International Communist Party Sulla questione sindacale
 

Negare il lavoro del Partito Comunista nelle lotte operaie significa ritardare l’estensione dell’organizzazione proletaria e abbandonarla alle ideologie borghesi e piccolo borghesi

(da “Il Partito Comunista”, n.76-77, 1980)




La necessità della lotta di classe del proletariato in difesa delle proprie condizioni materiali non è una scoperta originale del marxismo; diversi teorici borghesi prima di Marx constatarono questa necessità. La sua enunciazione fa parte del nostro patrimonio dottrinario nel senso che costituisce un dato fisico, sperimentale, la semplice descrizione di una realtà che si svolge sotto gli occhi di tutti, che è nelle cose, che non ha bisogno di essere scoperta o inventata.

La nostra teoria spiega i rapporti sociali e le leggi economiche che li determinano. Il nostro programma definisce gli obbiettivi che il proletariato deve raggiungere per la sua definitiva emancipazione. La nostra tattica definisce i mezzi, la strada pratica che la classe proletaria deve percorrere per raggiungere gli obiettivi fissati dal programma.

Rifiutiamo il termine “ideologia” per definire il nostro bagaglio di conoscenza. La nostra è una teoria scientifica che si è affermata come l’unica in grado di dare una spiegazione della realtà economica e sociale, che si è affermata dopo una serie di verifiche sperimentali storiche, che è tuttora valida perché le sue leggi sono confermate dai fatti. Una teoria non può essere oggetto di revisione o aggiornamento: o è valida in blocco o va respinta in blocco. Il programma comprende le misure da attuare per rimuovere gli ostacoli che si frappongono al raggiungimento degli scopi dei comunisti: la fine dello sfruttamento salariale, la liberazione dell’umanità dalla schiavitù del bisogno, la società senza classi. Questi ostacoli: la proprietà privata dei mezzi di produzione, il potere politico statale della borghesia, rimangono in piedi oggi mille volte più rafforzati di ieri e il nostro programma non è altro che la loro negazione: abbattimento dello Stato borghese e dittatura proletaria, prima – socializzazione dei mezzi di produzione, poi.

Con la tattica siamo nel campo dei mezzi, delle possibili strade da percorrere per raggiungere i nostri scopi. Questo campo si restringe sempre più; mezzi che in passato potevano sembrare idonei – come ad esempio la partecipazione alle elezioni e ai parlamenti – si sono dimostrati letali per i comunisti. Nel corso della viva esperienza storica quindi la tattica si precisa sempre più nel senso di escludere quelle vie che la pratica dimostra non idonee o dannose.

Proprio perché le nostre posizioni non stanno nel campo delle idee, ma costituiscono nel loro insieme una dottrina scientifica, i nostri scopi finali non negano la battaglia quotidiana che i salariati devono condurre per difendersi dallo sfruttamento. I nostri obiettivi politici non comportano il superamento della lotta economica, ma anzi il suo massimo sviluppo e il suo sbocco verso la lotta rivoluzionaria. Sono le tendenze di origine piccolo-borghese, idealistiche, che considerano la lotta economica come una fase temporanea, un male necessario da superare quando le masse siano addivenute alla “coscienza politica”. Questa coscienza dovrebbe essere acquisita prima di tutto attraverso una negazione della bruta lotta per il bisogno, contrapposta alla esaltante lotta per l’idea.

La nostra concezione è opposta: la classe operaia esprimerà realmente un grado più elevato di coscienza politica di classe quando sarà in grado di praticare la lotta di classe, la coscienza dell’antagonismo contro i padroni è l’estensione e la radicalità della battaglia sociale che di fatto saprà intraprendere, come la coscienza operaia del necessario rinascere dell’organizzazione proletaria si misura con il concrescere dell’organizzazione proletaria stessa.

La coscienza comunista rivoluzionaria preesiste, impersonale, oggettiva, nella teoria, nel metodo e nella tradizione storica marxista.

Questa coscienza non può essere acquisita spontaneamente dal proletariato nella sua lotta difensiva. Essa è frutto della viva esperienza di un secolo di lotte e non può essere acquisita sulla base di una limitata esperienza locale, di fabbrica o di categoria. Il "Manifesto dei comunisti" fu scritto nel 1848 dopo decenni di lotte del proletariato inglese, francese e tedesco, dopo l’insurrezione di Vienna, dopo le sommosse di Parigi, dopo la guerra civile in Germania. La necessità della dittatura proletaria venne enunciata dopo la sanguinosa esperienza della Comune di Parigi nel 1871.

