International Communist Party Sulla questione sindacale
 

Il nostro “sindacalismo”

(da “Il Partito Comunista”, n.32, 1977)




Uno dei pericoli più grandi che i gruppi di proletari decisi a muoversi contro la politica sindacale attuale incontrano è quello di voler trascendere il terreno delle lotte e delle rivendicazioni economiche per darsi all’analisi politica del mondo e della società. Questo pericolo è tanto più grande quanto più il Partito politico di classe è ristretto nei suoi effettivi e nella sua influenza e non può presentarsi ai proletari come un punto chiaro ed automatico di attrazione.

Cinquanta anni fa l’operaio che, nel fuoco della lotta e dell’organizzazione economica, arrivava alla conclusione che anche i problemi economici della sua classe non potevano risolversi se non sul piano della lotta politica, della lotta per il potere, aveva davanti a sé una strada ben chiara: rimanendo militante del sindacato di classe si iscriveva ad una delle grandi organizzazioni che gli apparivano come guida politica della classe. Oggi le grandi organizzazioni politiche degli operai (il PCI in testa) appaiono apertamente opposte non solo alla emancipazione generale della classe, ma anche alla difesa dei suoi bisogni minimi, perciò l’operaio deciso a difendere le sue condizioni di vita non trova in esse un punto di riferimento.

Eppure si rende conto che il problema da risolvere è appunto un problema politico, anzi che egli, ponendo la difesa incondizionata delle sue condizioni economiche, pone già un problema politico. La spinta, dunque, a definire teoricamente una prospettiva politica è fortissima e spiega perché molti gruppi di proletari sinceri vadano a finire sulle sponde del gruppettismo extra-parlamentare. Questa spinta a darsi una “fisionomia politica” naturalmente soffoca questi gruppi impedendo loro di operare il collegamento con gli altri operai della stessa categoria, aderenti a differente impostazione politica o ideologica, collegamento che sarebbe possibile solo sul piano dell’azione materiale di difesa delle condizioni di tutti i proletari. Ne fa tanti “piccoli partiti”, ciascuno geloso delle proprie analisi e delle proprie idee, ciascuno isolato dal grosso dei propri compagni di lavoro.

Non solo, ma la visione politica che nasce in questi gruppi, non può che essere deformata e imperfetta: così essi divengono dei “semi-sindacati” e dei “mini-partiti”, organismi impotenti a condurre l’azione sindacale ed impotenti ancora a condurre l’azione politica.

D’altra parte viene definita sindacalista la nostra posizione tendente a far muovere questi organismi sul terreno puramente rivendicativo e a ribadire la loro necessaria “neutralità politica”. Esaminiamo dunque più da vicino la realtà delle cose.

Il problema dei marxisti è sempre stato posto in questi termini: gli operai non possono unirsi tutti insieme che sul piano delle lotte fisiche per la difesa delle loro condizioni economiche. Mentre questa difesa accomuna tutti i proletari sulla base di una esigenza materiale, essi permangono ancora divisi dal punto di vista ideologico, e lo resteranno per lungo tempo anche dopo la vittoria rivoluzionaria e la dittatura (Tesi del II Congresso dell’Internazionale Comunista). Perciò il partito politico si presenta come elemento distinto e speciale nel processo rivoluzionario. Non coincide, né lo può, con il sindacato, cioè con gli organi in cui gli operai si riuniscono per la lotta di tutti i giorni. Nella preparazione dell’attacco rivoluzionario il Partito perviene ad influenzare con il proprio indirizzo e con i propri organi specifici il movimento operaio economico, non ad una unificazione ideologica. Con il proprio indirizzo di azione, cioè proponendo all’interno del movimento generale di tutti gli operai quegli obiettivi e quei metodi di lotta che stanno sul cammino della rivoluzione, che estendono e potenziano la lotta stessa spingendola al massimo della violenza e della potenza.

Ma gli obiettivi che il Partito pone devono essere obiettivi pratici di azione, obiettivi e metodi che appaiano agli operai in lotta come necessari alla lotta stessa, al suo migliore rendimento, alla sua riuscita, e che, nello stesso tempo non contraddicano al passaggio dalla lotta difensiva a quella offensiva e rivoluzionaria.

Nello stesso tempo il Partito opera per il rafforzamento della coscienza politica di classe e dell’organizzazione politica nell’unico modo possibile: arruolando, attraverso la sua propaganda e la sua azione autonoma, nelle file del Partito gli elementi che nella lotta economica stessa hanno fatto l’esperienza e hanno constatato la necessità di passare dalla difensiva all’offensiva.

