Partito Comunista Internazionale Indice - Numero precedente - Numero successivo
"Il Partito Comunista"   n° 325 - agosto-ottobre 2007 [.pdf]
PAGINA 1 Palestina-Israele: Un solo Stato sì, ma della classe operaia.
– Per la rinascita del sindacato di classe - Per la difesa delle condizioni di vita e di lavoro della classe lavoratrice - Contro il nuovo “protocollo di Luglio”.
Grilli parlanti.
PAGINA 2-3 Riunione di partito a Genova, 21-22 settembre [RG99]: La questione militare, In Cina - L’antimilitarismo di classe contro la Grande Guerra - Corso dell’economia - Origine dei sindacati in Italia - Il capitale finanziario - Il “processo di pace” in Irlanda del Nord - L’imperialismo in Iraq - Storia del movimento operaio americano (5) - La questione ebraica.
PAGINA 4 La storia italica nello specchio deformante della sua ideologia (X - Indice dei capitoli): Machiavellici e bigotti.

 
 
 
 
 

PAGINA 1


Palestina-Israele
Un solo Stato sì, ma della classe operaia

Nel luglio scorso si è tenuto a Madrid un incontro sul tema “Palestina/Israele, un Paese uno Stato”. L’iniziativa si è conclusa con «l’approvazione di un documento – come riporta “il Manifesto” del 7 luglio – in cui i promotori (...) accademici e attivisti americani, sudafricani, israeliani e palestinesi, s’impegnano a dar voce alla soluzione di uno Stato democratico come unica, urgente via d’uscita dallo stallo negoziale che la questione palestinese vive da anni».

La soluzione del mini-Stato palestinese era sorta più di vent’anni fa, nel 1974, all’interno del processo diplomatico e militare di “normalizzazione” del movimento nazionalista che portò al riconoscimento da parte del XII Consiglio Nazionale Palestinese della possibilità di creazione di uno Stato palestinese anche su una parte dei territori liberati. L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina in cambio ricevette, il 26 ottobre al vertice arabo di Rabat, il riconoscimento ufficiale di “unica legittima rappresentante del popolo palestinese su qualsiasi parte liberata del territorio”.

La fazione più radicale del movimento nazionale palestinese, il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) e altri gruppi minori, respinsero l’ipotesi del mini-Stato, uscendo dal Comitato esecutivo dell’OLP e formando il cosiddetto “Fronte del rifiuto” che ribadì il non riconoscimento dello Stato d’Israele e la volontà di “ricacciare in mare i sionisti” e “liberare” l’intera Palestina.

Pur non ravvisando nemmeno nell’FPLP una direzione realmente nazional-rivoluzionaria, scrivevamo in “Comunismo” del giugno 1983: «L’accettazione della prospettiva del “mini-Stato” conferma che la guerriglia sceglie di porsi definitivamente all’interno dell’ordine imperialista della regione e che la via della diplomazia e della trattativa va ormai prendendo il posto di quella delle armi poiché i suoi metodi di azione e di lotta devono adeguarsi alla sua politica».

Iniziava così la serie infinita di “trattative di pace” che hanno portato, di eccidio in eccidio, all’attuale impasse.

Uno dei promotori dell’iniziativa madrilena, Leila Farsakh, docente di Scienze politiche all’Università del Massachusetts e autrice di una serie di pubblicazioni sull’economia israelo-palestinese, è stata intervistata da “il Manifesto”. Ha spiegato: «La realtà territoriale, economica e demografica della Palestina dimostra che non siamo mai stati così vicini allo Stato unico. Il territorio della Cisgiordania non è mai stato così frammentato, di fatto ci sono già i bantustan, i palestinesi per gli spostamenti dipendono da Israele, non hanno alcuna sovranità sulla terra. La forza lavoro della West Bank dipende dallo Stato occupante. E da un punto di vista demografico siamo alla quasi parità con gli israeliani. Tra 5 anni i palestinesi saranno la maggioranza. I due Stati sono morti, ci vorrà almeno una generazione per realizzare lo Stato unico, ma non c’è alternativa».

La questione si è aggravata ulteriormente dopo gli scontri armati tra le milizie di Hamas e quelle del Presidente Abu Mazen con la conseguente occupazione militare della striscia di Gaza da parte del movimento islamico a cui è seguito, da parte del governo israeliano, il riconoscimento di Gaza come “entità nemica” con dolorose conseguenze soprattutto per la popolazione civile.

L’impossibilità di una stabile e vitale soluzione “a due Stati” noi l’abbiamo sempre denunciata. Scrivemmo, per esempio, in questo giornale nel settembre 2000: «In Palestina storicamente non si pone una “questione nazionale” da risolvere, né vi esiste un partito nazionalista-borghese rivoluzionario. La creazione di uno Stato palestinese formalmente indipendente, seppure esteso all’intera Cisgiordania, a Gaza e a Gerusalemme Est, non avrebbe alcuna possibilità di esistenza politica ed economica autonoma, non sarebbe che un “bantustan” dove tener rinchiusi proletari in sovrannumero, proprio come ha fatto il governo bianco in Sudafrica con i negri. L’Autorità Nazionale Palestinese conduce una politica di collaborazione con lo Stato d’Israele, tesa a mantenere la pace sociale nei territori occupati e partecipa in prima persona allo sfruttamento del proletariato; nei territori ad essa sottomessi non esiste libertà di organizzazione sindacale e politica né libertà di sciopero e le condizioni di lavoro sono ancora più dure di quelle imposte in Israele».

Ma nell’attuale regime capitalista-imperialista nemmeno si realizzerà la “ragionevole” soluzione “ad uno Stato” proposta da questi “onesti” studiosi; né la borghesia palestinese né quella israeliana intendono uscire dalla tradizionale politica dell’apartheid che risulta favorevole alle classi dominanti dei due fronti, come ai loro generosi finanziatori, arabi, persiani, europei o statunitensi che siano. Tutti hanno da guadagnare nel tenere i proletari palestinesi ed israeliani divisi dall’odio reciproco e schiacciati dal terrore della guerra. Tutti hanno da guadagnare nel tenere aperta questa piaga in quella regione di primaria importanza strategica in vista di uno scontro più grande e, forse, generale.

È interessante però notare come, sia pure da parte borghese e interclassista, si debba riconoscere non solo la possibilità ma la necessità di una soluzione che vada oltre le divisioni degli Stati nazionali e sottonazionali della regione, fondati su pretesti di razza e di religione.

Ma saranno solo le forze nuove di un rinato movimento classista del giovane proletariato arabo, in unione con quello israeliano e mondiale, che potranno e dovranno superare le barriere di razzismo, di bellicismo e nazionalismo con cui da decenni si cerca di separarle dall’unica prospettiva realistica: la lotta operaia – internazionale e rivoluzionaria – per il comunismo.
 
 
 
 
 
 
 


Per la rinascita del sindacato di classe
Per la difesa delle condizioni di vita e di lavoro della classe lavoratrice
Contro il nuovo “protocollo di Luglio”

LAVORATORI, OPERAI, COMPAGNI!

Le borghesie dei paesi industrializzati adottano le medesime misure contro un proletariato in gran parte ancora narcotizzato da anni di un illusorio benessere e corrotto dalla politica opportunista dei falsi partiti operai. Questi provvedimenti hanno nomi ormai noti: riforma dello Stato sociale, flessibilità del lavoro, moderazione salariale. Ma in sostanza significano riduzione del salario reale (diretto e differito), aumento dell’orario di lavoro, maggiore libertà di licenziamento, peggioramento delle condizioni di vita. In una parola: più sfruttamento!

PROLETARI!

I mezzi di informazione nascondono i reali contenuti del nuovo “protocollo di luglio”, minimizzano la portata peggiorativa del provvedimento se non cercano di farlo passare come migliorativo. I bonzi sindacali di Cgil-Cisl-Uil si adoperano per lo stesso fine nelle fabbriche e in tutti i luoghi di lavoro. In realtà il “Protocollo su Previdenza, Lavoro e Competitività” peserà negativamente e in misura crescente negli anni a venire su tutti i lavoratori con: aumento dell’età pensionabile, riduzione progressiva delle pensioni, permanenza del precariato. Il padronato, appoggiato dai sindacati, con scaloni, scalini e liberalizzazioni continue del mercato del lavoro è riuscito a spezzare il fronte di classe, a contrapporre le giovani generazioni supersfruttate, alle vecchie, relativamente protette.

LAVORATORI, OPERAI!

A vostre spese state imparando la differenza fra un governo “di destra” ed uno “di sinistra”: lo spauracchio della destra prepara il terreno per le bastonate che arrivano dalla sinistra. In realtà alla destra apertamente anti-operaia non si oppone una sinistra amica, o meno nemica dei lavoratori. La destra e la sinistra, entrambe borghesi, dietro le finte baruffe, collaborano alla gestione, per conto dei capitalisti, dello sfruttamento e oppressione, economica e politica, della classe lavoratrice.

PROLETARI, OPERAI!

Nonostante il peggioramento costante delle condizioni di vita e di lavoro, i sindacati di regime, invece di mobilitare i lavoratori nello sciopero, hanno organizzato il teatrino del referendum per dare un avallo “democratico” alle loro scelte.
La funzione di un vero sindacato di classe – che oggi non c’è – è di rappresentare qualcosa di più e diverso della somma degli interessi e delle opinioni dei singoli lavoratori. Votare divide. Perché i rappresentanti sindacali prendano la giusta decisione, quella capace di unificare la classe nelle rivendicazioni e nella lotta, non è necessaria la formale consultazione nemmeno degli iscritti; semmai degli attivisti. Votare può risultare un metodo come un altro per prendere una decisione, fra compagni lavoratori però, mentre non ha senso votare nelle mani di questi sindacati venduti, quando su tutto aleggia il velenoso sospetto di brogli.
Viene indetto il referendum solo per fornire un alibi al tradimento e al disfattismo sindacale, facendo prevalere l’opinione della maggioranza numerica della classe lavoratrice, che inevitabilmente è quella meno organizzata e meno combattiva e più influenzabile dalla propaganda padronale e dei sindacalisti di mestiere. I trascorsi referendum, da quello sulla scala mobile del 1985 fino a questo ultimo, lo hanno dimostrato.

Il rifiuto della Fiom a firmare il Protocollo è derivato dalle lotte di potere tra le varie correnti ciggielline, tutte interne però al sindacato di regime, ed è servito a recuperare il disgusto dei lavoratori, come ben si è espresso nelle grandi fabbriche.

