioni umanitarie” nell’apparato dell’amministrazione e dell’approvvigionamento pubblico.

Col pretesto che la religione è da ritenere questione privata, si era impedito il disciplinamento del clero, mentre i preti nei villaggi incitavano indisturbati i contadini all’affamamento delle città e alla controrivoluzione.

Provvedere di viveri la capitale era divenuto sempre più difficile. Requisizioni energiche di vettovaglie si facevano soltanto nei luoghi in cui i contadini proprietari avevano organizzato controrivoluzioni armate. Queste, sempre più frequenti, erano state facilmente represse.

I funzionari socialdemocratici di destra e di centro avevano tramato dall’interno per indebolire e rovesciare la Repubblica dei Consigli. Convocavano riunioni segrete. Spesso si recavano a Vienna per trattare con le autorità socialdemocratiche austriache e con i diplomatici degli Stati dell’Intesa. Utilizzavano anche gli emissari dei paesi nemici di stanza a Budapest per inviare le loro proposte a Praga, a Bucarest e a Parigi.

Kun il 21 dicembre 1919, in Austria, nella fortezza di Karlstein dove i comunisti si troveranno rinchiusi, rilascerà una intervista al “Liberator”, una rivista americana:

«Perché ci siamo alleati, all’inizio della rivoluzione, con i socialdemocratici non rivoluzionari? Bisogna tener presente che il nostro Partito era piccolo e non avrebbe potuto compiere la rivoluzione da solo. D’altra parte, noi non accordammo alcuna concessione ai socialdemocratici; furono loro ad accettare il programma bolscevico.

«Speravamo di eliminare, una volta avvenuta la fusione, i loro elementi più conservatori. Alcuni, in effetti, abbandonarono il Partito, ma altri, rispettando in apparenza le idee comuniste, ci attaccavano alle spalle, rivelandosi peggiori dei controrivoluzionari, i quali almeno agivano apertamente. In realtà, quelli che all’inizio si erano mostrati sostenitori della dittatura e del comunismo furono coloro che ne provocarono la caduta.

«I socialdemocratici furono pure corrotti dai sindacati. Da noi, il PSD e i sindacati erano una sola cosa. La burocrazia sindacale e quella del partito furono, per tutto quel periodo, il sostegno segreto della reazione. Al momento della sconfitta gettarono la maschera e si trasformarono in odiosi controrivoluzionari. Tutti questi dirigenti socialdemocratici che collaborano oggi con la dittatura militare di Budapest e coloro che, rifugiati a Vienna, scrivono ora contro il terrore bianco, ebbero tutti contatti regolari con le missioni dell’Intesa lavorando per la controrivoluzione. È il caso, per esempio, dell’ex redattore della “Népszava”, Jakob Weltner, che firmò durante il periodo della dittatura parecchi articoli comunisti, pur mantenendo contatti segreti con il governo controrivoluzionario di Szeged.

«Queste persone hanno favorito la restaurazione del capitalismo in Ungheria, hanno costretto alla miseria i lavoratori e hanno consegnato al terrore bianco i migliori figli della classe operaia. Questi socialdemocratici – e d’altronde oggi lo dicono essi stessi – si sono prestati alla creazione del sistema dei Consigli solo per fini nazionalistici e per difendere il territorio. Quando il tanto idolatrato programma di Wilson non consentì loro di salvaguardare la “integrità territoriale”, essi cercarono di fare la stessa cosa sulla base del programma bolscevico. Noi comunisti, invece, ci attenemmo allo spirito del programma non tanto per salvaguardare le frontiere dell’Ungheria, quanto per favorire la rivoluzione internazionale».

Nella Prefazione a “I documenti della scissione” László Rudas scrive:

«Se un partito, che per decenni si è proclamato proletario e rivoluzionario, proprio nella rivoluzione non compie nemmeno per caso sia pure un solo passo rivoluzionario e invece della forza organizzata del proletariato, e della influenza acquisita per mezzo delle masse organizzate fa sempre uso conseguentemente e coscientemente contro la rivoluzione del proletariato e nell’interesse del capitalismo – non commette allora un errore, ma un tradimento. E quando un partito, come dappertutto i partiti socialdemocratici, rivolge tutto il meccanismo oppressivo dello Stato capitalista contro la rivoluzione proletaria, sparge sangue fraterno nell’interesse della contro-rivoluzione capitalista, che cos’è questo se non un tradimento? (...)

«Già da prima, ma specialmente dopo l’arresto dei capi comunisti, il Partito comunista ungherese voleva costringere il Partito socialdemocratico a togliersi la maschera proletaria con cui copriva il suo carattere controrivoluzionario. E voleva strappare via quel velo alla traditrice burocrazia sindacale e di partito, nello stesso tempo cercando di separare da essa gli elementi più coscienti del Partito. Allora avrebbe avuto un senso la costituzione d’un Partito socialista “indipendente” (...)

«La maggior parte dei capi del Partito socialdemocratico abbracciò il punto di vista della dittatura contro la propria convinzione, per non trovarsi escluso dal potere. Questa fu la disgrazia della dittatura proletaria ungherese, perché i socialdemocratici, pur avendo accettato il programma del Partito comunista, non fecero altro durante tutta la dittatura proletaria che macchinare contro questo programma, scoraggiare le masse, impacciare il funzionamento della dittatura e portare un pronto aiuto ad ogni controrivoluzionario, dai giornalisti alle missioni dell’Intesa.

«E questi vili traditori, che subito dopo la caduta della dittatura proletaria si vantarono di aver creato “confusione”, rivaleggiando a dimostrare come erano stati bravi, ad un tratto s’accorsero che il Partito socialdemocratico, potente e ben organizzato, aveva agito soltanto sotto il “terrore” di pochi comunisti “avventurieri” e “dilettanti”.

«L’unità di principio si trasformò in “terrore di avventurieri”, e la disgrazia dei socialdemocratici, poveri diavoli!, era soltanto che la borghesia fosse più del proletariato pratica del terrore (non c’è da farsene meraviglie, essa ne ha acquistato tale pratica nel corso di molti secoli!) e non si fosse affrettata a perdonare loro, benché essi lo desiderassero con tanto ardore! (...)


9.3. - Non giunge l’Armata Rossa

Lenin il 21 aprile scrive un telegramma al comandante in campo Vātcietis e al membro del Consiglio militare rivoluzionario Aralov per sottolineare con fermezza la necessità di una avanzata delle truppe dell’Armata Rossa: «È necessario avanzare in Galizia e nella Bucovina per collegarsi con l’Ungheria sovietica. Bisogna assolvere questo compito con rapidità e fermezza, ma, al di fuori di questo compito, non vi è alcuna necessità di occupare la Galizia e la Bucovina, perché l’esercito ucraino non deve essere in nessun caso distratto dai suoi compiti principali: il primo e più importante e urgente è quello di aiutare il Donbass. Quest’aiuto deve essere recato subito e in larga misura. Il secondo compito è quello di istituire collegamenti ferroviari permanenti con l’Ungheria sovietica. Comunicate ad Antonov-Ovseenko le vostre direttive e le misure per il controllo della loro esecuzione».

Negli stessi giorni nei pressi di Kiev cominciava il concentramento dei battaglioni internazionalisti ungheresi dell’Armata Rossa in Russia. Si trovarono lì a combattere le truppe romene nella Bessarabia e nella Bucovina in vista di andare in aiuto della Repubblica dei Consigli attraverso i Carpazi.

Ma il congiungimento delle armate russa e ungherese non fu possibile per il rapido sbilanciamento delle forze in campo.

L’armata contadina, “verde”, dell’Atamano Grigoriev aveva già cambiato due volte bandiera, fra bianchi e rossi. Quasi tutte le formazioni cosacche, bianche e verdi, erano principalmente interessate al controllo e alla difesa dei territori nativi, da cui mal volentieri si allontanavano per combattere, noncuranti delle sorti della rivoluzione mondiale, se non vedevano un immediato vantaggio.

Antonov-Ovseenko, comandante militare comunista, il 2 maggio ordinò a Grigoriev di spostare i suoi cosacchi ai confini rumeni della Bessarabia, a sostegno degli ungheresi. Ma Grigoriev disattese quell’ordine per andare ad aprire un fronte lungo le coste meridionali del Mar Nero, estendere le aree controllate e sottoposte alle scorrerie e rapine dei suoi cosacchi. Sperava inoltre di collegarsi con le ben organizzate truppe del generale Denikin. Questi il 3 luglio aveva dato inizio all’operazione “Direttiva Mosca” che, con una articolata manovra, lo avrebbe portato alla conquista di Mosca impegnando così l’Armata Rossa in una estrema difesa della rivoluzione. Anche le scorribande dei cosacchi di Petljura contribuirono a complicare la situazione.

All’inizio di maggio giunsero le condizioni dell’armistizio avanzate dal comando dell’esercito boiardo romeno: la consegna di tutto il materiale rotabile ferroviario che si trovava ad est del Tibisco: settantaduemila tra locomotive e vagoni, passeggeri e merci.


9.4. - Primo tentativo dei bianchi

La controrivoluzione continuava ad organizzarsi.

Il 24 giugno, 13 ufficiali assieme a 300 allievi dell’ex-Accademia militare si impossessarono dei monitori danubiani, navi fluviali corazzate, e con questi tentarono di prendere Budapest cannoneggiando l’Hotel Hungaria, quartier generale del Governo dei Consigli.

Scrive nelle sue Memorie il tenente colonnello Romanelli, della missione militare italiana: «Il 24 giugno (...) tre monitori in fila indiana, battendo la bandiera nazionale ungherese, risalivano il Danubio tenendosi al centro del fiume (...) tutti i vapori e i battelli ormeggiati davanti all’Hotel Ritz, come obbedendo ad un segnale convenuto ammainavano la bandiera rossa e issavano quella nazionale».

La ribellione, preparata in grande stile con l’aiuto delle missioni dell’Intesa, venne facilmente repressa. Ma la mancata adeguata ritorsione consentì una recrudescenza dell’agitazione controrivoluzionaria, specialmente in provincia. Il tribunale rivoluzionario graziò gli allievi ufficiali ribelli condannandoli solamente ad una educazione sociale correttiva; condannò a morte i tredici organizzatori, ma anche questi furono graziati per l’intromissione delle Missioni, compresa quella italiana.

Sempre il Romanelli scriveva a Kun: «Come Capo della Missione Militare Italiana, solo Rappresentante del mio Governo e delle Potenze Alleate ed Associate, Vi prevengo che non posso disinteressarmi di tali violenze. M’indirizzo perciò al Vostro Governo per esigere che la vita degli ostaggi e dei prigionieri politici caduti nelle Vostre mani in seguito agli ultimi avvenimenti sia rispettata senza eccezioni, quant’anche siano stati presi con le armi in mano. Essi si sono battuti per idee e principi differenti da quelli professati dal Vostro Governo, ed è pertanto giusto che si faccia loro il trattamento riservato dalla Convenzione di Ginevra ai prigionieri di guerra».

Rispose Kun: «Richiamo alla memoria del Sig. Ten. Col. come a Monaco, a Riga e in vari altri luoghi dell’Ucraina e della Finlandia nessun rappresentante delle Potenze Alleate ed Associate si è levato a protestare contro l’assassinio di persone realmente innocenti. Al Sig. Tenente Colonnello non è venuto in mente d’indignarsi pel fatto che uomini prezzolati hanno sparato con cannoni e mitragliatrici sui sobborghi di Budapest, sugli ospedali e sulle case dove si trovavano donne e bambini, allettati dalla promessa di consentire loro un grande pogrom subito dopo il loro avvento al potere (...) L’amichevole disposizione dell’Italia non può prestarsi a riconoscere la figura di belligeranti a dei banditi che in forza d’una controrivoluzione mirano ad uccidere donne, bambini ed ebrei».