Non c’è altra coscienza politica che quella del Partito e non c’è altro modo per l’operaio di acquisire la coscienza politica che quello di iscriversi al Partito. Ingrandendosi così le file del Partito politico si moltiplicano i legami fra organizzazione del Partito e gli organismi sindacali. Di conseguenza quest’ultimi diventano sempre più suscettibili di acquisire non l’ideologia del Partito e la prospettiva politica, ma l’indirizzo pratico di azione che il Partito propone, e che è altra cosa. L’indirizzo del Partito viene acquisito dagli organismi operai non come accettazione di idee, ma come piano pratico necessario alla conduzione delle lotte operaie per i loro obiettivi.

Lenin ha combattuto l’economicismo in questo senso.

Oggi i termini del rapporto fra il Partito e gli organismi economici, sindacali del proletariato sono stravolti: è l’effetto della controrivoluzione ed è inevitabile che sia così; ma è anche inevitabile che essi tornino di nuovo a porsi come si ponevano mezzo secolo fa. Ora il Partito di classe ha una unica funzione, quella specialissima di rappresentare la coscienza politica della classe in maniera completa e totale, il che è possibile soltanto poggiando su una teoria (il marxismo rivoluzionario) che permetta di interpretare tutti gli aspetti, i nessi e le correlazioni della società e di basare su questa coscienza la selezione dei metodi di azione di classe, la cui forza organizzata serve ad indirizzare la classe verso quei metodi e quegli obiettivi che stanno sulla linea della emancipazione proletaria. Esso non può dunque coincidere né con la totalità né con la maggioranza dei proletari in movimento: è costituito da quella minoranza di proletari che giungono alla constatazione della necessità di questa coscienza globale della lotta di classe.

Gli organismi proletari economici hanno altra e ben diversa funzione: essi devono organizzare tutti i proletari disposti a muoversi per la difesa dei loro interessi immediati, e spinti a muoversi da questa necessità pratica indipendentemente dalla coscienza che ciascuno possiede delle cause, del processo, delle finalità della lotta. La loro funzione si realizza non quando essi possiedono una sufficiente coscienza dei termini della lotta (coscienza che solo il Partito può introdurre in essi), ma quando materialmente riescono a schierare in battaglia il numero maggiore possibile di proletari. E possono farlo partendo soltanto dal presupposto che unisce tutti i proletari, presupposto materiale: la constatazione che il padrone colpisce le condizioni materiali di esistenza e che a questi colpi bisogna reagire, perché la classe operaia deve vivere. Non si fa uno sciopero in una fabbrica di mille operai chiedendo che essi concordino su una valutazione generale della crisi, della funzione del capitalismo, dello Stato o dell’opportunismo: si fa chiedendo che tutti siano d’accordo sul fatto che all’offensiva del padrone, da tutti riscontrabile in termini immediati, risponda una adeguata azione di difesa degli operai necessaria per difendere il tenore di vita, per impedire l’intensificazione dei ritmi di lavoro o del dispotismo di fabbrica.

Un organismo operaio deve perciò partire e rimanere fedele nella sua azione al punto di vista di ogni e qualsiasi operaio intensificando la sua azione sul terreno pratico rivendicativo e proibendosi qualsiasi tendenza all’elaborazione di una visione teorica generale, che è patrimonio solo del Partito politico di classe.

La coscienza politica della classe non può essere elaborata da un gruppo qualsiasi di operai in lotta, nemmeno da tutti gli operai in lotta contro i padroni. È Lenin che parla: al massimo la lotta fra operai e padroni può produrre la coscienza tradunionista che non è, di per sé stessa, rivoluzionaria. La coscienza politica della classe si è elaborata nel corso di un secolo e mezzo di lotte del proletariato mondiale valutate alla luce di una dottrina unica ed invariante, quella del marxismo rivoluzionario, e ha prodotto un insieme, un blocco monolitico di posizioni che sole rappresentano la coscienza esatta dei rapporti tra le classi. Non esiste altra coscienza che questa, non esiste altro Partito che questo.

I tentativi inevitabili dei gruppi proletari che scendono in campo per la difesa delle loro condizioni di darsi una “prospettiva politica” non possono che condurre a un duplice risultato negativo: quello di limitare le loro possibilità di azione pratica e di organizzazione delle masse proletarie da un lato, quello di svilire e deformare la coscienza politica dall’altro.

