Partito Comunista Internazionale
Il Partito Comunista N. 426 - gennaio-febbraio 2024

anno LI - [Pdf]

Indice dei numeri

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Aggiornato al 16 gennaio 2024

organo del partito comunista internazionale
DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: – la linea da Marx a Lenin, alla fondazione della III Internazionale, a Livorno 1921, nascita del Partito Comunista d’Italia, alla lotta della Sinistra Comunista Italiana contro la degenerazione di Mosca, al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani – la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario, a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco
PAGINA 1 Il proletariato di Gaza stritolato nella guerra fra gli imperialismi mondiali
Bangladesh - Crescono le fabbriche - Montano i contrasti tra predoni borghesi - Divampa la lotta di classe: L’ascesa dell’economia - Il fertile (per il capitale) settore tessile e la condizione operaia - Lo sciopero dei tessili - Lo scontro tra arnesi della classe dominante - Il proletariato bengalese contro Stato e democrazia
Venezuela-Guyana: Rigettare gli appelli dei partiti borghesi per la contesa sul Territorio Esequibo
PAGINA 2 – Il proletariato è la sola forza che può fermare la guerra borghese - L’appello del partito comunista ai proletari: Rompere il fronte interno!: 17 novembre, Un manifesto del partito – 24 novembre - Un testo distribuito a Genova
Per il sindacato di classe Lotte e organizzazione sindacale di classe in Italia: Premessa, rottura dell’effimera unità d’azione “dall’alto” del sindacalismo di base - Lo sciopero “generale” del 26 maggio dell’Usb - Lo sciopero “generale” del 20 ottobre e il sindacato-partito della dirigenza del SI Cobas - Lo sciopero “generale” Cgil-Uil - Lo sciopero nazionale del pubblico impiego dell’Usb - La “solidarietà con il popolo palestinese” - 24 novembre, sciopero del sindacalismo di base nell’igiene ambientale - Precettazioni e leggi antisciopero - I ferrovieri dopo l’incidente di Thurio - Sciopero dei lavoratori del commercio e del turismo - Vittoria delle cameriere all’Hotel Savoia di Genova
Venerdì 24 novembre: Sulla strada per la rinascita del Sindacato di Classe
Gaza: Per il disfattismo proletario su entrambi i fronti delle guerre borghesi - Per l’affratellamento internazionale dei lavoratori
PAGINA 5 Sciopero nelle scuole di Portland (Oregon-Usa) - Mentre la borghesia manda in rovina il suo sistema educativo gli insegnanti lottano per il salario e le condizioni di lavoro: Gli insegnanti hanno bisogno di uno sciopero generale - Crisi economica, crisi della scuola e sciopero dei lavoratori dell’istruzione - La scuola, lo Stato, il Capitale - Chi finanzia la scuola - Come un’azienda - Il mito di una educazione “imparziale” - Uno sciopero per l’intera classe operaia!
PAGINA 6 Riunione internazionale - 29 settembre - 1 ottobre [R.G.147] - Risplende la dottrina rivoluzionaria della classe operaia sul fallimento storico del capitale e unico riscatto dal riemergere dei mostri del crollo economico e della guerra: Per la storia del Partito Comunista Internazionale - L’attività sindacale del partito in Italia - Questione militare, La guerra civile in Russia, Le tre battaglie per Caricyn - Corso dell’economia, Un quadro generale
PAGINA 7 Nostri lutti
  – Mauro - Il saluto dei compagni di Torino
  – Gianni Casertano
  – Mamma Ginevra



PAGINA 1


Il proletariato di Gaza stritolato nella guerra fra gli imperialismi mondiali

L’ennesimo capitolo della guerra in Medio Oriente vede il concentrarsi nella Striscia di Gaza del grosso delle operazioni militari. Intensi bombardamenti si abbattono su centri abitati già ridotti in macerie e in scontri furibondi di terra che oppongono le milizie di Hamas e delle formazioni minori della cosiddetta “resistenza palestinese” alle forze armate di Israele.

Le vittime da parte palestinese dei bombardamenti si contano ormai in decine di migliaia e quando ci accingiamo a mandare in stampa questo numero del nostro giornale le autorità di Gaza riferiscono di 24.000 morti accertati dei bombardamenti e degli scontri, cui si aggiungono alcune migliaia di dispersi i cui corpi senza vita giacciono sotto le macerie.

Questi sono gli atroci costi di una guerra asimmetrica, caratterizzata da una notevole disparità di armi e di mezzi a disposizione dei due fronti.

Ma i combattimenti di terra non sono a costo zero neanche per l’esercito israeliano, il quale ha perso oltre 180 soldati a Gaza, che, sommati alle vittime dell’attacco del 7 ottobre 2023 condotto in profondità all’interno del territorio di Israele, assommano a 1.400 morti, di cui 500 militari e 900 civili.

Questa macabra contabilità conferma le nostre prime valutazioni di questa spaventosa ondata di violenza: si tratta non di una guerra di popolo ma fra Stati borghesi. Tale aspetto non viene in nulla mitigato dalla disparità delle perdite nei due campi e dal carattere asimmetrico del conflitto. Lo prova il fatto che entrambe le parti, prese da un cieco furore nazionalistico, abbiano dichiarato sin dall’inizio di volere annientare il nemico. Sin dall’inizio la modalità con cui sono state condotte le operazioni belliche e l’ulteriore sviluppo del conflitto l’hanno confermato: come Hamas non ha risparmiato civili israeliani e lavoratori immigrati nel suo feroce e inaspettato attacco del 7 ottobre, parimenti la furia dell’aviazione israeliana non ha fatto distinzione fra miliziani di Hamas e civili palestinesi inermi. A benedire questa nefasta assimilazione di tutta la popolazione civile alle milizie di Hamas sono giunte le parole del presidente di Israele Herzog il quale a metà ottobre ha dichiarato «Un’intera nazione è responsabile; la retorica sui civili non consapevoli e non coinvolti è assolutamente falsa».

In questa guerra, per quanto siano assai squilibrati i rapporti di forza a favore dello Stato di Israele, c’è un elemento che rende assai simili i due schieramenti nelle modalità con cui viene condotta la lotta: la mancanza di qualsiasi scrupolo nel massacrare un altissimo numero di civili. Appare infatti sempre più evidente che gli ordini impartiti agli uomini in armi di entrambi gli schieramenti siano proprio quelli di mietere il numero più alto di vittime civili nel campo avversario, esacerbando il sentimento nazionalista, gli impulsi bellicisti e il desiderio di vendetta.

Questo avviene anche se gli obiettivi di medio termine dei due schieramenti si differenziano in rapporto alla disparità di forze a disposizione, un aspetto che la propaganda di entrambi i fronti utilizza per mistificare l’autentico carattere sterminatore della guerra in corso. La direzione borghese della “resistenza palestinese” insiste nel proporre una inesistente lotta di liberazione nazionale, ma se così fosse non avrebbe esposto con simile cinismo la popolazione di Gaza alla spaventosa vendetta di Israele.

Inoltre la lotta contro l’odiosa oppressione nazionale imposta ai palestinesi avrebbe potuto conquistare consensi anche fra gli israeliani, in primo luogo fra la classe lavoratrice, se non si fosse posta sul piano del massacro dei civili, in ottemperanza al deliberato programma di uccidere gli ebrei ovunque si trovino, portato avanti dall’oscurantista Hamas.

Da parte sua l’attuale governo israeliano nutre una concezione confessionale dello “Stato ebraico”, che apparterrebbe agli ebrei e non a tutti i suoi cittadini. La borghesia israeliana tenta di utilizzare l’antisemitismo radicato nei paesi musulmani da circa un secolo di propaganda nazionalista, prima panarabista e poi panislamista, al fine di serrare le file del fronte interno. Così, se riesce a convincere la popolazione di Israele che in Medio Oriente e nel mondo, al di fuori dei confini del loro piccolo ghetto, tutti vogliono gli ebrei morti, anche i lavoratori israeliani cercheranno un’istintiva protezione nella forza militare della “propria” nazione e del “proprio” Stato. In questo il governo di Netanyahu sa usare con sapienza l’incubo, in verità non del tutto privo di fondamento, che lo Stato di Israele possa vedere messa in discussione la propria sopravvivenza.

La direzione borghese di Hamas è ospitata nel Qatar, una monarchia la cui ricchezza si regge sulla rendita mineraria del gas e del petrolio e che, a compimento del quadro generale di putrefazione capitalistica, ospita sul suo territorio il più potente dispositivo militare statunitense in Medio Oriente. Questo avviene nonostante gli Stati Uniti abbiano dichiarato Hamas “organizzazione terroristica” da parecchi anni.

Il governo di Israele non sembra escludere che lo sbocco delle operazioni militari in corso possa essere costringere almeno una parte della popolazione palestinese a lasciare la Striscia, resa inabitabile.

Se oggi circa il 90% della popolazione della Striscia di Gaza ha lasciato la casa e vaga sotto le bombe alla ricerca di un riparo, se oltre l’1% degli abitanti dell’area ha già trovato la morte negli eventi bellici, se parecchie decine di migliaia di feriti non possono ricevere un’adeguata assistenza sanitaria, mentre il resto della popolazione è costretta alla fame e alla sete, priva di un tetto sotto il quale affrontare l’inverno, appare evidente come quella che le le istituzioni del regime capitalistico etichettano "catastrofe umanitaria", imporrà decisioni drastiche fra le quali non si può escludere l’evacuazione di gran parte della popolazione dalla Striscia.

Ormai anche il segretario generale dell’Onu afferma che una carestia incombe su Gaza e che la striscia è diventata inabitabile. Tutte affermazioni queste che potrebbero preparare il terreno a una “operazione umanitaria” volta a celare la realtà della pulizia etnica. Difficile supporre che un tale esito non fosse sin dall’inizio nei voti dei governanti di Israele quando fra gli esponenti del governo di quello Stato ci fu chi giunse a sostenere che si dovesse letteralmente “distruggere Gaza” dimora prediletta del “male assoluto”. La promessa del “Delenda Chartago” è stata mantenuta.

Ma le operazioni militari condotte dalle forze di Israele non si limitano a Gaza. Anche in Cisgiordania Tsahal compie azioni di polizia volte a terrorizzare, ostentando disprezzo per quella popolazione sottomessa con atteggiamenti delle truppe d’occupazione divenuti da tempo abituali. In Cisgiordania dal 7 ottobre sono oltre 300 i palestinesi uccisi durante i rastrellamenti e nei raid aerei compiuti da Tsahal e nelle sparatorie ingaggiate dai coloni israeliani. Altri 200 sono le vittime palestinesi dei mesi precedenti del 2023.

Nel campo avverso, dopo l’invasione di terra israeliana appare più difficile da parte di Hamas e dei suoi satelliti politici colpire all’interno del territorio israeliano e seminare morte e distruzione fra la popolazione civile. I missili Qassam decollano sempre più rari dalla Striscia. Eppure permane il senso di paura fra la popolazione israeliana e in centinaia di migliaia sono gli sfollati nelle zone vicine alla Striscia e ai confini del Libano.

Il premier israeliano Netanyahu, dopo le schermaglie al confine con il Libano e i lanci di missili da parte delle milizie degli Hezbollah, ha minacciato di impartire una dura lezione a quelle milizie sciite e di ripetere a Beirut quanto fatto a Gaza. In un attacco aereo israeliano condotto in un sobborgo di Beirut il 2 gennaio è stato ucciso il capo militare di Hamas, Saleh al-Arouri, insieme ad altri esponenti del suo partito. Il governo israeliano aveva infatti proclamato sin dall’inizio della guerra che tutti i capi militari di Hamas dovevano considerarsi “uomini morti”.

Questo attacco è una sfida agli Hezbollah, la milizia libanese organicamente legata all’Iran, e nel conflitto in corso tiepido alleato di Hamas. L’8 gennaio un nuovo messaggio è stato rivolto apertamente agli Hezbollah con l’uccisione per mezzo di un drone israeliano di Jawwad al-Tawil, il comandante delle milizie d’élite degli Hezbollah, dimostrando con questo la disponibilità di Israele ad aprire un nuovo fronte con il Libano.

Per mezzo degli Hezbollah e delle milizie filoiraniane dislocate in Siria, è stato osservato, è come se l’Iran confinasse con Israele, ma non Israele con l’Iran, un fatto che pone il regime di Teheran in condizioni di superiorità strategica rispetto alla “Entità sionista”, così definito lo Stato d’Israele dai media dell’oscurantismo iraniano (e dagli italici campisti, divenuti per l’occasione partigiani dell’Islam politico).

Questo spiega la pressione militare sulla Siria, con centinaia di incursioni aeree israeliane che prendono di mira le milizie filoiraniane, ma anche le installazioni militari delle forze armate siriane.

Per altro la Russia non ha mai cercato di difendere lo spazio aereo dello Stato siriano, da sempre suo alleato di ferro nella regione mediorientale. La Russia doveva offrire qualcosa in termini di “sicurezza” a Israele, col quale mantiene buoni rapporti commerciali. Per contro il governo israeliano non ha mai adottato le sanzioni economiche contro Mosca per l’invasione dell’Ucraina. Tale intesa, già in ombra ma da circa un decennio affiorata alla luce del sole, consente a Israele di spingere le provocazioni nei confronti dell’Iran, come quando a fine dicembre ha ucciso con un raid aereo Seyyed Reza Mousavi, il maggiore responsabile dei pasdaran iraniani in Siria. Il fatto che il luogo dell’eliminazione di Mousavi sia stato la città di Sayyidah Zainab, meta del pellegrinaggio sciita non lontana di Damasco, implica un doppio segnale minaccioso all’Iran.

Nella rivalità fra Israele e l’Iran si inserisce il versante del Mar Rosso, in cui gli Houthi, sciiti yemeniti alleati dell’Iran, sono venuti a minacciare il traffico navale in una della arterie del commercio mondiale.

Ad aggravare la minaccia degli attacchi missilistici e degli arrembaggi degli Houthi è la nuova intesa, a perfezionamento dell’accordo raggiunto a Pechino nel marzo scorso, fra i governi di Teheran e di Riad. L’Arabia Saudita, rivale dei ribelli yemeniti, ha tolto il blocco al porto yemenita di Hudaiyda, controllato dagli Houthi, e non ha aderito alla coalizione internazionale promossa dagli Usa per contrastare le azioni di disturbo nel Mar Rosso. Questi elementi indurrebbero a pensare a una scelta di campo di Riad, ma le cose ormai non sono più così lineari, ogni spostamento di equilibri nel contesto mediorientale sembra destinato a qualche contraccolpo. Se l’attacco del 7 ottobre ha centrato l’obiettivo di impedire nell’immediato il riavvicinamento fra Arabia Saudita e altri Stati arabi e Israele, questo non potrà non generare ulteriori contraccolpi sui fragili equilibri regionali.

Fra queste contraddizioni si inserisce l’azione di coloro che, senza essere partigiani di Israele o degli Stati Uniti, vorrebbero impedire il rafforzamento delle relazioni fra Iran e Arabia Saudita. In questa chiave va visto l’attentato dinamitardo del 3 gennaio nella città iraniana di Kerman mentre si stava celebrando la commemorazione del quarto anniversario della morte del generale dei pasdaran iraniani Qasem Soleimani, ucciso in Iraq durante un’operazione statunitense. L’attentato è stato rivendicato dall’Isis, a conferma della determinazione di una fazione significativa della borghesia mediorientale a contrastare con ogni mezzo la crescita dell’influenza regionale della Repubblica Islamica, che fa di tutto per apparire la grande promotrice della causa della “resistenza palestinese”.

