International Communist Party Sulla questione sindacale
 

Incoraggiare l’apparizione delle organizzazioni a fine economico per la lotta immediata

(da “Il Partito Comunista”, n.70 e 72, 1980)




Se ritorniamo con insistenza sulla questione del lavoro del nostro piccolo Partito verso i comitati operai che sporadicamente si sono formati in questi ultimi anni, con alterne vicende e fortune, in alcune fabbriche e categorie sulla spinta di lotte proletarie tendenti a muoversi su basi classiste – come i CUB dei ferrovieri dell’agosto ’75, il Comitato di Lotta degli ospedalieri dell’autunno ’78, quello dei lavoratori dell’aria del ’79, o semplicemente per iniziativa dei piccoli gruppi di lavoratori di varie fabbriche, come l’Opposizione Operaia e il Comitato Nazionale Contro i Licenziamenti di recente costituzione – non è perché attribuiamo a questi organismi un valore taumaturgico e paradigmatico, in quanto antesignani o depositari embrionali di quella che dovrà essere la futura organizzazione immediata di classe del proletariato. Nemmeno perché ci facciamo l’illusione che oggi, in una situazione di ristagno generale della lotta di classe, essi possano costituire un saldo e valido punto di riferimento per tutti quegli operai che, spinti dal lungo ma continuo peggioramento delle condizioni di vita, siano inclini ad abbandonare i sindacati ufficiali, schifati dalla loro politica rinunciataria e collaborazionista, per dare vita a nuovi organismi: questa è una tendenza ancora allo stadio larvale e che soltanto l’acutizzarsi delle contraddizioni conseguente all’approfondirsi della crisi mondiale del capitalismo tenderà ad esprimere in forma estesa e compiuta.

Il vero motivo lo si può dedurre in modo lineare e inequivocabile da tutte le tesi sul compito del Partito nelle varie situazioni storiche che questo ha elaborato nel corso della sua vita organizzativa facendo tesoro delle esperienze e degli errori di un secolo e mezzo di lotta del movimento operaio internazionale. Le citazioni al riguardo potrebbero essere numerose; valga per tutte quella del punto 7, parte II (“Compiti del Partito Comunista”), delle nostre tesi caratteristiche del ’51: «Il partito non adotta mai il metodo di formare organizzazioni economiche parziali comprendenti i soli lavoratori che accettano i principi e la direzione del partito comunista. Ma il partito riconosce senza riserve che non solo la situazione che precede la lotta insurrezionale, ma anche ogni fase di deciso incremento dell’influenza del partito tra le masse non può delinearsi senza che tra il partito e la classe si stenda lo strato di organizzazioni a fine economico immediato e con alta partecipazione numerica, in seno alle quali vi sia una rete emanante dal partito (nuclei, gruppi e frazione comunista sindacale). Compito del partito nei periodi sfavorevoli e di passività della classe proletaria è di prevedere le forme e incoraggiare l’apparizione delle organizzazioni a fine economico per la lotta immediata, che nell’avvenire potranno assumere anche aspetti del tutto nuovi, dopo i tipi ben noti di lega di mestiere, sindacato d’industria, consiglio di azienda e così via. Il partito incoraggia sempre le forme d’organizzazione che facilitano il contatto e la comune azione tra lavoratori di varie località e di varia specialità professionale, respingendo le forme chiuse».

Il Partito ha dunque – anche in situazioni di propria estrema debolezza soggettiva e di situazione oggettiva sfavorevole come l’attuale – il dovere storico di prestare la massima attenzione a tutti i tentativi operai, per quanto ibridi, confusi e instabili siano, di opporsi in forma organizzata all’attacco padronale e statale capitalistico, in opposizione alle Centrali sindacali ufficiali. Esso deve costantemente compiere appunto lo sforzo di “prevedere e incoraggiare la apparizione delle organizzazioni a fine economico per la lotta immediata”. Questo sforzo di previsione, indispensabile se non si vuol cadere in un deleterio attesismo immobilista, preludio ad atteggiamenti di passivo codismo, non può svolgersi che in relazione diretta alla partecipazione attiva, compatibilmente con lo svolgersi di tutta la gamma dei compiti del Partito, e con i suoi militanti, sia alle lotte proletarie che si manifestano sul terreno delle reali esigenze di classe, sia al processo di lenta e necessariamente travagliata ricostruzione di organismi operai che le lotte e le esigenze proletarie in genere esprimono materialmente.