Alla riunione del Comitato esecutivo centrale del 25 giugno così Kun commentò:

«Cari compagni, quello che è accaduto a Budapest è il risultato inevitabile della credenza, sostenuta da molti, secondo cui la borghesia avrebbe cessato di esistere, che non le sarebbero rimaste più forze, che si sarebbe sottomessa alla dittatura del proletariato. Questo errore l’abbiamo pagato caro e, benché siamo riusciti a schiacciare questa controrivoluzione, resta il fatto che molti dei nostri compagni sono morti, vittime del terrore bianco scatenato dalla controrivoluzione. Bisogna riconoscere con tristezza che alla concezione erronea dell’applicazione della dittatura del proletariato è da imputare la morte di questi compagni e che questo errore rischia di costarci in futuro ancora più caro (Giustissimo! Giustissimo!) (...)

«Compagni, nessuno di noi ha mai preconizzato il versamento di sangue senza motivo, nessuno si è mai compiaciuto di pensare di rotolarsi voluttuosamente nel sangue. Ma bisogna essere consapevoli che la borghesia non si rassegnerà mai a perdere il suo potere, la sua possibilità di sfruttare, che non si rassegnerà mai a vedere in questo paese il proletariato padrone e costruttore dell’ordinamento sociale e produttivo socialista. Bisogna convincersi del fatto che la lotta di classe non è terminata, ma continua il suo corso con mezzi ancora più implacabili che nel passato. Bisognerà convincersi che la borghesia tenterà con ogni mezzo di recuperare il potere perduto. Sbaglia chi crede che non sia così, nutrendosi di ingenuità e commettendo dei gravi errori; errori stupidi, le cui conseguenze ricadono tutte sul proletariato (Giustissimo!) (...)

«Sarebbe un grande errore ritenere che solo in seguito a certi provvedimenti presi dal governo la borghesia abbia organizzato la controrivoluzione. No, compagni, è un fatto del tutto naturale che la borghesia sia controrivoluzionaria! (Giusto!). Sarebbe stupido pensare che si possa convincere una tigre sanguinaria a diventare erbivora. Sarebbe da imbecilli considerare che la borghesia permetta tranquillamente che sulle rovine della sua fortuna e del suo potere si edifichi il nuovo ordinamento sociale. Dobbiamo esser coscienti del fatto che la dittatura può essere salvata solo se non si guarderà a sinistra e a destra, abbattendo implacabilmente ogni ostacolo che le si frapponga.

«Compagni, coloro che pensano che ciò si possa ottenere con la dolcezza e con le carezze sbagliano. Come ho già più volte avuto modo di dire, predicare la clemenza nei confronti della borghesia significa oscurare la coscienza di classe del proletariato, confonderlo e fargli credere che non ci sia più bisogno della lotta di classe».


9.5. - I “soccorsi” americani

“Il complotto borghese-socialista contro l’Ungheria soviettista”, questo il titolo di un articolo che apparve su “Il Lavoratore” del 20 settembre del 1921:

«Si sa che il Consiglio costituito recentemente a Ginevra dal Comitato internazionale della Croce Rossa ha deciso di inviare Hoover ad occupare con il dott. Nansen il posto di alto commissario per l’organizzazione dei soccorsi in Russia. Il comitato Hoover, “The American Relief Administration”, ha firmato il 19 agosto a Riga un accordo coi rappresentanti del Governo dei Soviet e attualmente spedisce viveri nella regione del Volga.

«Non vogliamo, fino a prova contraria, sospettare delle intenzioni del sig. Hoover, vogliamo anzi far credito ai suoi sentimenti umanitari. Tuttavia non possiamo tacere il suo atteggiamento – quello del suo Comitato – tenuto allorquando egli svolgeva un’azione analoga all’odierna nell’Europa centrale e sud-orientale, durante l’estate del 1919. Il Comitato Hoover è stato uno dei principali fautori del rovesciamento del regime dei Soviet in Ungheria. Ciò deve porre in guardia tutti i comunisti, poiché non è impossibile che il signor Hoover voglia oggi tentare di fare in Russia ciò che ha fatto in Ungheria.

«Il capitano Gregory, che fu il rappresentante ufficiale del sig. Hoover in Ungheria, ha testé pubblicato nel “The World Works” di New York un articolo che merita tutta la nostra attenzione.

«”Per tutti coloro – scrive il Gregory – che erano al corrente della situazione, a Parigi, come a Londra o nelle capitali del sud-est dell’Europa, appariva evidente che la salvezza dell’Europa centrale, all’inizio dell’estate del 1919, dipendeva dal rovesciamento di Béla Kun e della dittatura bolscevica in Ungheria. Ero in contatto costante con Hoover a Parigi. Non occorse un’esposizione dettagliata della nostra situazione per incitarlo a fare i più vigorosi sforzi, e il Consiglio supremo entrò immediatamente in discussione sulle vie e i mezzi da adottarsi. Era una noce molto difficile a rompersi. Il metodo evidente era l’uso della forza; afferrare Béla Kun e la sua Armata Rossa in una grande tenaglia formata da un movimento da ovest e da sud per spezzarla. Il maresciallo Foch fu consultato. Dichiarò il piano realizzabile, ma che un esercito di 250.000 uomini, completamente equipaggiati e preparati per una vigorosa campagna, era necessario. Questo programma fece esitare Parigi. Le proposte di Foch lasciarono freddo il Consiglio supremo.

«”Per Hoover e per me il maresciallo Foch s’era ingannato considerando l’abbattimento del bolscevismo in Ungheria puramente come un fatto militare. Per noi appariva evidente che una ferma e dura manifestazione di forza bastava per disgregare le forze di Béla Kun e spezzare i suoi piani. Avevamo trovato la nostra via a Vienna. Durante parecchi giorni la situazione fu incerta. L’esercito di Béla Kun ingrandiva di ora in ora. Ma sopraggiunse un incidente che condusse rapidamente e drammaticamente ad una risoluzione quasi fantastica della situazione (...).

«”Dal principio – continua il capitano Gregory – tenni informato dei nostri progetti il commissario militare britannico sir Thomas Cunningham e il principe Borghese, rappresentante diplomatico italiano nell’Europa centrale”.
«Il progetto fu da essi approvato, rimaneggiato, definito. E la storia del complotto continua. Una dichiarazione di principio fu elaborata allo scopo di giustificare il movimento anti-Kun.

«”La dichiarazione suggerita quasi immediatamente da Hoover a Parigi conteneva i punti seguenti: Instaurazione di una dittatura temporanea che sarebbe investita di poteri limitati; dimissioni del Governo comunista; soppressione del blocco; nessuna rappresaglia politica.

«”Rimaneva da mettere d’accordo i nostri cospiratori con Parigi nelle questioni di principio. Haubricht e Ágoston [Péter], i cervelli della triade, accettarono istantaneamente e con entusiasmo. Trasmisi gli otto punti a Hoover appena furono redatti e Cunningham e Borghese li comunicarono ai loro rispettivi Governi”.

«Non c’è alcun dubbio che Hoover fu il principale agente responsabile per la pronta risposta ricevuta. Aveva vinto. Il Consiglio Supremo firmò la dichiarazione e la pubblicò. Böhm e i suoi complici, già in contatto con degli amici influenti e loro fautori in Ungheria, assicurati ora degli aiuti morali degli alleati, cominciarono a svolgere il loro piano.

«Gregory continua: “Due o tre volte l’amministratore bolscevico per i viveri in Ungheria, un uomo chiaroveggente e intelligente, era venuto a vedermi segretamente a Vienna a nome di Béla Kun, per supplicarmi di vendergli dei viveri. Avevo rifiutato assolutamente perché contro l’Ungheria rossa esisteva il blocco. Fin dalla prima visita dichiarai apertamente che non avremmo avuto nessun rapporto di nessuna natura con il bolscevismo e che non perdesse il suo tempo.

«”Per questa via intravidi la possibilità di tentare un colpo che aiuterebbe a terminare la nostra missione nell’Europa centrale con un completo successo. Una mina era piazzata sotto il bolscevismo, ma né Béla Kun né il commissario per i viveri lo supponevano. Sapevo che non ne erano informati di nulla.

«”Quarantotto ore prima che il colpo finale fosse tentato a Budapest, lo mandai a cercare e gli comunicai che era forse possibile ritornare sulle mie ultime decisioni.

«”Non vi è che una difficoltà gli dissi. Non vi posso vendere un chicco di grano o un’oncia di grassi se non mi pagate in contanti, non con della carta, ma con del denaro reale (...) ’Quanto domandate? – esclamò – Potete scegliere. I bolscevichi hanno il controllo delle banche in Ungheria e ho milioni di corone, di franchi, di marchi, di sterline e di dollari americani. Soltanto io so dove si trovano’ (...) Verso le 3 del pomeriggio seguente due uomini accompagnati dal ministro ungherese entrarono portando un paniere. Durante due ore i miei impiegati contarono lire sterline e turche, franchi e dollari. La somma fu depositata in nostro nome nelle casseforti della Wiener Bank Verein. Tre treni carichi di grassi ricevettero l’ordine di tenersi pronti a partire appena io avessi telegrafato”.

«Durante questo tempo gli avvenimenti precipitarono rapidamente a Budapest. Ágoston presiedeva un comizio e consumava il tradimento dichiarandosi primo ministro e nominava Haubricht ministro della guerra. Il povero Böhm, il debole e vanitoso Böhm, era lasciato da una parte.

«”E si giunse alla fine della commedia. Alle 10 del mattino i treni carichi di viveri e di soldati giungendo da tutte le direzioni cominciarono a correre in Ungheria. Qualche ora dopo il popolo mangiava il pane che i bolscevichi avevano da me comprato”.

«Questa rivelazione incosciente e cinica del capitano Gregory, agente del signor Hoover, arriva in buon punto. Dovunque e con ininterrotta vigilanza i lavoratori sorveglino da vicino gli atti dei Comitati filantropici che... vogliono salvare la Russia!».


9.6. - Il Governo di Szeged

La principale formazione controrivoluzionaria ungherese era il cosiddetto Governo di Szeged, presieduto da Gyula Károlyi (cugino dell’ex presidente della Repubblica popolare ungherese), e che, in seguito a un rimpasto, vede l’entrata di due personaggi che avranno un ruolo principale nella restaurazione: Pál Teleky come ministro degli esteri e l’ammiraglio Miklòs Horthy, futuro reggente d’Ungheria, ministro della difesa.

Questo governo si era costituito ad Arad, in Romania. L’appoggiava l’esercito interventista francese, che si trovava ai confini meridionali dell’Ungheria. Questo era composto, escluso gli ufficiali, da truppe coloniali: reggimenti senegalesi, malgasci, annamiti e spahis appartenenti alla 76ª divisione coloniale. Da una nota del maresciallo D’Espèrey, comandante generale, risultava che disponeva di: truppe reali romene 86.000 uomini, forza serbo-croata-slovena 32.000, francesi 56.000, per un totale di 174.000 uomini. Con l’esercito settentrionale ceco le truppe in campo arrivavano a 250.000 effettivi.

