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PAGINA 1
Lenin
e Sinistra italiana
contro la truffa elettorale
La partecipazione popolare attraverso le libere elezioni è mito sempre più sbiadito man mano che il “benessere” si allontana dal proletariato occidentale, e, come obiettivo sperabile, da quello del Terzo Mondo. La crisi economica del capitalismo non ha più da elargire molto agli strati di salariati meglio pagati, base sociale su cui fanno leva riformisti di tutti i colori per idealizzare un capitalismo democratico e progressista che non trova ormai più alimento.
Ma resta importante rafforzare l’ideologia democratica per la tenuta del regime capitalistico. Con le forme esteriori della Democrazia, a differenza che con quelle apertamente autoritarie, meglio si illudono i soggetti dominati, gli appartenenti alla classe dei salariati a credere alle libertà sancite nelle carte costituzionali, che siano strumento per il godimento di diritti universali e di progresso. Diritti sempre e solo formali, per il proletariato, costretto da un apparato di forze finalizzate al suo controllo. Invece sempre più sostanziale è l’aumento dell’immiserimento della classe operaia.
Per questo, in tutti i paesi, un debordante apparato di professionisti dell’inganno, coordinato e ben efficiente, composto da politicanti, sindacalisti di regime, preti d’ogni chiesa, commentatori destri e sinistri di giornali e televisioni, escogita in continuazione “nuove trovate” per far pubblicità alla partecipazione popolare alle elezioni.
Le dinamiche sullo scenario internazionale nelle ultime settimane hanno offerto nuove occasioni per ribadire l’imbroglio. Ed ecco le gazzette e le tv a strombazzare che, ovunque, causa dei tristi “fatti nuovi” e delle “nuove difficoltà” dei tempi sarebbe la insufficienza di Democrazia, e, viceversa, la cura delle sempre più stridenti contraddizioni sociali in dosi accresciute di elettoralismo.
Così si spingono i lavoratori iracheni ad aspettarsi il miracolo dalla Democrazia, in una carnevalata elettorale nella quale oltre 200 partiti si contendono 265 seggi! Quelli egiziani lo stesso, in elezioni che nemmeno gli “islamici” hanno schifato. Fanno nascere un partito “centrista” in Israele che “sembra” favorevole (ma non è sicuro!) allo Stato palestinese, fino alla Grande Coalizione tedesca “compromesso storico” fra democristiani e socialdemocratici, per far meglio fronte anti-operaio in periodo di crisi economica. E ovunque per discernere le differenze fra i programmi e i metodi occorre il microscopio.
Pur tendendo gli Stati dell’età dell’imperialismo a darsi una formidabile organizzazione fascista, la borghesia vi conserva, quando può, il relitto di alcuni formalismi democratici, per distrarre le masse proletarie dal programma rivoluzionario comunista e illuderle di renderle partecipi alla gestione del potere in via pacifica e interclassista, chiamandole a scegliere da chi farsi rappresentare nella continuità naturale del regime. Dell’illusorietà di questa pratica sono prova i fatti, che evidenziano la perfetta continuità della politica dei governi al di sopra del mutare delle loro etichette, mentre continuo è l’accrescersi della miseria sociale, della disoccupazione, della incertezza delle condizioni di vita, delle guerre commerciali e di quelle militari.
Di fronte alle continue chiamate alle urne, in ogni luogo e momento, è il caso di rileggere un testo sempre attuale, la Lettera agli operai d’Europa e d’America, in cui Lenin, nel 1919, affrontando il problema, magistralmente portava chiarezza: «Il parlamento borghese, sia pure il più democratico nella repubblica più democratica, nella quale permanga la proprietà dei capitalisti e il loro potere, è la macchina di cui un pugno di sfruttatori si serve per schiacciare milioni lavoratori. I socialisti, lottando per emancipare i lavoratori dallo sfruttamento, hanno dovuto utilizzare i parlamenti borghesi come una tribuna, come una delle basi per la propaganda, per l’agitazione, per l’organizzazione, fino a che la nostra lotta è rimasta entro i limiti del regime borghese. Ma oggi la storia mondiale ha posto all’ordine del giorno il compito di distruggere tutto questo regime, di abbattere e schiacciare gli sfruttatori, di passare dal capitalismo al socialismo, oggi, limitarsi al parlamentarismo borghese, alla democrazia borghese, abbellire questa democrazia come “democrazia” in generale, celarne il carattere borghese, dimenticare che il suffragio universale, fino a che perdura la società dei capitalisti, è solo una delle armi dello Stato borghese, significa tradire vergognosamente il proletariato, passare dalla parte del suo nemico di classe, dalla parte della borghesia, significa essere un traditore e un rinnegato».
Queste medesime parole possono essere il manifesto con cui ancora oggi il nostro Partito si rivolge al proletariato di tutti i Paesi! Rispetto al 1919 non siamo di fronte ad un periodo rivoluzionario e all’ordine del giorno non vi è la Rivoluzione, ma il restauro della dottrina e del partito dopo decenni di feroce controrivoluzione e di mistificazioni operate da stalinismo e opportunisti di tutte le varianti.
Il nostro partito, che vuol farsi strumento politico della necessità storica del programma Comunista, esclude che possa darsi l’abbattimento della società borghese tramite il parlamentarismo, tanto nelle metropoli imperialistiche quanto nei paesi in via di sviluppo. E in questo eravamo e siamo pienamente d’accordo con Marx, con Lenin e con tutto il marxismo, da sempre.
Ma nemmeno riteniamo utile alla preparazione rivoluzionaria del partito e della classe la partecipazione dei comunisti alle elezioni – e, da compagni, lo dicemmo anche a Lenin – per utilizzarle sia pure solo come strumento di propaganda delle nostre ragioni, sebbene negli anni 1920 noi, per disciplina con l’Internazionale, facessimo scendere anche su quel terreno il Partito Comunista d’Italia.
Fatto sta che, evidentemente, sulla Democrazia i nostri stessi avversari
più non ci credono né ci contano. Nel bilanciamento dei poteri
dello Stato la tendenza storicamente dimostrata è che il parlamento
si è indebolito al punto da diventare un ratificatore ritardatario
di delibere del governo, se non dell’Unione Europea, o di ancora più
antidemocratiche, autoritarie e totalitarie istituzioni economiche internazionali,
autorevoli e rispettate, come Banca Mondiale, FMI, WTO...
Nei mesi scorsi si sono svolte nella Valle di Susa varie manifestazioni di protesta contro l’inizio dei lavori di sondaggio geologico nelle aree interessate ai cantieri di lavoro per il TAV (treno ad alta velocità), sostenute dai vari comitati "NO TAV" da anni attivi nella valle. Si sono avuti cortei, scaramucce con la polizia ed "eventi culturali", che hanno coinvolto, oltre ai valligiani, uniti in abbraccio interclassista – con le organizzazioni partitiche locali trasversali, da Forza Italia a Rifondazione Comunista – tutto il variegato mondo dei circoli autonomi, anarchici, ambientalisti, del volontariato, eccetera. In testa i sindaci in fascia tricolore, i consigli comunali e alcuni sacerdoti.
La CUB piemontese ci si è "inserita" con un generico "sciopero generale locale" mentre sono rimasti assenti e silenziosi i grandi sindacati concertativi Cgil, Cisl e Uil. Tutte le istituzioni, nazionali e regionali, e tutti i partiti, unanimi, dichiarano invece che l’opera è "indispensabile", ieri proponendola come utile e foriera di benessere, oggi pilotando il malcontento verso il mesto riconoscimento della sua inevitabilità.
Infatti, da una decina d’anni è in movimento una complessa macchina finanziaria, politica e tecnica tra il governo italiano, con la Regione Piemonte, e quello francese, con il Dipartimento della Savoia, indipendentemente dai diversi schieramenti politici dei governi nazionali e locali dei due paesi che si sono succeduti, tutti e sempre "comitati d’affari" degli interessi della borghesia, per realizzare una seconda e più veloce linea ferroviaria che acceleri i traffici tra Italia e Francia. "Vergognosamente", a questa si opporrebbe uno sparuto gruppo di montanari.
Quest’opera è parte di un più grande e ambizioso progetto chiamato "Corridoio europeo 5", ovvero una linea ferroviaria ad alta velocità e alta capacità (AV-AC) che, da Lisbona a Kiev, farebbe scorrere lungo quest’asse Est-Ovest un fiume di merci e persone nei due sensi di marcia.
È insomma dipinto come un progetto degno di un’economia capitalista giovane e gagliarda, "ottimista", erede degli ormai antichi ambiziosi progetti che, oltre un secolo e mezzo fa, con limitati mezzi tecnici rispetto ad oggi, perforarono primi le Alpi, tagliarono il canale di Suez e quello di Panama. Ultima di queste imprese è quella che, con più efficiente tecnologia, ha scavato il tunnel sotto La Manica, mentre "il più ardito fra tutti i ponti", quello sulla stretto di Messina resterà la solita pulcinellata italiana. Nessun borghese in Occidente ha invece voglia di esaltare i veramente determinanti lavori ultimati o in opera in Oriente, dalla ciclopica diga delle Tre Gole, alla nuova linea ferroviaria che collega la rete cinese a Llasa in Tibet, superando i passi del "Tetto del Mondo".
Tornando alla vecchia Europa, il valico ferroviario e autostradale più importante e agibile tutto l’anno nelle Alpi occidentali, salvo eventi meteoreologici di particolare intensità, è quello fra Bardonecchia e Modane attraverso il doppio traforo del Frejus. Da Bussoleno la linea, raddoppiata una ventina di anni fa, risale lo stretto ed incassato fondovalle della Dora Riparia fino a Bardonecchia dove, 135 anni fa, fu inaugurato il traforo ferroviario. Anche allora molto peso ebbe il gioco diplomatico e finanziario fra le diverse potenze europee. Un secolo dopo la galleria fu affiancata, alla medesima quota, evidentemente imposta dall’orografia, da quella autostradale.
Nella tratta il ferro, in 41 chilometri di sviluppo, monta un dislivello di circa 850 metri, con una pendenza media, quindi, del 21 per mille. Poiché anche i raggi di curvatura sono quelli di una tradizionale linea di montagna è vero che non può essere percorsa "ad alta velocità", superiore ai 160 chilometri orari.