Il gioco della guerra borghese del nostro tempo è quanto di più irrazionale, mostruoso e contorto si possa immaginare. Comprese, fra i suoi “effetti collaterali”, per palestinesi ed ebrei, nuove risolutive “soluzioni finali”.

Dietro il velo della mistificante autorappresentazione che le forze in lotta offrono di se stesse, fra accordi inattesi, svolte repentine e tradimenti, si trova una spiegazione molto semplice: il mondo stregato del capitale porta avanti una guerra permanente di aggressione contro un proletariato ancora assopito e di cui si teme il terribile risveglio, mentre le borghesie rivali si tirano i capelli e allo stesso tempo si tengono per mano per non dissolversi nel vortice della catastrofe generale del modo di produzione capitalistico.







Bangladesh:
Crescono le fabbriche - Montano i contrasti tra predoni borghesi - Divampa la lotta di classe

L’ascesa dell’economia

Il Bangladesh è uno dei capitalismi nazionali a più rapida crescita in Asia meridionale. In forza della sua ascesa industriale dal febbraio 2021 non è più classificato tra i paesi meno sviluppati dalla Commissione ONU per lo sviluppo. Negli ultimi 15 anni ha registrato tassi di crescita superiori al 6%, fatta eccezione per il 2020 in cui ha risentito degli effetti economici della pandemia da coronavirus. Anche allora, al contrario di altri paesi dell’area, la sua economia è rimasta stabile grazie alla solidità della valuta nazionale, e di conseguenza ad un buon tasso di cambio, e a un limitato debito pubblico.

La sostenuta ascesa economica ha fatto sì che l’ex Pakistan orientale diventasse oggetto del desiderio per il rapace capitale internazionale. Ormai da alcuni anni tutti i suoi settori economici sono aperti agli investimenti esteri, interessati in maniera significativa all’informatica, alle infrastrutture e soprattutto all’abbigliamento. Per allettare gli investitori sono state create le cosiddette Zone Economiche Speciali dove la classe dominante bengalese offre convenienti esenzioni fiscali a chi investe in industrie votate all’esportazione.

L’economia del Paese ha un punto di forza nelle esportazioni, nelle quali l’industria tessile rappresenta l’82%. Dopo la pandemia la produzione è cresciuta del 35%. L’ascesa del tessile ha anche tratto vantaggio dalla guerra russo ucraina e dalle sempre più aspre tensioni tra Cina e Usa: marchi occidentali che in precedenza importavano abbigliamento dalla Cina ora si riforniscono in Bangladesh. Inoltre dal 2009 la borghesia bengalese sostiene gli esportatori di abbigliamento con un incentivo in contanti, allo scopo di accrescere le esportazioni verso nuovi mercati, come quello indiano.

Pechino ha da tempo fiutato la “fertilità” di questa terra e oggi molti imprenditori cinesi investono in Bangladesh, grazie a diverse tipologie di incentivi e all’eliminazione del 97% dei dazi di ingresso rispetto a quelli di qualche decennio fa.

Quando, dopo la classificazione a “paese non povero”, la Banca Mondiale ritirò il finanziamento al progetto di un imponente ponte sul fiume Padma, ramo principale del delta del Gange, la borghesia bengalese non ha esitato a chiedere e a ricevere dalla Cina i capitali necessari per completare l’opera. Il capitalismo cinese è oggi il maggiore investitore, superando gli Stati Uniti, nei settori chiave delle infrastrutture stradali, ferroviarie ed energetiche.

Il Bangladesh in pochi decenni è quindi passato dalla condizione di uno Stato praticamente senza peso internazionale, industrialmente arretrato, e in cui la popolazione in povertà sfiorava l’80%, ad uno dei paesi con la più rapida crescita economica e di forte espansione infrastrutturale.

Una crescita che però non si è tradotta in condizioni di vita migliori per il proletariato e gli strati inferiori e non ha ridotto le disuguaglianze sociali. Ha ingrossato invece e ingrassato la classe borghese locale, e ha arricchito gli investitori stranieri che hanno sfruttato la grande massa di bengalesi costretti a vendere la propria forza lavoro a basso prezzo.

Ma l’attuale primo ministro è riuscito a sfruttare questa ricchezza per garantirsi il consenso di alcuni strati della popolazione, grazie anche all’appoggio delle forze armate, dei tribunali, della pubblica amministrazione e di gran parte dei media.


Il fertile (per il capitale) settore tessile e la condizione operaia

Il Bangladesh è il secondo esportatore mondiale, dopo la Cina, di Ready Made Garment (RMG), chiamato anche Fast Fashion – in Italia il Pronto Moda, abbigliamento realizzato attraverso un processo produttivo rapido ed economico –, per un valore di 55 miliardi di dollari nel 2022, con una quota di mercato mondiale che sfiora l’8%. Queste merci vengono esportate principalmente negli Stati Uniti, in Europa, nel Regno Unito e in Canada, fra i committenti troviamo decine di noti marchi internazionali. Nei primi tre trimestri del 2023 i capitalisti bengalesi hanno esportato nell’Unione Europea maglieria per 9 miliardi di dollari, superando per la prima volta la Cina in questo settore.

Oggi si contano oltre 6.000 aziende, in gran parte medie e piccole, in locali spesso fatiscenti, che lavorano in subfornitura per fabbriche più grandi. La classe operaia impiegata nel settore è composta perlopiù da giovani donne, che spesso raggiungono le aree industriali provenendo dalle zone rurali del paese, dove vive ancora oltre il 70% della popolazione. Una recente indagine ha confermato come molti di questi proletari siano ancora esposti a rischi mortali, dovuti alla mancanza di attrezzature e impianti antincendio e a gravi difetti strutturali degli stabilimenti.

In questa triste situazione molti minorenni sono costretti a lavorare, tra cui anche i figli delle lavoratrici del tessile. Si stima che ce ne siano oltre un milione nelle fabbriche bengalesi.

È quindi evidente come, nonostante le ingannevoli rassicurazioni della classe dominante, poco o nulla sia cambiato dopo una delle più grandi stragi di lavoratori della storia del capitalismo, provocata nel complesso di Rana Plaza, avvenuto il 24 aprile 2013, quando a Savar, nella grande area metropolitana di Dacca, in seguito del crollo di quell’edificio di otto piani, in gran parte occupato da aziende tessili, persero la vita 1.134 lavoratori, soprattutto donne. Quando il 23 aprile furono notate delle crepe nell’edificio, i negozi e una banca ai piani inferiori furono chiusi, mentre l’avviso di evacuare l’edificio fu ignorato dai proprietari delle fabbriche tessili, che chiamarono al lavoro le operaie. Il crollo avvenne alle 8,45 del giorno dopo.

Le condizioni di vita e di lavoro divennero ancora più drammatiche durante la pandemia da coronavirus, quando più di un milione di queste lavoratrici furono licenziate in conseguenza del forte calo delle commesse estere, gettandole nella miseria. Anche se poi sono state numerose le riassunzioni, molte operaie per mantenere la famiglia devono far affidamento sugli straordinari (la normale settimana lavorativa è di 48 ore), ricorrendo a prestiti da banche o da strozzini locali. È oramai d’uso che per accrescere le ore di straordinario si consumi il pranzo continuando a lavorare.

I salari  si sono ulteriormente abbassati nell’ultimo anno: la Bangladesh Bank nell’ottobre scorso ha rilevato un’inflazione media mensile su 12 mesi del 9,37%, mentre i generi alimentari hanno registrato un aumento di oltre il 12%. L’inflazione è causata anche dalla volatilità dei prezzi del petrolio conseguenza del conflitto Russia-Ucraina. Ciò ha comportato gravi difficoltà per un vasto numero di bengalesi che non sono riusciti a comprare beni essenziali come carburante e cibo a sufficienza.

Alcuni sindacati da tempo criticano l’attuale metodo di calcolo dei salari chiedendone la revisione con una periodicità annuale. Chiedono anche che il rappresentante dei lavoratori, figura presente nella commissione salariale in ogni azienda, provenga dai sindacati effettivamente rappresentativi e non da quelli nominati dagli industriali e dal governo. Non è raro infatti che il padronato praticamente neghi la libertà di organizzazione, sia attraverso la imposizione di sindacati apertamente aziendali, sia con la violenza fisica contro le organizzazioni di classe che si battono per il miglioramento della condizione operaia. Il democratico governo borghese ha inoltre creato un corpo, la polizia industriale, istituita appositamente per la repressione delle manifestazioni operaie.

È una condizione generale quindi, dei lavoratori e dei sindacati, critica e sotto attacco.

Solo le lotte operaie hanno imposto alla classe dominante delle riforme. Dallo scorso settembre è concesso per legge organizzarsi in sindacati in quelle che vengono chiamate Zone Economiche Speciali, mentre permane il divieto di coalizione in gran parte delle Zone di trasformazione per l’esportazione (Export Processing Zone - Epz) che comprendono la maggioranza delle fabbriche dell’industria tessile.

Tali condizioni, che sono state “caldeggiate” dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca mondiale, permettono al capitale internazionale di eludere l’obbligo di rispettare tutte le leggi nazionali riguardanti il lavoro.


Lo sciopero dei tessili

Dalla fine di ottobre i salariati del tessile del Bangladesh, che sono 4 milioni e mezzo, sono scesi in sciopero chiedendo l’aumento del salario minimo, stabilito dalla legge in 8.000 taka bengalesi, circa 73 dollari, a 23.000 taka, 209 dollari. Un aumento di quasi il 200%. Il salario attuale non permetteva di vivere ed era nettamente inferiore a quello dei fratelli di classe indiani e cinesi, ma anche cambogiani, pachistani, laotiani, thailandesi e vietnamiti. La paga dei lavoratori bengalesi corrisponde a quella dei tessili birmani e in tutto il mondo supera soltanto quella degli etiopi.

Il Bangladesh ha un sistema di revisione quinquennale del salario minimo, diverso per ciascun settore dell’economia. Era il primo dicembre del 2018 quando, dopo la convocazione di una commissione composta da governo, imprenditori e alcuni sindacati, venne fissato l’aumento a 8.000 taka, il 51% in più rispetto al 2013.

Lo sciopero, iniziato a metà ottobre, dapprima in poche fabbriche, si è diffuso rapidamente coinvolgendo gran parte degli operai in diverse aree industriali, in particolar modo attorno alla capitale Dacca (nei distretti di Ashulia, Gazipur e Savar). La Bangladesh Garment Manufacturers and Exporters Association (BGMEA), l’organizzazione padronale del settore, ha presentato la sua proposta di un aumento del 25%, a 10.400 taka (95 dollari).

Il 22 ottobre un corteo ha marciato verso la sede della Commissione per il Salario Minimo, per respingere la proposta e ribadire la richiesta di aumento a 23.000 taka. La manifestazione era stata convocata da alcune decine di federazioni sindacali del settore, di cui 15 riunite nella Garment Workers Alliance. Tra queste la Lega per l’unità dei lavoratori dell’abbigliamento (GSUL), la Federazione dei lavoratori dell’abbigliamento tessile (TGWF), il Centro sindacale dei lavoratori dell’abbigliamento e maglifici del Bangladesh (GWTUC), la Green Bangla Garments Workers Federation (GBGWF) e la Federazione dell’abbigliamento e dei lavoratori industriali del Bangladesh (BGSSF).

Decine di migliaia di lavoratori, per diversi giorni, hanno formato picchetti davanti alle fabbriche e hanno bloccato le principali arterie scontrandosi con le forze di polizia. Centinaia di fabbriche del settore sono rimaste chiuse, alcune sono state saccheggiate, altre incendiate.

Le forze dell’ordine hanno fatto ampio ricorso ai gas lacrimogeni e non hanno esitato a sparare sugli operai in sciopero proiettili di gomma, e non solo, uccidendo almeno tre manifestanti e ferendone diverse decine, di cui parecchi gravemente.

Nel tentativo di soffocare le proteste, nelle zone più calde sono stati organizzati pattugliamenti del Battaglione d’azione rapida (RAB) e della Guardia di frontiera (BGB, paramilitari noti per la loro brutalità), congiuntamente alla polizia industriale e a quella locale. Per giorni uno stato di guerra civile si è perpetuato in varie zone della capitale, dove ai tessili si sono uniti operai di altri settori e disoccupati. Sull’autostrada Dhaka-Mymensingh i manifestanti hanno risposto col lancio di mattoni ai proiettili dei 3.000 agenti di polizia intervenuti per disperderli.

Il 7 novembre il Comitato statale del salario minimo ha comunicato l’importo dell’aumento: il 56%, 12.500 taka (114 dollari), nuovo salario minimo nell’industria tessile. È inoltre previsto un incremento annuo del 5%. La premier Sheikh Hasina molto democraticamente ha esortato i lavoratori ad accettare l’aumento dal governo, oppure “tornatevene ai vostri villaggi”!

In un primo momento la maggioranza delle organizzazioni sindacali ha giudicato l’aumento irrisorio e l’ha rigettato. Lo sciopero è proseguito ancora per un po’. Ma il fronte sindacale ha cominciato a incrinarsi e in pochi giorni gli operai sono tornati al lavoro smobilitando i blocchi e i picchetti.

A sciopero concluso si contano oltre 200 scioperanti arrestati, tra cui diversi esponenti sindacali, più di diecimila denunce per blocco stradale, picchetti e resistenza.

Tre sigle sindacali – la Bangladesh Garments and Industrial Workers Federation, il National Garment Workers Federation e la Bangladesh Garments Workers Unity Council – affermano che tra i 2.000 e i 4.000 lavoratori sono stati licenziati o si sono dati alla macchia per evitare gli arresti.


Lo scontro tra arnesi della classe dominante

Il Bangladesh è da tempo teatro di un’aspra lotta tra le fazioni borghesi al governo e quelle all’opposizione. Uno scontro che nel corso degli ultimi anni si è inasprito, ma che è stato utilizzato da tutto il fronte borghese per indebolire il movimento di classe in atto.

Del principale partito di opposizione, il BNP, centinaia i militanti e dirigenti sono stati arrestati, tra cui Mirza Fakhrul Islam Alamgir, segretario generale del partito. Khaleda Zia, principale rivale della premier Sheikh Hasina e dirigente del BNP, è agli arresti domiciliari accusata di corruzione. Questi dirigenti borghesi in lotta per il potere sono espressione di due dinastie politiche della classe dominante bengalese che si sono contese il potere con sanguinose efferatezze. Il padre di Hasina, era Sheikh Mujibur Rahman, fondatore della Lega Awami, il partito al governo, primo Presidente del Paese dopo la scissione con il Pakistan e considerato “padre della nazione”. Fu assassinato nel 1975 assieme a sua moglie e ai figli in un colpo di Stato che portò al potere il generale Ziaur Rahman. Hasina si salvò dall’eccidio perché si trovava all’estero, nella Germania Ovest. Anche Ziaur fu assassinato, nel 1981, in un colpo di Stato dell’esercito. La sua vedova è proprio Khaleda Zia, ex primo ministro dal 1991 al 1996 e dall’ottobre 2001 all’ottobre 2006, e attuale capo del Partito Nazionalista del Bangladesh dopo l’uccisione del marito. Hasina nel corso degli anni ha dimostrato di saper ben rispondere al capitale nazionale e internazionale. Ha proposto importanti riforme utili alla borghesia locale per attrarre investimenti stranieri.