Infatti essi sono presi fra due fuochi: o restringono i loro effettivi a quei soli proletari che accettano la visione globale e integrale del marxismo rivoluzionario, corredata dall’esperienza delle lotte di classe di un secolo e da quella di mezzo secolo di controrivoluzione, che è come dire, o aderiscono al Partito politico che in questa globalità di posizioni esiste, oppure sono costretti, per mantenere il contatto con il maggior numero di proletari, a diluire e ad annacquare questa coerente visione fino a farne qualcosa di accettabile alle idee di un grande numero di operai oggi, cioè qualcosa di riformistico, di opportunistico, di populistico perché tali sono oggi le idee predominanti nella massa degli operai.

Questa tendenza, dicevamo, non è affatto nuova: essa si è manifestata nel proletariato ogni volta che, nella storia, a una certa ripresa della lotta di classe non ha fatto riscontro una adeguata presenza del Partito comunista e la sua capacità di attrarre le energie che la lotta sprigionava. L’economicismo attaccato da Lenin aveva queste stesse caratteristiche, sebbene nascesse su una base di lotte del proletariato russo ben altrimenti profonde: il proletariato che si sforzava di trovare dalle sue lotte di tutti i giorni una “coscienza politica” e che, anche allora, con l’aiuto entusiasta di studentelli ed intellettuali da quattro soldi, riusciva benissimo a partorire le più strane deformazioni.

L’anarco-sindacalismo, Sorel e altri “teorici” aiutando, cercò anch’esso di far partorire al “coscienza politica” dagli operai stessi organizzati in sindacato. L’ordinovismo di Gramsci ecc. volle vedere nel sorgere dei Consigli di Fabbrica a Torino nel 1919-20 una nuova forma «attraverso cui la classe operaia prende coscienza». Il Kapedeismo (KAPD) tedesco fondò le “Unioni rivoluzionarie” di operai che non erano sindacati, perché ponevano a base dell’adesione l’accettazione di determinati principi e metodi di azione e non erano il Partito perché non aderivano alla globalità di posizioni politiche espresse nella III Internazionale. Alla base anche di quest’ultimo fenomeno era la tesi solita antimarxista: gli operai attraverso le loro lotte stesse si organizzano e prendono coscienza della necessità di abbattere il capitalismo. Noi siamo con Kautsky, con Lenin e con le schiere di marxisti che hanno dimostrato che ciò è falso.

Oggi la situazione è molto peggiore che negli esempi citati: il proletariato non è in movimento che in gruppi sparuti e lontani uno dall’altro. L’influenza dello studentume e della intelligenza piccolo-borghese spinge i gruppi operai a “non limitarsi all’azione rivendicativa” ma a “darsi una prospettiva politica” e perciò tanto più pestifera.

D’altra parte l’istinto degli operai più combattivi li avverte che “la questione è politica” non trova di fronte a sé, facilmente riconoscibile ed identificabile, il Partito di classe, per cui diventa inevitabile il pericolo della deformazione anarco-sindacalista del movimento proletario rinascente.

Il Partito di classe, che esiste, anche se in forma scarsamente visibile – nell’insieme di posizioni che hanno caratterizzato la Sinistra italiana dopo il 1926 e il suo bilancio globale del fallimento della III Internazionale e nelle poche forze che a queste posizioni si rifanno riunite intorno al giornale mensile “Il Partito Comunista” – ha un compito importante nell’indirizzare i primi tentativi operai di reagire alla dittatura opportunista.

Il suo compito è proprio quello che i fessi di turno amano chiamare “sindacalismo”: cioè il Partito indica ai gruppi operai in movimento la necessità che la loro azione si rivolga a stabilire tutti i collegamenti possibili con il grosso degli operai, agendo non sul terreno delle idee, delle analisi, delle prospettive politiche, ma su quello della difesa delle materiali necessità, dei bisogni elementari di ciascuno operaio. Il Partito indica che proprio oggi e nella situazione attuale i milioni di operai sono ideologicamente influenzati dalle mille varianti dell’opportunismo, dalle ideologie perfino borghesi, da paure e complessi che nel 1921-22 sembravano superate anche per l’ultimo proletario e che oggi, al contrario, sono di nuovo radicati nella mente anche dei più combattivi.

Mentre questa è la situazione “ideale” dei proletari, la loro situazione “materiale” li spinge però a muoversi sul piano della lotta pratica per le rivendicazioni economiche. È nel corso di questa lotta materiale che i proletari spezzeranno le “idee” più assurde che ora li tengono prigionieri e raggiungeranno di nuovo il livello “ideale” della classe di cinquant’anni fa, mentre gli elementi più intelligenti della classe aderiranno al Partito e ne dilateranno le file accedendo individualmente all’unica “prospettiva politica” della classe operaia: quella marxista rivoluzionaria di sempre.