Per contro la geometria della linea è certo in condizione di sopportare la cosidetta "alta capacità", il trasporto veloce delle merci: in tal senso l’attuale Torino-Lione è sotto utilizzata ed è in grado di sopportare un traffico merci assai superiore dell’attuale, e fino al 2050 con investimenti minimi e ben lontani dai preventivati 93 milioni di euro al chilometro della nuova linea.
Da pochi anni è in funzione sulla linea il sistema "Autostrada ferroviaria", o Modalhor: le cisterne e alcuni tipi di Tir, sistemati su speciali carri ribassati, percorrono la tratta tra il nuovo scalo merci di Orbassano, nella cintura di Torino, e quello di Aiton presso Chambéry. I profili delle gallerie del Frejus sono in fase di rimodellazione per consentire il passaggio di treni con sagoma più grande. Dal novembre 2003 il servizio era in via sperimentale e gratuito e le quattro coppie di treni giornalieri viaggiavano nei due sensi carichi ciascuno con 18 Tir. Terminato il periodo gratuito i Modalhor viaggiano vuoti, salvo in qualche giorno di forti nevicate o nel breve periodo di chiusura del traforo autostradale causato da un incendio. La lunghezza della tratta Orbassano-Chambery è infatti insufficiente per compensare i perditempi di carico e scarico dei rimorchi sui convogli.
In assenza di una precisa legge che vieti, come in Svizzera, o limiti fortemente il transito del traffico pesante su gomma, come al traforo del Monte Bianco, la schiera dei padroncini e degli autotrasportatori continuerà ad usare il sistema autostradale, più rapido, flessibile ed economico di quello ferroviario, nonostante il forte pedaggio del tunnel autostradale. Rispetto all’urgenza di pagare a fine mese le cambiali dei mezzi e al profitto aziendale, agli autotrasportatori della Valle di Susa, come di tutte le altre che incontrano nel loro lavoro itinerante, non può importare che poco.
Per quanto riguarda il traffico passeggeri, la linea è attualmente percorsa da numerosi treni di interesse locale, e per il collegamento metropolitano della valle con Torino, e da pochi collegamenti diretti verso Parigi e Barcellona. Da Lione i treni francesi ad alta velocità raggiungono in poche ore Parigi. Il TGV diretto Torino-Lione è invece stato soppresso dal dicembre 2003 per mancanza di passeggeri.
Tecnicamente, un eventuale potenziamento della linea ferroviaria Torino-Lione, di 287 chilometri, aveva due soluzioni: il quadruplicare più o meno in fianco alla linea esistente, o seguire un nuovo tracciato con traforo della montagna a quota inferiore, ottenendo così una linea percorribile a maggiore velocità. Alla vecchia linea resterebbe il transito lento. Alla fine si è scelta la seconda soluzione: la nuova linea Torino-Lione "AV-AC", per merci e passeggeri, avrebbe una lunghezza di 254 chilometri, cioè 33 più corta dell’attuale, da percorrersi ad una velocità di 220 chilometri orari. Sarebbe "una linea di pianura sotto la montagna" in quanto, mentre l’attuale galleria del Frejus, lunga 14 chilometri, è situata tra i 1300 metri di quota all’imbocco di Bardonecchia e i 1100 a quello di Modane, la nuova galleria, la maggiore mai progettata finora in Europa, sarebbe lunga 53,1 chilometri, sotto il Massiccio d’Ambin (vetta a 3378 metri), e ad una quota molto più bassa, tra i 550 metri dell’imbocco italiano, a Venaus, nei pressi di Susa, e i 600 metri di Saint Jean de Maurienne. La stazione di Modane diverrebbe sotterranea, grossomodo a metà della galleria, a 300 metri sotto la superficie.
L’opera sarebbe di grande impegno anche per i mezzi tecnici attuali: oltre allo scavo delle due canne (alla terza, di servizio e di via di fuga, si è rinunciato) sarebbero da aggiungere le gallerie, i camini e pozzi accessori, di ventilazione e per l’estrazione del materiale. Questo, complessivamente calcolabile sui 20 milioni di metri cubi di smarino, da lato italiano, non sapendo dove altrimenti scaricarlo, sarebbe convogliato da un sistema di nastri e di teleferiche per trasportarlo per una distanza di un dozzina di chilometri e alla quota dei 2100 metri dell’altopiano del Moncenisio, in territorio francese.
Possiamo rimandare per ulteriori calcoli e previsioni ai documenti predisposti dai vari NO-TAV ed ambientalisti, circa le assurdità del percorso nell’area torinese (che salta, per esempio, lo scalo di Orbassano), i calcoli di fattibilità generale e piani finanziari, sulle quantità e tipo di materiali da scavare, tra cui amianto e vene di pechblenda, ossido di uranio, già rilevate in studi degli anni 60’, in un enorme cantiere aperto per 10-15 anni, notte e giorno.
Ma la maggiore "irrazionalità" è individuabile nella scelta del percorso. La stessa retorica dei difensori del progetto, mentre afferma che la nuova via verrebbe a rafforzare l’unità dell’Europa – e da questa pretendono soldi – si contraddice nel sostenere che la lunghissima doppia tana sotto le Alpi savoiarde andrebbe scavata, e alla svelta, non perché non esistano più facili percorsi alternativi sull’asse Est-Ovest del continente, ma proprio perché esistono! Per collegare la penisola iberica, l’Atlantico e il Mediterraneo orientale al Danubio la via più naturale è risalire il Rodano, il Doubs e il Reno, sui nodi Digione-Basilea. È quindi, una TAV "contro l’Europa".
Fatto sta, poi, che l’asse di scorrimento europeo delle merci è principalmente nella direzione Nord-Sud, e da risolvere, limitandoci al caso italiano, sono piuttosto gli sbocchi di Genova e quello, condannato dalla trascorsa storia europea, di Trieste. È significativo invece che quella parte del "corridoio" che sarebbe veramente importante e urgente, "geo-strategica", quella che collegherebbe l’Adriatico e Trieste al Danubio, al Dnestr e al Dnepr, è sbrigativamente rimandata, tanto che non ne esiste nemmeno il progetto, mentre gli Staterelli ex-iugoslavi dichiarano che quello che vogliono sono le autostrade, che d’estate portano i turisti, e dei traffici continentali nulla gli interessa.
Studi delle varie società di analisi del movimento merci mostrano che, anche con le Alpi Graie forate al piede, con obbiettivo 2015, la quota che interesserà l’Italia sarebbe ben inferiore a quella convogliata su Digione, con origine-destinazione verso i paesi del Nord e non verso la Spagna.
Opporsi alla costruzione sembrerebbe quindi solo questione di buon senso e di buona gestione del "denaro pubblico". Ma per il capitale il fine è il profitto; il tunnel è il mezzo. Questo sarebbe da scavare anche se fosse certo che non vi transiterà mai nemmeno un treno. Non hanno forse i suoi filosofi teorizzato la "distruzione creatrice"? Non realizza il massimo della sua euforia nella produzione e nello smercio degli armamenti?
Non ne facciamo una "questione morale": è scontato, ma irrilevante, che dietro questi enormi appalti si inseriscano e proliferino giri malavitosi di ogni tipo. La vera e fondamentale rapina è quella, che la borghesia opera collettivamente, del pluslavoro non retribuito della classe operaia, in base ad una legge sociale sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e della terra difesa dai codici e dagli eserciti. La rapina di ogni istante lavorativo del salario senza riserve è perfettamente legale e consacrata dai preti e dai giudici.
Mentre nella fase aurorale del capitalismo la, sanamente smisurata e immorale, brama distruttrice della ricerca del Profitto aveva anche effetti utili al progresso umano in generale, quando veniva a spezzare vecchi ordini e ad infrangere chiusure millenarie, oggi il Capitale è ridotto a torturare inutilmente la specie umana, in un assurdo gioco sadico che genera solo nausea e disaffezione negli stessi borghesi.
Le Grandi Opere del Capitale ottocentesco scaturivano da un vorticoso primo sviluppo delle forze produttive, finalizzate all’accorciamento del tempo di circolazione delle merci e dei capitali. Per contro, oggi, di merci ce ne sono senz’altro troppe e che viaggino sempre più veloci è necessario ormai solo alla più rapida realizzazione del profitto.
Se, sotto il capitalismo, il tempo è denaro, cosa ne sarà del Tempo, e del suo inverso, la Velocità, quando il denaro non ci sarà più? Che percezione avrà l’uomo, di questo relativistico fluire?
Il capitalismo non può, per fatto costitutivo, rallentare. Ancorché, in questi nostri tempi, agonizzante, col vigore che gli rimane, si lancia in faraonici progetti nella illusione di rivitalizzare la sua riproduzione ed allontanare la fine. La magica droga in cui confida non è che il debito pubblico. Il caso della TAV valsusina è esemplare e l’impresa, dal punto di vista capitalistico, veramente perfetta: infatti il capitale versato... non c’è. Tanto di guadagnato per i finanziatori, siano essi enti pubblici o grandi banche, che intendono rischiare solo i capitali di sprovveduti "piccoli risparmiatori". Sì perché, dopo il recente doppio disastro economico dell’impresa per scavare prima, e gestire poi il tunnel sotto La Manica, banche e fondazioni private non si sono ancora fatte avanti! Questo spiega l’urgenza di iniziare, in gran pompa, i lavori, finanziati solo in misura irrisoria dalla Comunità Europea
Invece il problema dell’ora, nostro, cioè dal punto di vista della classe lavoratrice, almeno in tutti i paesi occidentali, sarebbe DISINVESTIRE. Significa, prima di tutto, eliminare i consumi inutili e dannosi, che sono la gran parte, imposti solo per la necessità del mercato, con la conseguente possibilità di riduzione drastica, generalizzata e immediata dell’orario di lavoro. Ad oggi, di ferrovie, di strade e di autostrade, in Occidente, ce ne sono anche troppe, delle quali occorrerebbe curare la manutenzione ordinaria, che al capitale non interessa, mentre verrebbe l’estro di trasformarne le inutili in piste da ballo e di pattinaggio a rotelle!