Se lo scontro tra predoni borghesi per la conquista del potere può essere anche violento ciò non toglie che il nemico principale della borghesia bengalese, e mondiale, sia sempre il proletariato internazionale, che in Bangladesh si è dimostrato capace di una tenace lotta per la difesa del salario.

Non è un caso se il BNP ha proclamato due giorni di blocchi stradali e sue manifestazioni contro il governo per le giornate dell’8 e del 9 novembre, proprio dopo che l’esecutivo aveva decretato il nuovo salario minimo e gran parte delle organizzazioni sindacali lo avevano rigettato. Manifestazioni queste partecipate anche da lavoratori, ingenuamente così schierati per uno dei fronti borghesi, indebolendo il loro fronte di classe. Occorreva ai borghesi disunire il fronte proletario e spostare la sua attenzione e le richieste dai temi e dagli obiettivi di classe – salario, orario, condizioni di vita e di lavoro – al restauro della perduta democrazia. Il fuoco della lotta proletaria è stato spento con bastonate, gas, proiettili e con l’acqua della politica interclassista dell’elettoralismo e della democrazia.

Il presidente della Bangladesh Sramik Federation (Federazione dei lavoratori bengalesi) ha esplicitamente denunciato come il partito d’opposizione abbia cavalcato demagogicamente lo sciopero dei lavoratori tessili. Dichiarazione certamente veritiera. Peccato provenga da uno dei fronti borghesi, da una federazione strettamente controllata dal partito al governo.

Il Partito Nazionalista del Bangladesh e i suoi alleati hanno ripetutamente chiesto al premier Hasina, capo del governo ininterrottamente dal 2009, di dimettersi per consentire a un governo provvisorio di supervisionare le elezioni. Hasina, alla ricerca del suo quarto mandato quinquennale consecutivo, ha escluso la possibilità di un governo provvisorio accusando il BNP di “terrorismo e teppismo”. Il BNP ha deciso di non partecipare alle elezioni, liberando la via alla Lega Awami che si è aggiudicata la maggioranza dei seggi dello Jatiya Sangsad, il Parlamento bengalese.

La situazione è seguita con attenzione anche dalle cancellerie delle potenze imperialistiche: India, Cina, Russia e Stati Uniti hanno grossi interessi da difendere, o da affermare, in Bangladesh.

Se gli Stati Uniti con la loro richiesta di “libere elezioni” cercano di ritagliarsi un ruolo in entrambi gli schieramenti (con risultati non brillanti), Cina e Russia hanno invece protestato contro le interferenze statunitensi negli affari interni del Bangladesh, sostenendo la premier in carica.

L’India, per non contraddire gli Stati Uniti, ha chiesto anch’essa “elezioni democratiche”, ma di fatto sostiene l’attuale governo con il quale negli ultimi anni ha intessuto profittevoli relazioni economiche.

L’attuale crisi interna, in qualsiasi modo venga risolta, non andrà a mutare i legami internazionali del paese. La politica estera è infatti trasversale a entrambi gli schieramenti borghesi, sempre più in affari con la Cina, la Russia, e anche l’India. Lo dimostrano le dichiarazioni del BNP, un partito storicamente anti-indiano, che nel suo programma propone una «visione geopolitica regionale comune con l’India».

Questa duttilità diplomatica di Dacca si misura anche nell’intensificazione delle relazioni con Mosca dopo lo scoppio della guerra in Ucraina. Da allora la Russia ha offerto al Bangladesh petrolio e grano a prezzi ridotti. Inoltre Mosca, attraverso la società statale russa per l’energia nucleare, sta finanziando la costruzione della prima centrale nucleare del paese, che sorgerà a Roppur, nell’occidente del paese. Non a caso per la prima volta in 50 anni alcune navi militari russe hanno fatto tappa nel porto bengalese di Chittagong.

È evidente che, emulando la politica indiana di equidistanza, Dacca prova a dialogare, per il bene del proprio capitalismo, con tutti gli attori in gioco. È un equilibrismo oggi permesso dalle condizioni internazionali che le consentono di oscillare tra Pechino e Washington. Nello stesso giorno in cui sono stati firmati importanti accordi con gli Stati Uniti nel settore della difesa, è stata inaugurata la più grande centrale elettrica finanziata interamente dalla Cina.


Il proletariato bengalese contro Stato e democrazia

Il Bangladesh, con i suoi 170 milioni di abitanti, uno dei più densamente popolati al mondo, potrebbe trovarsi nei prossimi anni al centro della contesa tra le potenze imperialistiche nel contesto dell’Asia.

Al suo interno emergeranno sempre più i contrasti tra le classi, e la coscienza dei compiti del proletariato e dei nemici, che esso dovrà riconoscere e combattere.

Abbiamo più volte descritto la combattività di questa porzione della classe internazionale del lavoro, che ripetutamente ha dovuto lottare contro governi, apparati polizieschi e sindacati collaborazionisti. I compagni potranno rileggere, tra i vari, gli articoli L’ultima preda del capitale multinazionale nel numero 360 e Scendono coraggiosi nelle strade gli operai del tessile in Bangladesh nel numero 393.

L’insufficiente aumento salariale ottenuto, a causa dell’inflazione non porta alcun miglioramento sostanziale, e il malessere operaio sarà costretto a tornare ad esplodere in luminose fiammate di lotta di classe.

Se in occidente il regime del capitale tenta di arginare la sua crisi economica con l’aumento dello sfruttamento, dei licenziamenti e della disoccupazione, politiche simili, ma con conseguenze devastanti, si impongono anche in nazioni come il Bangladesh, dove il capitale trae ancora vantaggio da uno sfruttamento assoluto della forza lavoro. In questi paesi di senza riserve, dove la difesa del salario è condizione di vita o di morte, i proletari saranno costretti a rispondere colpo su colpo agli attacchi dei padroni e dei loro Stati per non sprofondare in insopportabili precarietà e miseria. Già oggi gli avvenimenti descritti mostrano come gli interessi dei proletari siano opposti a quelli di tutte le altre classi.

A Nord come a Sud, a Oriente come a Occidente, la borghesia si avvale di partiti e sindacati di regime che lavorano quotidianamente per trascinare la classe dei salariati sul terreno melmoso della collaborazione patriottica. I mantra ideologici sono sempre gli stessi: da una parte si esortano i lavoratori ad accettare miseri stipendi per il “bene del paese”, che altro non è se non il bene della classe dominante; dall’altra l’opposizione borghese devia la rabbia operaia con la denuncia di una pretesa democrazia violata.

Gli enormi profitti estratti nell’industria tessile del Bengala non sono altro che salario non pagato e questo è possibile grazie alla macchina di oppressione politica e sociale dello Stato borghese, democratica o autoritaria che sia la forma di governo.

Le lotte delle masse di puri proletari dei paesi sulla via dell’infernale sviluppo capitalistico sono destinate a confluire con quelle dei proletari dei paesi a capitalismo senile ricondotti dalla crisi economica del capitalismo alla condizione di senza riserve, in un enorme fiume storico che darà ai proletari di tutti i paesi la forza per collegarsi al partito della rivoluzione mondiale.







Venezuela-Guyana
Rigettare gli appelli dei partiti borghesi per la contesa sul Territorio Esequibo

Il cosiddetto Territorio Esequibo è un’area geografica, comprendente sia terraferma che una porzione di superficie marittima, inclusa fra il confine orientale del Venezuela con la Guyana e il fiume Esequibo, che taglia in due questo paese. Quella terra, che rappresenta più della metà del territorio della Guyana, è da decenni oggetto di una disputa territoriale fra i due Stati borghesi confinanti.

L’Esequibo è ricco di materie prime, innanzitutto petrolio e gas. Le multinazionali del petrolio – prima fra tutte la statunitense Exxon Mobil – negli ultimi anni hanno effettuato operazioni di ricerca di nuovi giacimenti di idrocarburi con fruttuosi risultati, giovandosi dell’avallo del governo della Guyana. Il governo venezuelano ha protestato contro queste operazioni, denunciando l’appoggio militare accordato ad esse dal governo degli Stati Uniti.

I regimi del Venezuela e della Guyana, i quali si paludano entrambi di travestimenti socialisteggianti, nel contendersi questo territorio palesano la loro reale natura: tutta la controversia non è altro che uno scontro fra Stati borghesi, nel quale intervengono le contrapposte potenze imperialistiche mondiali, al fine del controllo delle materie prime e dei mercati. Basti pensare che il Venezuela detiene le maggiori riserve petrolifere accertate al mondo.

La tensione fra i due paesi incominciò a salire quando nel 2015 la Exxon Mobil scoprì in mare un giacimento, oggetto poi di un’annosa disputa territoriale. Il presidente del Venezuela Nicolás Maduro affermò che la Exxon Mobil stava destabilizzando l’area, dato che la multinazionale si era appoggiata sul governo della Guyana per compiere le operazioni di ricerca nell’area contesa fra i due paesi. La Exxon in passato aveva avuto rapporti commerciali col governo venezuelano, ma in conseguenza di questa vicenda le relazioni fra Caracas e la multinazionale si interruppero.

Fra borghesi non ci sono relazioni di amicizia o affinità ideologiche bensì solo di affari e convenienza. Allo sfruttamento delle risorse dell’Esequibo partecipano infatti anche altre imprese socie della PDSVA, la società petrolifera di Stato venezuelana, e le imprese a capitale misto presenti nel paese, prime fra tutte la statunitense Chevron e la compagnia statale cinese CNOOC.

Per questo sono altrettanto ipocrite le accuse rivolte dal governo venezuelano alla Exxon Mobil quanto alla cosiddetta “comunità internazionale” per l’appoggio a questa multinazionale e alla Guyana. Da entrambi i lati in gioco vi sono solo gli interessi delle diverse consorterie capitaliste.

I lavoratori sono solo mano d’opera da sfruttare col salario più basso possibile e carne da cannone da mettere in campo nel caso di un confronto militare.

La questione dell’Esequibo viene utilizzata dal governo borghese venezuelano per ravvivare il nazionalismo e rinsaldare l’unità nazionale, cioè l’unità fra le classi antagoniste, a fronte del logoramento del suo seguito fra le masse proletarie, anche in vista delle elezioni presidenziali del 2024.

A questo scopo il 3 dicembre scorso il governo di Caracas ha indetto un referendum consultivo, con 5 quesiti circa la condotta politica da tenere riguardo la contesa territoriale. I partiti filo-governativi hanno formato un “Coordinamento per la Campagna per la Difesa dell’Esequibo”. Nella stessa direzione hanno marciato i partiti di opposizione, come Azione Democratica, i quali hanno annunciato la formazione di organismi analoghi e, al pari del governo, hanno dato indicazione di partecipare al referendum e di votare a favore dei quesiti posti dal governo. Anche le associazioni padronali hanno sostenuto la linea governativa e così pure gran parte dei sindacati.

L’esito, come prevedibile, è stato plebiscitario con oltre il 90% dei voti favorevoli. Sulla veridicità del risultato c’è assai da dubitare. Ma, nonostante l’esagitata propaganda di tutti gli apparati del regime borghese nelle sue varie articolazioni e l’unità di tutti i suoi partiti politici, ufficialmente si sarebbero recati al voto soltanto 10,5 milioni di elettori, circa il 50% degli aventi diritto, il che evidenzia la sfiducia delle masse proletarie verso la politica borghese e le sue procedure elettorali.

Nell’unità d’intenti fra partiti di governo e di opposizione circa questa disputa territoriale si ravvisa la comune matrice borghese dei due schieramenti politici, nella cui falsa contrapposizione, niente affatto irriducibile, si vuole imbrigliare la classe lavoratrice per impedirle di lottare per i propri interessi immediati e storici.

I lavoratori venezuelani non sono stati certo consultati per decidere del livello dei loro salari, delle loro pensioni, delle condizioni d’impiego, della qualità dell’ambiente di lavoro, e non devono partecipare ad alcuno dei meccanismi elettorali attraverso i quali vengono scelti i loro carnefici nelle fabbriche e avallate le loro politiche.

La promozione del patriottismo, oltre a essere utile per i partiti che cercano di recuperare popolarità, ha altri effetti dannosi per la classe operaia e benefici per lo sfruttamento capitalista. Il nazionalismo unisce, nel fasullo interesse comune della difesa della patria e dell’economia nazionale, gli sfruttati agli sfruttatori, ostacolando perciò la lotta di classe, allontanando i lavoratori dalla lotta per i loro veri interessi immediati (aumento dei salari e delle pensioni, riduzione della durata e dell’intensità del lavoro, salute e sicurezza), ponendo i proletari al servizio degli interessi dei padroni (privati o “di Stato”) fino al punto di farne carne da cannone in una possibile guerra.

Nessuna delle dirigenze e correnti sindacali che hanno chiamato a partecipare al Referendum Consultivo può essere considerata un’autentica forza a difesa dei lavoratori. Sono al contrario traditrici degli interessi immediati della classe operaia. Le forze sindacali autenticamente di classe debbono rigettare qualsiasi appello a sostenere il governo borghese venezuelano in questa disputa territoriale e, se sarà necessario, opporsi all’invio dei lavoratori in divisa e in armi a massacrarsi coi propri fratelli di classe della Guyana, in una guerra fra Stati capitalisti, combattuta per accaparrarsi le ricchezze minerarie.

I lavoratori, tanto in Venezuela come nella Guyana, devono concentrarsi nella lotta per gli aumenti salariali e delle pensioni e per l’affermazione dei loro interessi immediati, battendosi dal basso per la formazione di un Fronte Unico Sindacale di Classe e denunciando come traditori della classe operaia tutti quei dirigenti sindacali che si accodano ai partiti borghesi di governo e d’opposizione accettando i loro appelli alla “difesa dell’Esequibo” per marciare in direzione di una folle e criminale guerra contro la Guyana.






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  Il proletariato è la sola forza che può fermare la guerra borghese
  L’appello del partito comunista ai proletari: rompere il fronte interno!


Un manifesto del partito
  Per il disfattismo proletario su entrambi i fronti delle guerre borghesi
  Per l’affratellamento internazionale dei lavoratori

– 17 novembre

Dall’Ucraina a Gaza – passando per il Nagorno Karabakh e per tutti i focolai di crisi pronti ad accendersi, dai Balcani a Taiwan – il capitalismo promette un’apocalisse di guerra.

Da una parte e dall’altra dei fronti, i regimi politici borghesi – siano essi democratici o autoritari o camuffati dietro le più svariate ideologie, da quelle religiose a quelle falsamente socialiste – incolpano della guerra l’avversario, la sua politica, la sua civiltà: l’autoritarismo russo-cinese, la cultura egemonica statunitense, l’estremismo islamico, il sionismo…

Dietro a questi paraventi ideologici ci sono invece gli interessi economici capitalistici a nascondersi. Quando il bombardamento ideologico non basta, le borghesie non si fanno scrupolo a ricorrere a massacri terroristici per convincere i proletari che c’è un nemico straniero da combattere. La moderna guerra capitalista si distingue da tutte le precedenti per mietere vittime principalmente fra i civili, cioè fra i proletari.

A determinare l’accendersi di sempre più numerosi conflitti e la tendenza verso un terzo conflitto imperialista è la crisi economica mondiale del capitalismo. La sovrapproduzione che affligge i capitalismi senili, cosiddetti occidentali, dalla metà degli anni settanta, ormai si manifesta anche nei non più giovani capitalismi asiatici, a cominciare dalla Cina, i quali per tre decenni hanno tenuto in piedi il capitalismo mondiale.