Un malcontento che però non riesce ancora a coagularsi in lotta aperta contro la triade sindacale per puntare alla rinascita di genuini organismi sindacali di classe. Lo sciopero generale proclamato dal sindacalismo di base per il 9 novembre, pur rappresentando uno sforzo unitario per spezzare la pace sociale, giunge tardivo, anche per la debolezza e le divisioni che contraddistinguono questi organismi. Solo una forte adesione dei lavoratori potrà trasformarlo in un’occasione di lotta unitaria e dunque in un passo importante per iniziare a rovesciare i rapporti di forza col padronato, e i suoi servi sindacali e politici.

LAVORATORI, COMPAGNI!

In questa situazione l’impegno che spetta ai lavoratori che intendono opporsi allo strapotere della borghesia è quello di lavorare per la rinascita di organismi sindacali di difesa, che tendano ad inquadrare tutti i lavoratori superando le divisioni fomentate dal regime (pubblici e privati, giovani e vecchi, precari e garantiti, indigeni e immigrati�).
È necessario che in ogni categoria si formino queste nuove organizzazioni di lotta, fuori e contro le Confederazioni sindacali ufficiali passate ormai irreversibilmente dalla parte dei padroni. Queste organizzazioni, aperte a tutti i lavoratori indipendentemente dalle loro opinioni politiche, rifiuteranno in linea di principio ogni tentativo di sottomettere la lotta operaia alle compatibilità del Capitale come i codici di autoregolamentazione, la registrazione dei sindacati, il riconoscimento della rappresentatività, il voto segreto, la riscossione per delega dei contributi sindacali ed anche i cosiddetti “diritti sindacali” come i distacchi e le riunioni in orario di lavoro, quasi sempre forme di corruzione e utili piuttosto al padrone che all’organizzazione proletaria.

La parte più combattiva della classe ha inoltre bisogno della sua coscienza storica, di principi univoci di tattica e della sua originale dottrina. Essa dovrà liberarsi dall’influenza dell’ideologia borghese dominante, dovrà ritrovare se stessa, i suoi fini e destini rivoluzionari militando nel suo partito, anticipazione nell’oggi dei sentimenti e delle aspirazioni del domani.
 
 
 
 
 
 
 
 
 


Grilli parlanti

Durante la Guerra Fredda gli Stati da Occidente e da Oriente si accusavano reciprocamente di impedire l’affermarsi, nelle rispettive “sfere di influenza”, di una compiuta Democrazia: la “Cia” e lo “imperialismo” da una parte, il “Kgb” e il “comunismo reale” dall’altra. Poi si dette la colpa ai “monopoli”, specie quelli “internazionali”. Si passò successivamente ad individuare nella “criminalità” e nella “mafia” il nemico che, manovrando un enorme massa di denaro derivante dai traffici di armi e di droga, intralciava la strada alla piena rappresentanza della “volontà popolare”.

Venne infine la stagione di “mani pulite” che, portando alla luce gli intrallazzi tra affari e politica, facilmente dimostrò che erano proprio i democratici i peggiori nemici della Democrazia, ma che presto sarebbero stati rimessi in riga con la minaccia del Codice Penale. Proprio in quella temperie e impeto di “moralizzazione della politica” fu approvata una legge che prevedeva l’aumento del finanziamento pubblico dei partiti, per contrastare, si disse, i fenomeni di corruzione e di concussione!

Furono anche “organizzati” il fenomeno chiassoso e “sovversivo” del secessionismo padano e la “discesa in campo” del Berlusca, con grande strillio di eterodosse frasi ad effetto e abbondante sfoggio, appunto, di sentimenti “antipolitici”. Sappiamo come è andata a finire.

Oggi la moda di stagione – ancora più cretina delle precedenti – è dire che fra il Popolo, indistinto, e la sua ambizione civile e garanzia di progresso e benessere, che starebbe appunto nella sua espressione democratica, si frappone una “casta” di privilegiati composta dalle molte migliaia di appartenenti agli apparati dei partiti e dei sindacati ufficiali. Questi si ingrassano a spese del “cittadino che paga le tasse”, fanno solo i loro interessi e “non governano”. Elencare nella banda di mantenuti i prelati di tutte le Chiese, evidentemente, non è “politicamente corretto” nemmeno per i giullari del regime.

Il tutto è solo una riedizione, in farsa, della teoria sbilenca della burocrazia-classe, tipica dell’anarchismo e del trotskismo, che vuol far credere ai proletari, ridotti a generici cittadini, che le loro condizioni dipendono non dalla divisione della società in classi e dalla legge del profitto, ma dall’appropriazione indebita di una “ricchezza comune” da parte di generici ladroni, senza una minima riflessione su come questa ricchezza viene creata e distribuita.

Si, i “potenti” rubano ai lavoratori, ma non sono i giullari del regime che si preoccupano di difenderli. Nessuno imposta davvero una serrata lotta alla precarietà, contro i contratti atipici e a termine, condanna di un’intera generazione di giovani lavoratori. La precarietà rimane sotto tutti i governi perché le ferree leggi del capitale lo impongono, perché nella società moderna il profitto è necessario alla sua sopravvivenza. Nessuno combatte gli effetti negativi del capitalismo sulla classe operaia: figuriamoci metterne in discussione le cause.

Quel che accomuna tutti questi grilli, grandi e microscopici, ufficiali o apparentemente outsider, sono le loro evidenti stimmate borghesi è la loro fedeltà, totale e incondizionata, alla società capitalista e al suo pestilenziale mito fondante, appunto la democrazia. La purezza di questa Dea immacolata, il cui cadavere è ormai sepolto da quasi un secolo in tutti i paesi del Mondo – ed il cui nauseante spettro è evocato, fra “maggioranza” ed “oppositori”, solo nei trivi dei talk televisivi – sarebbe un bene comune di tutte le classi e mezze classi, e anche da tutte le classi da dover difendere da quella sequela di malvagi violentatori.

In realtà non è affatto vero che lo Stato non funziona: funziona benissimo. Lo dimostra, per esempio, quando riesce in modo quasi del tutto indolore (per loro) a peggiorare le pensioni dei lavoratori e il precariato, con la studiata e tempestiva collaborazione di tutti suoi apparati governativi, sindacali, mediatici. Nella sua vera e unica funzione, che è l’inganno, il contenimento e la repressione della classe operaia, lo Stato borghese, ahinoi, per adesso mostra ancora tutta la sua efficienza.

Che i borghesi siano imbroglioni è inevitabile perché tale è la loro economia, come è inevitabile che i “Palazzi” del suo potere siano abitati da individui spregevoli e mostruosi, come sempre è stato nelle epoche di tardo Impero. Ma la condanna comunista alla società borghese non si fonda su giudizi morali e individuali: saremmo ugualmente comunisti ed anti-capitalisti anche nell’ipotesi, improbabile ma non esclusa in teoria, che i governanti fossero di specchiata onestà e in tutto e solo dediti al pubblico bene, che resterebbe il bene della borghese società presente.

Se il capitalismo, il sistema economico che ha ormai messo radici in tutto il pianeta, fosse governato da persone “senza precedenti penali” e retti da una morale “cristo-talebana” potrebbe forse sfuggire alle guerre permanenti, ai crac finanziari ai disastri ecologici e alla continua e crescente precarietà che flagella il proletariato? Ovviamente no. Lo sfruttamento di classe, salariati da una parte, capitale dall’altra, esisterebbe comunque, e la guerra, strumento essenziale per la classe dominante, anche, i disastri ambientali pure...

Politici e funzionari hanno una sola responsabilità storica: sono borghesi o rappresentanti della classe borghese, vivono nei piani alti del regime capitalista, ne sono parte integrante e collaborano, onestamente o disonestamente non importa, al furto quotidiano che viene compiuto sul lavoro operaio.

È la classe lavoratrice infatti che produce tutto quanto rende comoda la vita degli sfruttatori e dei loro servi ai vari livelli, dai mezzi busti dei politici e dei portaborse, fino all’ultimo poliziotto o all’ultimo mafioso. È la classe lavoratrice che è costretta a vivere con salari di mera sopravvivenza per mantenere la classe dei borghesi e dei fondiari i quali, anche se “onesti”, intascano profitti e rendite da capogiro. Certo la politica borghese ha i suoi costi e grandi privilegi hanno i parlamentari e gli apparati istituzionali, ma questi non sono che una piccola parte di quanto “costa” alla classe operaia la sottomissione al Capitale in termini di quotidiano sopralavoro.

Questa infinita sequela di fenomeni da baraccone è volta a compensare nei lavoratori la inevitabile sfiducia e rassegnazione verso quello che è chiamato il “mondo della politica”. Sensazioni di impotenza e insicurezza crescono tra i lavoratori, la mancanza di una valida prospettiva di difesa collettiva e la perdita del fondamentale riferimento alla propria classe agevolano la diffusione di atteggiamenti individualisti che, alimentati dalle leggi del mercato, accentuano la competizione tra i salariati, sospinti a pensare che il nemico è il salariato della porta accanto, nascondendo il vero male, il capitale le sue leggi economiche.

Pensare di opporsi alla criminalità e alla corruzione mantenendo in vita questo regime non solo è una pia illusione ma piuttosto è un espediente per cercare di sviare le classi sfruttate dal loro compito storico, la lotta di classe: proletariato da una parte, borghesia, che ha in mano i mezzi di produzione, dall’altra, culminante nell’abbattimento rivoluzionario di questo regime, putrido oggettivamente e non “moralmente”, e l’instaurazione della dittatura comunista del proletariato.
 
 
 
 
 
 
 
 
 

PAGINA 2-3


Riunione di partito a Genova
21-22 settembre 2007
[RG99]

Reunión del partido en Génova
Party Meeting in Genoa
La questione militare, In Cina resoconto esteso ] La cuaestión militar, en China The Military Question
L’antimilitarismo di classe contro la Grande Guerra El antimilitarismo de clase contra la Gran Guerra Working class anti-militarism opposed to the Great War
Corso dell’economia Curso de la economía Course of the economy
Origine dei sindacati in Italia resoconto esteso ] Origen de los sindicatos ed Italia Origin of the trade unions in Italy
Il capitale finanziario El capital financiero Financial capital
Il “processo di pace” in Irlanda del Nord El "proceso de paz" en Irlanda del Norte The “Peace process” in Northern Ireland extended report ]
L’imperialismo in Iraq El imperialismo en Irak Imperialism in Iraq
Storia del movimento operaio americanoresoconto esteso ] Historia del movimiento obrero americano History of the American Labour Movement extended report ]
La questione ebraica: (9) Il comunismo resoconto esteso ] La cuestión hebrea: (9) El comunismo The Jewish Question

La riunione autunnale del partito si è tenuta nei giorni 21 e 22 settembre nei locali della nostra redazione genovese, alla presenza di una rappresentanza di quasi tutti i nostri gruppi.