Queste le necessarie riforme, semplici semplici, non monumenti come una TAV o un ponte di Messina, vere Torri di Babele del mondo moderno. Ma saranno possibili solo dopo l’abbattimento, a scala continentale almeno, del potere politico del Capitale. Per arrivare a tanto non bastano folclore, sdegno di popolo e saggio argomentare tecnico, ma occorre lo sperimentato acume comunista e il ferro rivoluzionario di classe. Non bastano le cento e più "buone ragioni" dei NO-TAV e degli ambientalisti: essi vogliono solo un capitalismo migliore, "sostenibile", con lo spreco appena ridotto dall’impegno e coscienza dei singoli, e mai pensano al suo superamento. Sono nostalgici di un mondo che fu, e solamente nella loro fantasia: insomma, il socialismo reazionario borghese...
La foia del capitale non si inchinerà davanti alla "volontà popolare". Nessuno, speriamo, avrà dimenticato l’effetto nullo delle pletoriche marce per la Pace contro la presenza italiana nella guerra contro l’Iraq. Lo conferma quanto ha dichiarato la governatrice del Piemonte Bresso in un’intervista a "Il Manifesto" del 18 novembre: «L’unica cosa che si potrà fare è quella di sospendere eventualmente i lavori nel periodo olimpico per evitare tensioni». Infatti, regolarmente – efficienza sabauda – alcuni giorni dopo la manifestazione sono stati recapitati ai proprietari dei terreni interessati ai sondaggi geologici a Venaus i decreti ingiuntivi e di esproprio e un’apparente pacata rassegnazione è scesa in valle.
Noi non ci curiamo di essere monotoni e di ripetere la stessa importantissima
regoletta: solo una società che si muove secondo un piano di specie
potrebbe sapere, prevedere e, collettivamente convinta, decidere
di fare o non fare certe opere, dalle più piccole alle più
monumentali, che resteranno a ricordo e patrimonio delle
future generazioni. I criteri di scelta sarebbero completamente
diversi, e certo più difficili e controversi, di quelli dell’interesse
immediato di classi che vivono di profitto e di rendita. Ma questo è
comunismo...
Un solo coro da Montezemolo a Rinaldini: l’accordo è soddisfacente. Fino al giorno prima implacabili nemici, il giorno dopo felicemente concordi. E tutto per 5 euro. Si può davvero credere che siano tutti così fessi?
La verità naturalmente è un’altra. Sulla pelle della classe
operaia, disorientata e diseducata alla vera lotta da decenni di opportunismo
sindacale e politico, s’è giocato l’ennesimo cinico teatrino per
spremere ancor più profitto dal suo lavoro e darle un altro calcio
verso la miseria.
Operai!
In questi ultimi giorni la FIOM vi ha chiamati a lottare concentrando tutta la vostra attenzione sulla questione salariale, quella che facilmente appare la più importante. I padroni offrivano 94,5 euro. Gli scioperi e i blocchi messi in atto hanno fatto sembrare 5,5 euro in più una grande vittoria. Ma Federmeccanica ha ceduto ben volentieri questa ridicola cifra per cui avreste lottato, in cambio della vera sostanza dell’accordo: PIU’ FLESSIBILITÁ.
Così la FIOM ha sottoscritto l’introduzione dell’orario plurisettimanale per “ragioni produttive e di mercato”: l’orario settimanale non è più dato dalle ore effettivamente lavorate, ma è ottenuto facendo una media per un periodo più lungo, fino all’anno intero. D’ora in poi l’orario di lavoro potrà essere prolungato al sabato e con la differenza che le ore extra nella settimana non verranno calcolate come straordinario. Ne più ne meno di una riduzione salariale. Chi è così fesso da pensare che Montezemolo si dica soddisfatto se ci ha rimesso? L’orario plurisettimanale in teoria è introdotto “sperimentalmente”. Chi è pronto a scommetterci?
I 100 euro medi e lordi sono un altro inganno:
- Sono stati calcolati sulla base dei dati ISTAT, come noto a tutti
ampiamente al di sotto di quelli reali. Utilizzando i dati EURISPES, ad
esempio, l’aumento necessario risulterebbe essere di 300 euro. Anche ammesso
che la verità stia nel mezzo (200 euro) è chiara la miseria
della cifra per cui la FIOM vi ha chiamato a lottare.
-Facendo correttamente i calcoli il vero aumento medio è di
85 euro mensili lordi per il quinto livello.
La massa salariale lorda che il lavoratore di V livello percepirà
nell’arco di durata dell’accordo è la seguente:
1. Una tantum 1/1/2005- 31/12/2005 = 320 euro.
2. 60 euro per 19 mensilità (1/1/2006-30/6/2007) = 1.140 euro.
3. 60 euro + 25 euro per 10 mensilità (1/10/2006-30/6/2007)
= 850 euro.
4. 60 euro + 25 euro + 15 euro per 4 mensilità (1/3/2007-30/06/2007)
= 400 euro.
Totale 2.710 euro
Mensilità del periodo di copertura dell’accordo 32. Massa
salariale: n° mensilità (2.710: 32) = euro 84,68
Inoltre:
– L’una tantum di 320 euro è lorda per cui, depurandola
delle trattenute previdenziali (9,19%) e fiscali (23%), si arriva a 217
euro. Diviso tale importo sui 12 mesi che copre si arriva ai 18 euro. Se
si divide sulle 13 mensilità dell’anno l’importo è 16 euro.
– Dal gennaio 2006 l’aumento netto è di 42 euro, dall’ottobre
17 euro e 10 euro dal 1° marzo 2007.
Infine:
– l’apprendistato è prolungato fino a 52 mesi per un
quarto livello senza diploma, ad es. per la maggioranza dei giovani immigrati
ma non solo.
– Il contratto è prolungato per sei mesi: al prossimo
rinnovo, fra due anni e sei mesi appunto, sei mesi di una tantum in meno.
Compagni, operai,
da 25 anni, dalla sconfitta degli operai FIAT del 1980, la classe operaia ha inanellato solo una lunga serie di sconfitte, al punto che le conquiste del decennio iniziato con l’autunno caldo del 1969 esistono oggi solo e parzialmente per la generazione di operai che si appresta ad andare in pensione. Per i giovani operai quel decennio di lotte e vittorie è come se non fosse mai esistito.
La sconfitta più grave tuttavia non è stata sul piano
economico, ma su quello politico e sindacale. Questo lato della sconfitta
non è stato semplicemente il risultato dell’inevitabile evolversi
dei tempi, come vanno insegnando politicanti ed esperti da ogni canto,
ma il frutto più velenoso della politica dei partiti falsamente
operai, socialisti e stalinisti e dei loro fedeli dirigenti sindacali.
Nell’arco di 30 anni, dal dopoguerra alla fine degli anni ‘70, costoro
hanno lavorato per svuotare di ogni contenuto di classe quella che era
stata la gloriosa CGL (senza “I”) rossa. Al termine di questo processo,
che va datato appunto alla fine degli anni ‘70, la CGIL è divenuta
un sindacato di regime, ossia non semplicemente guidato da capi venduti,
ma inconquistabile ad una genuina direzione classista, cioè irrimediabilmente
passato al nemico.
Operai metalmeccanici,
la vostra lotta odierna per il rinnovo contrattuale rientra in questa
situazione generale. I padroni possono pure fingere di spaventarsi, assecondati
dalla stampa, perché fa buon gioco a loro accreditare ai vostri
occhi la FIOM, ma in realtà dormono fra due guanciali perché
sanno perfettamente che CON QUESTO SINDACATO GLI OPERAI NON POSSONO VINCERE.
La FIOM non andrà mai fino in fondo alla lotta. Finché gli
operai più combattivi, in primo luogo i giovani, non torneranno
a dedicarsi direttamente alla milizia sindacale per la costruzione di un
nuovo Sindacato di Classe, fuori e contro i sindacati di regime (CGIL,
CISL e UIL), i rapporti di forza fra classe operaia e padroni rimarranno
invariabilmente sfavorevoli ai lavoratori.
PAGINA 2
Nuova traduzione in lingua
inglese
Tesi “di Marsiglia”
sulla Questione Cinese,
1964
Pubblicando, in lingua inglese, sulla nostra Communist Left la traduzione delle Tesi sulla Questione cinese, apparse in Il Programma Comunista numero 23 del 1964 e 2 del 1965, vi abbiamo premesso questa introduzione. Nel prossimo numero della rivista contiamo di proseguire con la traduzione di successivi testi programmatici sullo stesso argomento.
* * *
Le Tesi sulla Questione cinese, redatte nel 1964, le chiamammo “Tesi di Marsiglia” dal nome delle città nelle quale furono presentate al partito. Lo scopo delle tesi era ed è evidente: demolire la teoria maoista del “socialismo contadino”.
Lo stalinismo di stanza moscovita mai formulò una qualche strategia per la rivoluzione nazionale in Cina. Infatti Mosca ambiva a quello cui ambivano gli altri Stati capitalisti: un pezzo della Cina. Il coinvolgimento della Russia nella guerra contro il Giappone nel 1945 non era quindi finalizzato alla liberazione nazionale della Cina, ma allo sfruttamento della Manciuria. La vittoria degli eserciti di Mao nel 1949 fu contro gli ordini espliciti e gli interessi di Mosca.
La rottura ideologica fra Russia e Cina non era che la copertura di un conflitto fra interessi nazionali, che si manifestò dapprima in schermaglie di frontiera, volto a spartirsi l’influenza nel cosiddetto Terzo Mondo. Ma il proclamato appoggio alle “rivoluzioni anticoloniali” riguardava ben poco più il mercato delle armi, vendute per altro a prezzi esorbitanti.
Il conflitto fra Russia e Cina non si limitò all’economia e presto si trasferì sul piano della politica mondiale. I partiti stalinisti in serie si dividevano secondo le diverse simpatie per i “modelli” russo o cinese e presto ci trovammo una pletora di partiti maoisti sventolanti libretti rossi e le bandiere della lotta di popolo. Tutti questi, secondo lo stile cominformista, si accapigliavano sotto il ritratto del Presidente per ottenere il “riconoscimento” da Pechino, ma, mentre Mosca manteneva i “suoi” partiti ufficiali, il governo cinese, giustamente, non si fidava e non attribuì patenti ad alcuno.
Oggi, trascorsi molti decenni di storia, la Internazionale di Mosca è morta, il partito Russo ha abbandonato il falso nome di Comunista e anche la pletora dei partiti maoisti si è ampiamente ritirata. Ma il partito-Stato cinese ancora si denomina – falsamente – comunista e si ammanta della bandiera rossa. Ecco perché queste Tesi sono importanti.