Non è sulla base del numero di operai interessati da questo processo, né di loro atteggiamenti politici specifici, che può accampare la decisione di partecipare attivamente, non come semplici spettatori, a questi organismi, ma esclusivamente al fatto che ci si trovi in presenza di operai, tanti o pochi o pochissimi che siano, animati dalla determinazione di fare quanto possibile per battersi sul terreno della lotta di classe contro il padronato, in difesa delle proprie condizioni di vita e di lavoro.

È nell’esercizio costante di questo compito, nel rispondere a tutti i problemi tattici e organizzativi che via via si presentano nella misura in cui la sua azione si fa più capillare e influente, che il Partito si abilita ad assolvere la sua funzione di guida storica del proletariato.

Posto dunque che in questi organismi di lavoro sarebbe deleterio assumere una posizione attendista e nullista nei loro confronti, è indispensabile avere piena consapevolezza del ruolo che i comunisti devono svolgere al loro interno. L’unica condizione che i comunisti devono porre a questi organismi per poter agire correttamente è che siano aperti a tutti i lavoratori che accettino la lotta di classe come mezzo d’azione antipadronale e anticapitalistico, indipendentemente dalle proprie idee politiche. Essi devono appunto “respingere le forme chiuse”, evitare di lavorare per la costruzione di organismi di partito, o appendici di partito, e, peggio, di più partiti e organizzazioni politiche, di piccoli sindacalismi che abbiano come base di adesione il programma del partito o, peggio, un compromesso politico tra vari gruppi richiamatisi al proletariato. Non sarà mai sufficientemente ribadito che ogni azione del Partito in seno ad organismi proletari non potrà mai poggiare su mediazioni del proprio programma politico. La barriera che separa l’organizzazione del Partito Comunista da tutti gli altri raggruppamenti politici deve costantemente apparire chiara ai lavoratori che seguono l’indirizzo del Partito. Nessuna azione può essere intrapresa dai militanti del Partito che possa nuocere a questa delimitazione precisa, pena lo sconfinamento in patteggiamenti politici del programma, errore irreversibile condannato dal Partito in riferimento a tutta la passata storia del movimento comunista internazionale.

A questo riguardo occorre chiarire che l’intervento dei militanti del Partito deve essere svolto esplicitamente in quanto comunisti rivoluzionari senza nasconderci dietro la finzione del “semplice operaio combattivo”, compito del Partito essendo non solo quello di incoraggiare le forme di organizzazione proletaria immediata, ma anche di trasmettere ad esse la propria influenza, senza la quale sarebbero facile preda di ogni forma e genere di opportunismo. Il Partito proclama apertamente e sempre che agisce per la conquista di queste organizzazioni, per indirizzarle sul terreno dello scontro aperto col nemico di classe, attraendo gli operai che vi partecipano attivamente sotto l’influenza del programma politico rivoluzionario, senza tuttavia mai trasformare la natura “aperta”, ossia senza mai ostacolare l’adesione di lavoratori non comunisti, ma comunque combattivi e su posizioni anticollaborazioniste. Naturalmente la questione non va intesa banalmente nel senso che ogni militante debba sempre e ovunque, in ogni suo intervento, dichiararsi comunista, ma deve dosare la propria azione nel senso che appaia quanto più possibile chiaro che si tratta di un comunista. Solo così è possibile costruire l’influenza del Partito su questi organismi.