I comunisti a Szeged distribuivano volantini di propaganda fra le truppe francesi, riuscendo ad ottenere la loro solidarietà. Una sentenza emessa dal Tribunale militare della divisione francese aveva giudicato 80 comunisti condannandoli a lavori forzati e due a morte. I soldati francesi dopo aver passato la notte a cantare l’Internazionale permisero la fuga dei condannati “dimenticando” di chiudere la porta della cella.

Il 15 luglio “L’Humanité” informava: «I francesi hanno ristabilito a Szeged la situazione antecedente il 21 marzo. Hanno arrestato 8 membri del Comitato Esecutivo rivoluzionario e ucciso a colpi di fucile durante una riunione pubblica il socialista Joseph Ladansky».

Un’altra cospirazione a Budapest era diretta invece dall’ala moderata della borghesia: «Un progetto di “azione“ del primo distretto di Budapest mirava ad arrestare il governo dei Consigli e mettere al suo posto un governo “più radicale“. Questo radicalismo avrebbe voluto manifestarsi, tra l’altro, facendo di Ferenc Harrer, il vecchio sindaco di Budapest dell’ala moderata del partito borghese radicale, una figura centrale del nuovo governo dei Consigli».


9.7. - Codarde manovre della borghesia italiana

La vile borghesia italica ha sempre cercato il doppio gioco. Quando l’impero Austro-Ungarico, a un mese dall’attentato di Sarajevo, dichiarò la guerra, l’Italia, legata fin dal 1882 all’Austria-Ungheria e alla Germania dalla Triplice alleanza, rimase fuori dal conflitto dichiarandosi neutrale. Lo schierarsi era, come sempre, questione di opportunismo e convenienza. Quanto durerà la guerra? Chi la vincerà? Da che parte conviene schierarsi?

Lunedì 26 aprile 1915 l’Italia siglò il Patto di Londra con le potenze della Triplice Intesa. La danza era finita, il 24 maggio l’Italia dichiarò guerra a Germania e Austria. Francesco Giuseppe lo definì “un tradimento di cui la storia non conosce esempio”.

Anche per la borghesia italiana non si trattava di una guerra di redenzione nazionale ma imperialista. Infatti il manifesto dell’imperatore d’Austria all’entrata in guerra riferiva che «quando l’Italia diresse i suoi sguardi bramosi verso le nostre frontiere eravamo decisi, per conservare le nostre relazioni di alleanza e di pace, a grandi e dolorosi sacrifici che toccavano in modo particolare il nostro paterno cuore». Ma la guerra le borghesie sono comunque costrette a farle per fattori economici.

Sui giornali borghesi ungheresi apparvero numerosi epiteti contro il tradimento italico, che diversi intellettuali amanti del Bel Paese non credevano potesse accadere. Leggiamo un passo dal Vasárnapi Ujság (“Il Giornale della Domenica”), diffuso settimanale: «Il bandito italiano, prima di andare a rubare e uccidere, prega con devozione e chiede aiuto a Maria Vergine. Anche questa volta hanno composto una bellissima orazione per i loro eroici soldati, messi in marcia per colpire alla schiena gli ex alleati circondati dai nemici. Questo significa fare veramente all’italiana. È la loro moralità» (da: Gambino, Antonio Antal, “La presenza italiana in Ungheria nella corrispondenza diplomatica francese (1919-29)”; “L’Italia nella Grande Guerra vista dall’Ungheria” di Gábor Andreides).

All’indomani del crollo dell’Impero Austro-Ungarico, Francia e Italia, potenze alleate nel conflitto mondiale, si ritrovarono rivali e concorrenti nella nuova Europa post-asburgica. Nell’ambito di questa rivalità – che sarebbe proseguita con alterne vicende fino allo scoppio del secondo macello mondiale – gli imperialismi vincitori consideravano l’Ungheria una pedina importante nello scacchiere danubiano per i futuri rapporti di forza e interessi economici italo-francesi.

Al momento della proclamazione della Repubblica dei Soviet tutti i rappresentanti politici e militari dell’Intesa abbandonarono Budapest, tranne il tenente inglese Freeman, il tenente americano Causey e la missione militare italiana, che rimase nella capitale magiara per tutto il periodo. Il tenente colonnello Guido Romanelli fu l’unico rappresentante a Budapest delle potenze dell’Intesa e il solo interlocutore alleato di Béla Kun. La missione era composta, oltre che dal Romanelli che si insediò ai primi di maggio, da due ufficiali, pochi carabinieri e scritturali. Commissario politico in Ungheria era il marchese Arrigo Tacoli. Anche il principe Livio Borghese era presente a Budapest, non in veste ufficiale; si portò dietro come segretario il principe Valerio Pignatelli, ex ufficiale degli Arditi. Tutta la combriccola risiedeva all’Hotel Ritz, sede anche della Delegazione del Danubio formata dal Freeman e dal Causey della Food Commission americana.

Presto il marchese Tacoli, secondo una fonte francese, mise le basi per un riavvicinamento italo-ungherese e ungaro-croato in funzione anti-iugoslava.

Il mese successivo un rapporto confidenziale della missione francese a Vienna informava Parigi delle relazioni commerciali che si erano instaurate fra gli italiani e i comunisti ungheresi. Magiari fiumani con passaporto italiano, insieme ad altri arrivati nella città adriatica con dei lasciapassare, contrattavano con le autorità italiane, dietro pagamento in corone austriache, forniture di arance e di tessuti di Milano, che giungevano periodicamente in Croazia, dove ad attendere la consegna si trovavano altri commercianti di Budapest. In questo modo, secondo la missione francese a Vienna, gli italiani intendevano proporsi come i primi protettori dell’Ungheria e puntavano all’egemonia economica nel paese danubiano, approfittando del blocco economico attuato dagli alleati dell’Intesa.

Dall’Italia arrivavano con una certa regolarità vagoni di tessuti, oltre a viveri, in particolare riso e caffè, caricati su dei camion e inviati nelle campagne, dove i contadini li scambiavano con quarti di vitello, pollame e uova. I camion italiani potevano circolare senza essere fermati e perquisiti ai posti di guardia alla cinta della città grazie al permesso concesso dal Governo dei Soviet alla missione italiana, che ne rivendicava il diritto in una clausola dell’armistizio di Villa Giusti.

Questo avveniva mentre i socialdemocratici nei villaggi aizzavano i contadini ad affamare le città.

Romanelli riuscì, per intercessione del commissario del popolo alle finanze, a concedere agli italiani che lasciavano l’Ungheria di prelevare dai loro risparmi una somma fino a 10 mila corone.

Ma la missione italiana, per ammissione del Romanelli, si occupava per lo più di commercio, in particolare quello di contrabbando: «Più fortunati avremmo dovuto essere nella penetrazione commerciale per il fatto di non aver concorrenti. Ma per il blocco posto dall’Intesa ogni commercio vero e proprio era interdetto, né conveniva affidarsi al contrabbando per quanto si effettuasse sufficientemente indisturbato e su larga scala. Non mancammo tuttavia di raccogliere informazioni, di studiare l’ambiente e in qualche caso di gettare le basi per future trattative o riservarci magari dei diritti di prelazione».

Preciserà il nostro “L’Ordine Nuovo” del 21 giugno 1921:

«Il Romanelli, mentre tramava con i controrivoluzionari la caduta della Repubblica dei Soviet, vendeva al governo sovietista armi e munizioni, viveri e manufatti, sì che l’esercito rosso ungherese era equipaggiato e vettovagliato in gran parte dall’Italia. Ora se si considera che al fronte ceco-slovacco a combattere contro l’esercito rosso c’erano pure – e in gran numero – soldati italiani, scaturisce spontanea la deduzione che i nostri “amati patrioti”, mentre da una parte si facevano belli di fronte al mondo reazionario mandando le truppe italiane a combattere contro l’esercito proletario, dall’altra vendevano le armi e le munizioni che dovevano servire per combattere le stesse truppe italiane! (...)

«Compagni ungheresi raccontano che in particolare le stoffe venivano portate a Steimager, dove i sarti di tutta l’Ungheria accorrevano ad acquistarle, e i treni con i quali viaggiavano erano scortati da soldati italiani. La patria (cioè tutti i pennivendoli delle gazzette borghesi) ebbe per l’“eroe” [il Romanelli], parole di altissima lode e i morti che giacciono insepolti sui campi di battaglia, non narrano certo con qual piombo o qual mitraglia furono uccisi!».


9.8. - Il governo “socialista”

e l’occupazione romena
Alla caduta dei Soviet, come abbiamo visto, si forma il nuovo governo socialdemocratico guidato dal sindacalista Gyula Peidl. Durerà sei giorni.

Mentre la Repubblica dei Soviet capitola e i romeni avanzano verso Budapest, una nota del Commissariato degli Esteri chiede alla missione italiana il suo intervento per mettere a riparo da rappresaglie la vita delle compagne e dei figli dei Commissari del Popolo dimissionari, favorendone il trasferimento per ferrovia a Vienna sotto salvacondotto italiano.

Ricorda Iren Gal, quando giunse al confine con l’Austria, allora a governo socialdemocratico: «I giovani leninisti che ci accompagnavano furono disarmati e riconsegnati alle guardie di confine per rispedirli all’interno del paese (...) La stessa sorte è toccata poi alle guardie che accompagnavano il treno sul quale si trovava Béla Kun. Li presero, li rispedirono indietro e, più tardi, lì impiccarono quasi tutti. Ma prima vennero torturati tanto da renderli irriconoscibili. Qualcuno di loro continuò a gridare: “Viva la Repubblica ungherese dei Consigli!” (...) fin sotto l’albero al quale venne impiccato».

Giunto il treno a Vienna i fuggitivi non trovarono ad accoglierli in stazione gli emissari del partito socialdemocratico, ma i gendarmi che li imprigionarono in un campo di internamento al confine austro-cecoslovacco.
Ci fu anche un tentativo di eliminare i comunisti ungheresi internati. Scrive il colonnello barone Pál Prónay, comandante di un distaccamento di terroristi bianchi: «Il nostro piano prevedeva di trasferire oltre il confine, vivi, Béla Kun, Jenő Hamburger, Jenő Landler e József Pogány, e di impiccare sul posto gli altri prigionieri». Ma del piano si seppe e il massacro non riuscì. Lo stesso Pál Prónay e i suoi camerati, che il governo austriaco non si era preoccupato di ostacolare, assassinarono alcune settimane dopo in Ungheria i redattori de “La Voce del Popolo”, Somogyi e Bacsó.

Romanelli prende contatto con il nuovo governo:

«Peidl incominciò a farmi un quadro sintetico della situazione generale dell’Ungheria in quel momento, rappresentandomi in primo luogo la necessità urgente di provvedere alla sicurezza interna minacciata dai residui di quelle associazioni avverse a qualsiasi ordine costituito, che fino allora si erano avvalse della compiacenza e debolezza della dittatura proletaria per terrorizzare la città e la campagna, e dalle frotte di soldati sbandati che tornavano dal fronte armati, affamati e sdegnati per la nuova umiliante sconfitta alla quale erano stati esposti.

«C’era poi l’incognita dell’esercito romeno, che oramai avendo spezzato ogni resistenza di truppe ungheresi non si sapeva se avrebbe rinunziato ad avanzare o proseguire invece la sua marcia, e con quale obiettivo. Secondo le incerte notizie che il governo aveva, i romeni dovevano trovarsi a due giornate scarse di marcia da Budapest, e sarebbe stata grave iattura e vergogna, oltre che motivo di complicazioni interne ed internazionali, se avessero messo piede nella città.