In una situazione generale che, per le condizioni soggettive, permane inesorabilmente controrivoluzionaria compito del partito è custodire e mantenere vivo il programma del comunismo e i principi della dottrina marxista, corpo di scienza e di esperienze di classe, armi necessarie alle future generazioni di insorti proletari e del loro partito di avanguardia. Ogni classe accumula le sue lezioni. Depositario di quelle del proletariato mondiale è il partito comunista.

A questa riunione il numero delle relazioni predisposte era maggiore del solito per cui è stato necessario darne alcune in forma succinta, nell’intesa di tornare sull’argomento nei prossimi nostri incontri e ampiamente sulla stampa.

Qui sotto subito i resoconti schematici.

Nelle ore precedenti le sedute al completo ed in chiusura di riunione concordavamo sul piano di lavoro per i prossimi mesi e sulla conseguente ripartizione delle nostre forze.
 

La questione militare: In Cina

Il primo rapporto, al sabato, ha proseguito il nuovo studio sulla questione militare; in particolare ha presentato un approfondimento rispetto al precedente capitolo sul periodo feudale, del quale qui si sono esposte le origini in Cina. Il relatore ha fatto riferimento a quanto pubblicammo sull’argomento ne “Il Programma Comunista” dai numeri 3 ad 8, in particolare nel 5 nel 1958, più altri recenti contributi che integrano l’argomento.

Si è iniziato con una citazione dall’Antidühring di Engels e dal Capitale di Marx sulla concezione materialistica della storia e sulla definizione di epoche economiche, che si distinguono non per quello che si produce ma per come e con quali mezzi di lavoro. Secondo la nostra concezione abbiamo una successione di forme di produzione: dal comunismo primitivo si passa alla forma secondaria, poi al feudalesimo e al capitalismo, per giungere alla prossima che sarà del comunismo superiore. La forma secondaria ebbe tre modi di essere: antico-classica o schiavistica, asiatica, germanica.

Al V secolo cristiano, momento del definitivo crollo dell’impero romano, avevano avuto una grande importanza cinque importanti grandi organizzazioni statali, costituite in vasti imperi e basate sul modo secondario di produzione, pur con diversi gradi di sviluppo. Esse furono: in Cina l’impero della dinastia Han, terminata nel II secolo d.C., il regno Kushan nell’Asia centro occidentale, l’impero Gupta in India e il regno dei Sassanidi in Iran e Mesopotamia. Nell’Armenia e nel regno di Axum in Etiopia invece la forma schiavistica era ancora ben salda e priva di forti contraddizioni interne. Nelle tribù turche e mongole invece ancora si viveva il comunismo primitivo, mentre in quelle celtiche e germaniche dell’Europa si stavano sgretolando gli antichi rapporti comunitari, nascevano le classi e comparivano i primi germi di organizzazioni statali.

In Cina la prima formazione statale organizzata, storicamente documentata, apparve nel 1751 a.C. con la dinastia Shang, mentre nel Mediterraneo la civiltà egizia, organizzata nella forma secondaria nella variante asiatica, aveva già espresso il suo massimo con la costruzione delle piramidi di Ghiza quattro secoli prima. Fu poi assorbita dal mondo greco prima e romano poi, basati sullo schiavismo.

Quella Shang era una civiltà in cui era già netta la divisione sociale tra classe dominante al vertice sociale, che viveva in città-palazzo e comunità locali, per lo più dedite all’agricoltura con una manifattura dimensionata sui bisogni puramente locali. Esse erano però tributarie verso il centro sia per la fornitura di alimenti sia di manufatti di vario genere e di forza lavoro obbligatoria e gratuita destinata ai grandi lavori di irrigazione, drenaggio, bonifica dei terreni e per costruzioni di vario genere quali opere difensive, monasteri, città palazzo; era una società in cui non erano più uomini liberi, ma solo servi sottomessi ai vari signori.

La successiva dinastia Chou che la soppiantò, attuò una politica meno accentratrice riducendo notevolmente il ruolo organizzatore e di difesa dell’autorità centrale, permettendo così il crescere del potere dei nobili in periferia, che si misero in lotta fra loro per il predominio locale. Esso fu un periodo in un certo senso paragonabile al feudalesimo di tipo germanico che prevalse in Europa dopo la caduta dell’impero romano in quanto il potere centrale era vago e debole mentre pesava il dominio provinciale dei nobili. Il periodo è stato chiamato appunto “antico feudalesimo aristocratico”. Questo e le forti invasioni di nomadi dal nord portarono ad un periodo di grande incertezza, guerre interne e crollo della produzione, anche per lunghe carestie.

La ripresa si ebbe con l’affermarsi della dinastia Ch’in che nel II secolo a.C. con grandi imprese militari riunificò nuovamente la Cina sotto un’unica autorità centrale fortemente strutturata sia nella burocrazia sia nella forza miliare. Lo stato che si formò, che chiamano di “feudalesimo burocratico”, lo possiamo paragonare a quelli europei del XVII e XVIII secolo ed il Divino Imperatore Shihh Huang-ti a Luigi XIV di Francia con le sue vittorie e splendori. La dinastia non gli sopravvisse ma quella successiva degli Han continuò nell’opera di rafforzamento dell’autorità centrale.

Il definitivo passaggio a un preciso modo di produzione accentrato si ebbe con una nuova dinastia Ch’in che impose una serie di leggi per legare il contadino, divenuto servo e dipendente dallo Stato, unico proprietario della terra, al fondo assegnatagli dal demanio. Riceve due appezzamenti, che non può abbandonare e che deve coltivare, uno per sé, l’altro per lo Stato, più una serie di prestazioni di lavoro obbligatorie e gratuite per lo Stato, compreso l’obbligo militare. Il nuovo corpo di leggi data al 285 d.C. e sancisce il passaggio ad una particolare forma che alcuni chiamano “feudalesimo statale” o dell’Impero unitario, forma che non si interruppe mai fino alla Rivoluzione dei Giovani Cinesi nel 1911.

È netto e definitivo il rapporto rispetto la proprietà del suolo, dei prodotti del lavoro, della sua fissità alla terra assegnata e delle prestazioni di forza lavoro che ben presto si trasformeranno in prodotti e manufatti, paragonabile, in parte, a quanto poi avvenne nel periodo feudale in Europa.

Questa organizzazione economica e sociale portò ad un primo poderoso aumento delle forze produttive che permise, tra gli altri sviluppi, un considerevole perfezionamento della tecnica siderurgica che potenziò in modo decisivo l’apparato militare cinese, sia nell’armamento sia, di conseguenza, nella strategia. Per la scarsezza di rame e stagno si sviluppò una raffinata tecnica del ferro al punto che già dal II secolo a.C. si producevano acciai di buon livello grazie a sperimentate tecniche di fusione in serie e all’uso del mantice a pistone a doppio effetto che forniva getti d’aria continui e di maggior potenza, in grado di raggiungere temperature costanti e più elevate.
 

L’antimilitarismo di classe contro la Grande Guerra

La presentazione del lavoro sull’antimilitarismo iniziava riallacciandosi a quanto esposto durante le precedenti riunioni; in particolare la risonanza che in tutto il mondo ebbe la Conferenza di Zimmerwald.

La stampa borghese e la propaganda di regime, indistintamente in tutti quanti i paesi belligeranti, non potendo passare sotto silenzio l’avvenimento, lo denunciarono come una subdola manovra del nemico. Ma Zimmerwald la sua maggiore risonanza la ebbe, come era naturale, all’interno del movimento operaio internazionale. Tutti gli appartenenti al socialismo internazionale, partiti, frazioni, sindacati, gruppi parlamentari, etc, furono costretti, loro malgrado, a prendere posizione: chi per associarvisi e chi per condannare e combattere il movimento di avversione alla guerra. Nessuno poté ignorare l’avvenimento, fare finta che non fosse esistito. E questo fatto costituì di per sé una grande vittoria.

Tra gli accaniti avversari e denigratori di Zimmerwald troviamo, soprattutto, i partiti socialisti di Francia e Germania, nemici sul fronte della guerra imperialista ma uniti e solidali nel combattere ogni forma di residuo di classe che potesse riemergere dalle ceneri del grande tradimento.

Non poche furono le adesioni ai deliberati ed al manifesto programmatico di Zimmerwald, tanto che possiamo affermare che attorno ad essi si fosse formata una piccola internazionale.

Quello che però a noi soprattutto interessa è rappresentato dal fatto che alla conferenza Zimmerwald e nei mesi successivi si delineò una sempre più netta differenza tra i fautori di quell’antimilitarismo tipico della Seconda Internazionale, dal un punto di vista della enunciazione teorica coerente con i principi classisti propri del marxismo, ma ancorato al falso mito dell’unità del partito; e quello, di estrema sinistra, assertore della separazione netta e definitiva dal social-sciovinismo e della inderogabile necessità di fondare una nuova Internazionale capace di guidare il proletariato alla conquista rivoluzionaria del potere.

È in questo senso che i bolscevichi intesero il risultato della Conferenza, ossia come la posa della prima pietra della Terza Internazionale. La sinistra di Zimmerwald, nel suo organo di stampa, Vorbote, scriveva: «Fra coloro i quali hanno fatto del socialismo uno strumento dell’imperialismo e coloro i quali vogliono farne uno strumento della rivoluzione non sarà più possibile alcuna unità organica (...) La creazione della Terza Internazionale non sarà possibile se non attraverso la rottura con il socialpatriottismo».

Alla riunione, dopo aver citato il notorio giudizio di Lenin, si riportava quanto scriveva al riguardo Rosa Luxemburg.

Incalzata dalle continue pressioni della corrente di sinistra, la CSI, l’organismo scaturito dalla Conferenza di Zimmerwald, si vide costretta a convocare una seconda conferenza internazionale che si tenne a Kienthal dal 24 al 30 aprile 1916. A questa seconda conferenza parteciparono 45 delegati provenienti da varie nazioni. Un numero considerevole di adesioni, soprattutto tenuto conto dei molteplici ostacoli e le difficoltà che i delegati provenienti dai paesi belligeranti dovettero affrontare per poter raggiungere la Svizzera. Se tutti i compagni che ne avevano avuto mandato avessero potuto giungervi, il loro numero e quello dei paesi rappresentati sarebbe stato superiore di almeno un terzo.