Questa coscienza può essere posseduta collettivamente soltanto da un organismo che travalichi i limiti degli individui, delle generazioni, delle località, cioè dal Partito. I proletari – dice Lenin – possono ricevere questa coscienza soltanto dall’esterno. Spontaneamente il movimento proletario può giungere soltanto al tradeunionismo, cioè alla coscienza della necessità di organizzarsi in difesa delle proprie condizioni materiali all’interno delle condizioni sociali esistenti strappando miglioramenti salariali, riforme, leggi a tutela del lavoro salariato.

Ma la lotta economica di per sé non intacca le cause che generano lo sfruttamento e non può uscire dal quadro dell’ordine sociale borghese. Il capitalismo nella sua fase imperialista, non solo ammette la lotta economica, ma la prevede come un dato permanente e cerca di controllarla attraverso i suoi sindacati di regime. La constatazione della necessità di difendersi dallo sfruttamento può portare – da sola – a muoversi nel senso di mitigare questo sfruttamento ma non a rimuoverne le cause. L’apporto originale dei comunisti consiste nel fatto che, partendo da questo dato materiale, essi vogliono eliminare le cause che generano lo sfruttamento e l’oppressione di classe e si dedicano alla preparazione rivoluzionaria del proletariato. Per questo l’organizzazione del Partito comunista deve essere separata dalle organizzazioni economiche proletarie.

Le tendenze anarco-sindacaliste ammettono la necessità dell’attacco allo Stato borghese da parte del proletariato, ma negano che per questo scopo sia necessaria una organizzazione “speciale”, separata dalle associazioni operaie. Essi sostengono che la lotta economica in un dato momento si evolverà spontaneamente in lotta insurrezionale contro lo Stato borghese. Essi negano non tanto il Partito comunista ma il concetto stesso di Partito. Essi, anche se rifiutano di ammetterlo, costituiscono un ben preciso partito; il partito anarcosindacalista che ha una sua propria visione dello scontro tra le classi, che ha un suo proprio programma.

Le tendenze economiciste e aziendaliste non si caratterizzano tanto per il rifiuto del concetto di Partito, quanto per il rifiuto della politica in generale. Essi sostengono che le associazioni operaie, per essere autonome da partiti che vorrebbero strumentalizzarle, devono essere apolitiche, che gli operai hanno da pensare alla lotta con i padroni e non devono occuparsi di politica.

Questa tendenza parte dalla assurda pretesa di salvaguardare l’unità della classe operaia semplicemente negando l’esistenza delle correnti politiche in seno agli organismi economici. In questo modo relega le associazioni operaie ad occuparsi soltanto di problemi spiccioli di azienda o di categoria senza vedere il loro legame con la realtà politica e sociale.

Negare la libera circolazione delle tendenze politiche nelle organizzazioni proletarie equivale ad affermare che la classe proletaria non deve avere un suo programma politico, una sua visione dei rapporti sociali: gli operai fanno le lotte economiche, la piccola borghesia intellettuale si occupa di politica.

Questa è una ben precisa posizione politica, l’economicismo, che è di ostacolo all’attestarsi di una minoranza di proletari sul terreno rivoluzionario.

Le tendenze intellettualoidi sostengono che gli operai non devono lottare per i loro bisogni materiali, ma… per il “comunismo” o in genere per obbiettivi più “politici”.

Gli anarco-sindacalisti sostengono che gli operai comunisti non devono avere la loro organizzazione separata. Gli economicisti sostengono che in seno alle organizzazioni proletarie non deve esserci lo scontro politico. Noi comunisti, mentre siamo strenui difensori del carattere aperto degli organismi economici, non vogliamo con questo sostenere che in essi non si parla di politica. Siamo anzi per la libera circolazione e scontro delle tendenze politiche proprio perché abbiamo interesse a far risaltare la nostra linea di classe che, per essere la descrizione di un percorso che il proletariato deve necessariamente fare, è l’unica che può trovare conferma nell’esperienza diretta delle masse.