Quanto premesso sulla natura “aperta” di questi organismi come condizione necessaria al lavoro dei comunisti, non esclude tuttavia che possa presentarsi il caso di dover agire in organismi operai tendenzialmente “chiusi”. In questi casi la battaglia si svolgerà proprio nel senso che essi diventino aperti a tutti i lavoratori.

Poste queste premesse è naturale che il tipo di intervento da svolgere in seno a questi organismi va rapportato di volta in volta alla situazione reale e al tipo di problemi che di volta in volta diventano oggetto di discussione in seno ai comitati o di azione verso la classe.

L’attuale situazione di generale apatia e distacco delle masse operaie dall’opportunismo ufficiale, che ancora non si traduce in spinta generalizzata all’organizzazione alternativa classista, ma in cui tuttavia comincia lentamente a delinearsi, in alcune fabbriche, un processo di presa di coscienza da parte di ristrette minoranze di lavoratori combattivi e in cui sempre più numerosi sono gli esempi di lotta al di fuori e contro le strutture dei sindacati ufficiali, queste stesse minoranze finiscono esse stesse per rimanere preda di contraddizioni tra la espressione di lotta che in certi momenti rappresentano e riescono a coagulare attorno a rivendicazioni di classe e le teorizzazioni che da queste esperienze deducono. Succede così che all’interno di questi organismi ci si trovi spesso di fronte a notevoli ostacoli pratici e a posizioni devianti dalla stessa impostazione classista immediata per cui questi organismi proclamano di battersi. È dovere dei militanti comunisti battersi contro queste impostazioni errate che, se portate alle loro estreme conseguenze, possono nuocere seriamente a quel processo di graduale ripresa del movimento di classe, della cui contraddittorietà e precarietà attuale essi sono l’espressione.

In particolare ci si trova di fronte a due tipi di posizioni, solo apparentemente opposte e che entrambe riflettono la debolezza del movimento classista a cui pretendono di riferirsi. Da un lato vi è la posizione, in genere dominante, di considerare limitato o addirittura inutile la “semplice” lotta economica immediata, ritenendo che le avanguardie operaie ormai cristallizzatesi attorno a quello che in genere viene definito molto imperfettamente un “programma di classe” si pongano immediatamente sul cosiddetto “terreno politico”, operino il famoso “salto di qualità” e si pongano direttamente l’obbiettivo di un programma politico da agitare e propagandare tra le masse operaie.

Questa posizione, predominante tra gli aderenti ai vari raggruppamenti eterogenei della cosiddetta “area dell’Autonomia”, ma anche tra altri gruppi politici che si richiamano alle posizioni marxiste, e magari della sinistra comunista, sono il riflesso più evidente della principale caratteristica negativa di questi organismi operai: quella di essere costituiti prevalentemente da elementi politicizzati, riflesso appunto della debolezza del movimento e dell’assenza di strati proletari numerosi disposti a battersi sul terreno di classe. Questa caratteristica tende invece ad essere considerata da costoro un fatto positivo e propendono a considerare questi organismi come organizzazioni parapartitiche o comunque parapolitiche, in cui si mediano posizioni politiche tra i vari gruppi aderenti, per poi agire sulla base della risultante che ne dovrebbe derivare.

Ora, se va considerato un fatto positivo che elementi operai di diverse tendenze politiche si organizzino sulla base della difesa degli interessi economici immediati della classe a cui appartengono, e, in questo senso, dobbiamo favorire e promuovere questo fenomeno che va nella direzione dell’unione delle forze proletarie contro il nemico di classe, e che da sempre è stato obiettivo perseguito dai comunisti rivoluzionari, questo stesso fatto è da considerarsi un limite oggettivo, riflesso appunto dell’assenza di strati operai numerosi disposti a battersi coerentemente sul terreno della difesa dei propri interessi. È proprio per superare questo grave limite che i comitati devono operare, e possono agire coerentemente su questo terreno appunto non ponendo alcuna discriminante politica verso gli operai che si avvicinano ad essi, proprio solo caratterizzandosi come organismi aperti a tutti i lavoratori sulla base di un programma rivendicativo classista che poggi su obiettivi di difesa economica immediata della classe. I comitati devono essere consapevoli del limite che rappresentano e agire sulla base di questa consapevolezza.