L’avanzare inesorabile della crisi esaspera la concorrenza fra aziende e Stati capitalistici: la guerra da commerciale diviene militare. Come in pace, aziende e Stati borghesi chiedono ai propri lavoratori sacrifici economici per vincere nella concorrenza economica, in guerra chiedono di sacrificare le loro stesse vite per i pretesi interessi superiori del paese.

La lotta dei lavoratori contro lo sfruttamento, per impedire la concorrenza degli uni contro gli altri a colpi di salari più bassi e condizioni di lavoro peggiori, è il primo passo verso la loro azione congiunta internazionale, e dunque verso l’opposizione alla guerra imperialista cui il capitalismo sta conducendo l’umanità intera.

Solo l’unità internazionale della classe lavoratrice può impedire o fermare la guerra. Ma essa non si basa su vaghi richiami a valori morali, in nome della pace sociale e dei buoni sentimenti, alla maniera delle Chiese o degli appelli ipocriti dei politicanti, bensì sulla necessità di lottare uniti in difesa delle proprie condizioni e della vita stessa contro un nemico che è innanzitutto interno, cioè contro la propria borghesia nazionale e il suo regime politico. Per questo in tutti i paesi le borghesie indicano ai lavoratori un nemico esterno, che sarebbe causa delle loro sofferenze, da combattere.

I proletari palestinesi sono carne da cannone per gli interessi della borghesia palestinese, che da decenni li usa mercanteggiando con parte delle borghesie arabo-mediorientali e con le potenze imperialistiche mondiali che la spalleggiano. Anche i proletari d’Israele sono vittime della loro borghesia, del suo bisogno di costruire un suo spazio vitale capitalistico, sostenuta dall’imperialismo statunitense, e saranno da essa costretti a un conflitto regionale e mondiale, in cui moriranno a decine di migliaia, se non saranno capaci di abbatterla politicamente con la rivoluzione.

Le masse proletarie palestinesi porranno fine alle loro sofferenze non perseguendo l’obiettivo della “Palestina libera” dal “Giordano al mare”, ma con la rivoluzione internazionale dei lavoratori contro tutti i regimi nazionali dell’area: dall’Iran all’Egitto, dall’Iraq al Libano, dalla Siria alla Turchia. Solo una rivoluzione sociale della classe proletaria che faccia piazza pulita dei regimi borghesi e dei loro interessi, potrà permettere la vera convivenza pacifica dei lavoratori oggi divisi per etnie e religioni dalle sanguinarie macchinazioni delle borghesie assassine.


* * *


Un testo distribuito a Genova
– 24 novembre
Proletari di tutti i paesi unitevi!

Dopo il crollo nell’URSS del falso comunismo – con cui dalla seconda metà degli anni ‘20 del Novecento la controrivoluzione staliniana ha mascherato lo sviluppo del capitalismo di Stato russo – e nei paesi satelliti, sottomessi da quell’imperialismo, le borghesie dei cosiddetti paesi Occidentali, alleate e sottomesse all’imperialismo USA, avevano inneggiato al trionfo del capitalismo, che doveva da allora in avanti procedere nel suo pacifico e progressivo sviluppo economico, sociale e politico.

Con questa operazione ideologica, la borghesia internazionale, comprese quella russa e cinese, dovevano perpetuare la menzogna del falso socialismo per privare il proletariato di tutti i paesi d’ogni speranza di superare il capitalismo e approdare a una società senza sfruttamento, classi, miseria, guerre.

Come previsto dall’autentico marxismo, il capitalismo mondiale stava invece procedendo verso una sempre più profonda crisi economica, che avrebbe portato più sfruttamento, più miseria, più guerre.

I conflitti militari sono proseguiti sempre più gravi: Iraq 1990, ex Jugoslavia negli anni ‘90, Afghanistan dal 2001, Iraq nel 2003, Siria dal 2011, Ucraina dal febbraio 2022 e da ultimo il conflitto in corso a Gaza; per citare solo i principali.

In tutti questi conflitti le borghesie di entrambe le parti hanno sempre incolpato quale responsabile della guerra la cultura sociale e politica dell’avversario.

Per le democrazie occidentali i conflitti sarebbero il prodotto di uno scontro fra civiltà, che includerebbe sia il mondo islamico sia l’autoritarismo di regimi – e società – quali quello russo e, dietro di esso, il cinese.

Dalla parte opposta del fronte, le borghesie nazionali propongono una ideologia speculare, solo rovesciata a proprio uso e consumo: le guerre sarebbero conseguenza della cultura egemonica, militarista e prevaricatrice dell’imperialismo dominante, che dopo la seconda guerra mondiale è quello USA. Anche per il cosiddetto anti-americanismo è in corso uno scontro fra civiltà: prodotto dalla civiltà statunitense.

A dare sostegno a queste ideologie falsamente pacifiste del fronte borghese – al momento – più debole, che si scontra con il fronte borghese dominante con a capo gli USA, sono anche i rottami politici del crollo del falso comunismo staliniano, quei partiti la cui falsificazione è giunta tanto in basso dal presentare come alternative al capitalismo paesi quali la Cina, la Corea del Nord e perché no la stessa Russia, né disdegnano di indicare quali alleati regimi come quello siriano, iraniano e movimenti come Hamas.

Tutti i partiti borghesi, da una parte o dall’altra degli schieramenti imperialisti, di destra o di sinistra, operano una cesura fra il mondo politico, coi suoi risultati sul piano militare, e quello dell’economia. Invece la politica non è che un concentrato dell’economia e tutte le guerre sono il prodotto di interessi economici, non di culture, religioni, etnie, ecc.

Le masse proletarie palestinesi sono usate come carne da macello dai regimi borghesi arabi e mediorientali, dalle potenze imperialistiche mondiali che li spalleggiano e dalla stessa borghesia palestinese per i loro interessi economici. L’oppressione nazionale palestinese – un fatto tragico e innegabile – è per essi solo un pretesto. Gli stessi proletari d’Israele sono condotti verso il massacro di una guerra imperialista per gli interessi della loro borghesia e di quella statunitense.

L’economia capitalistica mondiale sprofonda sempre più in quella che è una crisi di sovrapproduzione. I capitalismi senili – cosiddetti Occidentali – sono affetti dalla sovrapproduzione sin dalla metà degli anni ‘70 del secolo scorso. Il capitalismo mondiale ha potuto sopravvivere negli ultimi decenni grazie allo sviluppo capitalistico nell’Asia, in primo luogo in Cina. Ma ormai anche il capitalismo cinese è entrato nella fase della sovrapproduzione, come ammettono gli stessi economisti borghesi. Il risultato è l’approssimarsi di un crollo catastrofico dell’economica capitalistica mondiale.

I conflitti sempre più frequenti e gravi, sempre più vicini ai centri dell’imperialismo mondiale, sono manifestazione dell’approfondirsi della crisi dell’economia capitalistica. Per tutti i gruppi industriali, finanziari e per gli Stati borghesi è sempre più difficile far quadrare i conti. Sono tutti aggrediti dalla crisi che erode i margini di profitto. E diventano tutti aggressori.

La guerra – cioè la massima barbarie – è l’unica soluzione che ha il capitalismo alla sua crisi economica. A far uscire il capitalismo dalla crisi economica degli anni venti e trenta del Novecento non furono le politiche keynesiane di interventismo statale in economia, ma la seconda guerra mondiale, con le sue distruzioni e 60 milioni di vittime, quasi tutte proletari e contadini poveri. La guerra imperialista distrugge le merci in eccesso che impediscono al capitalismo di proseguire la sua folle anti-umana e anti-storica accumulazione capitalistica, che chiamano crescita.

Ma la guerra imperialista non distrugge solo beni, fabbriche, infrastrutture, città. Essa distrugge anche la merce forza lavoro, cioè milioni di proletari inutili ai fini dell’accumulazione del capitale perché licenziati dalla chiusura delle aziende a seguito della crisi o, se ancora occupati, schiacciati da uno sfruttamento portato a livelli sempre più alti.

Tutte le borghesie nazionali e le loro macchine di dominio statali sono minacciate, non dalla crisi economica in sé ma, in ultima istanza, dalla rivolta delle masse proletarie affamate e sfruttate.

Al di sopra delle guerre per interessi economici che le contrappongono, tutte le borghesie nazionali sono cointeressate acché la guerra venga combattuta e che in essa vengano massacrati i proletari a milioni, onde evitare la rivoluzione e così salvare il proprio dominio e i propri privilegi.

La guerra imperialista al di sopra dei fronti è un’unica guerra contro il proletariato mondiale per la conservazione del capitalismo, di questa società di sfruttamento e barbarie. La guerra non è un fatto politico separato dall’economia capitalistica ma è l’inevitabile conseguenza di un modo di produzione fondato sullo sfruttamento dei lavoratori.

La sola forza che può impedire o fermare la guerra è quella della classe lavoratrice. Questa forza inizia a formarsi nella lotta contro lo sfruttamento e porta ad opporsi alla massima forma di oppressione che è la guerra, il sacrificio della stessa vita dei proletari per gli interessi economici della borghesia.

La lotta dei lavoratori contro lo sfruttamento è una lotta anti-nazionale: meno sfruttamento significa salari più alti, orari di lavoro più brevi, ritmi meno intensi. Questo implica meno competitività delle aziende e del capitalismo nazionale. Per questo tutti i partiti borghesi si appellano sempre al bene del paese: frustano la bestia da soma che è il proletariato!

Come i borghesi e i loro governi d’ogni colore chiedono oggi ai lavoratori di lavorare di più per far vincere l’azienda e il paese nella competizione del mercato, così domani imporranno ai lavoratori di andare al massacro della guerra, con un pretesto il più adeguato allo scopo: la democrazia, la minaccia islamica, la risposta a un attentato, a una strage.

La classe lavoratrice è interessata a unirsi per impedire che i lavoratori si facciano concorrenza a colpi di salari bassi e ritmi di lavoro alti fra un’azienda e l’altra, fra un paese e l’altro. I lavoratori devono unirsi oggi al di sopra delle divisioni fra aziende, settori, territori e financo fra paesi per resistere allo sfruttamento, domani per opporsi alla guerra.

Solo l’unità internazionale della classe proletaria può fermare la guerra. Ma questa unità non è un fatto ideale, morale, al pari dei falsi appelli alla pace della chiesa di Roma. L’unità dei lavoratori salariati è l’unità della lotta e inizia dichiarando e praticando la lotta innanzitutto contro la propria borghesia, rigettando gli appelli all’unità nazionale.

Anche in Palestina, è solo l’unità fra proletari palestinesi e israeliani che porrà fine al conflitto. È solo combattendo i partiti borghesi palestinesi che vogliono una Palestina “libera” dal Giordano al mare, con l’implicito massacro di milioni di ebrei israeliani, che i proletari palestinesi possono dare ai proletari israeliani la forza per combattere i partiti della loro borghesia, che li spingono alla guerra contro i palestinesi con la minaccia che essi vogliano la loro distruzione.

Ed è solo con la lotta dei proletari d’Israele contro la loro borghesia, contro la sua politica di segregazione e pulizia etnica anti-palestinese, che i proletari palestinesi possono trovare la forza per combattere i partiti borghesi nazionalisti palestinesi.

Più in generale, in tutta l’area arabo-mediorientale, le borghesie utilizzano il nemico esterno rappresentato dal binomio USA-Israele per deviare contro di esso la rabbia delle masse proletarie, e così salvare il proprio dominio e privilegio. Tutte le borghesie nazionali in tutto il mondo cercano sempre di deviare verso il nemico esterno la rabbia dei lavoratori.

L’oppressione nazionale palestinese avrà fine non con la formazione di uno Stato palestinese ma con la rivoluzione proletaria internazionale e la formazione di una repubblica socialista comprendente sempre più paesi dell’area, in cui a tutte le minoranze, compresa quella ebraica, saranno garantiti tutti i diritti.

Gaza ridotta in macerie non è il risultato dell’odio fra popoli e religioni ma dei più moderni e cinici interessi borghesi. È il futuro che il capitalismo promette a gran parte delle città d’Europa e del mondo.

La prima parola d’ordine del comunismo è sempre la stessa e attuale, moderna, giusta e necessaria: proletari di tutto il mondo unitevi!








Per il sindacato di classe Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale


Lotte e organizzazione sindacale di classe in Italia

Questo autunno il quadro del movimento sindacale in Italia si è un poco animato, riportando a una certa partecipazione alle manifestazioni di piazza e al buon andamento di alcuni scioperi di categoria. Qui diamo una breve rassegna della condotta delle varie organizzazioni, che porta diverse conferme al nostro indirizzo nel movimento sindacale.


Premessa: rottura dell’effimera unità d’azione “dall’alto” del sindacalismo di base

Ricordiamo che le dirigenze nazionali dei sindacati di base avevano rotto la loro unità d’azione, lo scorso 2-3 dicembre 2022, con l’ultimo sciopero generale unitario e la manifestazione romana, in cui tristemente quanto vergognosamente gli spezzoni dei lavoratori dell’Usb e del SI Cobas erano stati divisi, dando vita a due cortei separati.

Come dal nostro Partito previsto, e ripetutamente affermato nei nostri volantini nei mesi precedenti, a causa dell’opportunismo di tali dirigenze quella unità era fragile e revocabile in ogni momento. L’avevamo affermato sin dal primo atto di quella breve stagione unitaria, lo sciopero nazionale nella logistica del 18 giugno 2021: «è da escludere che le attuali dirigenze dei maggiori sindacati di base, che hanno condotto per anni e sino a ieri la lotta politica in campo sindacale col metodo disfattista della divisione delle azioni di sciopero, abbiano abbandonato tale pratica definitivamente».

Affinché l’unità d’azione del sindacalismo conflittuale non sia estemporanea sarebbe stata necessaria, e lo sarà in futuro, una maggiore pressione in tal senso della base degli iscritti e quindi, necessariamente, una loro crescita numerica, nonché una influenza maggiore dell’indirizzo del nostro Partito, cioè l’affermarsi della linea sindacale autenticamente comunista nella inevitabile quanto necessaria lotta politica in seno al movimento sindacale.


Lo sciopero “generale” del 26 maggio dell’Usb

Così il 26 maggio scorso l’Usb ha proclamato, in piena solitudine, uno sciopero generale nazionale. Pur essendo il maggiore sindacato di base in Italia, la sua dimensione organizzata è ancora molto lontana dall’essere adeguata a dispiegare un vero sciopero generale. Ciò a maggior ragione quando tale azione viene decisa senza un legame col contesto sociale e politico generale, calata dall’alto a prescindere dallo stato d’animo dei lavoratori. Infatti lo sciopero era stato proclamato quasi due mesi prima, il 3 aprile.

In ogni caso va precisato che, anche allorquando l’Usb disponesse della forza adeguata a organizzare uno sciopero generale, sarà sempre necessario battersi affinché tutte le organizzazioni sindacali di classe agiscano unite per dispiegare azioni di lotta della massima forza. Lo sciopero generale del 26 maggio, pur convocato con il giusto slogan “Abbasso le armi, alziamo i salari”, non poteva quindi non essere che un’azione velleitaria e ininfluente ai fini della ricostruzione del movimento sindacale.


Lo sciopero “generale” del 20 ottobre e il sindacato-partito della dirigenza del SI Cobas

Tre settimane dopo, il 18 giugno, è toccato a parte degli altri sindacati di base (SI Cobas, Cub, Sgb, Usi e Adl) proclamare un altro sciopero generale separato – senza Usb, Confederazione Cobas e Adl Cobas – per il 20 ottobre, addirittura con 4 mesi di anticipo!