«A questo proposito il signor Peidl mi pregava già a nome del nuovo governo ungherese di telegrafare senza indugio al Presidente della Conferenza della Pace per invocare il suo autorevole intervento presso il governo romeno affinché venissero sospese le ostilità, dal momento che il nuovo regime instauratosi in Ungheria dichiarava di ripudiare la politica di quello precedente, e si pronunziava disposto a dare all’Intesa ogni garanzia del suo desiderio di sottomissione alle condizioni di pace, che sarebbero state dettate a suo tempo dal Consiglio Supremo».

Romanelli invia a Parigi il telegramma richiesto da Peidl e soci per chiedere di trasmettere ai comandanti degli eserciti romeno e ungherese una proposta di armistizio. Il Consiglio degli Alleati risponde di “non dovere intervenire nella politica interna della Repubblica ungherese”.

Quindi le truppe romene proseguono l’avanzata verso Budapest, mentre da Szeged muovono i bianchi di Horty. La mattina del 4 agosto una divisione di cavalleria romena è già alla periferia di Budapest, occupano quindi città e dintorni, sopprimono i treni in partenza e i tentativi di comunicare con Vienna. Arriva a Budapest il loro generale Ștefan Holban, il quale si installa all’Hungaria.

La stessa sera arriva al Ritz anche il generale Gorton, uno dei quattro designati a costituire la Commissione Interalleata incaricata di definire la vertenza ungaro-romena.

Il Comando romeno ordina di far man bassa di tutto quanto ritenuto utile e anche inutile in città e in campagna. È ormai evidente che a Parigi fa comodo l’occupazione militare romena dell’Ungheria.


9.9. - Dal riformismo al fascismo

Il governo socialdemocratico è presto abbattuto. Un colpo di Stato monarchico il 6 agosto caccia e imprigiona anche i socialdemocratici al governo. Nasce un nuovo governo dei bianchi con a capo Friedrich István, che il 7 agosto trasferisce l’Alto comando da Szeged a Siófok assumendo di fatto il potere. Ne è reggente l’Arciduca Giuseppe.

Ma l’Intesa non vede di buon occhio il ritorno dell’Arciduca nella politica ungherese, anche se solo decorativo: il 23 agosto è costretto ad abdicare. Ricorda il Romanelli:

«L’indirizzo di governo aveva del poliziesco improntato alla più irragionevole intransigenza (...) uno spirito di deliberata avversione, un sentimento d’irrefrenabile livore contro tutto quello che sapeva di proletario o proletariato, contro tutto quello che avesse attinenza col popolo, coi suoi bisogni e colle sue debolezze (...) Il governo Friedrich una volta assunto il potere (...) non si dette altro pensiero che cercare, scoprire e gettare in prigione non solo quanti avevano avuto contatti o compiacenti debolezze pel passato regime, ma addirittura chiunque si diceva o si supponeva potesse nutrire sentimenti e simpatie pel bolscevismo, spingendo l’odio e l’accanimento fino a prendersela con tanti che della dittatura avevano sofferto materialmente e moralmente ma che nondimeno non vedevano di buon occhio il nuovo governo e soprattutto ne deploravano la politica intollerante. Socialisti ed ebrei erano altrettanto invisi e presi di mira dalla polizia e dalle sue innumerevoli spie quanto i comunisti, eccezion fatta per coloro la cui situazione sociale o la cui notorietà imponeva un certo ritegno o reclamava una certa prudenza».

Il nuovo governo borghese subito demolisce le istituzioni di salute pubblica create durante la dittatura del proletariato, cessa qualsiasi aiuto alle centinaia di migliaia di disoccupati, abbassa di un quarto i salari, mentre in poche settimane i prezzi dei viveri e degli articoli di prima necessità salgono di dieci volte.

In due giorni il governo restituisce le fabbriche, le terre e le case agli antichi proprietari, rende nuovamente libero il commercio, ricolloca negli uffici tutti i vecchi funzionari, riconferma nel grado gli ufficiali e i titoli dell’aristocrazia. Riabbassa i salari, cessa i sussidi agli orfani e alle vedove, scaccia dalle abitazioni loro procurate le famiglie dei proletari, i malati gravi dai sanatori, ridivenuti di lusso, gli invalidi, i vecchi e i bambini dai palazzi della borghesia, e ristabilisce ovunque le vecchie condizioni di sfruttamento.

Ma tutto ciò non è sufficiente alla borghesia, tornata al potere: vuole vendicarsi e, come da sua tradizione, deve farlo in maniera cruenta, spietata, esemplare. In poche settimane la controrivoluzione trucida in veri pogrom oltre 5.000 dei migliori proletari; alla fabbrica Csepel, roccaforte operaia, a centinaia cadono sotto il fuoco. Decine di migliaia sono stipati nelle carceri e in campi di internamento, torturati a morte o uccisi per fame. Annuncia un giornale: «Negli ultimi tempi diventa difficile provvedere il legname per le fabbriche di casse da morto: fummo costretti ad importare dall’estero il quantitativo necessario».

Oltre che sui comunisti, i proletari e i contadini poveri la repressione si accanisce in particolare contro gli ebrei. Il 22 settembre 1920 il nuovo regime emana la prima legge antisemita in Europa, che instaura il numerus clausus all’università per gli ebrei.

L’Intesa, riconosciutasi nel governo dei bianchi, cessa il blocco. Non però a vantaggio della classe operaia, flagellata da miseria e da fame mai vedute sinora.


9.10. - Il terrore bianco

Romanelli fu incaricato di investigare su quanto veniva riportato alla missione in merito agli abusi della polizia, le sevizie e torture ai detenuti politici e le persecuzioni d’ogni specie di tutti coloro che si sospettava avessero partecipato alla dittatura o simpatizzassero per i bolscevichi. Così Romanelli:

«Riferii sullo stato d’animo delle masse operaie per i metodi d’intimidazione, costrizione ed arbitrarie vessazioni instaurato nelle officine, dopo aver controllato ed essermi assicurato della verità dei racconti che m’erano stati fatti e delle denunzie pervenute alla missione (...) La spietata caccia al bolscevismo ed all’ebreo, lasciata alla discrezione di agenti e spie di mestiere, costò la vita ad innocenti e portò la disperazione e la miseria in una povera famiglia senza colpa né peccato (...)

«A parole i generali convennero che bisognava intervenire nei confronti del governo per esortarlo a una politica interna più tollerante e conciliativa, senza lasciarsi trasportare da livori di parte o confessionali. Ma (...) col passare del tempo ebbi ad avvedermi di un accentuarsi di misure preventive e repressive poliziesche».

In realtà il terrore bianco aveva scatenato il massacro dei comunisti e del proletariato rivoluzionario, con l’appoggio dell’Intesa e dei suoi servitori, italiani inclusi.

La rivista “Internazionale Comunista”, edizione italiana n.7-8 novembre/dicembre del 1919, pubblicherà un appello ai proletari di tutti i paesi:

«Compagni! Ecco che sono già più di tre mesi che il sangue dei migliori proletari non cessa di scorrere in Ungheria. Migliaia e migliaia di operai ungheresi sono stati impiccati o fucilati senza processo dalla controrivoluzione borghese trionfante. Ora contro i militanti superstiti si organizza la commedia di un processo. Circa 15.000 operai ungheresi compariranno davanti ai tribunali militari. Quattro tribunali devono giudicare i nostri fratelli ungheresi. Una radio americana annuncia già al mondo intero che questi tribunali non mancheranno di pronunciarsi con un numero di condanne a morte superiore a tutti i precedenti storici e che si attesterà sulle diverse centinaia.

«Queste rappresaglie contro i lavoratori ungheresi fanno impallidire gli orrori stessi con cui la borghesia francese ha segnato la sua vittoria del 1871 sugli eroici comunardi di Parigi. La repressione in Ungheria ha raggiunto gli stessi risultati del boia Mannerheim in Finlandia, dove secondo gli ultimi calcoli la borghesia ha ucciso o ha fatto morire di fame 76.000 proletari finlandesi.

«Il terrore bianco viene esercitato con un furore selvaggio negli angoli più sperduti dell’Ungheria. La controrivoluzione dei proprietari e dei borghesi si rivela straordinariamente avida di sangue. Ogni operaio ungherese può essere da un momento all’altro fucilato dal primo rappresentante venuto dalla gioventù dorata.

«I filantropi borghesi e i socialtraditori ipocriti che, dopo due anni, non cessano di lamentarsi perché il proletariato russo nella sua lotta legittima contro la borghesia, nella sua lotta sacra di difesa contro i generali dello zar ha fatto ricorso alla forza armata – questi stessi traditori e questi stessi ipocriti non hanno una parola di protesta contro il mostruoso bagordo del terrore bianco che si sviluppa attualmente in Ungheria.

«Perché i nostri fratelli ungheresi vengono crocifissi così? Perché in un’ora storica decisiva per il loro paese, quando la borghesia, che aveva condotto l’Ungheria sull’orlo dell’abisso, abbandonò il potere, i nostri fratelli operai ungheresi si impadronirono di questo potere e tentarono di tirare il paese fuori dal fango.

«La borghesia anglo-francese aveva corrotto i socialtraditori ungheresi servendosi delle armate reazionarie romene per infliggere ai proletari ungheresi la più crudele sconfitta. La rivoluzione proletaria internazionale non fu abbastanza forte in questo momento per venire in soccorso di uno dei suoi gloriosi contingenti – del contingente ungherese – per salvarlo. Circondata da ogni parte da nemici esagitati, abbandonata a sé stessa, la repubblica ungherese dei Soviet che non si era ancora affermata, che non aveva ancora potuto stabilirsi su basi solide, subì un colpo terribile (...)

«Con gli eroi della Comune ungherese noi gridiamo: La repubblica dei Soviet è morta. Viva la repubblica dei Soviet ungheresi! Al terrore bianco della borghesia rispondiamo armando gli operai, organizzandoli e raggruppandoli per la lotta finale. Abbasso la dominazione della borghesia sanguinaria! Abbasso i boia della Comune ungherese! Viva il proletariato ungherese! Viva la rivoluzione universale!».


9.11. - Horty continuità della dittatura borghese

Il 16 novembre 1919 Horthy e il suo esercito entrano in Budapest. A porgergli la mano fra i primi sono: Kunfi, Böhm, Garami, Haubrich, Peyer, Peidl e János Vanczák.

Kun tornerà sulla collocazione della piccola borghesia dopo la caduta dei Soviet. Nel maggio del 1920, ancora incarcerato in Austria, scriverà in “La classe operaia ungherese sotto il terrore bianco”:

«In origine il retroterra sociale del terrore bianco era propriamente la piccola borghesia cittadina e la proprietà terriera, media e grande. Gli interessi di questi due elementi non possono a lungo essere messi d’accordo, perché il primo ha un carattere prevalentemente di consumo, il secondo prevalentemente produttivo. Effettivamente l’elemento piccolo borghese cittadino passa sempre più in seconda linea, e con i portatori del terrore bianco cessa anche quel piccolissimo controllo politico di cui questo elemento è capace nella sua insignificante importanza economica e politica.