La Conferenza, pur accogliendo non poche enunciazioni teoriche e di principio sul carattere imperialista del conflitto mondiale, tuttavia espresse dei dubbi circa la possibilità di misure pratiche immediate da poter adottare contro la guerra. La maggioranza respinse le proposte presentate dai bolscevichi, i quali dichiaravano che ogni programma di pace è solo ipocrisia se non viene sostenuto fra il popolo da una propaganda che mostri la necessità della rivoluzione e incoraggi l’attività rivoluzionaria. Le proposte avanzate dai bolscevichi dimostravano senza possibilità di errore quali fossero i loro obiettivi e precisi orientamenti. Essi intendevano rafforzare la propaganda in vista della rivoluzione mondiale, sul cui avvento non avevano dubbi.

La conferenza di Kienthal espresse duri giudizi nei confronti della Seconda Internazionale. «Il Comitato del Bureau Socialista Internazionale ha gravemente mancato al suo dovere (...) facendosi complice del rinnegamento dei principi, con l’adesione alla politica della cosiddetta difesa nazionale e dell’unione sacra che ha ridotto l’Internazionale in uno stato di sgretolamento e di vergognosa impotenza (...) abbassando così l’organo centrale dell’Internazionale operaia all’indegno rango di strumento servile, di ostaggio di una delle coalizioni imperialiste». Ciò premesso la Conferenza esprimeva «la sua profonda convinzione che l’Internazionale non potrà risollevarsi dallo sfacelo come autentica potenza politica, se non a mano a mano che il proletariato mondiale, liberatosi dalle influenze imperialiste e scioviniste, riprenderà la via della lotta sociale e dell’azione di massa».

Ma, al di là della condanna verbale, la maggioranza degli zimmerwaldiani non aveva il coraggio di spingersi. Per molti di loro la Seconda Internazionale non era crollata. Essa aveva avuto soltanto un momentaneo cedimento nel corso di quella tremenda crisi mondiale causata dalla guerra. Gli aderenti a questa interpretazione si opponevano, di conseguenza, a qualsiasi sconvolgimento rivoluzionario in seno ai vecchi partiti. Secondo costoro era impensabile la rottura all’interno dei partiti e dell’Internazionale e fingevano di essere convinti che i socialpatrioti avrebbero potuto, a guerra finita, riconoscere i propri errori e quindi riprendere il loro posto all’interno e alla guida del movimento internazionale del proletariato. E quindi si opponevano con tutta la loro determinazione al sorgere di una Terza Internazionale.

Evidentemente del tutto opposta era la posizione della sinistra di Zimmerwald, la quale considerava che la questione dell’atteggiamento da osservare nei confronti del Bureau Socialista Internazionale costituiva il nodo di tutti i problemi all’ordine del giorno. Era ben chiaro, tanto a loro quanto agli altri, che la posta in gioco era la questione della Terza Internazionale. Il compito principale era quello di dimostrare al proletariato la necessità della scissione dai socialpatrioti che in tutti i paesi avevano tradito il socialismo. Gli uni erano servi degli imperialisti austro-tedeschi, gli altri i vassalli dell’imperialismo della triplice Intesa. Ma tutti quanti sullo stesso terreno controrivoluzionario. Al momento opportuno i socialpatrioti si sarebbero reciprocamente assolti dei loro peccati e in piena armonia avrebbero attivamente operato per soffocare l’opposizione internazionalista in tutti i paesi. Ed è ciò che inevitabilmente e disgraziatamente si venne a verificare.
 

Corso dell’economia

Dapprima il rapporto ha aggiornato l’esposizione dei grafici della industria dei maggiori paesi produttori.

Si sono rilevate le seguenti tendenze. Gli Stati Uniti, dopo la recessione del 2001-2002 recuperano il rinculo nel 2004 per poi accelerare. Segnano un rallentamento negli ultimi 12 mesi. Il Giappone torna ai massimi precedenti la sua lunga crisi solo nel 2003, ma già rallenta nel 2005, risale nel 2006, ma meno nel 2007. La Germania marca sostenuti tassi di crescita: ultimo dato annuale +5,3%. Invece praticamente in assenza di crescita negli altimi anni e mesi le tre vecchie europee Inghilterra, Francia, Italia.

La Russia appare in robusta ripresa industriale. Cina: nessun rallentamento. India: dopo una leggera recessione nel 2001, forte ripresa. +10% nel 2007.

Il rapporto economico ha proseguito poi nella illustrazione e commento dei dati del Commercio mondiale, del quale era esposto un quadro numerico, che qui appare ridotto all’essenziale. Nell’originale gli anni rilevati erano 1948, 1953, 1963, 1973, 1983, 1993, 2003, 2005.
 
 

COMMERCIO INTERNAZIONALE
in percentuali e in miliardi di dollari


1948 1973 2005
Mondo Exp.   100%        58   100%      579   100%   10159 
Imp. 100%  66  100%  589  100%  10511 
Bil.
   


U.S.A. Exp. 22%  13  12%  71  9%  904 
Imp. 13%  12% 72  17%  1734 
Bil.

-1 
-830 
Germania Exp. 1%  12%  67  9%  965 
Imp. 2%  9%  54  7%  778 
Bil.
-1 
13 
187 
Francia Exp. 3%  6%  36  4%  457 
Imp. 5%  6%  37  5% 494 
Bil.
-2 
-1 
-37 
Gran Bretagna Exp. 11%  5%  29 4%  386 
Imp. 13%  6%  38  5% 515 
Bil.
-2 
-9 
-129 
Italia Exp. 2%  4%  22  4%  366 
Imp. 2%  5%  28  4%  378 
Bil.
-1 
-6 
-13 
Giappone Exp. 0%  6%  37  6%  599 
Imp. 1%  7%  38  5%  515 
Bil.
-1 
-1 
84 
Cina Exp. 1%  1%  7%  762 
Imp. 1%  1%  6%  662 
Bil.


100
India Exp. 2%  1%  1%  91 
Imp. 2%  1% 1%  137 
Bil.


-45 
Russia Exp. 2%  4%  21  2%  244 
Imp. 2%  4%  21  1%  125 
Bil.


118 

Si osserva il continuo aumento del valore delle merci che varcano i confini degli Stati, indicati in miliardi di dollari correnti. Anche se i numeri sarebbero da depurare dell’inflazione è evidente la loro forte crescita.

Dei singoli paesi veniva dato sia il valore delle esportazioni, delle importazioni e bilancia commerciale in miliardi di dollari, sia la rispettiva quota percentuale sul totale mondiale.

Il dato monetario cresce sempre e in tutti i paesi, con la sola eccezione dell’India nel 1953, che aveva allora da volgersi piuttosto al mercato interno, e della Russia nel 1993 per gli sconvolgimenti dell’epoca.

Molto interessante l’andamento delle quote sul tutto.

Gli Stati Uniti scendono in questo secondo dopoguerra dal 22% mondiale delle esportazioni al 9% e salgono nelle importazioni dal 13% al 17%: nel 2005 ne risulta un deficit commerciale record di 830 miliardi di dollari.

Curva “americana” per la Gran Bretagna, con percentuali alla metà circa e passivo al 2005 di 129 miliardi.

La Germania, ridotta nel 1948 ad esportare solo l’1% ed importare solo il 2%, tocca un massimo nel 1973 col 12% e il 9% rispettivamente, ma poi la sua quota si riduce al 9% e al 7%. Esporta più di quanto importa per cui nel 2005 vanta un surplus di 187 miliardi annui.

Andamento parallelo a quello tedesco presentano Francia e Italia, ma con quote dimezzate. Però importano più di quanto esportino e nel 2005 sono in passivo, di 37 miliardi la Francia, di 13 l’Italia.

Il Giappone si accompagna ai tre europa-continentali e anche la Russia ha un diagramma che sale fino ad intorno il 1973 per poi contrarsi. In attivo commerciale entrambe, sebbene il primo esporti prodotti industriali e la seconda materie prime.

Cina: su quote mondiali molto basse fino al 1983, poi crescita regolare; al 2005 in attivo di 100 miliardi di dollari.

L’India invece accede ancora poco al commercio mondiale, addirittura meno dell’epoca coloniale, volgendosi prevalentemente al mercato interno.

Passando al confronto in verticale, fra paesi, si osserva quanto segue.

Al 1948 gli Stati Uniti contribuivano da soli fra il quinto e il quarto delle esportazioni mondiali, la Gran Gretagna un decimo, Germania Francia e Italia insieme il 7%, poco gli altri.

Al 1973 gli Stati Uniti sono scesi al 12% e la Gran Bretagna al 5%. I tre europa-continentali insieme ben al 22%, la stessa quota degli Usa nel 1948. Il Giappone è al 6% e la Russia al 4%. Poco gli altri.

Al 2005 abbiamo Usa e Germania in testa alla graduatoria, ma in calo e solo col 9%. I tre europei insieme sono al 18%, ma anch’essi in diminuzione.

La Cina, “la Germania dell’Asia”, cresce tanto da incalzare dal terzo posto i primi due. Intanto, con il suo surplus si sta comprando titoli americani.

Il complemento a 100 ci dà la parte dei paesi non compresi in tabella: per quanto riquarda il concorso alle esportazioni mondiali, assommano al 55% nel 1948, al 49% del 1973, al 53% nel 2005.
 

Origine dei sindacati in Italia

Lo studio, giunto a documentare la rinascita della Cgil “postfascista”, tende a documentare sempre meglio un tema assai difficile e centrale, sul quale disponiamo già di una notevole mole di ricerca di partito. Il realtore è riuscito a reperire una serie di testi e trascrizioni di interventi nei primi congressi della Cgil, dei quali dava ampia lettura commentata, tutti utilizzabili alla migliore definizione e conoscenza dei sindacati che ci ritroviamo, e la classe operaia si ritrova, in questo volto storico di tardo capitalismo.

È superluo far presente l’importanza di questo studio, che deve essere continuo nella vita del partito, indipensabile com’è alla individuazione delle direttive corrette che domani la frazione comunista darà alla classe in movimento, ma che già oggi il partito deve sforzarsi di sapere prefigurare, avendo compreso le complesse dinamiche della effettiva ed attuale lotta di classe.

Una scelta dei documenti esposti, tutti praticamente sconosciuti, sarà inserita nel testo esteso della rapporto.
 

Il capitale finanziario

Riprendevamo i lavori, l’indomani domenica, con un importante ambito di studio, quello sul capitale finanziario.

Dell’intero nostro testo fondamentale, “Il Capitale”, la 5° Sezione del Terzo Libro, “Il capitale produttivo di interesse”, è forse quella meno strutturata e, apparentemente, più legata alle contingenze del capitalismo finanziario del diciannovesimo secolo. Se mai gli strali dei critici e degli avversari del marxismo e del comunismo hanno ignorato alcunché della nostra dottrina come espressa ne “Il Capitale”, certo questa sezione è la più trascurata. Sono pagine difficili, tormentate, un vero e proprio “lavoro in corso”.