Il 3 agosto, l’Usb ha poi proclamato per il 17 novembre uno sciopero nazionale del pubblico impiego.

Tale condotta opportunista si giudica da sé: a fronte della sempre più grave offensiva del padronato e dei suoi governi contro le condizioni di vita dei lavoratori e le passate conquiste del movimento operaio, della crescente sfiducia dei lavoratori nei sindacati, tale divisione dell’azione rende le iniziativee promosse dal sindacalismo conflittuale ancora più deboli, ancora più incapaci e ininfluenti ai fini di ridestare alla lotta la classe operaia. Una condotta scellerata che perdura da decenni, nonostante l’aggravarsi del contesto generale.

Lo sciopero del 20 ottobre, al pari di quello dell’Usb del 26 maggio, è stato caratterizzato dalla sua debolezza, per essere riuscito peggio degli analoghi dispiegati negli anni passati dagli stessi sindacati.

Nella logistica, la mancata adesione dell’Adl Cobas ha confermato il suo parziale distacco dall’azione comune che aveva sempre avuto col SI Cobas. Ciò ha iniziato a verificarsi da quando la dirigenza di quest’ultimo ha imboccato con decisione – a partire dal 2018 – il sempre ambito “percorso politico”, cioè l’utilizzo del sindacato per funzioni proprie di un partito, come teorizzato dai suoi dirigenti “in supplenza” dell’organismo partitico che, a loro dire, ancora non si sarebbe formato. Il nostro Partito ha sempre combattuto questa deriva opportunista contro cui mettemmo in guardia i lavoratori del SI Cobas sin dal suo primo congresso nel maggio 2015 (“Primo congresso del SI Cobas - L’intervento del nostro compagno - O sindacato o partito”).

Dal 24 febbraio 2018 la dirigenza del SI Cobas ha preso a organizzare manifestazioni nazionali a Roma a carattere politico-partitico il giorno dopo lo sciopero generale, disertando le manifestazioni cittadine organizzate il giorno dello sciopero dagli altri sindacati di base indebolendo anche lo stesso sciopero nei magazzini logistici. Anche in questo caso il Partito criticò subito questa condotta: «Il caratterizzarsi del sindacato in senso partitico non favorisce il suo sviluppo e un rafforzarsi del movimento operaio. Un sindacato non è “ancora più” “di classe” perché si fa portavoce e sostenitore del comunismo rivoluzionario, ma in quanto sa tradurre le posizioni politiche del comunismo rivoluzionario nell’adeguato indirizzo pratico di lotta sindacale. La manifestazione è stata un successo, ma ciò non inficia la validità di quanto affermiamo. Se ad oggi i lavoratori iscritti al SI Cobas dimostrano fiducia in questo sindacato, col tempo questa caratterizzazione in senso partitico genererà inevitabilmente divisioni, disagio, malumori. È un’azione destinata, nella misura in cui si perseveri con essa, a puntellare l’isolamento del sindacato».

L’Adl Cobas aveva sempre aderito agli scioperi generali insieme al SI Cobas e mai alle manifestazioni nazionali romane del giorno dopo. Quest’anno non ha aderito nemmeno allo sciopero, indebolendolo ulteriormente. In linea generale il SI Cobas ha iniziato a indebolirsi, invertendo il rafforzamento che lo aveva contraddistinto dal 2011 al 2017, da quando, per volere della sua dirigenza, ha iniziato a compiere passi concreti in direzione del “sindacato che supplisce all’assenza del partito”. Anche le manifestazioni organizzate a Roma al fine di dare loro una “maggiore caratterizzazione politica”, dopo il successo della prima del febbraio 2018, sono andate declinando in termini di partecipazione.

Ciò è una conferma del fatto che l’ibrido sindacato-partito non funziona: né come sindacato né come partito. Offre all’esterno, e agli stolti dirigenti opportunisti, l’illusione di un movimento politico che abbia un seguito di massa solo perché utilizza la massa degli iscritti, i quali hanno bisogno e vogliono un sindacato, non un partito. Nella misura in cui la dirigenza opportunista procede in questa pratica danneggia il sindacato, e con ciò la base stessa del miraggio di creare “il partito” attraverso questa “furba” scorciatoia.

Ciò non di meno va aggiunto che il SI Cobas continua a condurre importanti lotte operaie – ultimo lo sciopero nazionale nei magazzini Bartolini del 28 dicembre – e che le sue difficoltà sono anche frutto dei duri colpi repressivi portati dal padronato e dalla suo Stato – il Fatto Quotidiano del 22 novembre riportava la denuncia del SI Cobas di quasi 600 iscritti e militanti del sindacato sotto processo in 10 anni nella sola provincia di Modena! – e che l’unità d’azione con l’Adl Cobas non è stata revocata, come conferma il recente sciopero nazionale nei magazzini FedEx del 21 dicembre.


Lo sciopero “generale” Cgil-Uil

Sette giorni dopo – il 27 ottobre – Cgil e Uil hanno proclamato uno sciopero generale, contro la legge di bilancio del governo, a cominciare dal 17 novembre. Si noti: non con quattro mesi di anticipo né due, ma sole tre settimane.

Uno dei motivi, assai ben fondato, della sfiducia dei lavoratori verso il maggior sindacato di regime d’Italia, la Cgil, è che essa negli anni passati ha chiamato alla mobilitazione generale solo quando erano in carica governi di centro-destra, e non governi in cui era presente la sinistra borghese. Andando un po’ a ritroso nel tempo, fu il caso del primo Governo Berlusconi nel 1994, con la riforma delle pensioni, fermata da forti scioperi, ma poi fatta passare dal successivo governo tecnico Dini nel 1995. Più recentemente la clamorosa inazione di fronte alla durissima riforma pensionistica Fornero del governo Monti nel 2012, per la quale lo stesso ex capo del governo si è congratulato esplicitamente con la Cgil.

La dirigenza della Cgil ha in comune con quelle del sindacalismo di base la volontà di deviare il naturale corso del movimento sindacale, subordinandolo a esigenze politiche antiproletarie, filo-borghesi le prime, opportuniste le seconde. Questo dato di fatto ha certo contribuito a frenare i lavoratori dall’aderire allo sciopero. Ma, nonostante ora sia in carica un governo di destra, Cgil e Uil non hanno avuto remore a indebolire ulteriormente la loro mobilitazione, frammentandola per territori e settori: in luogo di uno sciopero generale, hanno dispiegato uno sciopero nazionale articolato.

Ciò conferma che per il sindacalismo di regime rappresenta un problema non  l’assenza di vita interna del sindacato né la scarsa partecipazione agli scioperi, ma una forte partecipazione ad essi. Quando questa si verificasse accelererebbe la verifica empirica dell’impossibilità per i lavoratori combattivi di servirsi della Cgil come organizzazione per difendere i loro interessi, portandoli a organizzarsi “fuori e contro” i sindacati di regime, come già verificatosi ripetutamente dalla metà degli anni’70 a oggi, con gli alti e i bassi tipici della lotta di classe e quindi di quella sindacale.

Cgil e Uil il 17 novembre hanno chiamato allo sciopero nazionale i lavoratori dei trasporti, del pubblico impiego e della igiene ambientale (netturbini); allo sciopero generale solo i lavoratori del centro Italia.

Poi, nelle settimane successive si è svolto lo sciopero generale: il 20 novembre in Sicilia; il 24 novembre nel Nord Italia; il 27 novembre in Sardegna; il 1° dicembre nel resto del Meridione.

Nonostante tutto ciò le manifestazioni hanno registrato una inversione di tendenza, soprattutto per quanto riguarda la giornata del 17 novembre, con un ritorno alla partecipazione di più larghe masse di lavoratori, dopo che negli ultimi anni le analoghe mobilitazioni della Cgil avevano registrato i numeri più bassi di sempre.

In parte ha aiutato la riuscita delle manifestazioni di Cgil e Uil l’intervento del Ministro dei trasporti Salvini, che con gran rilievo mediatico ha prima minacciato poi precettato lo sciopero del 17 novembre. Dalla base della Cgil, e non solo, questo atto è stato visto – giustamente – come un attacco alla libertà di sciopero. Per alcuni giorni la questione della precettazione ha occupato le prime pagine dei principali quotidiani nazionali, per poi scomparire il giorno dopo lo sciopero del 17 novembre.

Però, quando Salvini ha precettato lo sciopero nazionale degli autoferrotranvieri, proclamato unitariamente dai sindacati di base per il 27 novembre, e per questo rinviato dagli stessi al 15 dicembre, e di nuovo precettato, il segretario generale della Cgil Maurizio Landini non ha speso mezza parola a difesa non diciamo dei sindacati di base, ma della libertà di scioperare.

Su questa questione abbiamo scritto nel numero scorso e ad esso rimandiamo (“La libertà di sciopero e il teatrino dei servitori del regime borghese”).


Lo sciopero nazionale del pubblico impiego dell’Usb

Come scritto sopra, dal 3 agosto l’Usb aveva proclamato per il 17 novembre lo sciopero del pubblico impiego e da settembre aveva stabilito di organizzare una manifestazione nazionale a Roma. Il sopraggiungere della mobilitazione di Cgil e Uil, che per lo stesso giorno proclamavano lo sciopero nazionale del pubblico impiego, dei trasporti e dell’igiene ambientale, nonché lo sciopero generale per il Centro Italia, è venuto a rompere le uova nel paniere alla dirigenza dell’Usb. Questo perché essa è solita dare una eccessiva importanza alla risonanza mediatica delle sue mobilitazioni, una delle ragioni per cui predilige organizzarle separatamente dalle altre organizzazioni sindacali. Lo sciopero di Cgil e Uil veniva a “coprire”, a nascondere mediaticamente quello dell’Usb. La sua dirigenza anche in questo frangente ha dato dimostrazione di non considerare il reale contesto sociale, sindacale e politico, mantenendo inalterato il programma della mobilitazione stabilito mesi prima.

La manifestazione a Roma per lo sciopero del pubblico impiego, considerate le dimensioni organizzative di Usb, è andata abbastanza bene, meglio di analoghe iniziative precedenti, tant’è che, a differenza del passato, dopo aver riempito la piazza a lato di Palazzo Vidoni, dove si è svolta una riuscita assemblea, circa 500 lavoratori hanno sfilato per un breve corteo. Ma poco distante contemporaneamente sfilava il corteo di Cgil e Uil con circa 10 mila partecipanti. Non si tratta di mettere a confronto i meri numeri bensì di evidenziare il mancato tentativo di relazionarsi da parte della dirigenza dell’Usb, non con le dirigenze dei sindacati di regime, ma coi lavoratori che ancora seguono le loro mobilitazioni.

A fronte della situazione venutasi a creare – da un lato con la proclamazione dello sciopero generale disarticolato da parte di Cgil e Uil, per la terza volta consecutiva disertato dalla Cisl, dall’altro con la precettazione del Ministro Salvini – la dirigenza Usb avrebbe dovuto rivedere la programmata mobilitazione. Avrebbe potuto, questa volta cogliendo il contesto adatto – non certo quello del 26 maggio e di tante altre analoghe situazioni – estendere lo sciopero nazionale del pubblico impiego a tutta la classe lavoratrice, cioè proclamare lo sciopero generale. In questo modo, avrebbe creato un bel problema a Cgil e Uil perché avrebbe avuto la possibilità di attirare nello sciopero molti lavoratori del Nord e del Sud Italia, confusi dalla divisione territoriale e settoriale dello sciopero operata dai due sindacati di regime. In secondo luogo, l’Usb avrebbe dovuto organizzare manifestazioni locali, quanto meno regionali, giacché molti iscritti Usb, non potendo recarsi alla manifestazione a Roma, di fronte all’attacco alla libertà di sciopero da parte del governo, hanno partecipato nelle proprie città alle manifestazioni di Cgil e Uil. Infine avrebbero dovuto partecipare alle manifestazioni dei sindacati di regime con un proprio spezzone, per collegarsi nelle piazze e nello sciopero coi lavoratori da essi mobilitati. Invece la dirigenza Usb ha agito come se nulla stesse accadendo, lasciando immutati i piani stabiliti a tavolino, con troppo largo anticipo, a freddo.


La “solidarietà con il popolo palestinese”

Lo stesso giorno, il 17 novembre, oltre a Cgil, Uil e Usb, anche il SI Cobas ha proclamato uno sciopero nazionale di 4 ore per il solo settore privato, diviso dai due – a loro volta separati – di cui abbiamo riferito, e con un diverso obiettivo: esprimere la “solidarietà al popolo palestinese”.

A scanso di equivoci, non si trattava di una manifestazione né di antimilitarismo né di internazionalismo proletari. Da un lato non veniva espressa la benché minima solidarietà ai proletari israeliani, nonché ai molti braccianti immigrati, vittime della incursione delle milizie dei partiti borghesi palestinesi, del 7 ottobre, e della guerra successiva della borghesia israeliana. Dall’altro la dirigenza del SI Cobas afferma che si debba sostenere la lotta per una “Palestina libera dal Giordano al mare”, “senza se e senza ma”, il che significa schierarsi con i controrivoluzionari partiti della borghesia palestinese e avere quale obiettivo uno Stato in cui si unificherebbe l’oppressione e il massacro dei proletari palestinesi ed israeliani.

La distruzione non solo dello Stato borghese d’Israele ma di tutti gli Stati borghesi della regione, non meno ferocemente reazionari, sarà possibile solo con la rivoluzione della classe lavoratrice, per la quale occorre un legame ideale, di organizzazione e di lotta fra proletari d’Israele ed arabi. Una via opposta a quella della guerra fra gli Stati borghesi.

Questa, che appare regionale, in realtà è il prodromo di un conflitto mondiale, data la crisi e gli interessi delle grandi potenze nel quadrante mediorientale. Sostenere la lotta per uno Stato palestinese prima della rivoluzione proletaria nella regione significa, nel contesto attuale, accettare che milioni di proletari siano immolati nella guerra imperialista, cioè nel supremo strumento di conservazione del capitalismo!

Questa posizione della dirigenza del SI Cobas, pur maggioritaria nel sindacato, ha suscitato malumori al suo interno, indebolendolo ulteriormente, anche per le sue conseguenze sul piano pratico: negli ultimi due mesi gran parte delle energie dell’organizzazione sono state spese in mobilitazioni filo-palestinesi, di segno oggettivamente bellicista.

Significativamente, mentre sul piano della lotta di classe economica, cioè sindacale, le dirigenze di Usb e SI Cobas hanno diviso le azioni di lotta, si sono invece ritrovate insieme sulla comune posizione nazionalista che asseconda la marcia del capitalismo verso la guerra imperialista sulla pelle dei lavoratori.


24 novembre: sciopero del sindacalismo di base nell’igiene ambientale

Lo sciopero del 17 novembre di Cgil e Uil, come detto, riguardava a livello nazionale il pubblico impiego, i trasporti e l’igiene ambientale. Solo per le regioni del centro Italia si trattava di uno sciopero generale. L’intervento di Salvini, Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, con l’ordinanza di precettazione del 14 novembre, aveva suscitato un gran clamore mediatico, ma nella sostanza non veniva che a ricalcare quanto già deliberato l’8 novembre dalla Commissione di Garanzia sullo sciopero (CGS). Questa aveva indicato a Cgil e Uil di revocare gli scioperi dei lavoratori del trasporto aereo e dell’igiene ambientale, e di ridurre la durata di quelli del trasporto ferroviario a 8 ore, dei tranvieri e dei vigili del fuoco a 4 ore. La precettazione di Salvini non aveva fatto altro che ridurre di ulteriori 4 ore lo sciopero dei ferrovieri.