«Come la piccola borghesia cittadina viene spinta in seconda linea, scompare lentamente anche il carattere prevalentemente agrario del retroterra sociale del terrore bianco. Alla classe dei grandi proprietari terrieri, che erano passati all’economia capitalista solo parzialmente, e che si stanno nuovamente feudalizzando in seguito alla decadenza economica del paese, riesce sempre meglio di attaccare i contadini al loro carro [come sappiamo erano inclini a fare, NdR].

«Ciò restringe ancora gli strati che appoggiano attivamente il dominio del terrore bianco, poiché esso respinge dal blocco rurale, finora compatto, la classe contadina dei piccoli e minimi proprietari affamati di terra, disfacendo totalmente le sue illusioni sulla riforma terriera. Tuttavia contro il proletariato industriale e agricolo, le classi possidenti stanno strettamente unite dietro la dittatura militare bianca. La stessa borghesia ebraica copre volentieri il terrore bianco, sebbene non rinunzi volentieri al potere, perché in Ungheria è possibile soltanto la difesa della proprietà privata in forma terroristica. Il retroterra sociale dietro la dittatura militare e burocratica, resasi indipendente, diventa pertanto sempre più ristretto».

Nel gennaio del 1920 si svolgono le elezioni a suffragio universale segreto, che registrano la vittoria del Partito dei Piccoli Proprietari. L’Assemblea nazionale decide di mantenere l’istituzione monarchica al fine di preservare la continuità giuridica dello Stato e ristabilire, un giorno, il regno di Santo Stefano.

Horthy, in seguito, assieme al movimento ungherese delle Croci Frecciate, aderirà all’ideologia hitleriana. In particolare collaborerà alla deportazione di oltre 400.000 ebrei ungheresi.

I fatti descritti la dicono lunga su quanto sia capace di perpetrare la borghesia per ripristinare il suo dominio.

Di contro la dittatura del proletariato, accusata dai borghesi di orrori infiniti, in quattro mesi non aveva causato che poco più di duecento vittime, e in gran parte in scontri armati nei quali i morti erano gli aggressori.

Una Delegazione formata dai membri del Labour Party e delle Trade Unions nel maggio 1920, di ritorno da Budapest, e dopo aver raccolto diverse testimonianze di profughi ungheresi a Vienna, farà un rapporto. Vi si descrivono le torture, le uccisioni e le atrocità degli sgherri di Horty. Il rapporto prosegue testimoniando che la borghesia nuovamente al potere aveva vietato gli scioperi.

400 minatori erano stati arrestati come comunisti. Siccome i minatori il Primo Maggio non si presentarono al lavoro sedici dei loro capi furono arrestati e il distretto fu occupato dalle truppe. I minatori scesero nei pozzi ma la produzione calò del 75%. Il Governo si decise allora a rilasciare gli arrestati. Quando il 20 febbraio 1920 molti minatori scioperarono per due giorni per ottenere migliori salari e condizioni di lavoro, un centinaio di loro furono gettati in carcere. Un loro sindacalista fu frustato a sangue e se non avesse preso il primo treno per Budapest sarebbe stato fucilato. Per diversi mesi nessun sindacalista poté visitare i distretti minerari. Nessun minatore poteva lasciare il posto senza permesso dell’autorità militare, che lo negava se chiesto per ragioni di organizzazione sindacale.

Il governo ufficialmente proclamava la libertà di organizzazione sindacale, ma di fatto, tranne le organizzazioni cristiane, le altre erano soggette a costrizioni di ogni specie.

I lavoratori olandesi avevano lavorato il giorno di Natale e devoluto il salario della giornata ai poveri in Ungheria. Ma il governo ungherese lo rimise ai sindacati cristiani, che lo distribuirono ai loro aderenti. Molti operai iscritti agli altri sindacati passarono a quello cristiano per avere il sussidio.

In occasione del Primo Maggio il Ministero degli Interni proibì le manifestazioni se non all’interno dei locali sociali dei sindacati. Ma la polizia consegnò nelle abitazioni i dirigenti sindacali dal 29 aprile al 2 maggio.

Concludeva il rapporto la Delegazione britannica:

«Ci è stato assicurato che il numero complessivo delle persone arrestate e detenute era superiore a 25.000 (...) Il sovraffollamento delle prigioni si può giudicare dall’esempio di Szolnok: in un carcere fatto per accoglierne 50 vi erano 535 prigionieri.

«In base alle prove raccolte, affermiamo che in Ungheria vi è “il Terrore”, che il Governo non è in grado di farlo cessare e che, anzi, molti dei suoi stessi atti sono così rigorosi da meritare il nome di “Terrore”».

Aggiungeva il rapporto: «Vi è poi anche il partito del “Risveglio ungherese”, che si dice conti più di un milione di aderenti. Questo partito è fieramente contro il Trattato di Pace (...) ed è dichiaratamente antisemita». Ma ne conclude: «Ripetiamo la nostra convinzione che “il Terrore”, nelle sue origini, non è antisemita ma anticomunista».
Il governo della Russia dei Soviet cercò un accordo con il governo ungherese per avere salvi, in cambio del rilascio di ufficiali ungheresi che si trovavano ancora in Russia prigionieri di guerra, coloro che, avendo partecipato alla Repubblica dei Consigli, si trovavano ora in prigione e in parte condannati a morte. Il governo ungherese trascinò le trattative per due anni, finché nell’autunno del 1921 lo scambio ebbe luogo: si riuscì così a tirar fuori dalle prigioni di Horthy più di cinquecento comunisti.










10. - Perché fu sconfitta la rivoluzione ungherese


10.1. - Il giudizio finale di Béla Kun

Nel 1924, a cinque anni dalla caduta della Repubblica dei Soviet, in “Sulla Repubblica ungherese dei Consigli” Kun elenca i motivi principali del suo fallimento: 1. La piccola superficie della Repubblica dei Consigli che non consentì operazioni militari di ritirata; 2. Il fatto che mancò la coincidenza casuale e fortunata di circostanze circa la situazione politica internazionale che il compagno Lenin cita a più riprese come uno dei fattori del successo della rivoluzione russa; 3. La mancanza di un Partito Comunista organizzato, centralizzato, disciplinato, capace dunque di manovra; 4. Il non aver risolto il problema dei contadini, cioè la questione agraria (...)

«L’Ungheria “mutilata”, in cui il proletariato riuscì ad accedere al potere, si estende in una superficie così limitata che il percorso in treno da un capo all’altro del paese non dura più di dieci o dodici ore. La frontiera ceca è a 60 o 70 chilometri dalla capitale, Budapest, dove si trova concentrata la maggior parte dell’industria ungherese (soprattutto quella bellica) e dove vive la maggior parte degli operai. L’armistizio siglato alla fine della guerra mondiale delimitò le frontiere del paese in maniera tale che era difficile difenderle. Quando fu scatenato l’attacco nemico, ci si dovette subito ritirare cedendo altro terreno ai nemici (...)

«Al tempo del potere del proletariato in Ungheria questi fatti caratterizzavano la situazione internazionale: da una parte l’imperialismo internazionale e i suoi satelliti che circondavano l’Ungheria (Cecoslovacchia, Romania, Iugoslavia) disponevano di truppe ancora non smobilitate, non impegnate né all’interno né fuori da forze nemiche; dall’altra, anche con tutta la buona volontà, la Russia sovietica non poté fornire alcun aiuto militare alla giovane repubblica dei Consigli.

«Per inciso, gli operai dei nuovi Stati vincitori, soprattutto della Cecoslovacchia e della grande Romania, erano euforici della loro “liberazione nazionale”, tanto da sostenere ad oltranza le rispettive borghesie. L’Intesa riuscì a scagliare contro la rivoluzione ungherese le forze militari di questi Stati, le quali prima avevano combattuto in parte nell’esercito ungherese e in parte al fianco delle altre potenze centrali contro l’Intesa.

«Si ottenne l’arresto della concentrazione delle truppe dell’Intesa contro la Russia sovietica, ma in Ungheria venne meno il consolidarsi della punta avanzata della rivoluzione proletaria in occidente, a causa sia della situazione interna (il sabotaggio dei socialisti) sia estera. Venne meno anche l’auspicato congiungimento con l’Armata Rossa di Russia per la sua disfatta a Sud-Ovest (tradimento di Grigoriev), e con l’avanzata delle truppe di Petlyura e Denikin. In pratica la repubblica dei Consigli era totalmente accerchiata dalle truppe dell’Intesa: a nord dai cechi, a est dai romeni, a sud dagli iugoslavi e dai francesi e a ovest dagli austriaci».

Prosegue Kun:

«La proclamazione della repubblica dei Consigli coincise con la fase della rivoluzione internazionale in cui la crisi della smobilitazione del capitalismo era ormai alla fine, mentre l’ondata della rivoluzione proletaria internazionale cominciava a rifluire. Alcuni giorni dopo la proclamazione della repubblica dei Consigli, la prima fase di lotta della rivoluzione tedesca si esaurì (cadde la Repubblica bavarese dei Consigli). Erano i giorni in cui si veniva organizzando l’Internazionale Comunista; nella maggior parte dei paesi l’impianto delle sezioni del Comintern doveva ancora avvenire; nei paesi vicini all’Ungheria – Cecoslovacchia e Romania – non esisteva affatto un PC, mentre solo in Iugoslavia lo si stava organizzando. Benché risalisse al nostro stesso periodo, il PC austriaco non aveva voce in capitolo di fronte al PSD austriaco, i cui dirigenti di destra e di sinistra misero anch’essi in pratica il blocco comandato dall’Intesa contro l’Ungheria. Anzi, secondo documenti recentemente venuti alla luce, avvenne che lo stesso Renner, uno dei capi più importanti della socialdemocrazia austriaca, chiedesse all’Intesa l’intervento armato contro la Repubblica ungherese dei Consigli (...)

«Alcune organizzazioni collegate alla II Internazionale proclamarono per il 21 luglio uno sciopero politico internazionale, le cui parole d’ordine erano dirette contro l’ingerenza imperialista negli affari interni delle repubbliche socialiste russa e ungherese. Ma lo sciopero fallì (...)

«La questione agraria (...)

«Una parte degli operai agricoli si rese conto che la dittatura del proletariato li aveva liberati, ma i lavoratori a giornata senza terra, che non lavoravano continuamente nelle grandi proprietà, non ricevendo alcun pezzo di terra, non ebbero alcun interesse a difendere la dittatura del proletariato (...)

«La maggioranza del proletariato non capì l’importanza rivoluzionaria dei contadini, considerò solo i suoi bisogni di consumo, non comprendendo che, senza il soddisfacimento delle rivendicazioni dei contadini, possibile solo sotto forma di spartizione delle terre, l’esiguo strato del proletariato non può da solo difendere il potere dagli attacchi del nemico interno ed esterno. Al posto dell’alleanza tra operai e contadini un fossato si scavò tra di loro, a detrimento irreparabile della rivoluzione (...) Senza neutralizzare una certa parte dei contadini e senza incorporare le larghe masse nella rivoluzione, il proletariato non poteva tenere il potere».


10.2. - Mancò la direzione del partito sui sindacati

Ancora Kun:

«Durante la dittatura in Ungheria non esisteva un vero partito operaio organizzato. Vi erano dei sindacati, delle cooperative, dei circoli operai, perfino un esercito operaio, ma non vi era un partito operaio. Al terzo mese di dittatura, le conseguenze fatali derivanti da quella situazione si fecero evidenti.