 È proprio l’atteggiamento di chi considera limitato un programma rivendicativo classista immediato, che più gravemente nuoce alla vita e alla vitalità classista di questi organismi. Questa posizione deriva dalla visione puramente idealista e profondamente antimarxista di considerare “superata” la fase in cui gli operai si pongono sul terreno della difesa, e giunta ormai la fase in cui si tratta di passare direttamente o contemporaneamente alla lotta politica. È questo il più grave ostacolo da battere in seno ai comitati in quanto conduce alla teorizzazione della “lotta d’avanguardia”, deleteria e controproducente agli effetti della ripresa del moto generalizzato di classe e alla negazione dell’indispensabile lotta quotidiana contro il proprio sfruttamento da parte del capitale, la “scuola di guerra” sola capace di abilitare il proletariato alla lotta d’attacco contro le roccaforti dello Stato capitalistico.

Contro questa tendenza deve essere condotta una battaglia senza quartiere, non solo perché il Partito non ha nulla da “mediare politicamente” con chicchessia, essendo la sua rigida organizzazione chiusa a chiunque non condivida in blocco il suo programma politico e la sua strategia rivoluzionaria. Questo deve costantemente contraddistinguerlo da tutti gli altri raggruppamenti politici, pena lo scivolamento sul terreno del fronte unico politico tra organizzazioni, definitivamente condannato dalla storia del comunismo rivoluzionario, ma anche perché finirebbe per distruggere quel minimo di organizzazione classista entro cui questa tendenza si esprime.

Chi pretende di porsi su un piano “più avanzato” rispetto al resto della classe non s’accorge invece che il suo atteggiamento “ultrasinistro” allontana di fatto gli operai dall’imboccare la strada dell’azione rivendicativa di classe, strada obbligata sul cammino della rivoluzione e del raggiungimento di obiettivi superiori. Finisce così per cadere in un avventurismo velleitario quanto dannoso, caratterizzato dall’incapacità di porsi come avanguardia operaia riconosciuta e seguita dai lavoratori, e isolarsi dalla massa operaia “più arretrata”.

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Un’altra tendenza tipica dell’Autonomia ma praticata anche da coloro che, pur ponendosi giustamente tra chi sostiene il carattere aperto di questi organismi, ritengono che essi debbano agire ovunque con le stesse parole d’ordine immediate, senza tener conto delle situazioni specifiche in cui questi organismi operano. I sostenitori di questa tesi più che in teorizzazioni si esprimono sul terreno pratico con una impostazione attivistica, volontaristica e quindi velleitaria, nella pretesa che l’azione soggettiva e magari esemplare delle avanguardie proletarie pervenute alla coscienza di classe possa determinare un processo di radicalizzazione degli operai sul terreno anticollaborazionista e antiopportunista. Sono questi i teorizzatori delle “lotte minoritarie” a qualunque costo, del sabotaggio ovunque degli scioperi indetti dal sindacato, dei “gesti esemplari” di pochi operai coscienti in funzione di detonatore verso gli altri lavoratori, o magari come semplice applicazione rigidamente coerente alla propria “maturazione politica” e alle proprie convinzioni e idee “rivoluzionarie”.

Questa impostazione, se può essere l’espressione di una genuina volontà individuale di azione e di lotta come reazione alla generale passività della classe, diventa, se tradotta nell’azione degli organismi in cui si manifesta, controproducente al loro stesso sviluppo tra la classe in quanto manca di una caratteristica indispensabile ad un organismo proletario: la capacità di valutare sul terreno delle situazioni reali la rispondenza degli operai alle parole d’ordine specifiche che vengono agitate e alle azioni che si vuole intraprendere, la capacità di comprendere il grado di coscienza e combattività operaia che di volta in volta si esprime, o si esprime in forme e potenzialità estremamente contradditorie nelle svariate situazioni in cui i comitati si trovano ad operare.