Per quanto atteneva allo sciopero dei lavoratori dell’igiene ambientale, la CGS ne aveva chiesto la revoca sulla base del cosiddetto principio della “rarefazione oggettiva”, stabilito dalla legge antisciopero 146 del 1990, la quale prevede possa esservi non più di uno sciopero – al massimo di 24 ore - nell’arco di 10-15 giorni (a seconda dei settori).

Siccome precedentemente alla proclamazione dello sciopero da parte di Cgil e Uil, avvenuta il 27 ottobre, vi era stata per l’igiene ambientale la proclamazione di uno sciopero nazionale per il 24 novembre da parte dei sindacati di base Cobas Lavoro Privato, Cub e Adl Cobas, per questo settore la CGS chiedeva la revoca dallo sciopero del 17 novembre.

Lo sciopero nazionale del sindacalismo di base fra i netturbini è stato convocato ponendo al centro la questione dell’igiene, la salute e la sicurezza sul lavoro. Ciò a seguito di tre incidenti mortali e altri gravi, accaduti nell’ultimo periodo a Frascati, Velletri, Roma, Napoli, Cagliari, Anzio, Santa Marinella, Pordenone, Vicenza, Parma, Rieti. Sono sotto accusa: il cosiddetto “mono-operatore”, cioè il netturbino lasciato solo a operare sul mezzo, che si ritrova a dover scendere e salire fra due e trecento volte per turno, a rischio di infortunarsi con mezzi in cui la manutenzione è molto spesso carente; i turni troppo lunghi e i mancati riposi settimanali; gli appalti con contratti collettivi diversi dai due dell’igiene ambientale (che andrebbero unificati), generalmente usando il ccnl multiservizi; il mancato lavaggio industriale delle tute da lavoro contaminate a carico delle aziende.

A questo coordinamento di sindacati di base non ha per ora preso parte l’Usb, che ha iscritti nel settore, ad esempio a Genova e Vicenza.

A Genova e a Roma, nonostante la delibera della CGS, la Cgil il 17 novembre ha chiamato i netturbini allo sciopero; il 24 l’Usb non ha aderito allo sciopero; invece gli iscritti al SI Cobas sono riusciti a far scioperare per l’intera giornata l’officina manutenzione.

Lo sciopero ha avuto adesioni a seconda della presenza o meno nelle varie città delle organizzazioni sindacali di base che lo hanno promosso. A Firenze, Taranto e in Versilia è andato bene. Ma sul piano nazionale il sindacalismo di base deve crescere, e certamente questa unità d’azione va nella giusta direzione e deve essere estesa alle altre organizzazioni sindacali conflittuali. Per lo sciopero sono stati organizzati presidi a Firenze, Bari, Brindisi, Parma, Monza, Padova, Roma, Pisa.

A Firenze i militanti sindacali del CLA hanno partecipato al presidio, portando un volantino di solidarietà. Alcuni di questi lavoratori hanno iniziato a partecipare alle iniziative del Coordinamento 12 ottobre, promosso da CLA insieme ad altri organismi e militanti sindacali.


Precettazioni e leggi antisciopero

Per lo sciopero generale Cgil-Uil nel Nord Italia del 24 novembre abbiamo scritto e distribuito un volantino, pubblicato in questo numero – “Sulla strada per la rinascita del Sindacato di Classe” – che commentava quanto accaduto con la giornata di sciopero di una settimana prima e dava il nostro indirizzo di lotta. Vi si faceva riferimento allo sciopero nazionale degli autoferrotranvieri proclamato per il 27 novembre unitariamente da tutti i sindacati di base presenti nella categoria: Usb, Cub, Cobas Lavoro Privato, Sgb, Adl Cobas, Al Cobas. Il ministro Salvini aveva già preannunciato di voler ricorrere contro di esso alla precettazione, come poi avvenuto. Si indicava quindi, ai lavoratori in sciopero e alle aree conflittuali in Cgil, di essere coerenti con la proclamata volontà di opporsi all’attacco alla libertà di sciopero manifestatasi contro la mobilitazione di Cgil e Uil del 17 novembre, sostenendo lo sciopero dei sindacati di base del 27.

Di fronte all’ordinanza di precettazione, i sindacati di base hanno reagito dichiarando di rigettarla e spostando lo sciopero al 15 dicembre.Si è chiaramente trattato di un palliativo: il problema veniva solo spostato di venti giorni, durante i quali però lo sciopero avrebbe potuto essere preparato meglio; sono state tenute alcune assemblee.

Il sindacalismo di base negli autoferrotranvieri è diversamente presente in varie città: a Firenze ha uno storico radicamento il Cobas LP, a Venezia l’SGB, a Vicenza e Padova l’ADL Cobas, a Milano la Cub, a Napoli Roma e Bologna l’USB, per fare alcuni esempi. Per un’azione a carattere nazionale, quindi, l’unità d’azione del sindacalismo di base a maggior ragione sarebbe necessaria.

La proclamazione degli scioperi unitari del 27 novembre e poi del 15 dicembre è stata un fatto certamente positivo. Diversi comunicati firmati da tutti i sindacati di base sono stati emessi. Ma si tratta di un’unità d’azione ancora fragile. Nei due scioperi vi sono state proclamazioni separate: quella di Cub, Sgb, Cobas LP, ADL Cobas da un lato; quella dell’Usb dall’altro.

D’altro canto, a settembre Cobas LP, Cub, Sgb e Adl Cobas avevano proclamato uno sciopero nazionale il 18, e l’Usb – da sola – il 29, poi spostato al 10 ottobre e a cui si era unito l’AL Cobas.

Inoltre, Cobas LP, Cub, Sgb e Adl Cobas hanno definito una piattaforma di rinnovo contrattuale fra loro condivisa, alla quale però per ora non aderisce l’Usb.

La divisione è tornata a manifestarsi nel merito di come reagire alla prevedibile nuova precettazione dello sciopero del 15 dicembre. Cobas LP, Cub, Sgb, ADL Cobas e AL Cobas hanno deciso di indicare ai tranvieri di imbastire azioni di protesta come l’esposizione di cartelli e di condurre i mezzi lentamente, rispettando scrupolosamente il codice della strada. Si tratta anche in questo caso di un palliativo, spesso difficilmente applicabile, giacché la conduzione “a lumaca” ricade sul singolo lavoratore isolato, sotto la pressione degli utenti e dell’azienda.

L’Usb invece ha dichiarato che non avrebbe rispettato la precettazione. Questa decisione è stata comunicata già il 3 dicembre dal Coordinatore nazionale confederale di Usb nell’ambito di una riunione in cui era presente il portavoce nazionale dell’area di opposizione in Cgil “Le radici del sindacato”. Ciò andava in direzione di quella collaborazione fra sindacati di base e aree di opposizione in Cgil da noi auspicata, ad esempio nel volantino per lo sciopero del 24 novembre.

Negli autoferrotranvieri è la prima volta che un sindacato prende la posizione di non rispettare una precettazione. Ciò dovrebbe comportare per l’Usb una multa fra i 2 e i 50.000 euro. Non potendo sobbarcarsi le sanzioni di quei lavoratori che eventualmente avessero non rispettato la precettazione, quella di Usb è stata una insubordinazione simbolica. Solo alcuni delegati non hanno rispettato la precettazione.

Il Coordinamento Lavoratori Autoconvocati (CLA) ha redatto un documento rivolto ai lavoratori e ai militanti del sindacalismo di base fra gli autoferrotranvieri – «Scioperi degli autoferrotranvieri: un contributo alla discussione su come opporsi a precettazioni e leggi antisciopero» in cui si è indicato come, pur partendo da forme di disobbedienza simboliche, sia necessario lavorare per creare le condizioni per una opposizione concreta e collettiva alle azioni antisciopero, siano esse precettazioni o delibere della Commissione di Garanzia sullo Sciopero.

Non essendo sostenibile sul piano economico un tale peso a livello nazionale – la multa per ogni lavoratore varia fra i 500 e i mille euro per ogni giornata di sciopero – si potrebbe pensare di concentrarsi, con la opportuna periodicità, di sciopero in sciopero, su una singola città, in cui cercare di violare i precetti e le ordinanze, per dare un esempio ai lavoratori sul territorio nazionale, nella prospettiva di facilitare quel movimento generale, coinvolgente vaste masse di lavoratori nello sciopero, che solo può imporre la revoca d’ogni provvedimento sanzionatorio e delle leggi anti-sciopero.

Lo sciopero del 27 novembre ha avuto un esito variabile di città in città, segno da un lato che la temperatura dello scontro non è ancora sufficiente nella categoria, dall’altro che la riduzione dello sciopero da 24 a 4 ore, per effetto della precettazione, ha avuto il suo effetto, giacché molti lavoratori considerano inutile uno sciopero così breve. Inoltre la categoria è divisa a livello territoriale, coi lavoratori più attenti alle questioni locali, come la contrattazione integrativa, che a quelle nazionali. Questa frammentazione è un frutto di un lavoro contro la classe operaia intrapreso da anni da parte del padronato – pubblico e privato – e dai sindacati di regime. Già nel movimento di scioperi “selvaggi” del dicembre 2002-gennaio 2003, l’ultimo sommovimento a carattere nazionale della categoria (“Disamina e bilancio dello sciopero dei tranvieri”), sindacati di regime e autonomi avevano agito siglando accordi locali per spezzarne la forza. Il sindacalismo di base, già allora, non seppe agire in modo unitario così da offrire una alternativa sufficientemente robusta al sindacalismo di regime e autonomo, tale da mantenere una maggiore unità della categoria a livello nazionale.

Un nuovo sciopero nazionale unitario è stato proclamato dai sindacati di base per il 24 gennaio, ancora però con proclamazioni separate da parte dei due schieramenti in cui è diviso il sindacalismo di base nella categoria: Cobas LP, Cub, Sgb, Adl Cobas da un lato; Usb dall’altro.


I ferrovieri dopo l’incidente di Thurio

Era stato del 30 agosto il massacro di 5 operai a Brandizzo (Torino), addetti alla manutenzione della infrastruttura ferroviaria sulla linea Torino-Milano, travolti da un treno che viaggiava a 160 km orari. L’Usb proclamò subito uno sciopero di 24 ore dal 31 al 1° settembre. Poche ore dopo Filt Cgil, Fit Cisl, Uiltrasporti, Ugl Ferrovieri, Fast Confsal e Orsa Trasporti proclamarono 4 ore di sciopero a fine turno per il 1° settembre. La Commissione di Garanzia per lo Sciopero (CGS) invitò l’Usb a ridurre la durata dello sciopero a 4 ore, sull’esempio di quanto fatto da sindacati di regime e autonomi. L’Usb si rifiutò.

La legislazione antisciopero in Italia (leggi 146 del 1990 e 83 del 2000) è una delle più restrittive d’Europa. Nei trasporti lo sciopero non può durare più di 24 ore e deve essere proclamato con molti giorni di anticipo. C’è però una eccezione: se lo sciopero è proclamato per questioni relative alla sicurezza sul lavoro a seguito di gravi incidenti.

Tre mesi dopo Brandizzo, un nuovo incidente ferroviario è occorso a Thurio (Cosenza): un camion rimasto bloccato nel passaggio a livello è stato travolto da un convoglio ferroviario. Il macchinista è riuscito a buttarsi fuori dal treno in tempo. La capotreno al suo fianco è morta, come l’autista del camion.

Quel passaggio a livello è situato in una curva, sicché il macchinista si accorge solo all’ultimo momento di eventuali ostruzioni. Venti anni fa si era sfiorato un incidente identico, lo racconta il ferroviere allora coinvolto in un comunicato unitario dei sindacati di base.

Questa volta a proclamare prontamente lo sciopero di 24 ore sono stati tutti i sindacati di base presenti in ferrovia: Cub, Usb, Sgb, Cat, dalle 21 del 30 novembre alle 21 del 1° dicembre.

Ancora una volta, poco dopo, è arrivata la proclamazione dello sciopero da parte dei sindacati collaborazionisti – di regime (Cgil, Cisl, Uil, Ugl) e autonomi (Confsal e Orsa) –, ma di sole 8 ore, dalle 9 alle 17 del 30 novembre.

Nuovamente la CGS, non potendo per legge impedire lo sciopero, ha fatto buon viso a cattivo gioco, dichiarando lo sciopero “giusto” ma “chiedendo” ai sindacati di base di far confluire il loro sciopero in quello proclamato dai sindacati collaborazionisti, quindi di ridurlo da 24 a 8 ore. I sindacati di base si sono rifiutati.

In questo caso, diversamente da quello dopo l’incidente di Brandizzo, lo sciopero è andato benissimo, come non si vedeva da molti anni. È stato un sussulto di lotta dei ferrovieri. Evidentemente, se dopo la strage di agosto la reazione è stata quella di restare un po’ attoniti, la vicinanza temporale del nuovo incidente è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.

Inoltre lo sciopero è durato 35 ore: si è sommato quello di 8 ore dei sindacati collaborazionisti a quello di 24 dei sindacati di base, con le tre ore che li dividevano che non sono state sufficienti per rimettere in moto il sistema ferroviario. Si è osservato anche un certo cambiamento negli umori dei viaggiatori alle stazioni: non pochi hanno mostrato di condividere lo sciopero.

Ci pare importante un dato: lo sciopero è una manifestazione di vita sociale reale, non un freddo atto amministrativo. Per questo, in date circostanze, dev’essere proclamato prontamente. È per questa ragione che le leggi antisciopero lo sottomettono a complesse procedure, di modo che non sia un’azione di lotta che sorge dal basso, ma venga percepito come un atto burocratico deciso dall’alto. Questo offre l’idea di quanto importante sia per il padronato, e per converso dannosa per i lavoratori, la legislazione antisciopero, voluta da Cgil Cisl e Uil proprio per impedire il rafforzamento del sindacalismo conflittuale.

Anche fra i ferrovieri l’azione unitaria del sindacalismo di base è stata un fattore positivo, ha condotto alla definizione di una piattaforma unitaria per il rinnovo del contratto nazionale, al quale aderisce – al contrario di quanto avviene fra gli autoferrotranvieri – anche l’Usb, ma non il CAT. L’11 dicembre si è svolta un’assemblea nazionale unitaria on-line. A questa azione partecipa e collabora anche il Coordinamento Macchinisti Cargo, nato già da due anni fra i macchinisti dei treni merci, che si richiama nei suoi principi fondativi alla necessità dell’unità d’azione dei lavoratori e dei sindacati di base, e che ha costituito con il CLA, con altri organismi sindacali, l’associazione Medicina Democratica e con associazioni dei familiari delle vittime di stragi e disastri sul lavoro un “Coordinamento 12 ottobre” per promuovere campagne e mobilitazioni sul tema della salute sicurezza e repressione sui posti di lavoro e nel territorio, la cui prossima iniziativa sarà il 15 gennaio a Roma, per la Cassazione-bis del processo sulla strage ferroviaria di Viareggio del 29 giugno 2009.


Sciopero dei lavoratori del commercio e del turismo

Per il rinnovo dei contratti collettivi nazionali del commercio e del turismo le federazioni di categoria Filcams Cgil, Fisascat Cisl e Uiltucs hanno convocato per il 22 dicembre una giornata di sciopero nazionale.