«La difficoltà era tanto più grande in quanto non tutti i comunisti riconoscevano questo sbaglio; molti di essi sostenevano che il Partito era diventato superfluo con la creazione della repubblica dei Consigli. “Il Consiglio operaio è tutto; bisogna sopprimere anche i sindacati” (...)

«Mancando un PC e non essendo i Consigli operai sotto una direzione comunista organizzata, furono i sindacati a diventare i centri del movimento operaio poiché, nel disordine delle prime settimane della rivoluzione, essi avevano conservato le loro vecchie forme organizzative (...)

«È nei sindacati che la burocrazia socialdemocratica organizzò la controrivoluzione ed è attraverso i sindacati che questa burocrazia utilizzò la crisi politica e militare e la crisi alimentare per far cadere la dittatura. E si poterono utilizzare i sindacati per tali scopi in quanto la direzione e l’influenza del PC vi facevano difetto».

Sempre sul rapporto essenziale fra i sindacati e il Partito riportiamo anche quest’altro passo:

«All’epoca della rivoluzione borghese il partito socialdemocratico aveva fatto dei Consigli operai un organismo ampliato in mano ai responsabili sindacali. Questi Consigli operai non si radicarono dunque nelle officine, né nelle masse operaie, ma rispondevano alle direzioni del partito e dei sindacati. I Consigli operai formati ed eletti nel corso della dittatura erano ancora lontani dal riflettere gli strati migliori del proletariato o anche la sua larga massa (...)<ò> «I Consigli operai di provincia erano pieni di elementi piccolo-borghesi. Nei villaggi, ancor più che un tempo in Russia, i Consigli dei contadini poveri erano pieni di contadini ricchi, di piccolo-borghesi e di altri disparati elementi rappresentanti il degno tipo dei socialisti di novembre. Naturalmente tutto ciò era potuto avvenire in quanto mancava il Partito organizzato (...)

«Prima di poter intervenire nei sindacati dovevamo difendere il concetto della separazione del Partito dai sindacati. Abbiamo guidato, pur essendo in pochi, l’agitazione per la trasformazione dei sindacati in federazioni di industria. (Dopo averne cacciato i dirigenti conservatori siamo riusciti effettivamente a trasformare il sindacato degli operai dell’industria chimica in federazione industriale; le organizzazioni operaie dell’industria del cuoio s’unirono anch’esse in una federazione industriale). Questi sforzi, che si avviavano al successo verso la fine della dittatura, quando fu possibile collegarci direttamente alle masse, tendevano a sbarazzarci nello stesso colpo degli elementi piccolo borghesi infiltrati nei sindacati, dei socialisti di novembre, dei comunisti di marzo. In più eravamo sulla buona strada per avviare i sindacati verso la loro nuova funzione: la loro partecipazione, in quanto dirigenti, all’edificazione dell’organismo economico dello Stato proletario (...)

«Fino al raggiungimento completo di quell’obiettivo noi eravamo completamente soggiogati ai sindacati diretti dalla burocrazia corrotta fino nelle ossa. Le masse operaie, in primo luogo gli operai d’officina qualificati, base dell’avanguardia rivoluzionaria, vedevano la loro unica forma di rappresentanza organizzata nei sindacati. Consideravano i Consigli operai piuttosto come puri organismi amministrativi, e ciò giusto perché prima della dittatura le caricature dei Consigli non erano mai stati organismi di lotta della classe operaia, nei quali le decisioni erano adottate senza discussione dalla maggioranza socialdemocratica, che aveva apertamente escluso i comunisti. Nei sindacati la burocrazia sindacale, super-corrotta, non poteva liberarsi dalla ideologia della contrattazione collettiva, della lotta per i salari, rimpiangendo sempre l’epoca della “evoluzione debitamente calibrata“ di cui era maestra.

«È dunque l’assenza del Partito che segnò la sorte della dittatura. Questo partito era insufficiente a causa della fusione, ma sarebbe stato ugualmente insufficiente se i due partiti alleati avessero conservato la loro autonomia d’organizzazione.

«Il Partito Comunista, debole e disorganizzato, non avrebbe potuto evitare comunque di essere assorbito dalle istituzioni dei Consigli. Il partito socialdemocratico certamente riuscì a conservare forze più numerose al partito, ma ciò fu dannoso per la dittatura (...) Come Lenin ripeteva, i Consigli operai devono appoggiarsi, così come la Repubblica dei Consigli, sulle organizzazioni di massa della classe operaia. Errore del Partito non aver guadagnato i sindacati come organizzazioni di massa degli operai. È sui sindacati che dovevamo appoggiarci, anche per l’organizzazione dell’Armata Rossa. Questa mancanza è stata la causa interna della caduta della dittatura.

«Un rapporto di capi sindacali socialdemocratici con le scuse imbarazzate per aver stretto la mano di Horthy è apparso nel foglio dei loro compagni austriaci Die Gewerkschaft (“Il Sindacato”); tuttavia caratterizza la situazione nel corso della dittatura: “Senza eccezioni i sindacati presero posizione contro la dittatura dei Consigli. Durante tutto il suo ‘regno’ si opposero in toto e la criticarono apertamente in reiterate discussioni, nelle quali sottolineavano la situazione degli operai che peggiorava di giorno in giorno” (...)

«L’esperienza della dittatura rende assolutamente necessaria, ma anche possibile, l’organizzazione d’un Partito Comunista interamente conforme al principio dell’organizzazione bolscevica (...) organizzato per la clandestinità, centralizzato e chiuso (...) Se amate e stimate il Partito sopra ogni cosa, se essere fieri di appartenerci è del feticismo, allora si tratta del feticismo della rivoluzione, perché il Partito Comunista è la personificazione della coscienza rivoluzionaria, dell’azione rivoluzionaria».


10.3. - La tardiva lotta di tendenze nel Partito

In “Di Rivoluzione in rivoluzione” leggiamo ancora Kun:

«La rottura dell’unità del movimento operaio non avvenne che dopo la rivoluzione. Benché questa scissione fosse la condizione prima non solo dell’azione rivoluzionaria ma anche dell’organizzazione e della propaganda.

«L’ala sinistra del partito maggioritario della classe operaia esitò dopo la fondazione tardiva del PCd’U – formazione che si trovava già allora in gravi difficoltà – e la mancanza di capacità di previsione continuò a mantenerla in seno al PSD, rendendola compartecipe del tradimento della classe operaia.

«La scissione del movimento operaio al momento della ripresa della lotta di classe significò, dal punto di vista della politica generale, la disarticolazione del “fronte democratico unito”. Come problema interno del movimento operaio, la formazione di un Partito operaio rivoluzionario costituiva un problema di vita o di morte di fronte alla politica riformista, parlamentare e puramente opportunista, di fronte al social-sciovinismo, di fronte alla burocrazia del partito e dei sindacati. Ciò accadeva per la prima volta nella storia del movimento operaio ungherese.

«Il partito operaio rivoluzionario era innanzi tutto una organizzazione di propaganda rivoluzionaria. Il processo di formazione della sua struttura di organizzazione e di azione fu arrestato dalla nuova “fusione” che avvenne in seno al movimento operaio.

«Malgrado tutta la sua efficacia, il lavoro compiuto dal PCd’U nel periodo che va da novembre a marzo non riuscì ad approfondire sufficientemente la coscienza rivoluzionaria delle grandi masse del proletariato.

«L’opposizione alla tendenza rivoluzionaria fu maggiore più che altrove in seno al movimento sindacale. Senza tener conto degli ostacoli che il partito socialdemocratico, come partecipe dell’amministrazione del potere dello Stato borghese, oppose coi mezzi della forza statale alla propaganda e all’organizzazione rivoluzionaria, questa opposizione operò essenzialmente in tre direzioni:

«1. Il social-nazionalismo instaurato dal PSDU. Malgrado la disponibilità alla lotta di classe delle masse operaie questa tendenza trovò un terreno favorevole nel proletariato; il “patriottismo rivoluzionario”, il “sostegno degli interessi dello Stato democratico”, non ripugnavano a molti, soprattutto perché – dopo novembre – gli elementi piccolo-borghesi erano entrati in massa nelle organizzazioni operaie.

«2. La concezione social-riformista propagandata dai sindacati, che voleva fare della politica sociale la questione centrale del movimento operaio, relegando in secondo piano l’abolizione del lavoro salariato nell’interesse del “riavvio della produzione”.

«3. L’apparato burocratico del movimento sindacale e del partito era a favore della collaborazione di classe di tutto il movimento operaio.

«Lo scontro tra il metodo della lotta di classe rivoluzionaria e la politica opportunista non si risolse nella prima fase della rivoluzione, prima cioè della dittatura. La burocrazia del partito e dei sindacati ne evitò la soluzione, unendosi a malincuore ai comunisti. Questa fusione non aveva un fondamento ideologico. I motivi che spinsero costoro alla fusione furono gli stessi che impedirono la propaganda rivoluzionaria dei comunisti.

«Per i social-sciovinisti l’internazionalismo non era che un problema di orientamento in politica estera. I social-patrioti cercavano un sostegno nella tendenza comunista del movimento operaio, vista la situazione politica internazionale. Avrebbero voluto rilanciare lo slogan della “integrità territoriale” sotto il paravento dell’internazionalismo rosso.

«La burocrazia sindacale, che alcuni giorni prima della dittatura voleva imporre agli operai delle fabbriche metodi che avrebbero fatto aumentare lo sfruttamento capitalistico, fu costretta a battere in ritirata davanti alle masse che, sotto forma di espropriazioni “spontanee”, stavano sempre più vigorosamente realizzando l’espropriazione dei mezzi di produzione e l’abolizione del lavoro salariato. Infine, poiché tutto l’apparato del partito e dei sindacati difendeva apertamente il sistema di sfruttamento capitalistico e si vedeva obbligato a gettare la maschera, gli operai cominciarono ad abbandonare in massa queste organizzazioni.

«Questo opportunismo della burocrazia, che si era espresso prima sotto forma di collaborazione di classe, diede vita allora all’unità “senza alcuna condizione ideologica”. Il giovane partito operaio rivoluzionario, il cui programma comunista fu apparentemente accettato “senza riserve” dalla direzione del PSDU, si diluì così – mancando di un’organizzazione sufficientemente messa a punto – nell’organizzazione socialdemocratica funzionante, secondo la tattica anti-rivoluzionaria, sulla base della collaborazione di classe e del parlamentarismo puro e semplice.

«Nelle organizzazioni del partito a maggioranza piccolo-borghese l’elemento proletario rivoluzionario poteva appena manifestarsi ed emergere. Uno dei massimi dirigenti della burocrazia sindacale “passò notti in bianco a causa dell’aumento dei salari non sapendo cosa fare perché si potesse diminuirli”. Sotto la dittatura la dirigenza sindacale perseverò nella collaborazione e, d’accordo con i capitalisti, ostacolò il lavoro di edificazione di una organizzazione economica socialista (...)

«Il partito dirigente e capo della dittatura rivoluzionaria non poteva sbarazzarsi di coloro che, al contrario, non potevano che affidarsi alla collaborazione di classe. L’unità, base della dittatura, aveva reso impossibile al momento il regolamento dei conti con i traditori, mentre la caduta della dittatura impedì l’affermazione delle tendenze e dei punti di vista favorevoli all’eliminazione di questi elementi dal partito operaio. A causa della linea della “politica di equilibrio” scaturita dall’“unità”, la tattica socialdemocratica fondata sulla collaborazione di classe fece valere in ogni momento la propria influenza. Dittatura del proletariato mista a collaborazione di classe: ecco qualcosa che riesce difficile perfino immaginare.