Questi quaderni, riorganizzati da Engels dopo la morte di Marx e pubblicati nel Terzo Libro, riportano in modo crudo e definitivo nascita e sviluppo della forma finanziaria del capitale (la legge della sua fine è invece descritta ed analizzata nella Terza Sezione dello stesso Libro).

Scopo allora di questa relazione e di quelle che seguiranno è ripresentare nella sua completezza, rapportandolo per quanto possibile alle fantasmagorie e alle creatività odierne, che paiono anni luce distanti da quel periodo storico, un aspetto fondamentale della nostra critica.

Il capitalismo ha sempre conosciuto e sofferto crisi finanziarie più o meno profonde da quando si è imposto sulla scena storica come modo di produzione egemone. Alcune di queste crisi sono state episodi di riorganizzazione, altre espressioni di situazioni contingenti esogene, altre ancora veri e propri terremoti provocati dalle sue stesse contraddizioni.

Dovremo quindi mostrare come, nell’evoluzione di oltre un secolo dell’economia politica degli Stati, fino alle alchimie odierne degli strumenti della finanza, il capitale finanziario non ha mutato non solo sostanza, ma neanche forma.

In questo senso, prima di intraprendere l’esposizione ragionata del testo, si è voluto in una veloce sintesi riproporre la storia di mezzo secolo di crisi finanziarie, accompagnate dallo smisurato dilatarsi del sistema borsistico. Allo scopo si è partiti da una serie di citazioni dell’economista Maynard Keynes, risalenti al ’36, per definire l’influenza, ma anche i limiti del formidabile fattore della speculazione nel campo finanziario, che è descritta oggi come la fonte primaria di tutti i guai e le storture del capitalismo, mentre, almeno fino ad una certa misura, ne esprime soltanto l’effetto. Come riferimento obbligato è stata descritta la “madre di tutte le crisi”, quella del ’29, che dagli USA si irradiò su tutto il mondo capitalistico. Di questa fase cruciale per la storia del capitalismo sono stati messi in risalto i caratteri fenomenici, quelli che cioè appaiono come costanti nelle crisi di maggior ampiezza e profondità.

Si è poi descritto come, dopo la ripresa, fossero maturate le condizioni per il conflitto mondiale e come con la legge detta “Affitti e Prestiti” gli Stati Uniti d’America abbiano imposto allora il proprio tallone finanziario sul declinante imperialismo europeo, legando anche i futuri competitori al loro credito; infine come con gli accordi di Bretton Wood e il sistema del Gold Exchange Standard siano diventati la potenza egemone, oltre che sul piano militare, anche su quello finanziario e con l’istituzione del Fondo Monetario Internazionale, anche gli arbitri dei sistemi finanziari degli altri Stati.

Proseguendo per fasi, si sono descritte le condizioni che hanno portato alla fine del sistema del Gold Standard, ed infine alla liberalizzazione del mercato dei capitali. Sono stati descritti gli effetti dell’accumularsi sulle piazze europee degli enormi proventi in dollari derivanti commercio del petrolio (detti allora “petroldollari), con il loro contorno di piccole crisi per il pesantissimo effetto speculativo negli anni ’70.

Infine si è accennato all’ininterrotta sequenza di crisi, da quella più grave e perturbante nel 1987 (il “lunedì nero”) fino a quelle degli anni ’90: caduta dello SME nel ’92 con le ripercussioni sulla Lira italiana e la Sterlina inglese, il crack delle obbligazioni (bond) messicane nel ’94, nel ’97 il crollo delle “tigri asiatiche”, innescato dalla speculazione sulle moneta thailandese – un evento apparentemente al margine, su un teatro finanziario di second’ordine. Nel ’98 la crisi russa dei prestiti obbligazionari, che servì da detonatore della crisi statale dell’impero “sovietico”; e negli anni 2000 la bancarotta dell’Argentina e lo scoppio della cosiddetta “bolla” della New Economy, che ha distrutto grandissime quantità di piccoli capitali, favorendo i grandi sistemi finanziari. Per concludere con i grandi crack aziendali del 2002, e la non ancora conclusa vicenda dei mutui fondiari.

Il concetto chiave che però questa sommaria esposizione di quasi ottanta anni di storia della finanza ha voluto mettere in risalto è che quelle che nella nostra dottrina sono definite “crisi generali del capitalismo”, così come cocciutamente le attendiamo, non le dobbiamo attendere dai fatti e misfatti descritti ed analizzati nella 5ª Sezione, ma dalla legge enunciata nella 3ª. Ogni speranza di crollo per le crisi finanziarie è, se non illusoria, almeno mal riposta. La crisi finanziaria “finale” avverrà, ne siamo certi, ma come effetto della legge della caduta tendenziale del saggio di profitto: come risultato cioè dei fenomeni nel campo produttivo e commerciale.

Con questa premessa, siamo pronti ad affrontare, nel prosieguo, lo studio, non facile, del “Capitale Produttivo di Interesse”.
 

Il “processo di pace” in Irlanda del Nord

Il secondo rapporto di domenica esponeva un primo capitolo di un aggiornamento sulla questione irlandese, preparato da un compagno di lingua inglese.

Il “Processo di pace” nelle sei contee dell’Ulster, risultato di fortissime pressioni da parte di Washington, è attualmente in pieno svolgimento. La soluzione politica che è stata perseguita questa volta è un processo di pace che è negli interessi non solo di Londra, ma anche di Washington.

Pensare che l’atteggiamento britannico verso un governo irlandese separato sia di totale ostilità non corrisponde alla realtà, almeno nella misura in cui è assicurato l’Home Rule, cioè la possibilità di autogoverno, con un parlamento, ma anche con una tutela sul paese da parte del governo di Sua Maestà Britannica.

Non era stato così in passato: il fallimento di una proposta di Home Rule fatta da Gladstone nell’Ottocento, nella speranza che il politico irlandese Parnell riuscisse a concludere un accordo anglo-irlandese, aveva mostrato che all’interno della borghesia inglese non mancavano i sabotatori di qualsiasi ipotesi di Home Rule irlandese.

Altre proposte di Home Rule, stavolta agli albori del secolo XX, furono contrastate dalla rivolta di Carson, quando i protestanti firmarono un Patto per resistere a qualsiasi ipotesi di un Home Rule in Irlanda. Sembra che Churchill fosse pronto a far salpare la flotta britannica verso Belfast per sottometterla a suon di cannonate; come d’altronde era stato in procinto di fare con gli scioperanti di Liverpool solo un anno prima, se la situazione fosse divenuta incontrollabile.

La prospettiva di conquistare l’indipendenza tout court o l’Home Rule per l’Irlanda diede luogo a iniziative per allentare in qualche modo la presa della Gran Bretagna sull’Irlanda. A parte l’aperta ribellione, più volte repressa con grandi spargimenti di sangue, le linee di pensiero, e le strategie, in gioco erano due, quella degli “scalini” e quella che “le disgrazie dell’Inghilterra sono opportunità per l’Irlanda”.

La linea degli “scalini” è già nella richiesta di Arthur Griffith a Michael Collins nel 1921, di cogliere una qualsiasi forma di indipendenza per l’Irlanda, anche se volesse dire suddivisione, nella speranza di arrivare a una piena indipendenza a piccoli passi nel corso di decenni. Questa fu quella poi percorsa, anche se causò una fiera resistenza, e una guerra civile nelle 26 contee della Stato Libero d’Irlanda. Alla fine il nuovo governo di Dublino riuscì ad imporsi con la forza delle armi (soprattutto fornite dagli inglesi) sui nazionalisti recalcitranti. Gli “scalinisti” sono però stati negli anni successivi marchiati dall’opinione pubblica come traditori della causa indipendentista.

L’altra linea, quella “le disgrazie dell’Inghilterra sono opportunità per l’Irlanda”, è la più tradizionale: in pratica ha consistito nel sostenere i nemici dell’Inghilterra, soprattutto in tempo di guerra. Il relatore qui riassumeva le vicende storiche che, nei secoli, portarono alla sconfitta dei due principali avversari “cattolici” nel continente: la Spagna prima e la Francia, fino a Napoleone, dopo.

In Gran Bretagna la ricchezza sorgente dall’industria si saldò all’atteggiamento storicamente retrivo dell’aristocrazia, e costituì quindi un insuperabile ostacolo a qualsiasi progresso in Irlanda.

Marx ed Engels studiarono a fondo la storia dell’oppressione del popolo irlandese da parte dell’Inghilterra. Marx mostrava come la grande emigrazione irlandese sia stata sfruttata per dividere i proletari inglesi e irlandesi in campi avversi.

La strategia prefigurata da Marx ed Engels appare molto chiara: il tentativo di favorire la rivoluzione proletaria nel solo paese allora maturo per il socialismo. Tutto quello che si poteva fare per indebolire la borghesia in Gran Bretagna e aprire la strada a una rivoluzione operaia andava fatto. Marx ed Engels vedevano l’Irlanda come una Spada di Damocle puntata al cuore dell’ordine costituito inglese: lo scopo dell’indipendenza per l’Irlanda non aveva tanto un valore di per sé, quanto come una tappa nel processo del rovesciamento del capitalismo come sistema sociale.

Ma il movimento operaio non fu capace di mettere in difficoltà la presa del capitalismo sull’Irlanda. A togliere ogni speranza fu la quasi totale assenza in Irlanda di una classe borghese sufficientemente sviluppata, capace di guidare la lotta per l’indipendenza nazionale. La Legge di Unione del 1801 aveva eliminato il protezionismo sull’agricoltura e il commercio del paese, e le attività economiche che vi sopravvissero furono in effetti integrate nel mercato britannico.

La borghesia protestante, principale promotrice della rivolta degli United Irishmen alla fine del secolo XVIII, divenne in seguito il bastione del dominio britannico sull’Irlanda.

Restava la questione della terra, e una massa di contadini poveri, che sarebbe stata alla base delle rivolte contro il dominio inglese. Una massa che sarebbe rimasta da sola, senza alcun sostegno dalla borghesia cattolica.

Queste sono le ragioni dell’incapacità dell’Irlanda di accedere a una rivoluzione nazional-borghese, e della storica impotenza della borghesia irlandese.