La Filcams Cgil è divenuta la federazione con più iscritti nel maggior sindacato di regime italiano, fatta eccezione per lo SPI Cgil (Sindacato Pensionati Italiani), che da solo rappresenta circa la metà dei suoi circa 5 milioni di iscritti. Questo però non è una categoria bensì un calderone nel quale ormai decenni fa la dirigenza della Cgil ha deciso di infilare i pensionati, separandoli dai lavoratori attivi delle categorie d’origine, sanzionando così anche sul piano sindacale quanto avviene nell’infame sistema produttivo capitalistico: prima sfruttati nella galera aziendale, poi alienati dal mondo del lavoro e dai propri compagni.

I sindacati di regime organizzano nel settore del commercio i lavoratori della distribuzione, dei servizi, della distribuzione moderna organizzata e delle cooperative; nel settore del turismo i lavoratori degli alberghi, dei pubblici esercizi, della ristorazione collettiva e commerciale, delle agenzie di viaggio, delle aziende termali.

Il contratto del commercio è scaduto da tre anni, quello del turismo addirittura da 5! Lo slogan con cui è stato convocato lo sciopero – “Il contratto ci spetta!” – esprime bene le intenzioni di Cgil Cisl e Uil, pronte a cedere su ciò che interessa ai lavoratori pur di poter siglare un contratto e presentarlo come una vittoria, dopo anni di contratti scaduti. Sul piano salariale la rivendicazione è quella di aumenti definiti secondo l’indice IPCA, che è a tutti noto essere inferiore a quello dell’inflazione reale, dato che è “depurato” dai prezzi dei beni energetici importati, che hanno avuto una forte incidenza nel determinare i tassi d’inflazione negli ultimi anni. Ma le associazioni padronali nemmeno accettano aumenti pari all’IPCA, sicché i lavoratori possono aspettarsene di ancora inferiori.

Da sottolineare in questo sciopero il comportamento del sindacalismo di base. L’orientamento prevalente è sempre stato di non partecipare agli scioperi promossi dai sindacati di regime e di proclamarne altri in altre date. Questa condotta è da sempre criticata e combattuta dal nostro Partito: in linea generale gli scioperi vanno sempre sostenuti e rafforzati. Il miglior modo per combattere il sindacalismo di regime non è indebolire gli scioperi da esso promossi bensì radicalizzarli perché ne perdano il controllo. Il sindacalismo conflittuale dovrebbe sempre mantenere la pratica dell’unità d’azione dei lavoratori nella lotta e intervenire negli scioperi e nelle manifestazioni promosse da Cgil Cisl e Uil senza rompere con i lavoratori che ancora seguono le indicazioni di questi sindacati collaborazionisti.

Lo sciopero dei lavoratori del commercio e del turismo del 22 dicembre ha registrato una pur parziale ma positiva inversione di rotta rispetto a questa condotta. L’Usb non ha partecipato allo sciopero, proclamando invece fin dal 20 novembre uno sciopero nazionale nel commercio e nella grande distribuzione dalle ore 17 a fine turno il 24 e il 31 dicembre, con lo slogan: “Riprendiamoci il nostro tempo!”. Invece sia i Cobas Commercio e Turismo sia la Flaica CUB hanno chiamato i loro iscritti nei settori allo sciopero.

Le rivendicazioni dei due sindacati di base sono però ben più radicali di quelle dei sindacati di regime: aumenti salariali superiori all’indice IPCA; riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario; abolizione degli appalti e assunzione diretta dei lavoratori; part-time mai inferiori alle 24 ore. Queste rivendicazioni classiste sono state agitate in presidi dinanzi ad alcuni posti di lavoro, invece che nei cortei organizzati da Cgil Cisl e Uil a Milano, Roma e Napoli, dove forse vi sarebbe stata possibilità di propagandarle fra un numero maggiore di lavoratori, ammesso che non si sia trattato di manifestazioni composte soprattutto da funzionari e delegati fedeli. Ad ogni modo si è trattato di un buon esempio per tutto il sindacalismo di base.


Vittoria delle cameriere all’Hotel Savoia di Genova

All’hotel Savoia di Genova, uno dei pochi alberghi 5 stelle della città, a novembre vi era stato un cambio di appalto per le pulizie delle circa 150 camere e per il facchinaggio. È subentrata una nuova società, la Zenith Spa, con oltre 1.200 dipendenti sul territorio nazionale, che opera per clienti come la catena alberghiera NH, Trenitalia, ATAC, INPS.

Nel cambio di appalto hanno perso il lavoro due facchini e una cameriera. Alle altre cameriere, tutte con contratto part-time, è stato ridotto l’orario di lavoro e quindi, proporzionalmente, il salario. Gli orari di inizio e fine turno sono diventati così irregolari da rendere molto difficile per le lavoratrici avere un altro lavoro part-time, per cercare di racimolare un salario sufficiente per campare. Le cameriere sono state chiamate dall’azienda una domenica per firmare il contratto individuale in cui era imposta loro anche la possibilità di essere spostate su altri appalti. Allora le lavoratrici sono state colte alla sprovvista e non sono state capaci di reagire.

Ciò che ha fatto scattare lo sciopero è stata la decisione di ridurre il minutaggio, cioè i tempi a disposizione per pulire le camere, da 30 a 20 minuti per la grande maggioranza delle stanze; da 45 a 30 minuti per le poche più grandi.

La maggioranza delle lavoratrici erano precedentemente iscritte alla Uil. Da poco erano passate in maggioranza all’Usb. Una minoranza è restata iscritta a Uil e Cgil. Di fronte a questi peggioramenti nelle condizioni di lavoro, l’Usb ha proclamato 3 giorni di sciopero dal 29 al 31 dicembre. Per tre giorni le cameriere si sono schierate all’ingresso dell’hotel di lusso, con striscioni, trombe, cartelli e cantando slogan di lotta. Comprese una italiana erano di 5 differenti paesi e tre diversi continenti: uno spaccato della natura internazionale della classe lavoratrice. Al picchetto hanno partecipato anche i facchini licenziati e oltre a questi altri militanti del sindacato e solidali, fra cui i nostri compagni.

Trovandosi l’albergo in pieno centro, a fianco della stazione ferroviaria di Principe, il rumoroso picchetto ha riscosso la curiosità di molti dei passanti, non pochi dei quali hanno manifestato solidarietà. Al terzo giorno di sciopero l’azienda ha fatto una proposta: 25 minuti per le stanze normali, 28 per quelle grandi. Le cameriere l’hanno rigettata senza tentennamenti e hanno deciso di proseguire a oltranza. Il primo dell’anno quindi lo sciopero è proseguito, pur senza picchetto. Il 2, mentre le lavoratrici si stavano preparando a ripristinare striscioni e cartelli davanti l’ingresso, l’azienda ha comunicato la revoca della diminuzione del minutaggio, riportandolo a com’era in precedenza. Inoltre è stato fissato un incontro con l’Usb per il 24 gennaio. Una netta vittoria, festeggiata dalle lavoratrici.

Lo sciopero ha avuto un’adesione di circa il 90% delle cameriere. Solo in 3 hanno lavorato. L’azienda nel frattempo ne ha assunte 4 nuove, che però non erano veloci a pulire come le lavoratrici esperte, alcune da oltre 12 anni operative nella struttura. Anche due capetti si sono messi a pulire le stanze. Fra crumire, neoassunte e capi erano una decina a pulire circa 150 stanze, in giorni in cui l’hotel era pieno. Alla fine hanno ceduto.

Nelle quattro giornate di sciopero non si è vista l’ombra di un rappresentante né della Uil né della Cgil. L’unità e la determinazione di queste lavoratrici è stata davvero esemplare. Una bella boccata d’aria fresca in tempi di passività e servilismo. Una piccola conferma del fatto che quando le donne proletarie scendono in lotta sanno dare un contributo determinante e anche superiore a quello dei loro compagni maschi.

Lo sciopero è un nuovo successo per il sindacalismo di base a Genova. Anche il SI Cobas ha iscritti in altri alberghi in cui opera la Zenith. C’è da augurarsi che in futuro i due sindacati di base – Usb e SI Cobas – collaborino, nella prospettiva di uno sciopero che coinvolga più strutture alberghiere contemporaneamente.






Genova, venerdì 24 novembre
Sulla strada per la rinascita del Sindacato di Classe

Venerdì scorso i lavoratori sono tornati a riempire le strade a Genova, Firenze, Roma e in altre città, numerosi come non si vedeva da anni. Questa è stata la migliore risposta all’attacco del ministro dei trasporti e del governo: lo sciopero è l’arma fondamentale dei lavoratori salariati contro lo sfruttamento capitalistico e si difende impiegandola!

Il successo dello sciopero e delle manifestazioni è anche la dimostrazione che i lavoratori sono disponibili a lottare quando sentono che è per obiettivi importanti e che davvero li interessano. Per questo i lavoratori dovrebbero essere chiamati allo sciopero generale non per impossibili diversi modelli di sviluppo del capitalismo ma per obiettivi precisi e concreti: forti aumenti salariali, ponendo al centro le categorie e le qualifiche peggio pagate; unificazione dei diversi contatti nelle stesse categorie; massicce assunzioni nei servizi pubblici; abolizione degli appalti, a cominciare dal settore pubblico; abolizione delle leggi anti-sciopero.

Inoltre lo sciopero per essere più potente dev’essere davvero generale: di tutte le categorie, su tutto il territorio nazionale e deve svolgersi nello stesso giorno. Non deve essere diviso per settori e territori e scaglionato nel tempo. Inoltre dovrebbe durare più a lungo di una sola giornata. In Francia, Germania, Regno Unito, i lavoratori dei cosiddetti servizi essenziali – fra cui quelli di un settore tanto vitale per il sistema produttivo capitalistico qual’è quello dei trasporti – scioperano per diversi giorni consecutivi. In Italia le leggi 146 del 1990 (governo De Mita) e 83 del 2000 (governo D’Alema) vietano che in questi settori lo sciopero duri più di 24 ore, o anche meno. Cgil Cisl e Uil invocarono queste leggi per impedire il rafforzamento del sindacalismo di base e la Cgil le ha sempre difese: lo ha fatto anche in questi stessi giorni il segretario della Cgil. Queste leggi impediscono a una parte molto consistente della classe lavoratrice di lottare adeguatamente e indeboliscono gravemente lo sciopero generale. Non è un caso se, grazie a queste leggi, a partire proprio dal 1990 il salario reale medio dei lavoratori in Italia è in diminuzione!

La mancata partecipazione della Cisl allo sciopero generale, per la terza volta consecutiva negli ultimi tre anni, conferma che l’unità sindacale fra Cgil Cisl e Uil è il pilastro del sindacalismo collaborazionista, bastione contro il sindacalismo di lotta. La dirigenza Cgil non ha mai messo in discussione questa unità anti-operaia: Landini definì “folle” chi voleva farlo ai tempi dei contratti separati metalmeccanici e di quello nella FCA di Marchionne e coerentemente firmò il contratto metalmeccanico del 2016, il peggiore da decenni ma “unitario”! Nemmeno la metterà in discussione ora, nonostante la Cisl stia al fianco del governo e del ministro che attaccano la libertà di sciopero!

Per sconfiggere il sindacalismo collaborazionista – responsabile di decenni di arretramenti e del gravissimo discredito a cui è stato ridotto il movimento sindacale fra i lavoratori – occorre contrapporre all’unità sindacale fra Cgil Cisl e Uil l’unità d’azione del sindacalismo di lotta, delle aree conflittuali entro la Cgil col sindacalismo di base.

L’opposizione ai progetti di legge per una ulteriore stretta alla libertà di sciopero, paventati dal presidente della Commissione di Garanzia e da Confindustria, è un banco di prova di questa necessaria unità sindacale di classe. Lunedì 27 novembre i sindacati di base hanno proclamato unitariamente uno sciopero nazionale degli autoferrotranvieri contro questo nuovo attacco alla libertà di sciopero. Il ministro dei trasporti ha già preannunciato una nuova precettazione. Le aree conflittuali in Cgil devono sostenere questo sciopero impegnandosi per la sua miglior riuscita.

In tutti gli organismi del sindacalismo conflittuale – aree, correnti, coordinamenti, organizzazioni sindacali – i lavoratori più coscienti devono battersi affinché si dimostrino coerenti e conseguenti col principio pratico dell’unità d’azione nella lotta sindacale, camminando in direzione di un Fronte Unico Sindacale quale base per la rinascita del Sindacato di Classe di cui ha sempre più bisogno la classe lavoratrice!

Il rafforzamento del sindacalismo di classe è in relazione col peggioramento delle condizioni di vita determinato dalla crisi dell’economia capitalistica mondiale, ma il ruolo dei militanti, delle correnti, delle dirigenze sindacali non è certo un elemento secondario di questo processo. Decenni di opportunismo politico-sindacale hanno impedito l’unità d’azione del sindacalismo di lotta, nei sindacati di base come nelle aree conflittuali dentro la Cgil, ritardando la rinascita del movimento sindacale di lotta. Solo un rinato movimento sindacale di classe potrà assumersi obiettivi che saranno sempre più necessari di fronte al precipitare della crisi del capitalismo, quali la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario, il salario pieno ai lavoratori disoccupati, l’opposizione a ogni impresa militarista della borghesia nazionale.







Gaza
Per il disfattismo proletario su entrambi i fronti delle guerre borghesi
Per l’affratellamento internazionale dei lavoratori

Dall’Ucraina a Gaza – passando per il Nagorno Karabakh e per tutti i focolai di crisi pronti ad accendersi, dai Balcani a Taiwan – il capitalismo promette un’apocalisse di guerra.

Da una parte e dall’altra dei fronti, i regimi politici borghesi – siano essi democratici o autoritari o camuffati dietro alle più svariate ideologie, da quelle religiose a quelle falsamente socialiste – incolpano della guerra l’avversario, la sua politica, la sua civiltà: l’autoritarismo russo-cinese, la cultura egemonica statunitense, l’estremismo islamico, il sionismo…

Dietro a tutti questi paraventi ideologici sono invece gli interessi economici capitalistici a nascondersi. Quando il bombardamento ideologico non basta, le borghesie non si fanno scrupolo a ricorrere a massacri terroristici per convincere i proletari che c’è un nemico straniero da combattere. La moderna guerra capitalista si distingue da tutte le precedenti per mietere vittime principalmente fra i civili, cioè fra i proletari.

A determinare l’accendersi di sempre più numerosi conflitti è la tendenza verso un terzo conflitto imperialista, è la crisi economica mondiale del capitalismo. La sovrapproduzione che affligge i capitalismi senili, cosiddetti occidentali, dalla metà degli anni settanta, ormai si manifesta anche nei non più giovani capitalismi asiatici, a cominciare dalla Cina, i quali per tre decenni hanno tenuto in piedi il capitalismo mondiale.

L’avanzare inesorabile della crisi esaspera la concorrenza fra aziende e Stati capitalistici: la guerra da commerciale diviene militare. Come in pace aziende e Stati borghesi chiedono ai propri lavoratori sacrifici economici per vincere nella concorrenza economica, in guerra chiedono di sacrificare le loro stesse vite per i pretesi interessi superiori del paese.