La nostra strenua difesa del carattere aperto delle organizzazioni economiche proletarie parte dalla constatazione che solo sul terreno della difesa delle condizioni di vita e di lavoro, la classe proletaria si trova oggettivamente unita, che questa e soltanto questa può essere la base di arruolamento dell’esercito proletario. Tanto la difesa quanto l’attacco proletario non possono mai prescindere da questo presupposto oggettivo.

Le varie tendenze – non quelle apertamente borghesi – ma quelle che ammettono la lotta di classe proletaria rappresentano i possibili indirizzi strategici secondo i quali può muoversi l’esercito proletario.

Non adottiamo il metodo puerile di esorcizzare le tendenze avversarie alla nostra negando loro il diritto di esistere. Riteniamo anzi positivo che esse si esprimano fino in fondo il più liberamente possibile, che circolino e si scontrino con la massima libertà nell’ambiente proletario. Affidiamo alla prova dei fatti il compito di far risaltare l’indirizzo giusto e di scartare gli altri.

In questo senso noi siamo per la massima unità proletaria sul terreno dell’azione e per la massima divisione sul terreno delle concezioni politiche.

Lotta di classe e scontro politico fra partiti per noi sono separati, stanno su due piani diversi, ma non nel senso banale che mentre il movimento è prerogativa dei sindacati, la lotta politica è prerogativa dei partiti: che gli operai pensino agli scioperi, gli intellettuali alla politica. Mentre difendiamo il carattere aperto a tutti i proletari degli organismi economici e la più larga unità nell’azione, sosteniamo anche che i proletari in prima persona devono liberamente discutere di questioni politiche generali, liberamente dividersi, liberamente scontrarsi.

Non abbiamo dimenticato che il "Capitale" fu scritto non per i professori universitari ma per la classe operaia, in un linguaggio che fosse il più possibile accessibile ai proletari – dei quali allora pochi sapevano leggere – e che l’Associazione Internazionale degli operai ringraziò ufficialmente Carlo Marx per aver loro chiarito le cause e i meccanismi dell’oppressione di classe. Non abbiamo dimenticato che ai primi del ‘900 in Russia – come racconta Trotzky – i proletari si contendevano le copie del "Capitale" e le facevano a pezzi per poterle leggere contemporaneamente.

Proprio perché abbiamo fiducia nelle energie fisiche e intellettuali del proletariato noi comunisti non ci abbassiamo infingardamente ad esaltare la spontaneità o la semplicità delle masse, ma vogliamo invece elevarle alla coscienza rivoluzionaria.

* * *

La lotta economica è un dato oggettivo che scaturisce dalle contraddizioni del modo di produzione capitalistico; nessuna riforma, nessuna concessione, nessuna legge speciale, nessuna operazione poliziesca può eliminarla finché permane la proprietà privata dei mezzi di produzione e il lavoro salariato.

Dopo una prima fase in cui la borghesia negava in assoluto la lotta e l’organizzazione operaia, essa è stata poi costretta a tollerarla e, con il fascismo, ha tentato di darle un inquadramento nel proprio ordinamento giuridico con la creazione di organizzazioni sindacali sotto il controllo diretto dello Stato.

Al tempo della Prima Internazionale il proletariato era ancora una esigua minoranza della popolazione. Il nascente movimento proletario si sviluppava in uno scontro diretto e aperto con la legalità borghese: scioperi e manifestazioni di piazza erano vietati. Le dimostrazioni operaie e contadine assumevano quasi sempre l’aspetto di sommosse; saccheggi, scontri con la polizia, l’esercito, arresti di massa, sparatorie, morti, feriti. Sempre, anche per le rivendicazioni più limitate, gli operai si trovavano di fronte lo Stato nella sua vera essenza di apparato repressivo, con le sue milizie e i suoi tribunali, schierato in difesa della proprietà. Qualsiasi movimento rivendicativo portava allo scontro con lo Stato perché ad esso lo Stato dava sempre una risposta poliziesca che non lasciava altro spazio che quello dell’azione di massa. Scioperare, partecipare a una dimostrazione significava allora rischiare la vita o anni di galera.