La Cina si sta trasformando da paese capitalisticamente arretrato in uno dei maggiori contendenti sulla scena mondiale. E chiaramente ormai il conflitto della Cina con i paesi di più vecchio capitalismo non è di segno anti-imperialista, ma imperialista: per il commercio, per le fonti di materie prime, per le sfere di influenza. L’espansione della industria cinese avviene con l’irreggimentazione della crescente classe operaia, spesso disciplinata direttamente con l’impiego dell’ “Esercito Popolare”. E l’industria cinese è capace di competere contro i maggiori capitalismi anche per lo sfrenato sfruttamento della sua giovane classe operaia.
Attingendo allo stesso inganno che tanto funzionò durante la cosiddetta guerra fredda fra la Russia e l’Alleanza occidentale, la falsa etichetta di comunista attribuita oggi allo Stato e alla società cinese dà la possibilità al capitalismo mondiale di denigrare il comunismo, rendendolo odioso ai lavoratori di tutto il mondo e negando così alla classe operaia ogni futuro al di fuori della società presente.
Benché il maoismo sia praticamente morto, ha quindi ancora la
sua influenza perniciosa sul movimento operaio. La scelta è fra
comunismo o maoismo, fra sfruttamento dei lavoratori, in Cina e ovunque,
o la loro internazionale emancipazione.
Lo Stato di Malta, ottenuta l’indipendenza dal dopoguerra, pur rientrando nel Commonwealth, si è dichiarato neutrale e ha cercato di fare affari con tutti, dall’Italia alla Libia, dall’Algeria all’Urss.
Ma oggi anche nel piccolissimo Stato insulare, al centro del Mediterraneo, cominciano a venire orchestrate delle campagne xenofobe, se non razziste: per condizionare il “corpo elettorale”, e per plasmare la “opinione pubblica” facile far leva sull’argomento “demografico” (“il territorio ha una superficie modesta e non c’è spazio per tutti”), su quello micro-patriottico e micro-nazionalista (“Malta bastione storico della cristianità con i suoi Cavalieri contro i turchi ieri e contro arabi e africani oggi”), fino a quello economico (“la disoccupazione dilaga e non c’è lavoro nemmeno per gli autoctoni”). È sorto da poco un partitino di destra, che ha infranto il sistema bipartitico di matrice anglosassone: si chiama Alleanza Nazionale Repubblicana, germinato sull’esempio italiano di AN e trae da questi anche l’araldica di famiglia: una bella fiamma tricolore su una pietra tombale, benché qui i colori nazionali siano solo due, il bianco ed il rosso.
Ovunque la borghesia, di paesi grandi o piccoli, è in realtà ben poco “nazionale”: a Malta si scorda con disinvoltura delle piaghe inflitte alla popolazione dal militarismo italiano, che, per dirla con Mussolini, doveva “sterilizzare Malta dal cielo”, e dall’imperialismo tutto, con terribili bombardamenti che durarono dal giugno 1940 al novembre 1942 e fecero 2000 vittime civili. Allora l’isola, in mano agli inglesi, era un obiettivo strategico nel Mediterraneo, ma evidentemente nemmeno la prossima guerra la potrà risparmiare e non basterà dichiararsi neutrali per salvarsi.
Il paese si è venuto a trovare sulle rotte dei migranti, benché Malta non sia una destinazione ambita da africani, mediorientali o slavi; se da Oriente arrivano nel piccolo arcipelago col visto turistico o di studio, per poi tentare l’approdo in Sicilia con una traversata di fortuna, dal Sud invece l’arrivo a Malta è accidentale, per l’avaria alle imbarcazioni che dovrebbero sbarcarli verso Pozzallo: arrivare a Malta significa che si è rischiato seriamente l’affondamento, considerato che i guardacoste della Valletta praticano spesso il “respingimento”.
Lo Stato maltese, come tutti quelli occidentali, non è affatto accogliente con questi disperati della terra, ma questo non significa che non ne voglia. Il governo ha approntato, sull’esempio delle metropoli imperialistiche investite dal fenomeno migratorio, dei campi di detenzione: tre vecchi insediamenti militari fungono da vere e proprie prigioni dove i migranti possono essere trattenuti anche per 18 mesi. Una commissione della Unione Europea nei mesi scorsi ha indagato sulle strutture maltesi e ha redatto un rapporto molto negativo, esprimendo come le condizioni dei reclusi siano peggiori di quelle dei “normali” detenuti nelle carceri. Il commissario maltese per i rifugiati ha dichiarato che hanno provato ad “offrirli” ad altri membri della UE, ma solo una volta uno Stato, i Paesi Bassi, ne ha richiesto una “fornitura” di 30.
Sicura è l’espulsione, tranne per quelli per cui esistono motivi “umanitari” per non rispedirli al Paese d’origine: questi, dopo il primo periodo detentivo, vengono alloggiati in dei “centri aperti” da dove non possono allontanarsi. In teoria non dovrebbero lavorare, ma restare lì a vegetare confidando nella carità dei maltesi. In realtà è risaputo che, come succede in tutti i paesi europei, vengono impiegati nei lavori più pericolosi, quelli rifiutati dagli autoctoni: sono reclutati dal caporalato locale che ogni mattina alle 6 li va a prendere dai centri coi furgoncini e li porta nei cantieri o nei campi dove li sfianca per 12 ore filate. Un operaio africano ha raccontato all’intervistatore di una tv italiana che la paga è di 12 lire maltesi al giorno (circa 5,15 Euro), come per gli operai maltesi, solo che quelli lavorano solo 8 ore e sono assicurati.
La forza lavoro immigrata è quindi ben apprezzata dalla borghesia locale che trae vantaggio a che questa sia tenuta in condizione di clandestinità permanente e in regime carcerario. Come gli altri Stati borghesi anche quello maltese adotta una politica migratoria di apparente chiusura, mentre in realtà si dedica alla pesca di nuovi schiavi. Il proletario africano, giovane, sano e forte, è adattabile e poco pagabile: una merce che sono in tanti a contendersi, primi fra gli altri gli imprenditori italiani e libici, ugualmente negrieri nemmeno tanto dissimulati.
Oggi in questa rete di sfruttamento e di bassi salari a venire intrappolati
non sono solo i miseri immigrati africani, ma anche i loro compagni di
classe occidentali, anche se inebetiti dalle grida nazionaliste e razziste.
Tutti sono vittime del capitalismo, insieme si devono ribellare.
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La
storia italica nello specchio deformante
della sua ideologia
Rapporto esposto alla riunione a Genova, 23-24 maggio 2003 [RG86]
1. L’agonia del Capitale e i suoi tempi
- Il fenomeno fascismo - Peculiarità nazionali (Il Partito Comunista
n.315).
2. La "parentesi" fascista
(Il Partito Comunista n.316).
3. Il Secondo Risorgimento
mancato (Il Partito Comunista n.317).
4. Il Socialismo rimosso (Il
Partito Comunista n.319).
5. L’Italiuzza, perenne anello
debole (Il Partito Comunista n.320).
6. La pretesa intesa storica
tra borghesia illuminata e aristocrazia operaia (Il Partito Comunista n.321).
7. Revisionismo politico e
revisionismo storiografico (Il Partito Comunista n.322).
8. Il nuovo blocco storico
post resistenziale (Il Partito Comunista n.323).
9. Specchio di contraddizioni
(Il Partito Comunista n.324).
10. Machiavellici e bigotti (Il
Partito Comunista n.325).
L’agonia del Capitale e i suoi tempi
Che il modo di produzione capitalistico viva i suoi “tempi ultimi” è diffusa nozione anche negli ambienti che lo sostengono e lo pompano con bombole di ossigeno. Nella nostra storica e dialettica versione era ed è una verità che non aveva bisogno di prove. Se è vero che tutti gli organismi “nascono, crescono e muoiono”, come del resto tutte le “forme del divenire”, non si vede perché il capitalismo dovrebbe essere l’unica forma e modo di produzione eterno ed immarcescibile.
Ma non lo abbiamo preconizzato a tavolino, bensì attenti allo svolgimento dei ritmi della moderna lotta di classe.
Da che cosa si evince che il capitalismo sta lottando contro la sua inevitabile morte? Prima di tutto da determinati “segni” tipici dell’organismo cadente e intaccato dal male. Chi può negare che il capitalismo maturo, quello che è passato sotto i nostri occhi dalla Seconda Guerra mondiale ad oggi, dopo l’illusione che il Progresso potesse continuare all’infinito, sta conoscendo ritmi di sviluppo asfittici, incapaci di impedire o invertire la caduta tendenziale del saggio di profitto?
Ma prima di questo, se analizziamo le forme storiche generali, la “sfera del politico”, non è forse sotto gli occhi di tutti che il sistema complessivo, che aveva promesso pace e benessere per tutti, oggi promette “guerra all’infinito”, senza tregua, contro “nemici invisibili” e visibili? Altre lacrime e sangue, di cui non si vede la fine, sono il quotidiano messaggio che il Capitale si trova nella necessità di affidare a tutti i suoi organi di informazione. A noi interessa, invece, non lanciare delle visioni apocalittiche o catastrofiche, di cui siamo stati a volte accusati. Noi presentiamo degli scenari, corroborati da prove inequivocabili. Innanzi tutto partendo da premesse che, nel secolo appena trascorso, hanno segnato l’inizio della fine.
Il marxismo non ha aspettato certo la fine della Prima Guerra mondiale per preconizzare la morte del capitalismo come modo di produzione della vita materiale e spirituale degli umani. La fine del capitalismo è scritta già nel Manifesto dei Comunisti del 1848; ha conosciuto un primo micidiale attacco nella prova di governo operaio della Comune di Parigi del 1871; il marxismo ha allora subìto una prima minaccia di essere “relegato in soffitta” per poi essere riconosciuto come l’inevitabile guida della Rivoluzione, con il restauro della dottrina operato da Lenin contro il tradimento socialdemocratico. Se riprendiamo il discorso dal 1921, data di nascita del Partito Comunista d’Italia, è perché la Sinistra Comunista fu l’anima della scissione e dell’adesione all’Internazionale, ed ha avuto il legato storico di mantenere salda la dottrina contro ogni attacco o insidioso tentativo di svuotarla dall’interno, come fu fatto in tutto il resto del secolo.