L’Irlanda è rimasta anche a lungo indietro economicamente a causa dell’effetto che il dominio inglese aveva sul suo sviluppo. I profitti estratti da agricoltura e commercio passavano direttamente nelle tasche della classe dominante inglese, e quindi nel crogiolo della rivoluzione industriale, contribuendo all’espansione sconfinata dell’Impero Britannico.

Però lo sviluppo della rivoluzione industriale in Gran Bretagna fu un fatto storicamente utile: anche se tolse qualsiasi speranza di indipendenza nazionale e di sovranità all’Irlanda, vi creò una classe operaia, e aumentò le prospettive per la conquista del socialismo, sia per i lavoratori irlandesi sia per quelli del resto del mondo.

Lo sviluppo del capitalismo industriale in Irlanda si è avuto nonostante la piena affermazione nazionale. Ma dal Novecento il progresso storico in Irlanda non richiede più la costruzione di uno Stato nazionale su tutta l’isola: esso ha invece bisogno della lotta per l’emancipazione della classe operaia, l’unica via al socialismo. Questo è quanto non fu compreso da tanti socialisti irlandesi, primo tra tutti James Connolly, che non riuscirono a vedere più in là della questione nazionale, e ritennero l’indipendenza nazionale come un prerequisito essenziale per raggiungere il socialismo.
 

L’imperialismo in Iraq

«Come tutti sanno (!!!) la guerra in Iraq è stata fatta in gran parte per il petrolio». L’ha scritto l’ex governatore della Federal Reserve Greenspain nel suo libro di memorie e ha poi aggiunto in una intervista al Washington Post che togliere di mezzo Saddam Hussein era essenziale per garantire le forniture mondiali di petrolio: «La mia opinione è che Saddam, se guardiamo ai 30 anni della sua storia, mostrava molto chiaramente di puntare al controllo dello stretto di Hormuz, dove transitavano 17, 18, 19 milioni di barili di petrolio al giorno». Da questa mezza verità detta da uno dei massimi campioni del regime del capitale, ha preso spunto il compagno incaricato di seguire l’andamento della guerra irachena.

La guerra è stata fatta, sicuramente, anche per il petrolio, come confessa Greenspain. Non per garantirne il “libero commercio”, buttando all’aria i piani del “dittatore”, ma per assicurarne il controllo agli Stati Uniti, che da decenni cercano di manovrarne prezzi e rifornimenti come un’arma per difendere la loro egemonia mondiale.

Ma questa guerra, così tenacemente perseguita da Washington, non sta evolvendosi in modo favorevole agli occupanti.

Sul fronte economico non ci sono buone nuove per l’imperialimo d’oltre Atlantico.

La nuova legge irachena sul petrolio è fortemente caldeggiata da Washington perché considerata uno strumento per arrivare a mettere definitivamente le mani sul rubinetto. Ma dovrebbe anche tendere a stabilizzare il paese con una più “equa” distribuzione della rendita petrolifera tra le varie comunità e regioni.

La legge però giace in Parlamento ormai da molti mesi e non riesce ad essere approvata per la dura opposizione dei partiti curdi, che temono di vedersi privati di una parte delle loro rendite attuali, e per quella dei partiti “sunniti” e “nazionalisti”, che si oppongono alla svendita del petrolio alle compagnie straniere.

Il governo delle regioni curde ha firmato contratti di sfruttamento con alcune compagnie straniere, in modo autonomo e rivendica il diritto di sfruttare il petrolio estratto in quella regione. Dai nuovi pozzi vicini al confine turco si calcola che il Kurdistan possa estrarre, entro il prossimo anno, 200.000 barili al giorno.

Anche il sindacato “libero” degli addetti al settore petrolifero ha espresso la sua opposizione alla legge proclamando uno sciopero nel giugno scorso, che ha avuto successo nonostante sia illegale; secondo il suo presidente «il governo centrale dell’Iraq deve essere proprietario unico e avere il controllo completo della produzione e dell’esportazione del petrolio». Il governo iracheno ha risposto allo sciopero mettendo fuori legge il sindacato e con minacce di arresto dei suoi capi.

Sul piano militare, la vera e propria fuga, all’inizio di settembre, del contingente britannico da Bassora, cuore dell’industria petrolifera irachena, è stato un duro colpo per gli americani. Il contingente britannico, ormai ridotto dalle 45.000 unità che presero parte all’occupazione del paese a circa 5.000 uomini, dopo accordi “segreti” con l’esercito del Mahdi, la milizia di Moqtada al Sadr, e altre milizie sciite, ha abbandonato le sue posizioni nel centro della città e si è trincerato nell’area aeroportuale, con la prospettiva di abbandonare l’Iraq entro breve tempo, lasciando sul posto solo un piccolo contingente di circa 1.500 uomini, destinato – dicono – all’addestramento delle truppe irachene.

La mossa britannica, che si è cercato di far credere derivata da “accordi” col governo iracheno, pare sia stata invece resa indifferibile dalla situazione in cui si erano venute a trovare le truppe britanniche, ormai strette letteralmente d’assedio nell’ex palazzo di Saddam Hussein, sulle rive dello Shatt el Arab. Da qui la decisione di Londra di aderire alle richieste del governo iracheno che si è dichiarato favorevole ad assumersi il controllo diretto della città. Ma il problema è che sembra che nella provincia di Bassora siano disponibili solo 4.000 soldati, che dovrebbero controllare una città di ben due milioni di abitanti in cui gli scontri tra bande armate sono all’ordine del giorno.

La ritirata decisa da Londra crea gravi problemi all’esercito statunitense perché la perdita del controllo della città meridionale rende vulnerabili le sue vie di rifornimento che dal Kuwait si dirigono verso il nord; a questo si aggiunge il rischio di perdere il controllo del porto da cui parte la quasi totalità del greggio iracheno esportato.

Nonostante questa tragica realtà il generale Petreus, comandante il capo delle forze alleate in Iraq, ha riferito al Congresso degli Stati Uniti che l’aumento delle truppe deciso nei mesi scorsi ha portato a significativi successi e che questa nuova situazione permetterà di iniziare a passare alcuni compiti all’esercito iracheno e di ritirare circa 4.000 uomini (una brigata) entro l’anno per arrivare a ritirarne 30.000 entro l’anno prossimo, riducendo così nuovamente il contingente da 168.000 a 138.000 uomini, la consistenza che aveva prima dell’invio dei rinforzi nella primavera scorsa. L’ottimismo del generale è stato solo parzialmente condiviso dall’ambasciatore americano a Baghdad, Ryan Crocker che ha dichiarato durante la stessa seduta al Congresso: «Abbandonare o ridurre drasticamente i nostri sforzi condurrebbe ad uno scacco e bisogna che le conseguenze di un tale scacco siano chiare. Un Iraq caduto nel caos o nella guerra civile (...) inciterebbe gli Stati vicini ad intervenire (...) è evidente che il grande vincitore sarebbe l’Iran che potrebbe consolidare la sua influenza sulle risorse e sul territorio dell’Iraq. L’evoluzione attuale è difficile ma le alternative sono ben peggiori».

Se dunque i soldati ed anche i più alti ufficiali impegnati direttamente nella guerra hanno seri dubbi sulla possibilità di continuare a “tenere” il territorio con le forze attualmente disponibili, i politici sono convinti che non vi siano alternative alla guerra e che una ritirata dall’Iraq sarebbe una sconfitta inaccettabile.

Se oggi è difficile capire quali saranno le mosse a breve termine del Pentagono, pare sempre più evidente che sarà difficile restare a lungo nella situazione attuale. Si tratta di mollare l’osso iracheno o rilanciare, magari allargando la guerra, forse cercando di addentare l’Iran, che si accusa di responsabilità nell’approvvigionamento di alcune frange della resistenza sciita in Iraq.
 

Storia del movimento operaio americano - (5)

Il rapporto è giunto ad interessare gli anni ’30 dell’Ottocento, che videro una ripresa dell’attività sindacale, come reazione a un brusco peggioramento delle condizioni di vita della classe operaia, soprattutto a causa della sfrenata corsa ai profitti della borghesia, con tutto l’indotto di fallimenti, crisi bancarie, disprezzo per gli accordi con le organizzazioni operaie e artigiane. A differenza del passato, stavolta il movimento ebbe una dimensione molto più intercategoriale, comprendendo spesso tutti i lavoratori di una data città o comprensorio, con le conseguenze positive dovute al formarsi di una coscienza di classe. Le lotte furono numerose e spesso dure, e vi si distinsero in particolare le donne del New England, sfruttate quanto e più dei loro compagni maschi. La borghesia reagì con violenza, non negandosi l’aiuto spesso determinante di magistratura, polizia e milizia. Ma la vera batosta al movimento venne dalla crisi del 1837, che disperse le giovani ed esili organizzazioni di classe.

Un ulteriore aiuto per la conservazione sociale e ostacolo alla lotta di classe venne dalle diverse anime dell’utopismo, delle quali in America ebbero particolare successo il Fourierismo e l’Owenismo. Fu anche l’epoca del cooperativismo, che ebbe un momento di popolarità mentre stava già declinando in Europa, almeno come ideologia sostitutiva della lotta diretta contro il capitale. Altri riformatori ebbero un effimero successo in quegli anni, tutti in qualche modo nostalgici e contrari al progresso capitalistico: essi vedevano nell’affermarsi del capitale solo gli aspetti negativi, e non coglievano, come Marx, le sue potenzialità economicamente progressive, che avrebbero spianato la strada alla rivoluzione sociale.

Non mancarono nemmeno, in quegli anni difficili, a tenere a bada lo scontento operaio, movimenti religiosi che predicavano la temperanza e la rassegnazione ai disegni divini. Fu in quegli anni che si affermò il notorio Esercito della Salvezza.

Solo la ripresa economica che ebbe inizio nel 1844 vide una ripresa dell’associazionismo operaio, mentre il paese si popolava di nuove ondate di emigranti, molto diverse tra loro: infatti quelle più cospicue furono di tedeschi, in genere operai specializzati, alfabetizzati e spesso anche politicamente attivi, e di irlandesi, semiprimitivi, analfabeti, ex contadini. Due immissioni che mantennero a lungo, nel bene e nel male, le loro caratteristiche originarie, e che diedero una forte impronta al movimento operaio dei decenni successivi.
 

La questione ebraica: (9) Il Comunismo

In linea di principio tutte le religioni e tradizioni fanno parte dell’evoluzione della specie umana e le appartengono. Non diciamo che, in qualche misura, le rivendichiamo tutte ma che nel disegno storico del materialismo dialettico il passato è parte integrante del processo che “inevitabilmente” porta al comunismo. Ciò non ci impedisce, anzi, ci obbliga a vedere criticamente in che modo l’umanità del passato, dai primordi ad oggi, all’interno delle sue contraddizioni e divisioni di casta e di classe ha prodotto le condizioni per il passaggio al comunismo. In questo senso noi non siamo con nessuna religione, per quanto sublime possa apparire o si dia le arie di essere.