Le lotte economiche perciò divenivano immediatamente politiche perché presupponevano la coscienza che non si potevano colpire i capitalisti e i proprietari fondiari senza scontrarsi con l’apparato predisposto a difesa dei loro privilegi: lo Stato. Non era perciò netta la distinzione tra lotta economica e lotta politica rivoluzionaria; esse coincidevano perché la lotta economica poteva condursi solo con metodi rivoluzionari. In Italia in questo periodo i capi delle prime grandi agitazioni operaie – come quella degli edili nel 1888 – sono gli anarco-sindacalisti.

Nella seconda fase, quella che vede lo sviluppo dei grandi partiti socialisti della Seconda Internazionale, la borghesia da una parte non può più contenere i movimenti di un proletariato, enormemente cresciuto nel numero, con metodi puramente polizieschi, dall’altra ha enormemente accresciuto i suoi profitti e può fare delle concessioni corrompendo alcuni strati operai. Nasce qui il terreno oggettivo per lo sviluppo del riformismo e del tradeunionismo che sfocerà nella degenerazione e passaggio nel campo borghese dei partiti della Seconda Internazionale. I metodi polizieschi da soli, avrebbero portato sul terreno dello scontro aperto un proletariato sempre più numeroso e concentrato: ecco perché la borghesia, fattasi più accorta, abbina alla repressione l’opera di imbonimento dei capi socialdemocratici che incanalano le lotte operaie verso conquiste parziali nel quadro dell’ordine sociale borghese. Le lotte operaie, per la mutata situazione economica e politica, sfociano in richieste di riforme, di miglioramenti salariali, di alleviamento delle condizioni di lavoro, non più come tappe verso l’assalto al potere borghese per la distruzione completa di ogni forma di proprietà privata e di sfruttamento, ma come rivendicazioni fini a sé stesse, perfettamente compatibili con una economia capitalista in piena espansione.

Il movimento economico delle masse procede compatto in questa direzione sotto la guida dei capi riformisti delle grandi socialdemocrazie e dei grandi sindacati di classe. Non che cessino – beninteso – gli scontri di piazza, le fucilate, gli arresti, ma si verifica un notevole miglioramento delle condizioni di vita proletarie, fertile terreno per l’opera di imbonimento democratico, pacifista e legalitario.

L’organizzazione politica rivoluzionaria non coincide più con le associazioni operaie, progressivamente viene isolata e ridotta a piccoli gruppi o frazioni in seno ai partiti della Seconda Internazionale.

Il movimento delle masse fu portato allora sul terreno del riformismo e della collaborazione di classe, fino al sostegno delle rispettive borghesie nella guerra imperialista. Essere rivoluzionari comunisti significava allora non seguire le masse su questo terreno, ma distinguersi nettamente per salvaguardare la prospettiva della rivoluzione. Questo fu fatto da Lenin, dalla Sinistra Comunista Italiana e da pochi altri che dichiararono guerra alla guerra mentre le masse proletarie venivano portate al macello sotto le rispettive bandiere nazionali.

Con l’ondata rivoluzionaria 1917-23 si realizza la saldatura tra il programma rivoluzionario e il moto spontaneo delle masse, non perché quello si adatti a quelle, ma perché gli obbiettivi per i quali si muovevano le masse, in quel breve scorcio storico, non potevano essere perseguiti che con la realizzazione del programma rivoluzionario.

L’esempio della Russia è chiarissimo: le masse sfruttate volevano la fine della guerra e le terre dei grandi proprietari. Ma né pace né terra si potevano ottenere senza una insurrezione che abbattesse lo Stato borghese e la formazione di una milizia operaia e contadina.

La preparazione dei bolscevichi – non improvvisata, ma fatta in decenni di prove durissime e con disciplina ferrea – consisteva proprio in questo: prepararsi alla rivoluzione sul piano teorico, programmatico, tattico, organizzativo, militare. Le masse furono con loro in uno di quei rarissimi momenti in cui azione e coscienza, movimento spontaneo e organizzazione rivoluzionaria divengono la stessa cosa, si fondono e formano un cuneo formidabile che sbaraglia le difese avversarie.

Il fascismo, espressione del moderno capitalismo delle banche e dei monopoli, riunì i due metodi, quello delle riforme e quello della aperta repressione poliziesca e realizzò il vecchio sogno riformista di inquadrare giuridicamente nella legislazione borghese le lotte e le organizzazioni sindacali. La novità da esso introdotta consiste appunto nella creazione di sindacati di Stato con inscrizione obbligatoria da parte dei lavoratori. Questi sindacati difendevano economicamente i lavoratori arrivando anche alla proclamazione di scioperi, ma lo facevano a condizione che la lotta economica non intaccasse mai l’interesse nazionale.