Con questo non intediamo attribuire ogni colpa del fallimento al mancato attacco rivoluzionario nell’Occidente capitalistico, quando il proletariato non fu in grado di colpire al cuore i templi politici, gli Stati “sovrani”. Sappiamo bene che il “tradimento” è stato possibile, e si fa possibile, perché concorrono a farlo forze e condizioni oggettive. Lo stesso Cristo fu tradito da Giuda, al culmine d’un processo storico umano. Ci doveva essere un “traditore”, ci dovevano essere dei traditori. Ma questo fattore, in quanto soggettivo, noi lo consideriamo come concausa inevitabile, sulla quale neanche vogliamo troppo insistere.
Perché maturano sentimenti ostili o ambigui nei confronti della rivoluzione? Perché la “morte del capitalismo” non è ancora matura? Ecco, su questo aspetto cruciale, quando è “giunto il momento”, per un organismo, di morire, dobbiamo muoverci, come fecero Marx e Lenin. È questo il vero tema del nostro argomento.
Già Lenin aveva obiettato ai menscevichi, che volevano aspettare che il capitalismo si dispiegasse appieno, che la Russia stava partecipando da grande potenza alla guerra, e che il Capitale finanziario inglese e francese avevano una parte determinante nello sviluppo del polo capitalistico in questa fase. Lenin aveva già dimostrato ai populisti che la grande potenza euro-asiatica non era semplicemente un paese contadino, ma uno Stato legato ormai a filo doppio all’imperialismo mondiale.
L’ottica di Lenin era che, giustamente, non si poteva finire la guerra come niente fosse, per poi prendere a ritessere la lotta contro il Capitale. Insomma per Lenin, come per Marx, il Capitale è per definizione una potenza unica, colle sue aree di sviluppo più o meno avanzate, ma legate tra di loro da interessi comuni, sia pure contraddittori.
Il termine abusato a proposito di “capitalismo maturo” è tale
che per le correnti mensceviche di ieri e di oggi esso non è
mai abbastanza maturo... e dunque una messe da non mietere. Nell’ottica
rivoluzionaria, invece, il segno della maturità, e se vogliamo
della necessità di passare all’attacco d’un sistema produttivo,
è che esso trova ormai in sé il proprio limite, poiché
ha bisogno di scatenare la guerra tra gli Stati per regolare conti in sospeso
nella ripartizione di risorse e di mercati. La maturità si
misura non tanto dagli anni, ma dagli effetti che il sistema genera,
provocando una pressione insopportabile non solo sul proletariato, schiacciato
sul posto di lavoro, nelle fabbriche e nei campi come nella guerra imperialistica,
ma nello scontro tra frazioni imperiali che rendono la vita intollerabile
agli stessi borghesi.
Il fenomeno fascismo
Il dibattito che si sviluppa dopo la Prima Guerra mondiale all’interno del movimento operaio mondiale è il rapporto tra le condizioni del capitalismo in Occidente e quelle della Russia, dove il potere dei Soviet si è affermato ed è detenuto con decisione dai comunisti. Di fronte al generico entusiasmo per lo scoppio rivoluzionario in Russia, soltanto le correnti più conseguenti come la Sinistra seppero comprendere, ed agire di fatto, non con un semplice e parolaio “fare come in Russia”, ma dando vita al Partito, da intendere come “sezione dell’Internazionale Comunista”, per svolgere la sua funzione, non meccanica, ma dialettica, e dunque non semplicemente ripetitiva dei fatti di Russia, capace di interpretare il ruolo che gli spettava nell’Occidente stramaturo.
Le posizioni della Sinistra furono ostiche perfino al “super dialettico” Lenin, che vide nelle tesi sostenute dalla corrente italiana un eccesso di rigidità, quando noi, al Terzo Congresso dell’Internazionale, nel 1921, negammo che il partito comunista potesse e dovesse “conquistare la maggioranza” della classe operaia prima dell’inizio del processo rivoluzionario. Eppure il presunto schematismo della nostra posizione fu l’unico a indicare la via giusta, la necessità di mantenere saldi principi, strategia e tattica, mentre di lì a poco sarebbe iniziata la folle corsa delle altre “componenti” alla ricerca d’un qualche compromesso con i vecchi compagni socialisti, con altri movimenti che davano l’impressione d’essere utilizzabili nella lotta contro il vincente fascismo (vedi questione degli “Arditi del Popolo”).
È proprio la diversa lettura del fenomeno fascismo che ci distinse, e che tutt’ora fa della nostra posizione l’unica capace di leggere eventi che sono strettamente legati a quelle circostanze solo apparentemente lontane. Mentre il ventennio fascista vedeva i raggruppamenti della sinistra borghese e della destra operaia in continua evoluzione per trovare una comune politica “antifascista”, con letture le più strampalate e “originali”, la Sinistra Comunista si mantenne coerente nel considerare il fascismo «un cambiamento di governo che tentava di praticare il programma riformista». Grave bestemmia per tutti i democratoidi, che hanno voluto cercare nel fascismo a tutti i costi una singolarità, una manifestazione d’un demonismo che non ci riguarda.
Conoscevamo troppo bene il Mussolini “intransigente” per non capire quanti e quali fossero i coinvolgimenti “all’italiana” della sua scelta. Il fascismo non arrivava, come si crede, dopo la Guerra, tanto è vero che nel tempo il “prefascismo” è diventato un terreno di esercitazione infinita nel mondo variegato degli storici, sappiamo oggi quanto volubile, capace di “conferire senso” anche a ciò che invece, nella nostra versione “determinista”, deve essere scorporato di senso, pena la caduta in psicologismi che non portano a nulla.
Non intendiamo, nemmeno oggi, a distanza di quasi un secolo, ridurre il fascismo a questione italica, perché questa riduzione impedirebbe di comprendere come il capitalismo nella sua fase imperialistica tenda a militarizzarsi, non solo né tanto in certe sue frazioni e formazioni statali “arretrate”, ma piuttosto e sempre più in quelle che esercitano la tanto deprecata “egemonia” mondiale, che sta sfociando, secondo certuni, nello strapotere definitivo nella versione USA, gendarme unico ed insostituibile d’un presunto “ordine mondiale”. Come spiegarsi infatti che le democrazie del “mondo libero” sono le più armate e vendono la grande maggioranza dei mezzi legati alla economia militare del mondo? Perché oramai si parla senza veli di “democrazia totalitaria”, dopo che sarebbero caduti i “totalitarismi” di segno reazionario, e cioè il nazi-fascismo, insieme come quelli di segno “rivoluzionario”, e cioè i presunti “comunismi realizzati” di Russia e paesi satelliti?
Allora risalta, anche se non lo si può ammettere, la nostra lettura. Il fascismo, lungi dal costituire l’espressione della “reazione agraria”, o di un industrialismo più chiuso e arretrato economicamente, ha rappresentato il tentativo, alla lunga fallito, di dotare la borghesia del suo “partito unico”, in grado di salvarla dalle insidie del proletariato – ancorché ridotto a sua volta senza partito, capace di dirigerlo e di influenzarne i conati di difesa – e di escluderne le possibilità, almeno contingenti, di attacco. Mentre non ci tiriamo indietro dal considerare la questione specificamente “italiana”, non cadiamo nella trappola di non vedere il fascismo a livello europeo, come minimo, inteso come organizzazione delle forze che avevano il compito di realizzare il cordone sanitario contro l’espansione del bolscevismo.
Le correnti opportunistiche, attingendo a piene mani nella teoria marxista, sono state in grado di edulcorarla, sfigurarla, inquinarla davanti ad una classe incapace di distinguere, non tanto per mancanza di “cultura”, ma di spinta, nella fase controrivoluzionaria sancita dall’enunciazione della “teoria del socialismo in un solo paese”. Dal 1924 in poi, in forza di questa “teoria”, le singole Sezioni dell’Internazionale aderiscono a parole al centro di Mosca, ma di fatto si sentono autorizzate ad invocare le “specifiche peculiarità nazionali”. È inevitabile che, se la Russia di Stalin crede di poter fare da sé, giudicando che il proletariato d’Occidente non è stato capace di rovesciare la sua borghesia, anche i singoli partiti comunisti si trovino nella libertà di cercare la loro via nelle proprie distinte storie. È quello che la Sinistra aveva già sottolineato con Lenin, a proposito dei punti da sottoscrivere con l’adesione all’Internazionale: l’adesione doveva essere stretta e rigida, e non generica e problematica.
Che Gramsci, col cambiamento del gruppo dirigente, su indicazione dell’Internazionale, si sentisse autorizzato a cercare la via più adatta per il socialismo, non deve più a questo punto fare troppa meraviglia. E che la Sinistra nelle Tesi di Lione ribadisse le sue posizioni non fu sufficiente per invertire la rotta. Il ventennio fascista è stato il tempo delle contorsioni del movimento comunista: l’andamento della lotta per il potere in Russia riprodusse nei partiti europei la lotta politica, che la Sinistra aveva già inteso e denunciato come estranea alla sana conduzione dei partiti comunisti.
È emblematico valutare ciò che avvenne in Italia, per
le ragioni che abbiamo già detto. E sarà proprio la Sinistra
Italiana, infatti, la corrente in grado nel 1945 di ricostituire la tradizione
internazionale, fondando appunto il nostro piccolo partito.
Peculiarità nazionali
È noto che subito dopo la “liberazione” l’interesse del presunto “marxismo” fu tutto rivolto a individuare la “linea nazionale” da seguire, in nome delle “vie nazionali al socialismo”, teoria che stava per essere esplicitamente enunciata.
Tutto sembra dipendere dal giudizio che si deve dare della storia nazionale, risalendo al Risorgimento italiano, al suo modo di formazione, alle sue inadempienze, alle sue insufficienze e natura, come pure ai veri e propri “vizi di origine”, che Gramsci precisa nei suoi Quaderni dal carcere. Niente di vietato, s’intende. Noi stessi abbiamo analizzato la natura della formazione italiana, nel senso dell’unità italiana.