Questa incapacità non sempre è soggettiva, nel senso che gli individui che la praticano siano incapaci di affrontare queste indispensabili valutazioni, ma è talvolta politica, in quanto deriva da una errata concezione della funzione degli organismi proletari immediati e da una incomprensione del fenomeno della lotta di classe e dei meccanismi che la determinano. Questi lavoratori finiscono per avere una idea capovolta della realtà, anziché porsi come avanguardie coscienti rischiano di imboccare lo stesso tipo di “fuga in avanti” tipico dei negatori della necessità della lotta di difesa immediata e delle rivendicazioni economiche. Anch’essi finiscono preda dell’illusione che si tratti di “proporre qualcosa di più”, di agire su un piano superiore rispetto al livello di combattività della classe. Se praticato conseguentemente questo atteggiamento finisce per portare all’isolamento tra i lavoratori, al distacco tra avanguardia e classe che di fatto cancella la funzione della prima, che finisce per chiudersi nelle proprie convinzioni “d’avanguardia” e di conferirsi un astratto “comportamento conseguente” che diviene artificioso se non posto appunto in riferimento costante, sul terreno dell’azione, alla rispondenza che riesca a riscontrare tra i lavoratori nei cui confronti si rivolge.

Sono proprio i periodi come l’attuale in cui, di fronte all’acutizzarsi delle contraddizioni del capitalismo in crisi, si registra una diffusa “passività positiva” della classe, positiva relativamente al fatto che manifesta passivamente un distacco crescente dall’opportunismo, contemporaneamente al nascere di minoranze combattive a seguito dell’aggravarsi delle condizioni di vita del proletariato e a volte anche espressione temporanea di lotte anche se parziali ed episodiche, che queste stesse avanguardie corrono il rischio di separarsi dalla classe e rinchiudersi in sé o di cadere in atteggiamenti velleitari e avventuristi.

Diversa la posizione che i comunisti devono sostenere in seno ai Comitati. Se va combattuta la tendenza gravissima di negare o sottovalutare l’importanza della lotta di difesa economica della classe, non va sottovalutata la funzione negativa che può svolgere chi viceversa pretende di reagire a questa tendenza buttandosi a capofitto in un minimalismo attivistico che faccia astrazione dalla situazione reale in cui agisce e che pretenda di costituire un punto di riferimento o di polarizzare l’attenzione e la combattività degli operai stilando a tavolino piattaforme rivendicative specifiche al di fuori di ogni reale possibilità di mobilitare intorno ad esse i lavoratori o pretendendo di svolgere azioni alternative a quelle dei sindacati attuali a qualunque costo, indipendente dalla valutazione che possono avere un minimo di riscontro attivo tra i lavoratori.

La capacità di saper valutare al momento opportuno quale iniziativa intraprendere verso i lavoratori, con quali parole d’ordine specifiche e su quali temi particolari svolgere opera di agitazione, di saper intraprendere la giusta azione al momento giusto, non è certo data una volta per tutte, meno che mai può essere cercata nella spontaneità operaia o in un programma politico quale sia. Soltanto l’azione costante d’intervento nel movimento operaio, nei suoi problemi quotidiani, anche molto elementari di difesa delle proprie condizioni di vita dall’attacco del capitalismo, il costante collegamento con la classe operaia nelle forme che la situazione consente, in definitiva, soltanto la viva esperienza di azione e di lotta può far acquisire progressivamente a quegli operai più coscienti e combattivi, che si siano posti l’obiettivo di lavorare con dedizione e costanza alla ripresa del movimento di classe, l’abilità di direzione delle lotte e dei movimenti di cui si pongono come promotori, agitatori e interpreti conseguenti.