I sindacati sorti nel secondo dopoguerra, le attuali confederazioni, anche se formalmente sono ad adesione libera e non sottomessi giuridicamente allo Stato, ricalcano la politica fascista: sottomissione aperta e dichiarata allo Stato, lotta economica sì ma solo nella misura in cui questa è compatibile con l’andamento dell’economia capitalista. Questo significa: lotta per miglioramenti salariali e normativi quando l’economia è in espansione, controllo della classe operaia per far passare licenziamenti e aumento di sfruttamento quando l’economia è in crisi, collaborazione con lo Stato per la mobilitazione patriottica in caso di guerra.

Con la crisi economica siamo in uno di quei periodi in cui le rivendicazioni operaie divengono incompatibili con la stabilità del regime. Ieri era una rivendicazione puramente economica la richiesta di aumenti salariali o la riduzione dell’orario di lavoro; oggi lottare semplicemente per impedire aggravi di lavoro, per abolire lo straordinario, per impedire i licenziamenti, per ridurre l’orario di lavoro acquista un sapore sempre più eversivo perché queste rivendicazioni, compatibili ieri, cozzano contro il piano borghese di scaricare la crisi sulle spalle del proletariato. Ecco perché vediamo lo Stato, tutti i partiti, tutti i sindacati, tutte le istituzioni, schierate a difesa dell’economia nazionale, contro le necessità proletarie.

In questo senso oggi la lotta economica tende a diventare politica perché i proletari che vogliono muoversi in difesa dei loro bisogni sono costretti a prendere atto che:
     1) i sindacati ufficiali sono schierati dalla parte dei padroni e dello Stato;
     2) per poter lottare è necessario che i lavoratori formino delle proprie organizzazioni autonome dallo Stato, dai partiti, dai sindacati del regime.

La questione diviene allora squisitamente politica non soltanto perché le rivendicazioni di classe metterebbero in pericolo l’ordine sociale, ma anche perché è evidente che lo Stato difende in ogni modo i suoi sindacati. In primo luogo concedendo loro il diritto di esclusiva rappresentanza della mano d’opera. Questo significa che le organizzazioni di lavoratori che sorgono e che sorgeranno spontaneamente sono di fatto illegali, a meno che non si sottomettano allo Stato (come ha fatto Solidarność), e che è vietato a tutti i singoli padroni, a tutte le amministrazioni aziendali private o pubbliche di concludere accordi di qualsiasi tipo con associazioni spontanee di lavoratori che agiscano fuori dal controllo dei sindacati ufficiali.

Questo significa che oggi non basta dire agli operai che si deve lottare contro i padroni; bisogna anche dire che per lottare contro i padroni ci si deve liberare dal controllo poliziesco dei sindacati di regime e ridar vita a delle vere organizzazioni classiste. Ma anche questo non basta; bisogna anche dire che il risorgere delle organizzazioni di classe non potrà mai avvenire “liberamente”, ma soltanto in lotta feroce contro lo Stato, tutti i partiti, tutti i sindacati che lo sostengono.

In questo senso quindi le rivendicazioni che ieri si inquadravano perfettamente in una politica tradeunionista, assumono carattere politico; non per delle caratteristiche insite, ma in rapporto alla mutata situazione che vede ridursi i margini di manovra della borghesia la quale, non potendo più fare concessioni, dovrà ben presto ricorrere apertamente alla forza denunciando come elementi sovversivi e antisociali tutti quelli che lottano per avere una casa o un lavoro.

Ma se le lotte economiche assumono un carattere nettamente politico, ciò non vuol dire che cambi la natura delle organizzazioni economiche di classe. Le determinazioni oggettive che spingono il proletariato alla lotta e all’organizzazione sono sempre le stesse, anche nei momenti di più acuta lotta rivoluzionaria e sono di carattere materiale, non ideale.

L’organizzazione economica perciò, anche nei rari momenti in cui è guidata da una politica genuinamente classista, conserva sempre i suoi limiti oggettivi che ne fanno un organo adatto per la difesa non per l’attacco. I sindacati di classe, da soli possono egregiamente difendere le condizioni di vita operaia contro lo sfruttamento, ma non possono costituire da soli una organizzazione adatta per il rovesciamento del potere della borghesia.