Il nostro responso è stato formazione nazionale dall’alto, che significa senza apporto insurrezionale di popolo, dal momento che, come insegna anche la tradizione storiografica cavouriana, è stata la diplomazia a segnare i limiti di questo tipo di processo storico di emancipazione dalle forze feudali e chiesastiche di una borghesia già “vecchia”, occhiuta e timorosa. Ma che la formazione nazionale italiana si fosse mossa in questa strada, nella nostra versione non comportava alcuna nostalgia, alcuna possibilità di reiterazione riparatrice delle inadempienze ai compiti tipicamente progressisti che il marxismo riconosce alla borghesia moderna. Invece nella ricognizione di Gramsci, il “mancato Risorgimento” allude chiaramente a questa difficoltà. L’Italia unita pagherebbe il suo debito alla rivoluzione mancata con il prezzo d’una borghesia perennemente adolescenziale, oscillante tra velleità riformatrici e modernizzanti di una sua parte, e la tendenza a fare “marcia indietro” appoggiandosi alla forze “ex-feudali”, “conservatrici”, come Chiesa e Monarchia, secondo le possibilità contingenti. Allora la Storia italiana sarebbe contrassegnata da spinte liberalizzatrici e da “ritorni” autoritari.
Esempi ne sarebbero i governi della “sinistra risorgimentale”, mentre quello di Crispi tenta l’avventura coloniale ed il pugno di ferro nella Penisola per tacitare le spinte operaie e le mene vaticane. Il periodo culminerebbe con il regicidio nel 1900 seguito ai fatti di Milano, in cui la forza pubblica sparò sulla folla che manifestava contro il caro-vita. L’avvento di Giolitti segnerebbe, nell’interpretazione gramsciana, l’aspetto liberal della borghesia italiana che, sia pure insufficiente, promuoverebbe una politica aperta, sulla quale potrebbe nel lungo periodo far leva un proletariato evoluto e capace di svolgere una sua “politica”. Poi, arrivato il momento cruciale della guerra, la piazza l’avrà vinta sul “moderatismo giolittiano”. Ancora una volta il sistema costituzionale italiano mostrerebbe le sue tare genetiche, e la “biografia della nazione” (termine coniato da Gobetti) verrebbe ancora una volta a galla. Prevarranno le forze del velleitarismo, del “prefascismo”, del volontarismo che, sposando gli interessi di agrari e industriali, spingeranno allo scontro. In sintesi questa è la situazione ed il giudizio storico che Gramsci comincerà a macinare negli anni del carcere.
Il ripiegamento sulla storia nazionale non è casuale: davanti alla vittoria del fascismo, piuttosto che “resistere” in forma ordinata, come sosteneva la Sinistra, si va alla ricerca delle manovre possibili, al coinvolgimento dei borghesi illuminati disposti a far blocco contro la dittatura, che a tutti i costi si vuole dipingere come una “mutazione antropologica”, mostruosa, dimenticando che è il prodotto della mancata formazione tempestiva dell’antidoto rivoluzionario di classe.
Quanto la tematica cara a Gramsci fosse diffusa già prima che egli la rendesse praticabile, e soprattutto fosse intesa come una “strategia” di lungo periodo per la classe operaia, è testimoniato dal fatto che all’interno della stessa borghesia il fascismo fu valutato in modo ambiguo. Gli stessi giolittiani intendevano “usarlo” contro la sovversione rossa, per poi tornare allo Statuto, al rispetto delle garanzie liberali previste dalla Carta fondamentale. In polemica con Croce, che aveva sempre considerato positivamente l’Italia giolittiana, Gramsci cerca alleati nel campo liberal, tra progressisti e radicali capaci di qualche colpo di audacia e di prospettiva. Ci riferiamo a Gobetti, che aveva scritto La Rivoluzione liberale, individuando nel “proletariato aristocratico” e progressista di Torino l’alleato valido per sconfiggere il regime. Sappiamo come andò, benché la Sinistra, e il nostro Amadeo, cercasse con ogni mezzo di scoraggiare l’idillio di Gramsci con la sinistra liberale.
Ma la ragione forte di tutte queste esercitazioni stava, nel nostro giudizio, nella sconfitta del movimento operaio. Sapevamo bene come alla dura frenata all’ascesa del movimento di classe tutte le vecchie paure sarebbero tornate sotto. E, quel che per noi era peggio, tutti i vecchi giochi, dall’illusione parlamentare, alla attribuzione di poteri salvifici allo “sciopero espropriatore”, al mito della “gestione dal basso” che già aveva portato, come sappiamo, alla occupazione della fabbriche. Se la guerra aveva dimostrato come la borghesia si muove attraverso la mobilitazione delle sue forze a difesa dello Stato per prender parte alla grande spartizione con i vincitori, il proletariato doveva aver imparato che senza il collegamento a livello territoriale, piuttosto che aziendale, non solo non si va lontano, ma si subiscono sconfitte laceranti.
In assenza di una riflessione critica sulla sconfitta dopo l’avvento del fascismo, dopo un ventennio di pressioni micidiali messe in atto dal regime contro il movimento operaio, era inevitabile che la nuova guerra fosse presentata come combattuta in nome della “democrazia”. Ormai la teoria del socialismo in un solo paese aveva seminato l’illusione che le sorti della classe dipendessero dalla vittoria della “patria del socialismo”, a cui, e in particolare al suo supremo despota, si attribuivano poteri quasi divini.
Rimanemmo soli e minacciati a sostenere che il “mito Russia” era deleterio, e impediva al movimento operaio di aprire gli occhi sulla natura imperialistica della seconda catastrofe generale. Ancora una volta tutto veniva rimandato a guerra finita, secondo la ripetitiva litania menscevica: ora c’era da sconfiggere il “mostro nazi-fascista”. Come si poteva chiarire che ancora una volta la classe veniva chiamata a combattere per falsi obiettivi? Si stava inseguendo, attraverso la guerra e la formazione delle bande partigiane, il miraggio d’un Nuovo Risorgimento, questa volta col “popolo” mobilitato, e non più subordinato agli ordini dei gattopardi. Il mito d’un’Italia finalmente unita, popolare, che poggiasse sulla spinta della masse, erano le parole che dovevano animare le speranze del proletariato.
Il paese fu artificialmente polarizzato tra “conservatori” e chi intendeva dare democratica “legittimità al popolo”. Era inevitabile che vedessimo il movimento operaio cadere nell’inganno di un tale falso schieramento? È la sua “biografia d’una classe”, quella che durante tutto il processo di formazione dello Stato italiano era stata percorsa da fremiti sani di fiera opposizione rivoluzionaria allo Stato, che lo determina?. Certamente no, se solo pensiamo alle dure tensioni all’interno sia del Partito Socialista costituitosi nel 1982, sia all’interno della CGdL costituitasi nel 1906. Ma la nostra posizione non concepisce la storia come una pura e semplice opposizione di forze predeterminate.
Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale aveva messo allo scoperto l’attitudine dei socialisti italiani, che si distinsero dalla Socialdemocrazia tedesca che, più rigida e dottrinaria, aveva aderito alla guerra, pur con l’opposizione di Carlo Liebknecht e di Rosa Luxemburg. Il Partito Socialista Italiano coniò il famoso “né aderire né sabotare”, di fatto però preparandosi a combattere al fianco delle forze della borghesia.
Solo l’accelerazione dei processi di lotta tra le classi avrebbe potuto chiarire i rapporti fra le diverse prospettive. La Sinistra, col suo giornale Il Soviet, fu chiara e netta nell’indicare i compiti del Partito. Se gli eventi non furono favorevoli, non lo attribuiamo alla cattiva volontà di nessuno o al “destino cinico e baro”, ma al livello dei rapporti di forza, che ci furono sfavorevoli. La lezione stava però nell’imparare bene dai fatti: la scissione del 1921 non poteva tornare sui suoi passi cercando alleanze con chi si era dimostrato incapace di accettare i compiti assegnati al movimento proletario.
Se invece il primo dopoguerra si risolse in una serie confusa di rinculi
sia tattici sia programmatici, allora sì è necessario ammettere
che la formazione spuria della nazione Italia non poteva avere il suo peso;
e lo ebbe. Da qui la netta distinzione sul terreno tattico e strategico:
le correnti storiciste ed idealisteggianti, in testa quella di Gramsci,
si avvitarono nel gorgo delle revisioni e dei mea culpa. Non seppero
comprendere che non si torna indietro nei rapporti tra le classi,
e tra gli Stati tra di loro, dopo un evento tragico e imponente come la
Guerra Mondiale.
Bbe’? Cche Papa averemo?È ccosa chiara:
O ppiù o mmeno, la solita canzona.
Chi vvoi che ssia? Quarc’antra faccia amara.
Compare mio, Dio sce la manni bbona.
Così il Belli, il 2 febbraio 1831, commentava l’elezione di Gregorio XVI. La saggezza popolare, di cui il poeta si faceva interprete, insegnava a non commuoversi troppo, né in bene né in male, perché anche se il papa cambiava, la canzone, sostanzialmente, sarebbe restata la medesima.
Oggi invece, specialmente da parte “laica” e di “sinistra”, l’elezione del papa viene seguita con profonda attenzione, e si tifa per questo o per quel personaggio innovatore, aperto alla società che cambia, mentre vengono temuti i tradizionalisti che, si paventa, avrebbero il potere di far girare al contrario la ruota della storia. L’attuale neo-papa viene appunto considerato come uno di questi pericolosi personaggi. E quindi i laici di sinistra si chiedono quale oscuro complotto ne avrà determinato l’elezione. Certamente qualcosa di losco deve essere per forza accaduto!
Così, mentre il 2005 si chiudeva, i giornali di mezzo mondo erano intenti a pubblicare le clamorose rivelazioni di un presunto cardinale brasiliano che, attraverso un altrettanto presunto diario, avrebbe rivelato gli intrighi messi in atto per l’elezione del cardinale Ratzinger al soglio di Pietro.
Il diario dell’anonimo cardinale, pubblicato nientemeno che da “Limes”, non ha, di per sé, nessun valore di prova: potrebbe essere semplicemente un ammasso di falsità date alla stampa nell’ambito di una campagna denigratoria tesa a screditare l’attuale pontefice da parte del partito clericale perdente, in primis la corporazione dei curiali italiani, o addirittura da qualcuno del tutto estraneo alla Chiesa ed al Vaticano. D’altra parte il “documento” contiene grossolane inesattezze che non dovrebbero sfuggire ad un porporato.