È un’abilitazione alla funzione di avanguardia al di fuori di schemi precostituiti di intervento che si pretenda essere validi sempre e ovunque, indipendentemente dalle situazioni. È il caso della prospettiva di scioperi alternativi al sindacato alla cui realizzazione occorre lavorare bene ovunque, ma la cui attuazione pratica richiede ben precise condizioni oggettive: influenza estesa dei comitati operai, disponibilità di un numero non esiguo, rispetto alla totalità della fabbrica in cui la questione si pone, di lavoratori all’appoggio dell’azione alternativa. In questo senso la pretesa, spesso presente in questi organismi, di generalizzare meccanicamente esperienze positive vissute in particolari situazioni locali, rischia di far scivolare l’intera organizzazione su posizioni velleitarie e avventuriste che, se attuate, non possono che ritorcersi negativamente sulla credibilità che eventualmente l’organismo stesso si sia conquistato tra ristrette minoranze di lavoratori in altre situazioni.

Il giusto equilibrio nell’azione e nel lavoro in generale dei comitati operai va quindi ricercato costantemente in stretto collegamento con i lavoratori; si tratta, in periodi come quello che stiamo vivendo, di saper attendere la classe, senza pretendere di poterla artificiosamente mobilitare con indicazioni e rivendicazioni appositamente “studiate a tavolino”, da importare poi volontaristicamente in seno ai lavoratori. Ai fautori della “lotta a qualunque costo”, dello “sciopero dimostrativo anche di pochi”, così come ai teorizzatori del “salto di qualità politico”, l’espressione “attendere la classe” suona come rinunciataria, attendista, immobilista. Si tratta in realtà di accuse dettate da un modo di intendere questa espressione distorta dall’ideologia immediatista e velleitaria, incapace di comprendere che l’“attesa” non può essere passiva, e vanno combattuti atteggiamenti che realmente la intendessero in questo senso.

L’“attesa della classe” poggia sulla elementare considerazione, davvero elementare per chi, come molti di questi fautori, si definisce materialista e comunista rivoluzionario, che la gran massa dei lavoratori si muove e si muoverà sotto la spinta del peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro, e non perché qualche “avanguardia cosciente” sarà andata a proporre loro un piano d’azione e di lotta su una serie di rivendicazioni classiste e corrette. Non solo, ma non va sottaciuto che soltanto il risorgere di un vasto movimento reale di classe potrà dare vita a avanguardie proletarie nel senso pieno di questa espressione, soltanto un vasto movimento di lotta su obbiettivi classisti e su posizioni anticollaborazioniste e antiopportuniste potrà dar vita alla rete organizzativa stabile e diffusa che dovrà caratterizzare i futuri sindacati di classe, processo questo che non potrà che esprimersi spontaneamente sull’onda della ritrovata strada della vera lotta anticapitalistica.

Questo processo che, ripetiamo, non potrà che svolgersi spontaneamente, va appunto “aiutato”, e in questo senso un compito non indifferente possono svolgerlo quei lavoratori che già oggi, sotto la spinta della situazione generale, si pongono il compito di lavorare e agire su obiettivi classisti, alla condizione, veramente fondamentale per la loro stessa esistenza in quanto avanguardie, che sappiano tenere un costante collegamento reale in tutte le situazioni in cui hanno la possibilità di lavorare con sistematicità, e termini organizzativi.