Una rivoluzione non è il “beau geste” di un pugno di disperati, né la sollevazione delle folle in una “grande giornata”. Proprio in Italia si sono fatti tutti gli esperimenti: dai ridicoli tentativi mazziniani, al terrorismo individuale (che arrivò allora al lusinghiero risultato di uccidere il re Umberto I), dall’azione delle bande di anarchici (che sulle montagne del Matese dichiararono deposta la monarchia e abolita la proprietà privata), dalle rivolte contadine, alla sommossa di Palermo del 1866, alle grandi sommosse proletarie del 1893 e del 1898 che interessarono contemporaneamente gran parte del territorio nazionale, dalle agitazioni contro la guerra di Libia, dalla settimana rossa del 1914, alla occupazione armata delle fabbriche nel 1920; dagli scioperi del ’43 alla mezza insurrezione in occasione dell’attentato a Togliatti nel ’48.

È già esistito in Italia un partito che si identificava con le associazioni operaie e al quale potevano aderire soltanto proletari: il Partito Operaio Italiano: forte di 30.000 aderenti con una larga influenza sul proletariato della Lombardia, del Piemonte, della Liguria, fu la prima organizzazione autonoma del proletariato italiano che si separava finalmente dalla sinistra borghese e dalla piccola borghesia radicale. Questo partito non era in pratica che una associazione di leghe e sosteneva il disinteressarsi della politica generale e di occuparsi soltanto delle lotte proletarie. Nel 1886 venne posto fuori legge con l’accusa di preparare la insurrezione, la sua organizzazione venne praticamente distrutta in una grande retata poliziesca e i suoi resti confluirono poi nel futuro partito socialista. Stessa sorte toccò alla organizzazione degli anarchici – numerosi e sparsi in tutta Italia – dopo il 1888.

La storia di questi tentativi è ben conservata negli archivi della polizia che senza soluzione di continuità sono passati dai Borboni ai Savoia, al Fascismo, alla Repubblica democratica: passano i governi, i partiti, le istituzioni, ma l’essenza dello Stato, il “questurino vecchia volpe” che sa tutto di tutti, che ha appreso la lezione e sa quando bastonare e quando vestirsi da agnello, rimane; nessun cambiamento di governo, nessuna sommossa gli ha fatto lasciare il suo posto.

I poveri fessi di oggi, che non sanno nulla di nulla e pretendono con le loro balorde improvvisazioni di “attaccare lo Stato”, dovrebbero riflettere che uno per uno tutti i loro tentativi, tutte le loro strade sono stata provate e lì hanno fallito uomini ben più decisi, masse ben più numerose, agguerrite ed esasperate.

La storia ha dimostrato che per abbattere il regime capitalistico e per condurre le lotte operaie in questa direzione occorre una organizzazione speciale appositamente nata e preparata a questo scopo e questa organizzazione si chiama Partito Comunista, un’organizzazione che fa tesoro dell’esperienza passata in modo da non ripetere i vecchi errori, che sa prevedere le situazioni e non si lascia sorprendere, che è in grado di resistere alle repressioni perché non ritiene di avere “spazi da difendere” in questa società, che possiede un piano preciso e collaudato nel quale si inquadrano le lotte proletarie quotidiane, l’assalto al potere borghese e le misure politiche ed economiche da prendere dopo l’abbattimento della borghesia. Un Partito che sappia guidare le organizzazioni proletarie non sul terreno delle conquiste parziali effimere, ma verso l’abolizione definitiva dello sfruttamento del lavoro salariato. Un Partito come tendeva ad essere il Partito bolscevico, la Terza Internazionale, il Partito Comunista d’Italia del 1921 che, possiamo dirlo con orgoglio, non fu sconfitto dalle repressioni fasciste alle quali resisteva e rispondeva, ma dal tradimento dei socialisti prima e degli stalinisti poi. Questo manca al proletariato oggi e senza questo possono venire tutti gli scioperi, agitazioni, sommosse di questo mondo ma il potere della borghesia non sarà minimamente scalfito. Chi dice di voler abbattere questo regime infame deve perciò essere conseguente e accettare gli strumenti necessari a questo scopo.