Poiché si vuol sostenere che le religioni hanno rialzato la testa dopo che la “morte di Dio” sembrava aver celebrato il loro funerale, si tenta di decidere se il “risveglio religioso”, non solo dell’Islam ma del “sacro” in generale, sia autentico e di che cosa sia segno.

Il marxismo si pone al livello teorico massimo e polemizza non solo con le espressioni più volgari del capitalismo di oggi, ma con le manifestazioni di pensiero più cospicue, che tentano di affrontare le grandi questioni non solo del momento, in vista del futuro. Neghiamo al capitalismo nella sua totalità la capacità di progettare secondo criteri vantaggiosi per l’intera specie. Questo compito spetta alla nostra tradizione, diremmo quasi, alla nostra “religione”...

Comunismo indica, in senso etimologico, pienezza e comunanza di vita, possibile solo se ogni separazione artificiosa tra le componenti della specie viene a cadere e viene tolta. Il comunismo riconosce che la primitiva organicità “naturale” dell’uomo dovrà essere ristabilita in nome del dispiegamento pieno delle potenzialità della società moderna, che col capitalismo ha raggiunto l’apice dello sviluppo tecnico e nelle stesso tempo delle interne divisioni.

I progetti borghesi si identificano con l’accrescimento senza limiti della Tecnica, ma più esattamente della tecnica che dà Profitto. Questa è la differenza netta che opponiamo alle loro elaborazioni. Il comunismo non è un semplice sogno ad occhi aperti, perché la sua necessità fa tutt’uno con la liberazione che chiedono lo forze produttive. Le separazioni e contraddizioni sociali delle società di classe nel comunismo saranno risolte non per decreto ma in quanto saranno maturate, nell’attuale società, le condizioni favorevoli al loro superamento storico.

Il progetto comunista prevede una società di specie certamente mai sperimentata in senso allargato, ma già operante nel partito. Se questa affermazione suscita il sorriso di sufficienza da parte dei nemici è perché ormai non si fa che accettare rassegnatamente l’idea secondo la quale la vita è competizione, lotta e poc’altro.

Il comunismo per il momento vive all’interno di uno sparuto gruppo, che non deve sentirsi solo, se sa rapportarsi alla storia, se sa vedersi come continuità di quella tradizione che permise la presa del potere. Però questa esigua minoranza rischia di non consegnare il testimone alla generazioni future se commette questi errori: 1) non pratica realmente il centralismo organico; 2) al suo interno accetta una qualche forma di lotta politica; 3) si illude di potersi chiudere a riccio nella sua tribù e non si rapporta al movimento proletario, per quanto debole possa essere.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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La storia italica nello specchio deformante della sua ideologia

(Indice dei capitoli)

Capitolo X
Esposto a Viareggio nel giugno 2006

Machiavellici e bigotti

Uno scrittore contemporaneo americano, niente affatto digiuno di cose italiane, in un articolo su un giornale di Cortona, dal titolo sintomatico “La Sfinge”, si meraviglia che “gli italiani si aspettino tanto dalla politica”, ancora illusi che la ”politica” possa risolvere i loro problemi. Come potremmo prendere questa considerazione? Dicendo che c’è del vero. Gli Italici sono un popolo di molto antica civiltà, che ha preceduto gli stessi Romani, e che da allora ha conosciuto il dominio di ogni tipo e forma di Stato politico. Sotto il suo imperio ne ha passate di tutti i colori, fino ad approdare ad una “modernità” che per l’Italia ha significato fare i conti con una serie innumere di stratificazioni, di mediazioni, di furbizie. L’Italia ha prodotto spiriti pensanti come Dante e Machiavelli, dopo esser stata la culla di istituzioni statali di cultura universalistica quanto mai abili nell’esercizio del potere, dall’Impero romano alla Chiesa Cattolica.

Poiché a noi, dal punto di vista materialistico, non interessa la presunta verità assoluta né la religione né la filosofia, ma gli “effetti” che queste producono, prendiamo atto che il carattere dei “sudditi” italici oscilla tra il machiavellico ed il bigotto. Al momento opportuno questi due elementi o determinano “doppiezza”, per intenderci quella da sempre attribuita a personaggi i più vari, che vanno da Mussolini a Togliatti, oppure uno strano impasto d’opportunismo di chi tende a salire sul carro del vincitore, a negare qui ciò che si è appena sostenuto là.

Dovrebbe allora anche il proletariato ed il suo partito rassegnarsi a queste stigmate “nazionali” e rinunciare al vero spirito machiavellico, in senso alto e serio? Crediamo proprio di no, e faremmo male a sederci sulle generalizzazioni a buon mercato. Se conveniamo sul fatto che “il politicantismo personale ed elettoralesco” caratterizza la politica italiana, più ancora che di altri paesi, che cosa dovremmo fare? Il nostro programma comporta di stare fuori da questi schemi, in nome dei proletari, secondo una lettura storica di lungo periodo della lotta di classe a livello generale.

Già, si dirà, ma il comune lavoratore, come può accedere ad una visione così complessa della politica? Mentre la non breve esperienza della Sinistra attesta che ciò non è poi tanto difficile, purché si abbia la voglia di militare seriamente nel partito, nello stesso tempo sappiamo che la funzione dirigente di esso non significa “studiare da quadro”, come pretendono certe visioni condannate dalla storia recente e più antica.

Le classi dominanti in Italia si sono sempre affidate ad una intelligenza proveniente da ambienti elevati e colti. All’epoca della borghesia in ascesa ne rispecchiava la mentalità, oltre che gli interessi. La ragione per la quale questi professionisti hanno puntualmente deluso il “popolo”, mentre i veri vocati al “pensare alto” – come Mazzini e gli “eroi” pronti al sacrificio ed alla abnegazione come Garibaldi – venivano messi da parte dall’affarismo e dalle consorterie, è stata ampiamente studiata dalla storiografia, impegnata particolarmente nella “storia etico-politica”. Il nostro metodo, che non schifa ma non si attarda su questi sentieri, ravvisa le incertezze, le astuzie, i trucchi espliciti di questa classe politica, nella sua complessa stratificazione.

Abbiamo sostenuto nel lavoro che proprio per questo non abbiamo approvato la ricognizione di Gramsci, illuso di trovare finalmente un insieme di motivazioni ideali che avrebbero dovuto fare dell’impegno politico una specie di missione da perfetti funzionari civici.

L’illusione che la politica “comandi” è insomma tipica del pensare italico: si crede, più da bigotti che da machiavellici, che la politica stia al primo posto, nel senso che l’abilità mediatrice, le astuzie, il doppiogiochismo saputo fare nelle Curie e nel Palazzo possano risolvere tutti i problemi. Questo forse voleva significare lo scrittore di cui dicevamo: non per niente il politicante italico viene percepito anche in altri paesi come potenzialmente mafioso, di cui non fidarsi troppo e a cui fare sempre la tara. E non a caso la Sinistra “italiana” del politicantismo è da sempre stata acerrima nemica.

* * *

Allargando un poco l’orizzonte, al di là dei luoghi comuni, dobbiamo riconoscere che la peculiarità italica è anche oggettiva, nel senso che in Italia le istituzioni del capitale hanno dovuto fare i conti, in Europa prima e nel Mondo poi, con potenze più avanti nello sviluppo sociale ed economico capitalistico. Questo ha comportato, come abbiamo rilevato, un tentativo di riguadagnare terreno con sbrigativi mezzi “politici”, con il piglio autoritario, come fece il Fascismo, inaugurando una politica d’interventismo statale che fece colpo anche in altri ambienti, America compresa. Noi però non possiamo limitarci a valutare questo fenomeno indipendentemente dal quadro di riferimento della lotta di classe a livello internazionale: anche le Democrazie europee come la Francia e l’Inghilterra videro nel Fascismo un “cordone sanitario” necessario contro il pericolo di sovversione bolscevica, non utile solo all’Italia, ma alla causa borghese in generale.

Si ebbe così l’impressione che la politica “comandasse” quanto più il timone fosse nelle mani dell’uomo forte, senza i condizionamenti del parlamentarismo inconcludente e parolaio. C’era del vero in tutto questo, ma in un senso opposto a quello per il quale veniva ammirato o anche sopportato da altri Stati-nazione. Il bigotto ceto medio italiano è passato dal culto del nero Duce a quello del bianco Papa, che fu lesto a proporsi come sostituto dei “Lui” nel cuore delle masse. E questo fino alla trivialità del “carismatico” Berluskaiser, che avrebbe incantato la “pubblica opinione” col fascino di comunicatore.

Nel frattempo la durezza della realtà non dà segno d’ammorbidimento, al punto che gli stessi “capi” sono costretti a segnare il passo, a rimandare le promesse misure pur demagogiche, tipo allentamento della pressione fiscale, in attesa di migliori congiunture economiche e sociali.

In Italia ci si aspetta tanto dalla “politica”, somministrata da qualunque nullità purché dotata di “carica simpatetica”, perché il cosiddetto italiano medio, il borghesuccio, spera sempre che qualcuno “in alto” gli tolga le castagne dal fuoco, tardo com’è a far conto sulla sua capacità di mobilitazione e di minima coerenza. Schifa la scienza sociale e da sempre si abbevera al sentimentalismo cristianuccio, valido per tutte le occasioni, feste e funerali.

* * *

Diversa è la storia del proletariato italico. Alla fine dell’800 vi penetrò il marxismo il quale, mentre la classe operaia si batteva in lotte forti e generose, in una sana reazione, giunse a collocarsi nell’opposta posizione, quella della necessaria “intransigenza” politica di classe, anche all’interno del movimento comunista mondiale. Se nel corso delle successive vicende storiche ha finito per prevalere nel proletariato la rassegnazione, interrotta da soprassalti improvvisi, incapaci di essere tenuti vivi, ciò non dipende dal carattere italico, ma da un intreccio di cause che solo il materialismo storico è stato in grado di decodificare, finché non ha prevalso una sua vulgata, una miscela di idealismo, umanitarismo, sentimentalismo, culminato nel cosiddetto “buonismo” dei nostri sempre più miseri tempi.

Il “carisma” dei presunti capi tende a sostituirsi alla mancanza di una vera temperie politica, allorché è più facile far breccia nei cuori, perché la coscienza di classe dormicchia, o perché è più facile far passare messaggi semplificatori, nell’epoca della comunicazione a senso unico dei mezzi massmediatici.