Altra questione che spesso si pone in questi comitati operai è l’atteggiamento da tenere nei confronti dei sindacati e, più precisamente, quale valutazione si debba dare circa la possibilità di svolgere ancora in essi e nei confronti del Consigli di fabbrica un certo lavoro su basi classiste. Premesso che non può essere messa alcuna pregiudiziale sull’adesione ai comitati classisti verso operai iscritti ai sindacati ufficiali, va detto che la nostra posizione al riguardo, è molto chiara, a differenza di posizioni ambigue che spesso si esprimono in essi. Non ci riferiamo tanto alla cosiddetta “sinistra sindacale” e sulla sua funzione di copertura da sinistra, ossia con linguaggio più barricadiero, del collaborazionismo e della politica antioperaia delle Centrali sindacali ufficiali, quanto alla posizione di chi sostiene non possa essere ancora esclusa la possibilità di lavoro nei sindacati, magari sotto la motivazione che ad essi aderiscono comunque milioni di lavoratori. Posta in questi termini la questione è fasulla e mostra quanto nulla abbiano in fondo capito costoro dell’involuzione del sindacato nelle maglie statali e istituzionali della borghesia, involuzione una delle cui caratteristiche principali è proprio quella di aver definitivamente eliminato al loro interno ogni forma di vita sindacale attiva e coinvolgente gli aderenti dell’organizzazione. Il rapporto tra iscritti e organismi esecutivi del sindacato, anche di base, è ormai di natura esclusivamente burocratica.

Non esiste alcuna possibilità per gli iscritti di esprimersi in qualche modo all’interno di queste organizzazioni, né esiste un’attività di organizzazione che possa consentire di avere un rapporto con gli iscritti al sindacato, che non sia quello che è possibile avere in fabbrica, durante le assemblee, con qualsiasi lavoratore. L’iscrizione al sindacato non offre perciò alcuna possibilità di lavoro e di contatti che non siano quelli di fabbrica.

Questa impossibilità non è tuttavia un fatto puramente formale e burocratico ma squisitamente politico, in quanto riflette all’interno dell’organizzazione la natura del sindacato ormai irreversibilmente di regime, e quindi con una organizzazione strutturata in modo tale da escludere e rigettare ogni influenza e penetrazione classista, costituita verticalmente e orizzontalmente al solo scopo di trasmettere alla base le direttive degli agenti prezzolati del regime democratico in veste operaia. Gli stessi quadri di base sono rigidamente inquadrati sulla politica tricolore e hanno come unico compito quello di rendere operative queste direttive con la massima efficienza possibile.

La vitalità del confronto sulle questioni del movimento operaio e sui suoi problemi rivendicativi che caratterizzava la vita e l’attività dei vecchi sindacati di classe del primo dopoguerra, e di cui si ebbe un pallido riflesso anche nel secondo dopoguerra, soffocato naturalmente dall’impostazione ormai tricolore del sindacato, ha ormai definitivamente lasciato il posto a una rigida burocraticità che ha come solo obbiettivo l’efficienza repressiva dell’apparato territoriale e di fabbrica. Non esiste di fatto più alcun rapporto tra l’iscritto e la struttura funzionaristica del sindacato che non sia il prelievo della quota dallo stipendio tramite la famigerata delega firmata una volta per tutte dall’operaio all’azienda in cui lavora.

Per avere un’idea della fasullità dell’iscrizione al sindacato basti pensare che, come ammesso anche da più di uno dei caporioni della triplice e come è facile constatare in qualsiasi fabbrica, migliaia di lavoratori sono iscritti per pura abitudine. Basterebbe che l’iscrizione fosse da rinnovare ogni anno per vedere crollare verticalmente le adesioni. Pensare, in queste condizioni, di avere ancora un lavoro da svolgere in seno a questi organismi è, nella migliore delle ipotesi, pura illusione. Infatti l’unico risultato di un simile atteggiamento è quello di far credere ai lavoratori, coscientemente o incoscientemente poco importa, che i sindacati ufficiali non siano ancora definitivamente nelle braccia del padronato e dello Stato, che esista ancora una remota possibilità di recuperarli alla lotta di classe.

Sono invece sempre più numerosi i casi che dimostrano, senza possibilità di dubbi, che la difesa dei più elementari interessi dei lavoratori non può che esprimersi al di fuori e contro la struttura del sindacato, ed è per questa prospettiva che i comunisti devono lavorare, anche in seno ai piccoli comitati operai.