«Tuttavia la collaborazione di classe era una necessità derivante dalla organizzazione stessa del movimento operaio. La politica di equilibrio in seno al partito era una necessità organica, poiché la dittatura, fondata sulla unità, avrebbe incontrato pericoli immediati con la disarticolazione o la rottura prematura di quella unità».



10.4. - Dal riformismo al terrore bianco

Sempre Kun:

«Prima nascosta, poi aperta, la lotta tra le due tendenze divenne il problema principale del movimento operaio e, immediatamente prima della caduta della dittatura, si arrivò agli scontri che preludono alla battaglia finale.

«La tattica socialdemocratica ha causato il terrore bianco. Il terrore bianco, il cui preludio fu la controrivoluzione democratica organizzata dai dirigenti ufficiali del PSDU, è una triste ma eccellente giustificazione della tattica comunista.

«La vittoria della burocrazia, dell’esercito e degli ufficiali, la ridicola debolezza del PSDU, il passaggio diretto delle masse piccolo-borghesi da esso al partito cristiano-sociale, tutto ciò ha dissipato ogni illusione sulla collaborazione di classe.

«Il terrore bianco e il potere dittatoriale della borghesia, abbandonate le forme democratiche, non escludono che la borghesia è anche incline ad abbandonare la forma aperta e rigida della sua dittatura ed è disposta a collaborare al governo con il partito operaio nel caso in cui quest’ultimo sia pronto ad assumersi l’eredità del terrore bianco: la difesa ad ogni costo della proprietà privata, della borghesia e dell’esistenza parassitaria della burocrazia dello Stato borghese. Dopo il terrore bianco, la democrazia non può essere instaurata che in una forma alla Noske (...)

«L’andamento che prende la lotta di classe nel mondo intero dimostra che l’organizzazione oppressiva della borghesia si è talmente indebolita da essere incapace di mantenere il suo potere e lo sfruttamento senza i traditori socialdemocratici. I partiti dei traditori socialisti si impegnano non solo a rendere incosciente la classe operaia addormentandone la forza rivoluzionaria, ma partecipano addirittura – dovunque si trovino al governo – alla più o meno aperta repressione degli operai per mezzo dell’esercito e con l’impiego della violenza. Non è con irrisione ma con angoscia che la borghesia segue la lotta ingaggiata nel mondo intero tra il partito operaio rivoluzionario e i traditori della classe operaia: essa sostiene i traditori con ogni mezzo e in grave ambascia.

«La battaglia decisiva tra le due tendenze del movimento operaio è ineluttabile. Ogni tentativo che tende a ritardare la soluzione o ad evitarla non può servire che gli interessi dei traditori del socialismo e quelli della collaborazione di classe, ed è dunque nocivo.

«È il cosiddetto centro del movimento operaio – i socialdemocratici che si definiscono di sinistra – che ha l’abitudine di svolgere il ruolo del conciliatore. Questa gente è solita coprire di frasi pseudo rivoluzionarie la politica portata avanti contro gli interessi della classe operaia, mascherando le manovre dei loro compagni di destra. Mentre le loro parole pendono dalla parte della tendenza rivoluzionaria, le loro azioni pendono – in generale – da quella dell’opportunismo. Denunciare questa tendenza conciliatrice e i suoi esponenti è ancora più importante che condannare coloro che sono apertamente diventati i lacchè della borghesia. Questa corrente del movimento operaio ostacola la soluzione del problema e impedisce l’immediato successo della rivoluzione, in quanto distoglie con le sue frasi vuote e con le sue incertezze notevoli masse di lavoratori dall’azione rivoluzionaria mettendole al servizio dei traditori del socialismo».


10.5. - Rompere con il Centro

Conclude Kun:

«La tendenza centrista di prima della rivoluzione non esiste più nel movimento operaio ungherese. Le esperienze della dittatura hanno ben presto spinto dalla parte dei comunisti coloro per i quali l’azione era più importante delle frasi rivoluzionarie, mentre gli eterni indecisi hanno gettato la maschera diventando i precursori e i portaparola della controrivoluzione democratica. La rimanente parte del centro si è compromessa sia durante la dittatura sia durante la controrivoluzione democratica, ma essa attende, malgrado tutto, l’occasione buona per infettare col proprio veleno il movimento operaio.

«Ogni unione organica con questi indecisi è molto nociva. Se prima e durante la dittatura un qualche dialogo con queste persone poteva essere motivato, dopo la caduta di essa, la rottura totale con questi elementi è una necessità storica.

«Nel corso della dittatura del proletariato, il movimento operaio ungherese ha dimostrato che l’amnistia, di cui i capi socialsciovinisti hanno beneficiato da parte dell’ala rivoluzionaria del movimento operaio proprio grazie ai buoni uffici degli esitanti, si è rivelata la fonte dell’indebolimento della rivoluzione (...) L’unità di classe degli operai è una condizione necessaria per la solidità del potere del proletariato, una condizione capace di assicurare il passaggio dal capitalismo al socialismo, primo stadio del comunismo. La base dell’unità di classe è la fermezza e l’unità d’azione rivoluzionaria; la condizione preliminare della fermezza e dell’unità d’azione è il regolamento dei conti del movimento operaio con i suoi nemici interni, cioè i traditori che predicano la collaborazione di classe e ogni sorta di opportunismo; il proletariato deve eliminarli dal movimento operaio.

«Il miglior modo di combattere gli esitanti e gli altri servitori della borghesia è quello di costringerli a scoprire il loro gioco, in una parola smascherarli. In questa fase finale della lotta di classe, aspra fino al parossismo, la presa di posizione degli operai non può essere che la seguente: chi non è con noi è contro di noi. Se il nemico di classe si mette la maschera dell’amico o, ancor più, quella del rivoluzionario, il pericolo è grandissimo. Bisogna dunque separare decisamente il Partito operaio rivoluzionario da tutti quegli elementi che cercano il compromesso con i socialsciovinisti, con i burocrati del partito e dei sindacati, che cercano insomma di seminare discordia e disgregazione nel movimento operaio rivoluzionario.

«Questo concetto va ribadito in ogni occasione e soprattutto alla luce delle esperienze della dittatura: l’unità del movimento operaio non è affatto un simulacro di unità fra i capi; non è nemmeno una posizione di equilibrio fra la burocrazia del partito e dei sindacati, ma è l’azione rivoluzionaria omogenea e ferma delle masse».

Infine Kun apertamente ammette:

«E fu così fino al giorno trionfante e nello stesso tempo fatale del 21 marzo, quando il proletariato d’Ungheria, guidato dal Partito dei Comunisti d’Ungheria, prese il potere dello Stato nelle proprie mani e, parallelamente, il Partito dei Comunisti d’Ungheria, commise, sotto la mia guida, l’errore fatale di fondersi con il partito socialdemocratico d’Ungheria».


10.6. - Non “sbloccare” i riformisti a sinistra ma risospingerli a destra

Una attenta disamina della rivoluzione ungherese, e delle ragioni del suo fallimento, la possiamo apprendere da quanto scrive Béla Szántó in “Le lotte di classe e la dittatura del proletariato in Ungheria”, del 1920, nel capitolo “Con chi hanno avuto a che fare i comunisti”:

«L’unificazione degli Eisenachiani e dei Lassalliani era stata caratterizzata da Marx, nella sua lettera a Bracke, tra l’altro nel modo seguente: “Noi sappiamo quanto il solo fatto dell’unificazione sia gradito ai lavoratori, ma essi sono in grave errore, se credono di non aver pagato assai caro questo successo momentaneo”.

«Béla Kun citava questa proposizione di Marx nella sua lettera ad Ignazio Bogár. In ogni caso è purtroppo vero che la classe lavoratrice di fatto comprò ad assai caro prezzo l’unificazione.

«Kun sbagliava in quanto riteneva che il fatto dell’unificazione ci avrebbe avvicinato agli operai. No, mille volte no. Giacché l’unificazione era avvenuta solo sulla carta, ma nella massa continuò a dominare la totale diffidenza (...) Diffidenza, non contro la unificazione, non contro la restaurazione dell’unità del movimento operaio, ma contro i dirigenti socialdemocratici. La massa li aborriva, non aveva in loro alcuna fiducia. Aveva istintivamente la sensazione che coloro i quali con la loro politica anteriore alla rivoluzione d’ottobre, ma specialmente dopo questa per quattro mesi e mezzo avevano combattuto a morte la rivoluzione proletaria, non avrebbero potuto acquisire spirito rivoluzionario in una notte. E non si sbagliava! Tuttavia vi si rassegnò, vedendo che non v’era altra scelta.

«La piattaforma di Béla Kun non prevedeva la fusione del partito socialdemocratico col comunista, ma solo la restaurazione dell’unità del movimento operaio. Quando la scrisse non pensava di compilare un programma di governo ma una piattaforma – com’egli diceva – “per la chiarificazione delle nostre vedute e di quelle dei nostri benevoli avversari”, e concretamente proponeva in primo luogo una conferenza comune degli elementi rivoluzionari per discutere la piattaforma. Quando fu scritta la piattaforma la scissione del partito era già un fatto compiuto, ma l’unità del movimento operaio non si era ancor ottenuta. Questo non è un gioco di parole.

«Né Béla Kun né alcun altro nel Partito comunista pensava che si potesse mai creare l’unità del movimento operaio mediante la fusione dei due partiti. Per un rivoluzionario un tal tipo di soluzione era inconcepibile. Là i metodi legalitari, la via costituzionale e i mezzi parlamentari, qui la lotta di classe senza quartiere, metodi rivoluzionari, la dittatura del proletariato: tra queste due direttive non esiste punto d’incontro, nessun confronto, un’unità è impossibile. Queste due direttive non sono compatibili in un’unica organizzazione. Non solo le differenze di principio, ma ancor più i metodi di azione, derivanti dalle premesse teoretiche, son talmente divergenti da doversi necessariamente separare gli uni dagli altri. Pure e semplici divergenze teoretiche non escludono che si possa collaborare temporaneamente in una stessa organizzazione, ma le diversità nell’azione non permettono ai rivoluzionari tale collaborazione senza rinunziare all’azione stessa.

«I comunisti non potevano proporsi il compito di spostare a sinistra il partito socialdemocratico operando dall’interno del partito stesso, al contrario dovevano staccarne gli elementi di sinistra, organizzare gli elementi rivoluzionari per poter isolare i riformisti, i partigiani della democrazia. Non trascinare i riformisti a sinistra ma respingerli a destra, e costringerli a trarre tutte le conseguenze della legalità fino alla repressione armata del movimento operaio: questa è la via per la selezione degli elementi rivoluzionari e per la loro unione in un Partito rivoluzionario. Quanto più recisamente, quanto più aspramente si compie questo processo, tanto più profonda e completa è la separazione tra le due tendenze, tanto più rapidamente e in più gran numero gli elementi rivoluzionari si separano dall’ala destra, e cresce e s’ingrossa l’ala sinistra.

«È così che, nella lotta, insieme all’educazione e alla preparazione del proletariato alla rivoluzione, il proletariato stesso crea l’unità del movimento proletario, separando e purificando gli elementi proletari dagli intrusi elementi semiproletari inclini alla pace civile. Un proletariato che ha respinto da sé tali elementi può esser capace di sfruttare le situazioni rivoluzionarie e di esser parte della rivoluzione internazionale.