Tutto questo, ovviamente, non risolve i problemi. Mercato, concorrenza, tormenti quotidiani rimangono insistentemente alla base d’un modo di vita sociale che nessun palliativo è in grado di sciogliere.

A questo punto ci si esercita nello sport dell’Italia “paese anomalo” solo per giustificare all’infinito l’esigenza di ritoccare il sentimento nazionale, renderlo adeguato alle “nuove” esigenze “postmoderne”. Se avessimo creduto a queste illusioni avremmo dato man forte allo sforzo gramsciano di formare il blocco progressista contro quello conservatore, che, guarda caso, in forme diverse costituisce la grande presunta novità del politicantismo attuale. Mentre non si nega che ormai le direttive politiche ed economiche determinanti provengono dal mercato mondiale, si continua a ritagliarsi rendite di posizione regionali, locali e nazionali.

Poiché rivendichiamo d’essere il partito internazionale del proletariato, non opponiamo alla politica internazionale della borghesia la giustificazione delle politiche particolari che dovrebbero garantire il mantenimento d’una identità tradizionale contro le “omologazioni” imposte dal mercato e dalla cosiddetta globalizzazione. Denunciamo anzi come, mentre la borghesia trama insistentemente una sua politica transnazionale, il proletariato tenda ad essere risucchiato su rivendicazioni particolari, locali, difensive in senso deteriore. Se soltanto misuriamo l’abisso tra l’effettivo collegamento dei proletari nei primi decenni del ‘900 con l’attuale disfacimento d’ogni effettiva solidarietà proletaria, allora sì abbiamo la prova della difficoltà in cui si trova il movimento operaio oggi. Se i proletari non potevano aver patria nell’800, come si pretende che la possano avere oggi, di fronte alle migrazioni selvagge determinate dal mercato globale?

Dunque nessun sentimento di patria, nessuna nuova Italia da salvare, ma necessità di adeguare con la lotta la difesa e la riorganizzazione operaia. Ciò è tanto più necessario quanto più lo Stato borghese, non solo italiano, mentre mantiene e rafforza il suo unitario apparato di forza, si atteggia a voler allentare il suo esasperato centralismo, in nome d’una “amministrazione” più vicina alla “gente”, attraverso cosmesi federalistiche, che mai mettono a repentaglio la centrale macchina violenta, la sua capacità di mobilitarsi per ogni repressione possibile.

Non ci impressionano queste velleità, se non altro per la ragione che già al suo costituirsi lo Stato italiano tentò di darsi un assetto federalistico, che Cavour chiamò “discentramento”, presto fallito a causa del brigantaggio meridionale (lèggi necessità di reprimere il contadiname povero spinto alla lotta dalle sue condizioni di vita prima ancora che dall’istigazione sanfedista), e dai primi moti del proletariato del nord, a mano a mano che si andava costituendo l’industria moderna. I contadini poveri furono repressi dallo Stato sotto la mano feroce del garibaldino Bixio, mentre i lavoratori dell’industria già cominciavano a sperimentare di che pasta fossero i democratici ed i radicali, certamente non da meno della Destra storica nel sostenere la borghese classe dominante.

Allora com’è possibile che i proletari d’oggi non vedano che la borghesia, mentre, cerca di esimersi, dietro la presunta lotta delle “regioni ricche”, come la “Padania”, dal foraggiare la macchina statale che scialacqua per mantenere le sue mafie tradizionali, tutto farà meno che rinunciare allo Stato di Roma, anche quando reclama funzioni locali che favoriscano gli interessi borghesi e piccoli borghesi? Federale o centralizzato lo Stato sarà sempre il comitato d’affari della borghesia: questo è il problema che non cambia. Certo, oggi i problemi sono “più complessi ed articolari”, secondo il linguaggio classico dell’opportunismo che si barrica dietro di essi. Non che noi vogliamo negarli, ma per una ragione opposta. I problemi complessi, infatti, non possono essere un alibi per giustificare ogni forma di pressione sul proletariato.

* * *

L’Italia, che a suo tempo fece una gran brigare per portarsi nel “concerto europeo”, oggi fa una discreta fatica per restarci ed essere considerata una “potenza”. Questo non impedisce alla classe al potere, specie in questa fase, di non rinunciare alle sue velleità. In qualche circostanza si trova ad essere esclusa dai summit in cui si prendono le fatidiche decisioni. Puntualmente ci rimane male, e ricorre a mezzucci per essere presa in seria considerazione.

Nel clima delle “nazioni uguali” (attualmente l’ONU ne assomma circa 190!) ci sono quelle che contano e che votano, né più né meno di quanto succede nei parlamenti dei singoli Stati. L’Italia e la sua borghesia tendono a bluffare (per carattere innato?). Ma nel gioco internazionale si tratta di “essere presenti al tavolo dei negoziati”, così la pensava Cavour, così Mussolini, così i governanti dei nostri tempi mediatici.

Nella logica delle entità superstatali è inevitabile che il peso specifico debba essere misurato sulla base complessa della potenza economica, militare, strategica di ciascuno. Su questi altari dei sacrifici chi paga sono gli ultimi, i proletari, svenati come agnelli perché la patria conti, perché sia presente nei teatri di guerra, dove ogni giorno si misura il contenzioso del Capitale a livello internazionale.

In questo inizio millennio la borghesia parla del fenomeno del terrorismo come d’un demone che inevitabilmente si accompagna all’età “postmoderna”, a cui sarebbe necessario far fronte attraverso guerre preventive. In realtà gli strateghi più avveduti, machiavellici non in senso deteriore, riconoscono che questo modo di condurre il confronto corrisponde ad una guerra di “bassa intensità” tra potenti concorrenti: incapaci o restii a scoprire le carte in modo aperto, gli Stati nell’attuale fase imperialistica si punzecchiano e si danneggiano attraverso forme di conflitto subdolo, ma in grado di attrarre nella loro orbita frastagliate forze politiche, la cui funzione è quella di manipolare le classi inferiori, in modo da convincerle a sostenere il gioco del capitale a livello complessivo. Ciò avviene perché la classe operaia è disorganizzata e disorientata, e così si riesce a farla combattere, contro ogni suo interesse, in una trincea che non la riguarda.

Tra questi Stati l’Italia, in anticipo, per la sua relativa debolezza, non è stata capace di sottrarsi a nessuna strage a nessun eccidio, da collocarsi in analoga funzione. Non c’è stato episodio, in questi ultimi decenni, nel quale non si siano ravvisate trame di servizi segreti, italici o in combutta con gli omologhi d’altre nazioni, che hanno cercato di mantenere lo status quo, o almeno determinati equilibri politici di fondo.

* * *

Alla conclusione di quest’excursus si pone una considerazione: chi sono gli italiani, visto che l’Italia dovrebbe ormai essere stata definitivamente fatta, anzi... disfatta? È la domanda che si poneva il D’Azeglio: l’Italia è fatta: ora c’è da fare gli italiani! Buon modo di definire la rivoluzione borghese in Italia, una rivoluzione dall’alto, in ritardo di molti secoli, che produce, ri-produce, la caratteristica ipertrofia delle sue istituzioni statali. Roma caput Mundis sì, ma espressione di una classe borghese infingarda, di terz’ordine, disposta all’accomodamento, su una realtà economica e culturale estremamente frastagliata, segnata da un imperativo: galleggiare.

Oggi le Patrie sono ridotte a ben poca cosa: non più un dato territorio in cui vivere, ma soltanto “una patria intesa come adesione a una comunità sopranazionale di valori sui quali incombe la pressione del terrorismo” (Corriere della Sera, editoriale di Stefano Folli, 13 novembre 2003). Se non ci fosse “il terrorismo” più non ci sarebbero le Patrie? Ecco il salto di qualità: l’Italia ora fa parte d’una realtà sopranazionale, che, pur vantando un vago e contestato “patrimonio di valori”, in realtà è un intreccio di interessi a livello globale che comporta la partecipazione ad azioni di guerra, in modo da essere ammessi alla divisione degli utili.

L’Italia ed i suoi dirigenti da sempre dicono una cosa e ne fanno un’altra, proprio come uno dei suoi eroi, Mussolini: “Mussolini diceva una cosa e ne faceva un’altra, secondo il vento del momento, che lui non creava, ma vi si accomodava, da buon italiano” (Indro Montanelli rievoca il suo incontro col Duce nel 1932). E la borghesia italica che fa oggi, se non accomodarsi, o tentare di farlo, nelle nicchie create dagli USA, la NATO, o altri che al momento decidono dove portare il cavallo? È il suo modo di intendere la politica nazionale ed internazionale.

Per questo siamo tanto ostili all’opportunismo, perché a questa scuola purtroppo si abbevera lo stesso proletariato, allorché manca dell’influenza del suo partito politico! La Sinistra, che aveva buona nozione di questo clima, imparò presto quella “intransigenza”, che dovette ricordare allo stesso Lenin. L’esperienza del clima opportunistico, che non era solo italico – questo è vero – ma particolarmente italico (si pensi al voltafaccia del futuro Duce), c’insegnò ad essere netti nelle posizioni, sicuri che la malattia non era tanto facilmente circoscrivibile. Infatti ne avemmo prova dal corso del primo dopoguerra e fino ai nostri giorni, durante i quali abbiamo assistito alle contorsioni le più rivoltanti.

I fautori del tatticismo a tutti i costi di allora hanno avuto eredi che oggi fanno esplicita professione di patriottismo, giustificano la “guerra umanitaria”, che è sempre antiproletaria, e presto saranno pronti a far propria la nozione di guerra preventiva contro la classe operaia, di cui sono espliciti fautori nella pratica fin da ora.

Lo spirito italiano bigotto e machiavellico ha fatto i suoi proseliti, ha forgiato generazioni di opportunisti, convinti di essere più furbi di noi, più astuti della “volpe” Machiavelli, ma purtroppo niente affatto “lioni”, anzi, conigli a tutta prova.

Questa rapida ricognizione una lezione potrebbe darla. Non accodiamoci né accomodiamoci in nessuna nicchia, anche in quelle che potrebbero sembrare “rivoluzionarie”. Stiamo con la tradizione classica. Dopo che abbiamo visto crollare i miti sui quali gli opportunisti avevano giurato, assisteremo al sicuro crollo di quelli che vengono proposti attualmente: la sicurezza nella democrazia, lo Stato mondiale fondato sulla solidarietà e la libertà, finché si scateneranno ancora le iene dell’imperialismo sempre più aggressive a causa della fine che loro incombe sul capo.

(Fine del rapporto - Indice dei capitoli)