Un discorso un po’ diverso meritano i consigli di fabbrica. Non staremo qui a farne la storia, ci basti constatare che sono l’unico organismo rappresentativo dei lavoratori, i cui membri sono eletti in tutte le fabbriche direttamente dagli operai. Per conseguenza in essi possono riflettersi gli umori degli operai, nel senso che, di fronte a tensioni e malcontenti in fabbrica, e soprattutto di fronte a una reazione organizzata dei lavoratori su rivendicazioni alternative a quelle sindacali, non è escluso che alcuni delegati di reparto possano schierarsi a fianco dei lavoratori in lotta, mentre è certo escluso che il sindacato si faccia interprete di istanze contrarie alla sua politica riformista e filopadronale. Nelle piccole e medie aziende poi, dove il CdF non sempre è controllato completamente dal sindacato, è possibile che alcuno di essi si attesti su posizioni anticollaborazioniste. Ne consegue che non può oggi escludersi che un lavoro utile possa essere svolto in questi organismi, anche come delegati, qualora esista un certo appoggio dei lavoratori, né può escludersi che il membro di un comitato operaio sorto in contrapposizione al sindacato possa al tempo stesso rivestire la carica di delegato e svolgere un lavoro di sensibilizzazione verso altri delegati in seno al CdF. La stessa espulsione da questi organismi di delegati che rifiutino la linea del sindacato può avere un effetto positivo di fronte ai lavoratori, ed è comunque preferibile al rifiuto in partenza di farne parte.

Occorre tuttavia prendere atto che recentemente i bonzi hanno deciso di introdurre la pregiudiziale cosiddetta “contro il terrorismo”: si tratta in realtà di un’iniziativa che impone al delegato neo-eletto di essere iscritto al sindacato o comunque il dichiarare la sua disponibilità all’iscrizione e l’accettazione della linea e degli obbiettivi del sindacato, per essere da questo riconosciuto. È questa una “svolta” importante, perché con essa i sindacati mirano a escludere dai CdF gli operai che non vogliono abiurare i metodi più conseguenti della lotta di classe, e quindi i lavoratori più combattivi, non facilmente addomesticabili alla linea dei bonzi. I CdF diverrebbero anche formalmente organi del sindacato in fabbrica, appartenenti in toto alla sua struttura organizzativa e, come tali, impermeabili alla lotta di classe. Le stesse elezioni operaie “su scheda bianca” diventano così una farsa, perché in realtà i lavoratori sono messi nell’impossibilità di designare quei compagni di lavoro che respingono la suddetta pregiudiziale, in particolare i comunisti. I CdF tendono così a svuotarsi di ogni contenuto di classe e a cristallizzarsi irreversibilmente in funzione antioperaia.

Se la parola d’ordine “fuori e contro il sindacato” non può essere posta come pregiudiziale per l’adesione ad ogni comitato operaio, in quanto presupporrebbe che ogni proletario che ad esso si avvicina sia automaticamente consapevole fino in fondo della precisa funzione antioperaia del sindacato, i militanti comunisti devono operare affinché diventi l’indirizzo in essi dominante sul piano dell’azione classista, e affinché questi organismi si indirizzino chiaramente verso la prospettiva del risorgere di organi di difesa immediata dei lavoratori, del sindacato di classe, lottando a fondo contro chi si pone sul terreno ambiguo e cervellotico del “dentro e fuori il sindacato” o, viceversa, chi pretende che questi piccoli comitati siano già di per sé un nuovo sindacato e debbano puntare a breve scadenza a costituirsi come sindacato di classe. Siamo invece in presenza dei primi sintomi organizzativi di ristrettissimi strati di lavoratori combattivi, che sarebbe più giusto definire nuclei del futuro sindacato di classe e che il Partito deve aiutare ad esprimere fino in fondo e con coerenza la carica antiopportunista e anticapitalista che potenzialmente possiedono, lavorando affinché si indirizzino senza esitazione nella giusta prospettiva classista del risorgere dell’organizzazione proletaria economica immediata, tappa indispensabile, insieme allo sviluppo del Partito Rivoluzionario, della sua influenza sul proletariato, e quindi sul cammino della rivoluzione comunista.