Ma facciamo finta che sia tutto vero. Quale sarebbe dunque lo scandalo? L’Opus Dei, si dice, avrebbe messo in esecuzione una ben preparata strategia sia per indirizzare i propri affiliati, sia per “pilotare” gli incerti ed i riluttanti in maniera tale che, quando il 18 aprile entrò in conclave, il cardinal Ratzinger aveva già il papato in tasca. Si racconta che vennero organizzati incontri e stipulati patti segreti all’interno degli alberghi e dei conventi romani dove alloggiavano i cardinali stranieri.
Innanzi tutto perché scandalizzarsi di una prassi così palesemente ancorata alla regola democratica e del fatto che le file siano state tenute dall’Opus Dei (quasi di trattasse di Opus Diabuli)? Forse che si crede che le altre Opere ed Ordini non abbiano fatto altrettanto? Nemmeno ci sembrano luoghi sconvenienti per gli incontri dei porporati gli alberghi ed i conventi. Ce ne sono di peggiori, come vedremo. Accordi “segreti” su chi e cosa votare vengono fatti perfino nelle riunioni di condominio, figuriamoci se la Chiesa cattolica vuol correre il rischio di far uscire un papa dalla improvvisazione o dalla spontaneità dei cardinali.
Sul Manifesto (il “quotidiano comunista”) del 29 dicembre scorso leggiamo: «Non fu dunque lo Spirito Santo a presiedere alla elezione di colui che avrebbe preso il nome di Benedetto XVI». Quindi i “manifestini”, oltre che credere a Dio, cosa che oggi a sinistra “non è un problema”, come quasi niente, credono pure allo Spirito Santo? E sul problema del filioque che posizione tengono?
In quanto allo Spirito Santo, poi, la Chiesa non ha mai affermato che sia il Paraclito a guidare la mano dei cardinali o a suggerire al loro cuore il nome del Vicario di Cristo. A votare e scegliere in conclave non è lo Spirito Santo, sono i cardinali, che non posseggono il dono dell’infallibilità. E che i cardinali, più e più volte, siano stati maggiormente sensibili ai richiami materiali di questo mondo che agli spirituali dell’altro è cosa a tutti stranota, ed è del tutto naturale. Si pensi solo al fatto che, Giovanni Paolo II, nella costituzione apostolica Universi Dominici Gregis, aveva previsto la possibilità di elezione simoniaca, ma che purtuttavia sarebbe stata egualmente valida.
Non ci mettiamo a scrivere per dare una lezione di dottrina teologica ai redattori del Manifesto. Noi – a differenza di tutta la stampa nazionale ed internazionale che, basandosi su testimonianze, forse false, e senz’altro prive di alcun credito e vili, perché coperte dall’anonimato (prassi radicata nel costume della Chiesa cattolica), ha scritto di ipotizzati (ma non verificati) intrighi, che avrebbero condotto all’elezione di papa Benedetto XVI – noi abbiamo un documento ufficiale, con tanto di firma (e che firma! Quella di un papa!) di come si svolse un certo conclave.
Dai brani che citeremo, in ottemperanza alle attuali disposizioni di tutela della privacy, al posto dei nomi di persona saranno messi dei puntini tra parentesi quadre. Il documento in nostro possesso comincia con queste parole: «Conclave in Apostolico Palatio apud Sanctum Petrum perstructum est» (Il Conclave venne approntato nel Palazzo Apostolico presso San Pietro). Il documento, dopo una descrizione sommaria dei locali adibiti ad alloggiare i cardinali e dei due primi giorni di conclave, dice che, a seguito dei risultati del primo scrutinio, avvenuto il terzo giorno, «si formarono tante conventicole: coloro che erano più potenti nel sacro collegio o per autorità o per ricchezze, chiamavano a sé gli altri e chiedevano il pontificato per sé o per gli amici. E pregavano, promettevano, minacciavano. Non mancarono di quelli che, senza provare vergogna, e rinunciando a ogni pudore, parlarono a loro favore, pretendendo il pontificato; così fecero [...], [...] e [...]; e neppure il cardinale di [...] trascurò i propri interessi. Ciascuno celebrava ampiamente le proprie lodi. Grande era la vitalità, grandissimo lo zelo; il giorno passò senza pace, la notte senza sonno».
Le argomentazioni con cui si faceva leva sui recalcitranti erano di questo tipo: «Sono esperto di diritto canonico e discendo da [...]. Ho amici e ricchezze, con i quali posso sovvenire alla Chiesa che è povera. Posseggo inoltre non pochi benefici ecclesiastici, a cui rinuncerò e che distribuirò a te ed agli altri».
Il commento dell’autorevole (e non anonimo!) compilatore era il seguente: «Non pochi furono conquistati dalle grandi promesse e si lasciarono attrarre come mosche dall’ingordigia. Veniva venduta la tunica di Cristo senza Cristo. Alcuni dei cardinali si riunirono nelle latrine (convenere apud latrinas plerimine) e in quel luogo che era appartato e sufficientemente segreto, presero accordi sul modo di eleggere [...] al pontificato impegnandosi con patti scritti e giurati. Egli allora, confidando in quei patti, subito cominciò a promettere vescovati, magistrature e cariche e a distribuire legazioni. Luogo ben degno fu quello per eleggervi un papa di tal fatta; e dove meglio che nelle latrine stringere turpi patti? (Dignus locus in quo talis pontifex eligeretur: nam foedas coniurationes ubi convenientius ineas quam in latrinis?)»
Naturalmente questi che abbiamo citato sono soltanto dei piccolissimi assaggi di quanto sta scritto nel documento: chissà quale cifra sarebbero disposti a pagare “Limes”, “Il Manifesto” e tutti gli altri giornali assetati di scoop per poterlo pubblicare integralmente.
L’autore dice infine come, in piena notte, venne svegliato dal cardinale di Bologna il quale, dopo avergli annunziato che i giochi si erano ormai conclusi, gli disse: «Io ti consiglio di alzarti e andare da lui a offrirgli il tuo voto prima che venga eletto se vuoi evitare che [...] ti sia nemico. Io voglio stare attento a non cadere un’altra volta in trappola. So bene cosa significa avere come nemico il papa. Offro a te questo consiglio che anch’io intendo seguire».
Il compilatore narra come immediatamente si alzasse dal letto, ma non per porgere omaggio a quello che egli riteneva avversario della Chiesa e, soprattutto, suo, ma, al contrario, assieme al cardinale di Venezia mettessero all’istante in atto un piano di convincimento personale dei più autorevoli porporati e, con argomentazioni più materiali che spirituali, li convincessero a rinnegare gli accordi stipulati all’interno delle latrine ed a cambiare fronte.
Viene poi relazionato dettagliatamente l’ultimo giorno di conclave, durante il quale oltre ai tentativi di broglio sulla conta dei voti, si cercò pure di far mancare il numero legale, benché in un conclave sia impossibile assentarsi. «Alcuni lasciarono il proprio posto, col pretesto di necessità corporali (necessitates causati corporis), nel tentativo di sfuggire al destino stabilito per quel giorno». Non solo, si arrivò perfino ad impedire, con la forza, ad un cardinale di esprimere il proprio voto: «A tale proposito cercarono di strapparlo a viva forza dalla cappella, tirandolo uno per il braccio destro e l’altro per il sinistro, nel tentativo di togliere almeno in quel modo il pontificato a [...]». Ma il cardinale, benché immobilizzato, gridò: «Anch’io accedo al cardinale[...] e lo proclamo papa».
Il resto lo tralasciamo perché continuare a mutilare un documento così illuminante e prezioso è proprio un peccato mortale. Bisognerebbe leggerlo tutto.
Quanto sopra non lo abbiamo riportato a fini scandalistici per dimostrare che nella Chiesa e nei suoi rappresentanti alligna la corruzione. La corruzione, l’imbroglio, la compera e la vendita dei voti, le promesse e le minacce sono tutti strumenti che fanno parte a pieno e legittimo titolo del metodo democratico, ed è naturale che chiunque adotti questo metodo (siano pure preti o falsi comunisti) sarà obbligato a sottostare alle sue ferree leggi.
Resta ora da svelare il “giallo” del documento che noi possediamo: non
è che i nostri compagni godano delle confidenze riservate di eminenti
porporati, non sono accreditati in Vaticano e nemmeno hanno libero accesso
ai suoi archivi segreti. Hanno però accesso alle biblioteche di
Stato dove è possibile consultare, ad esempio, i “Commentarii
rerum memorabilium quae temporibus suis contigerunt”, dodici libri
densi di avvenimenti ed annotazioni, nei quali Enea Silvio Piccolomini,
fatto papa Pio II nel 1460, volle riportare tutte le informazioni relative
alla sua vita ed al suo tempo. Peccato che i papi odierni non facciano
altrettanto.
In “CNT”, giornale dei sindacati di ispirazione anarchica in Spagna, del novembre 2005, in uno studio economico “La scienza economica e i limiti della lotta anticapitalista”, si afferma, giustamente, che le dottrine, cosiddette “scientifiche”, delle quali il capitalismo si serve per autoglorificarsi, in realtà non trovano soluzione alle crisi che il modo di produzione genera.
Tuttavia le conclusioni finali, riguardo al carattere “produttivista” del pensiero di Marx, meritano certamente un commento critico, così come l’affermazione, presente nell’ultima parte del lavoro, che il Marxismo, nel sostenere la persistenza della “produzione di massa” nel socialismo, tende a “perpetuare gran parte dei valori sociali del capitalismo”.
È certo – e basta a proposito dare uno sguardo ai vari testi che affrontano la questione – che il marxismo prevede che la futura società comunista potrà e vorrà pianificare la produzione e la distribuzione. E, logicamente, parte fondamentale ne sarà la contabilizzazione delle diverse quantità.
Come il capitalismo, il comunismo è un modo di produzione sociale, ma, mentre il primo ha di fronte il mercato, il secondo avrà come riferimento le necessità della specie umana. Ormai solo i più ottusi apologeti del capitalismo possono identificare le necessità umane con quelle del mercato.