«La piattaforma era rivolta appunto a tal fine, e voleva accelerare e abbreviare questo cammino di unificazione del movimento proletario. Anche la proposta di conferenza comune degli elementi rivoluzionari per discutere la piattaforma doveva aver lo stesso scopo.

«Però a ciò non giunse! Dopo la presentazione della piattaforma – senza che questa fosse stata neppur pubblicata e discussa – la scissione degli elementi rivoluzionari dall’ala riformista del partito socialdemocratico procedette a grandi passi. La direzione del partito socialdemocratico ne fu atterrita. La situazione per essa era rimanere condottieri senza soldati!

«Giacomo Weltner, uno dei capi del partito socialdemocratico, espose così questa situazione in un articolo, pubblicato dopo la caduta della dittatura ungherese dei Consigli, il 10 agosto 1919, nella Arbeiter Zeitung di Vienna, col titolo “Come avvenne”: “L’opinione delle masse paralizzò l’unità della dirigenza del partito socialdemocratico. Tutto contribuì a far sì che già prima del 21 marzo la situazione diventasse insostenibile. I lavoratori siderurgici e i metallurgici, i lavoratori del libro e il grosso dei lavoratori di molti altri sindacati, e inoltre la maggior parte della forza armata, avevano fatto apertamente adesione ai comunisti. Noi dunque dovevamo scegliere tra la guerra civile, l’unificazione, o il ritirarci completamente”».

Prosegue Béla Szántó:

«Dopoché fu offerta ai comunisti l’accettazione del loro programma, senza riserve, non poteva essere respinta l’unificazione. Un rifiuto sarebbe riuscito inintelligibile alle masse. Al massimo si sarebbe potuta cacciare la direzione del partito socialdemocratico – cosa che sarebbe riuscita anche simpatica a gran parte delle masse – ma ciò avrebbe avuto assai scarso significato. Come in ogni movimento operaio anche in quello ungherese s’era sviluppata una burocrazia di partito che per la peculiarità del movimento operaio ungherese – dove non esistevano organizzazioni di partito e i sindacati fungevano anche da organizzazioni del partito – si confondeva completamente con la burocrazia dei sindacati

«Una soluzione adeguata sarebbe stata quella di escludere dall’unificazione, oltre alla direzione del partito e alla burocrazia del partito, anche la burocrazia dei sindacati. Ma ciò sarebbe stato inattuabile per ragioni tecniche. Secondo il modo di vedere ungherese è ugualmente impossibile conservare ancora come funzionari dei sindacati gli esclusi dal partito. Questo sarebbe stato dovere delle masse, dei membri dei sindacati, ma prima ancora dell’unificazione. Nel momento dell’unificazione era ormai troppo tardi. La burocrazia del partito e dei sindacati sentiva, sapeva che la massa voleva toglierla di mezzo. Ma ciò essi non volevano, ciò vollero appunto prevenire.

«A tale scopo sfruttarono il momento psicologico creato dalla nota presentata a nome dell’Intesa dal tenente colonnello Vyx. Come dice Weltner, essi dovevano scegliere tra l’unificazione e la completa ritirata (probabilmente anzi la completa cacciata). Ed essi scelsero l’unificazione, appunto perché non volevano tirarsi in disparte, appunto perché questo volevano evitare.

«La crisi di Governo provocata dalla nota del tenente colonnello Vyx e la proposta, fatta dal presidente Károlyi con l’approvazione dei partiti borghesi, che il partito socialdemocratico dovesse assumere l’incarico di governare, gli procurò l’atmosfera opportuna per potersi cavare di impiccio. Per loro rivoluzione o pace civile eran cose secondarie, ciò che importava era solo poter rimanere alla testa del movimento operaio. Giustamente – disse Buchinger – “Il passo di fondersi coi comunisti sulla base del loro programma integrale fu intrapreso senza la minima convinzione”.

«Tuttavia non v’era da scegliere. Rifiutare avrebbe voluto dire rinunziare alla dittatura del proletariato, alla assunzione del potere da parte del proletariato. Ma non si poteva scherzare con la massa, che aveva preso molto sul serio la rivoluzione e la dittatura del proletariato.

«Però accanto a questo lato oscuro della instaurazione della dittatura del proletariato v’erano anche condizioni favorevoli. L’Armata Rossa della Russia stava sulla linea Ternopil-Kam’janec’-Podil’s’kyj, a circa 200 chilometri dai confini ungheresi. Erano molto favorevoli le possibilità di un congiungimento coi russi, della creazione di un fronte bolscevico unitario. La rivoluzione proletaria prometteva allora di svilupparsi rapidamente. Le continue lotte degli spartachiani in Germania e il vivo movimento comunista in Cecoslovacchia e nell’Austria tedesca permettevano di sperare che le truppe proletarie d’altri paesi sarebbero presto venute in aiuto del proletariato ungherese (...)

«Davanti agli occhi dei comunisti si librava la causa della rivoluzione, la causa della rivoluzione mondiale. Al proletariato ungherese si offriva l’opportunità di afferrarla, e quindi di promuovere e ravvivare la rivoluzione mondiale; era suo dovere rivoluzionario rafforzare il proletariato degli altri paesi nella sua rivoluzione, di svegliarlo, di incitarlo.

«Che a un tempo si intrufolassero nella direzione del moto anche coloro dai quali l’intiera massa si era proprio allora staccata non può essere per una rivoluzione la sola circostanza decisiva, però non secondaria. Se a qualcuno importa soltanto “di essere tra i primi nella divisione, senza esser messo alla testa del proletariato combattente dalla sua convinzione e dal suo coraggio”, costui prima o poi sarà cacciato via dal proletariato stesso. I comunisti sapevano già in precedenza d’aver a che fare non con rivoluzionari in buona fede, non con organizzatori e duci della rivoluzione, ma con gente che desiderava solo di partecipare alla spartizione del bottino».

«Ma non appena il proletariato fosse ormai giunto al potere, durante la dittatura del proletariato, i comunisti potevano con ragione sperare di loro, ciò che Lenin dice degli ingegneri, agronomi, ecc.: “Questi signori lavorano oggi agli ordini dei capitalisti: domani lavoreranno ancor meglio agli ordini del popolo armato”».

Queste ultime affermazioni – dopo la perfetta ammirevole diagnosi del compagno Szántó – non sono condivisibili. Il partito socialdemocratico, oltre agli interessi personali dei suoi capi, era ormai infeudato alla borghesia, un suo strumento. La sua funzione non era partecipare ma sabotare, far fallire, schiacciare la rivoluzione. Ed illusorio attendersi da un partito controrivoluzionario un soccorso tecnico rivoluzionario.

Giustamente Szántó ricorda:

«Nell’articolo Weltner scrive ancora: “Molti si trassero in disparte. La maggioranza fu per l’unificazione, e tra questi ultimi anch’io, ritenendo di dover continuare nell’attività nell’interesse del proletariato. Molti di noi vedevamo chiaramente d’andar incontro alla catastrofe (...) Perciò io lavorai con ogni forza per ottenere che la distruzione, le crudeltà e la corruzione fossero contenute nei più ristretti limiti possibili, affinché il movimento proletario potesse mantenersi anche dopo la catastrofe”. Lo Stato borghese forniva alla dittatura dei Consigli abbastanza sabotatori; ad essi s’univano ancora i Weltner e compagni “che vedevano chiaramente d’andar incontro alla catastrofe”, e “lavoravano con tutte le forze per il mantenimento del movimento proletario dopo la catastrofe”.

«La massa non intese male. L’unificazione era per essa carne della sua carne, era un fatto reale nelle masse, era già stata compiuta, prima dell’unificazione, dalla massa stessa per il fatto che questa si era staccata dal partito socialdemocratico riformista ed era passata al partito comunista. Ma l’unità non esisteva né in alto, tra i capi dei due partiti, né tra le masse e i capi socialdemocratici. La massa non li voleva, rifiutava di riconoscerli. Non li voleva neppure ascoltare. Quando erano incaricati a riferire nelle adunate per evitare scene tempestose dovevano sempre essere accompagnati da un comunista, come garante o correlatore.

«L’unificazione non si attuò nel sangue, al contrario si sviluppò in pratica in una dirigenza a composizione paritetica dei capi.

«La liquidazione dei due partiti dopo l’unificazione procedette con grandi difficoltà. Nelle elezioni delle organizzazioni di partito i socialdemocratici rimasero per lo più soccombenti. Nella presentazione dei candidati per le elezioni ai Consigli i comunisti dovettero perorare la causa dei socialdemocratici, e anche così molti non furono eletti. Per acquistare la fiducia delle masse i socialdemocratici si diedero ad una affabulazione di frasi rivoluzionarie e comuniste, per prevalere così sui comunisti. Ma la massa rimaneva incredula, giacché sentiva perfettamente che quelle eran semplici parole, non dettate da convinzione (...) Ai capi comunisti costava grande fatica contenere questa intensa sfiducia, diventata quasi incontenibile. Tale sacrificio si faceva nell’interesse dello sviluppo della dittatura e della rivoluzione proletaria.

«Lo stesso Jacob Weltner così si esprime intorno a questa sfiducia nella sua prefazione a “Documenti dell’unificazione - Storia dei precedenti della fusione tra socialdemocratici e comunisti”: “Alcuni equivoci che possono essersi prodotti stanno per scomparire poiché la coscienza dei pericoli e che i dissidi minacciano il potere dei lavoratori unisce tutti gli oppressi in un sol campo con la ferrea legge della necessità”. Gli oppressi si riunirono rapidamente in un unico campo, ma da questo rimasero lontani soltanto i capi socialdemocratici per la forza dell’impulso che li spingeva a tradire la rivoluzione. Essi tradirono la rivoluzione d’ottobre – secondo la confessione su riprodotta – ingannarono Károlyi, ed ora, per adoperare le parole di Weltner, “vedevano chiaramente avvicinarsi il disastro”, e lo preparavano alla dittatura del proletariato».

Szántó conclude questo importante scritto:

«I capi socialdemocratici sono diventati assai zelanti dopo la caduta della dittatura dei Consigli. Scrivono e si esprimono assai severamente nella stampa estera, per procurarsi una giustificazione di fronte ai socialdemocratici d’altri paesi. Speravano che il terrore bianco in Ungheria avrebbe distrutto tutti gli stampati in cui si possono leggere i loro scritti e i loro discorsi. Però non debbono dimenticare che, se anche il terrore bianco pervenisse ad avverare le loro speranze, continuerà a vivere nei cuori dei proletari la convinzione che furono i socialdemocratici quelli che minarono e abbatterono il loro potere».


* * *

Concludeva così il 5 agosto 1919, dalle pagine del “Il Soviet”, il nostro appello al Comitato esecutivo dell’Internazionale Comunista dopo la caduta della Repubblica ungherese dei consigli.

«La sanguinosa lezione dell’Ungheria ha insegnato a tutto il proletariato mondiale che non può esistere nessuna coalizione, nessun tipo di compromesso con i socialisti tanto inclini al tradimento. Lo strato corruttibile dei capi opportunisti deve essere asportato. Nuovi uomini saranno a capo del movimento. Essi emergeranno dalla classe operaia. Giacché a quest’ultima, e non ai suoi avversari, è destinata La vittoria.
     «L’Ungheria sovietica è caduta: Viva l’Ungheria sovietica!
     «Viva il Partito comunista ungherese!
     «Viva la rivoluzione operaia del mondo intero!
     «Viva il comunismo!».