Nel comunismo lo scopo della produzione non sarà la necessità di auto-valorizzazione del Capitale (privato o di Stato), mediante l’appropriazione di plusvalore estorto al lavoro salariato. Tutte queste categorie, proprie della produzione della società borghese, non sopravviveranno né avranno luogo nella nuova società comunista. Come conseguenza la distribuzione dei prodotti (che avranno perduto definitivamente il loro valore di scambio, e per conseguenza la caratteristica di merci scambiabili) sarà libera (oggi diremmo “gratuita”, benché il termine resti proprio del mondo mercantile e significhi banalmente “a prezzo zero”). Libera nei limiti dettati dalle necessità individuali e dalla responsabilità sociale: nessuno, sano di mente, chiederà di disporre di 1.000 penne da scrivere quanto gliene bastano alcune ed è certo di potersene rifornire quando ne abbia bisogno; oppure nessuno, che non soffra di bulimia, avrà bisogno di più di mezzo chilo di pane al giorno per la sua alimentazione.
Il capitalismo è “la società dello spreco”, inevitabilmente e a scala colossale, per la sua intima costituzione, e non a vantaggio del “consumatore”, ma a sua danno.
Il socialismo, così come il marxismo ne individua i tratti fondamentali, comporta la fine della produzione di merci, cioè dell’interscambio tra equivalenti, e quindi la scomparsa del denaro che di tale processo è l’espressione. In corrispondenza anche la forza lavoro perde la sua caratteristica di merce, che il capitalismo gli assegna. Dunque scompare il lavoro salariato, mentre, eliminata la enorme produzione di merci inutili, la giornata di lavoro si riduce a 2-3 ore.
Ma allora, da cosa gli autori dell’articolo suddetto deducono “il perpetuarsi dei valori propri del capitalismo” nella visione marxista della società comunista?
In realtà, dal punto di vista del piccolo borghese che è quello dell’anarchismo, la caratteristica tipica del capitalismo sarebbe la “pianificazione” della “produzione di massa”. Falso. Intanto al capitalismo, dilaniato dalla concorrenza, una vera pianificazione sarà sempre impossibile. Ma, fondamentalmente, l’elemento che davvero lo distingue è invece la produzione di merci. L’anarchismo, per contro, prevede la società futura ancora mercantile. È invece il carattere mercantile della produzione sociale che fa la differenza e cambia sostanzialmente le cose. Il capitalismo produce quantità di beni provvisti di un valore di scambio, cioè merci. Il comunismo, liberatosi dallo scambio mercantile, produrrà masse di beni dotati solo di un loro valore di uso. Il capitalismo produce quantità di merci allo scopo di rivenderle per ottenerne un profitto, soddisfacendo così la impersonale necessità di autoriproduzione del Capitale, che è il vero ed unico motore della produzione. Il comunismo pianificherà la produzione di beni allo scopo di soddisfare le determinate necessità sociali.
Ciò che spaventa l’anarchismo è la produzione “di massa”, “globalizzata”, che minaccia la sopravvivenza degli strati piccolo borghesi, non la produzione di merci in generale, ai cui margini la piccola borghesia vivacchia e che costituisce l’essenza della società capitalista. Ecco perché l’accusa di “perpetuare i valori del capitalismo”, deve facilmente ribaltarsi sull’anarchismo.
Ad evitare inevitabili equivoci, la pianificazione nel socialismo non ha niente a che vedere con la pianificazione statale che affermavano di praticare lo stalinismo o il maoismo, la quale altro non era che il tentativo di costruire e rafforzare il mercato interno e di consentire alle economie russa e cinese, allora non pienamente sviluppate in senso capitalistico, il confronto con il mercato mondiale, già dominato dall’imperialismo.
Nell’ambito dell’economia socialista, veramente globalizzata,
nel senso di consensualmente pianificata a livello del pianeta, la produzione
sarà rivolta a provvedere a tutti gli esseri umani (e ai viventi
in genere) quei beni che contribuiscano a condurre e migliorarne l’esistenza
e l’ambiente nel quale si svolge. Tali beni potranno finalmente liberarsi
della loro etichetta mercantile e il loro valore d’uso, il loro vero
valore, trionferà sul valore di scambio! In questo sarà la
fine del capitalismo! Non più di economia potremo allora parlare,
cioè di una attività umana separata, ma, semplicemente,
della vita che riproduce se stessa.
Il nodo scorsoio della crisi scorre sempre di più attorno al collo degli operai. Anche a Taranto, la maggiore città industriale del Mezzogiorno, la cooptazione nel regime del sindacalismo confederale ha portato all’abbandono della difesa delle condizioni di vita proletaria. Ma le contraddizioni del sistema portano altri soggetti a bilanciare l’esosità degli industriali, con esiti non troppo favorevoli, nel caso in specie, al padronato, ma sicuramente neanche al proletariato.
All’Arsenale Militare, per impulso della Procura, sono stati infatti sequestrati 18.000 mq di area a cantiere per le inidonee misure di sicurezza ed igiene. L’effetto è stato la sospensione dei lavori e la fermata di 400 lavoratori ingaggiati dalle ditte appaltatrici, molte delle quali con una forza minore alle 15 unità e a cui è inapplicabile la cassa integrazione guadagni. Mentre l’indagine della magistratura va avanti, oltre agli amministratori delle società, sono stati indagati anche gli ultimi tre direttori dello stabilimento della Marina, tre ammiragli che non avrebbero vigilato adeguatamente sui lavori e sui requisiti delle aziende appaltatrici. Mentre i sospetti di una tangentopoli con le stellette cominciano a prender forma sempre di più, la "lobby tarantina" cerca di premere sul governo per far passare in Finanziaria una deroga che autorizzi un inapplicabile "ammortizzatore" che salvi il posto agli operai e non li spinga ad essere licenziati.
La vicenda vede, moralmente, sul banco degli imputati il sindacalismo confederale che ha mancato completamente al suo compito di difesa delle condizioni di sicurezza nel luogo di lavoro, con l’incancrenimento di una situazione che ha mosso la magistratura ad intervenire, ora con la prospettiva della perdita di posti di lavoro.
Per altro l’influenza dell’opportunismo sindacale e politico, unito alla crisi economica e sociale, hanno tolto energia agli stessi lavoratori nei confronti della loro stessa salvaguardia. Gli operai, disillusi, tacciono accettando comunque un lavoro, anche se insicuro, e il poco salario: si spera non ci scappi l’infortunio e respirare amianto consente di campare oggi anche se c’è il rischio che porterà un tumore domani.
Mentre i burocrati di Fim-Fiom-Uilm fanno melina "concertando" con tutti, i militanti dei Cobas tarentini si danno a sconclusionate manifestazioni di estremismo interclassista e impongono confuse pregiudiziali extra-proletarie, sulle mobilitazioni contro il G8 o per un retorico nazionalismo palestinese, invece di dare serie direttrici di lotta e di organizzazione.
Lo scorrere del sangue e la morte, invece, al grande stabilimento siderurgico Ilva hanno innescato una vertenza per la sicurezza, con reazioni di lotta dopo i recenti numerosi infortuni. La proprietà, per far contente le istituzioni locali, ha affidato ad una società britannica una "indagine" sullo stato delle cose: questa, intascata la parcella, ha scoperto, guarda caso, che gli investimenti sono stati massicci, le macchine vanno bene e se si verificano così tanti incidenti è per colpa dello scarso grado di attenzione portato da capoturno e maestranze. La colpa insomma, assicura la prezzolata ditta inglese, sarebbe degli operai.
La realtà è che i giovani operai non sono sufficientemente istruiti alle rischiose operazioni che vanno a svolgere. Il ricambio generazionale ha visto, con la bella concertazione delle federazioni metalmeccaniche, l’ingresso di forze giovani nel centro siderurgico, sotto il segno di una tregua sociale: posto di lavoro per figli o parenti dei pensionati in cambio di pace sindacale. Chiara dimostrazione di come il clientelismo sia un aspetto della corruzione. Mentre dilaga la disoccupazione, il poter indossare la tuta blu (o verde come è qui) ha significato dover accettare salari più bassi e la precarietà dei contratti a termine, ma anche mancata formazione. Un bel risparmio per il capitale, che utilizza lavoro dequalificato e sottopagato e che i proletari pagano anche con i morti e con gli infortunati.
Intanto, mentre cresce la produzione dell’acciaio e si propongono straordinari nel giorno del santo natale, all’Ilva si sono accorti che la forza lavoro non è sufficiente, almeno in questo momento di congiuntura. Qui sarebbe sorto un coordinamento spontaneo per ottenere l’eliminazione della pausa pranzo, per poter uscire prima la sera. Oggi mal digerite le tante sconfitte di classe, dovute anche alla direzione opportunistica di sindacati e partiti operai, ne viene fuori una proposta ai limiti dell’autolesionismo, da sindacalismo castrato che nulla rivendica contro il padronato e finisce per colpire solo sé stesso. Gli operai abbandonati nella loro difesa organizzata, pur sentendo nelle loro carni la necessità di un orario di lavoro inferiore all’attuale nell’inferno della fabbrica siderurgica, si adoperano, come è stato insegnato loro dall’opportunismo, e stavolta, pare, "dal basso", a richiedere senza chiedere! Ecco che il sistema ha prodotto dei nuovi eunuchi! Stavolta l’assenza della lotta è data per scontata.
Il padrone invece fa bene la sua parte, e chiede agli operai di timbrare il cartellino non alle portinerie esterne dell’Ilva ma ai reparti, raggiunti anche dopo un’ora date le grandi dimensioni dell’impianto e la deficienza dei trasporti interni.
All’ordine del giorno è da porre la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro.
Fuori dalle grandi tradizionali fabbriche della città, la crisi economica significa nessuna apertura di nuovi cantieri edili, chiusura delle fabbriche nuove create in provincia con i fondi delle legge 488 (Fonderie Sural, Filati Miroglio), crisi nei servizi indotti e nel commercio. Il capitale è costretto a ripiegare sui servizi, a scommettere sui "call-center": la Tele Performance, società francese, promettere di mettere al lavoro in 1.200, essenzialmente donne, ingaggiate rigorosamente "a trimestre" e "a progetto". Dilaga il precariato nella costituzione dei nuovi rapporti di lavoro, tanto che nel 2005 nessun contratto a tempo indeterminato sia stato registrato, ad esempio, in edilizia. Inevitabilmente l’emigrazione interna trova alimento con nuove ondate verso il Nord del Paese.
Lo sciopero generale di novembre anche a Taranto è stato poco partecipato. Nel silenzio e nell’apparente passività sociale delle masse, continua ad accrescersi il malcontento con le sue sostanze infiammabili.