La lotta dei lavoratori contro lo sfruttamento, per impedire di essere messi in concorrenza gli uni contro gli altri a colpi di salari più bassi e condizioni di lavoro peggiori, è il primo passo verso la loro azione congiunta internazionale, e dunque verso l’opposizione alla guerra imperialista cui il capitalismo sta conducendo l’umanità intera.

Solo l’unità internazionale della classe lavoratrice può impedire o fermare la guerra. Ma essa non si basa su vaghi richiami a valori morali, in nome della pace sociale e dei buoni sentimenti alla maniera delle Chiese o degli appelli ipocriti dei politicanti di mestiere, bensì sulla necessità di lottare uniti in difesa delle proprie condizioni e della vita stessa contro un nemico che è innanzitutto interno, cioè contro la propria borghesia nazionale e il suo regime politico. Per questo in tutti i paesi le borghesie indicano ai lavoratori un nemico esterno, che sarebbe causa delle loro sofferenze, da combattere.

Anche i proletari palestinesi sono carne da cannone per gli interessi della borghesia palestinese, che da decenni li usa mercanteggiando con parte delle borghesie arabo-mediorientali e con le potenze imperialistiche mondiali che le spalleggiano. Anche i proletari d’Israele sono vittime della loro borghesia, del suo bisogno di costruire un suo spazio vitale capitalistico, spalleggiata dall’imperialismo statunitense, che li condurrà a un conflitto regionale e mondiale, in cui morirebbero a decine di migliaia.

Le masse proletarie palestinesi porranno fine alle loro sofferenze non perseguendo l’obiettivo della “Palestina libera” dal “Giordano al mare” ma la rivoluzione internazionale dei lavoratori contro tutti i regimi nazionali dell’area: dall’Iran all’Egitto, dall’Iraq al Libano, dalla Siria alla Turchia. Solo una rivoluzione sociale della classe proletaria che faccia piazza pulita dei regimi borghesi e dei loro interessi, potrà permettere la vera convivenza pacifica dei lavoratori oggi divisi per etnie e religioni dalle sanguinarie macchinazioni delle borghesie assassine.






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Sciopero nelle scuole di Portland (Oregon-Usa)
Mentre la borghesia manda in rovina il suo sistema educativo gli insegnanti lottano per il salario e le condizioni di lavoro

Gli insegnanti hanno bisogno di uno sciopero generale

Mercoledì 1° novembre i 3.700 lavoratori dell’Associazione degli Insegnanti di Portland (PAT) hanno scioperato, chiudendo 81 scuole pubbliche della città che accolgono 45.000 studenti, in uno storico sciopero, il primo nella vita del sindacato. Stanno lottando per ottenere salari che tengano il passo con l’inflazione, tempi adeguati per la pianificazione e la preparazione, classi con un numero massimo di alunni per contrastare il sovraffollamento e condizioni di lavoro sicure che affrontino il problema degli edifici male isolati dall’esterno e delle infestazioni di topi e muffe.

Per tutta la durata dello sciopero, l’amministrazione scolastica e i politici locali si sono impegnati in un gioco di scaricabarile, accusandosi l’uno contro l’altro per le presunte carenze di bilancio e collaborando al contempo nel rifiuto di stanziare i fondi necessari a soddisfare le richieste degli insegnanti.

Nel frattempo, la stampa capitalista ha scatenato una frenesia mediatica, diffamando e denigrando il sindacato in ogni modo. La Dirigenza Scolastica locale si è palesata appieno quando, nel contesto del recente bagno di sangue imperialista in Medio Oriente, in una causa contro il sindacato ha paragonato gli insegnanti ai “terroristi”. I dirigenti scolastici hanno giustificato ipocritamente questa scemenza sostenendo che sarebbero rimasti “traumatizzati” assistendo ad una manifestazione degli insegnanti. Il cagnolino fedele al padrone della stampa borghese si scopre quando diffonde affermazioni così pietose, mentre minimizza l’impatto economico e la violenza perpetrata contro insegnanti e studenti sotto forma di tagli ai salari reali e di deterioramento delle condizioni di lavoro.

Benché oggi la PAT sia impegnata in una battaglia economica non solo contro l’amministrazione del proprio distretto, ma anche contro quella dello Stato, purtroppo, nonostante esistano a Portland e nell’area metropolitana molte altre sezioni dell’Oregon Education Association (OEA, il sindacato degli insegnanti della pubblica istruzione dell’Oregon), la PAT ha dovuto scioperare da sola. Di conseguenza, sono già stati costretti a ridurre di 121 milioni di dollari la loro iniziale richiesta di stanziamento di bilancio.

La dirigenza opportunista e legata al padronato dell’OEA e della sua organizzazione madre, la National Education Association – che vanta relazioni privilegiate con il Partito Democratico ed è riluttante a turbare le condizioni esistenti – ha continuato a rifiutarsi di prendere seriamente in considerazione una strategia di sciopero a livello statale, che avrebbe potuto sviluppare una forza in grado di sfidare gli apparati regionali del potere della classe capitalista, allineati contro lo sciopero degli insegnanti nelle grandi aree urbane. Nonostante per diversi anni nelle assemblee regionali gli educatori di base abbiano insistito sull’importanza di una strategia di sciopero a lungo termine e per tutto lo Stato, la dirigenza del sindacato ha insistito nel mantenere le sedi di trattativa locali, indipendenti l’una dall’altra, in date ripartite sull’intero anno scolastico, secondo un metodo sindacale angusto e una strategia di sciopero che, nel migliore dei casi, può produrre solo accordi annacquati.

La stampa capitalista, gli amministratori distrettuali e i politici locali vorrebbero farci credere che i salari degli insegnanti dipendono dalla “generosità” dei “contribuenti” e dalla benevolenza delle amministrazioni distrettuali e dei politici. In realtà il lavoro nell’istruzione è una componente indispensabile e necessaria di tutte le economie capitalistiche. I lavoratori della scuola, come tutti i lavoratori salariati, hanno un rapporto economico antagonista con la loro controparte: gli amministratori, i consigli distrettuali e lo stesso Stato capitalista. Poiché le scuole pubbliche sono gestite dallo Stato, ogni sciopero degli insegnanti è uno sciopero contro l’amministrazione dello Stato. Di conseguenza gli insegnanti hanno bisogno della solidarietà dell’intera classe operaia nello Stato, unita a loro nella lotta.

Per questo motivo, chiediamo che l’OEA mobiliti tutte le sezioni dell’area di Portland affinché si uniscano in scioperi e fermate di solidarietà.

In generale gli insegnanti devono abbandonare la vecchia pratica del sindacalismo di azienda – che lo indebolisce e lo riduce ad affidarsi alla relazione con i politici del Partito Democratico – per abbracciare un modello di sindacalismo di classe che metta al centro l’azione concreta di sciopero solidale tra le sezioni sindacali locali, sia all’interno sia all’esterno del sindacato.


Crisi economica, crisi della scuola e sciopero dei lavoratori dell’istruzione

Lo sciopero della PAT si svolge nel contesto di un’ondata di scioperi degli insegnanti a livello nazionale, provocata dalla montante crisi economica globale e dalla pauperizzazione della professione educativa. In questo contesto l’azione di classe di massa è la chiave per la vittoria.

In tutto il mondo la crisi inflazionistica degli ultimi anni si è risolta in un’offensiva coordinata contro le condizioni di vita dei lavoratori.

Negli Stati Uniti le politiche fiscali della Federal Reserve dell’amministrazione Biden, sotto forma di aumenti dei tassi d’interesse volti a scongiurare i rischi di iperinflazione, hanno rallentato la crescita economica e innescato l’attuale recessione.

A causa dell’aggravarsi della crisi sociale ed economica, i distretti scolastici dei centri urbani più poveri si trovano ad affrontare un calo del finanziamento a causa della fuga delle famiglie più abbienti verso le periferie, con conseguenti ampi licenziamenti di insegnanti dalle scuole dei quartieri proletari in tutto il Paese.

Negli ultimi decenni le scuole pubbliche si sono riorganizzate a immagine e somiglianza delle aziende. Il lavoro dell’insegnante è passato da un’attività largamente non regolamentata a una sempre più standardizzata e di routine. In parallelo la categoria si è impoverita, poiché la professione, un tempo considerata “di classe media”, vede i suoi salari diminuire ogni anno. Ormai gli insegnanti sono controllati e gestiti da schiere sempre più numerose di amministratori e capi, che devono garantire “risultati educativi” con una disciplina simile a quella di fabbrica, gli insegnanti devono seguire codici meccanici di regolamentazione e documentazione.

Di conseguenza negli ultimi due anni i lavoratori della scuola in molti Stati hanno scioperato in un numero senza precedenti. A Los Angeles la scorsa primavera oltre 30.000 insegnanti dell’United Teachers of Los Angeles hanno scioperato per tre giorni, vincendo rapidamente grazie allo sciopero di solidarietà dei 35.000 autisti dei pulmini, degli addetti alla mensa, degli assistenti scolastici e dell’educazione speciale, dei custodi e degli addetti alla sicurezza della sezione n.99 del SEIU. Anche gli insegnanti di Camas e Vancouver, nello Stato di Washington, hanno scioperato più o meno nello stesso periodo, amplificando così la loro forza. In tutti questi scioperi è stato dimostrato che quando i lavoratori si organizzano e scioperano insieme possono insieme vincere.


La scuola, lo Stato, il Capitale

Gli insegnanti sono lavoratori salariati che svolgono un ruolo fondamentale nel moderno processo di produzione capitalistico: la riproduzione sociale della forza lavoro.

«Tutto ciò che la classe operaia consuma per rinnovare le proprie forze ha un valore. Di conseguenza, il valore dei beni di prima necessità e le spese per l’istruzione rappresentano il valore della forza-lavoro. Diversi tipi di merci hanno valori diversi. Diversi tipi di forza-lavoro, quindi, hanno valori diversi. Il valore del lavoro di un tipografo ha un valore diverso da quello del suo assistente» (“ABC del comunismo”).

Così come tutti i lavoratori devono acquistare generi alimentari e pagare l’affitto della casa per riprodurre la loro esistenza, nella attuale società capitalista l’istruzione pubblica gioca un ruolo cruciale nella riproduzione sociale della prossima generazione di lavoratori. Affinché la classe capitalista possa mantenere una produzione ininterrotta di plusvalore, le masse di lavoratori devono essere istruite sulle capacità di lettura di base, sulle abilità matematiche, avvezze alla disciplina e indottrinate con una lettura nazionalista della storia dei rispettivi Stati, per consentire la cooperazione e la partecipazione. Questo in particolare per poter essere impiegati in modo produttivo e redditizio nella conduzione e manutenzione dei sempre più complessi macchinari sociali e tecnologici utilizzati nei moderni processi produttivi.

È il lavoro degli insegnanti a formare la prossima generazione di lavoratori nelle competenze necessarie a far funzionare i mezzi di produzione attualmente esistenti e a produrre le necessità materiali della vita per il resto della società.

«Il costo di produzione della semplice forza-lavoro equivale al costo dell’esistenza e della riproduzione del lavoratore. Il prezzo di questo costo di esistenza e riproduzione costituisce il salario. Il salario così determinato è chiamato minimo salariale. Questo salario minimo, come la determinazione del prezzo delle merci in generale in base al costo di produzione, non vale per il singolo individuo, ma solo per la classe. Singoli lavoratori, anzi, milioni di lavoratori, non ricevono abbastanza per poter esistere e riprodursi; ma i salari dell’intera classe operaia si adeguano, nei limiti delle loro fluttuazioni, a questo minimo» (Marx, “Lavoro salariato e capitale”).

Il salario degli insegnanti è determinato sulla stessa base di quello di tutti gli altri lavoratori. È definito da due fattori: il minimo del valore dei beni che vanno nella formazione e nella riproduzione materiale del lavoratore dell’istruzione; e dalla capacità dei lavoratori di organizzarsi nella lotta economica per fare aumentare il prezzo della propria forza-lavoro. Quindi le paghe degli insegnanti non dipendono dalle concessioni dei politici, sui quali dovrebbe fare un’opera di persuasione per convincerli della nobiltà e moralità della loro professione, ai quali fini chiedere stanziamenti alla bontà del loro cuore.


Chi finanzia la scuola

I salari non sono fissati dalla filantropia dei politici della classe capitalista, né lo è il finanziamento complessivo del sistema scolastico pubblico. Entrambi sono invece influenzati dal numero di insegnanti richiesti dall’economia capitalista e dalle condizioni prevalenti nel mercato del lavoro.

La borghesia, la stampa e i politici vorrebbero che gli insegnanti si adattassero alla “realtà” della contabilità dell’economia capitalista. Sostengono che poiché i distretti dispongono solo un ammontare X di entrate fiscali, e poiché le scuole occupano un numero Y di insegnanti, questi possono percepire solo un salario pari a X/Y. Questo senza considerare il fatto che lo Stato capitalista destina quantità esorbitanti di dollari delle tasse alle sue forze armate per iniziative imperialiste e a molte altre attività dannose. Poiché nel bilancio dello Stato capitalista non sono stati stanziati fondi adeguati per i salari dei lavoratori dell’istruzione, ci viene detto che soldi per l’istruzione semplicemente non esistono.

Agli insegnanti viene quindi chiesto di sottomettere sé stessi e il loro benessere materiale alle norme di tassazione dello Stato capitalista e al suo processo “democratico” che ha stabilito queste norme e regolamenti esclusivamente in funzione dei suoi interessi di classe. Viene detto che per cambiare le loro condizioni materiali la scelta migliore, unica realistica, sarebbe affiancarsi ai partiti politici capitalisti e alle loro progressive manovre, a riforme fiscali e politiche che in qualche modo riporterebbero un equilibrio nella lotta tra lavoro e capitale. Questa è l’opzione più sicura per il capitale: non scioperi e lotte generalizzate, ma collaborazione tra le classi.

Negli Stati Uniti il modo in cui le scuole sono finanziate è stato progettato per soddisfare le richieste della classe capitalista contro quelle del lavoro. È ben noto che in generale il sistema favorisce in particolare l’impoverimento perpetuo dei lavoratori neri e degli immigrati, intrappolando molti di loro in cicli di povertà e lavori a bassa retribuzione o senza prospettive. Di conseguenza i sindacati degli insegnanti non dovrebbero accettare e conformare le loro richieste salariali alle “realtà” di bilancio stabilite dalla classe capitalista. Le scuole pubbliche sono finanziate per il 90% dalle tasse locali sugli immobili e solo il 10% dal governo dello Stato e federale. Quindi il finanziamento locale delle scuole aiuta la classe capitalista a mantenere basso il costo dell’istruzione nei quartieri poveri, dove conta di mantenere ampi bacini di manodopera non qualificata e salari conseguentemente bassi.

I quartieri con immobili di basso valore generano minori entrate fiscali per le scuole. Pertanto nelle aree in cui i lavoratori a basso reddito e in gran parte non qualificati possono permettersi gli affitti o i mutui le scuole tendono a essere sottofinanziate. Al contrario nei quartieri in cui il parco immobiliare è di valore le scuole ricevono maggiori entrate. Così i proletari ricevono spesso un’istruzione inferiore agli standard, han­no tassi di diplomati più bassi e un minore accesso all’istruzione superiore. Questi lavoratori hanno meno opportunità di u­scire dalla loro situazione di miseria, di elevarsi dal lavoro manuale o non qualificato.

Dal punto di vista del capitale, c’è una buona ragione per mantenere questa divisione. Con meno opportunità questi lavoratori sono costretti a lavorare per salari più bassi e a riempire così i ranghi dell’esercito di riserva dei non qualificati, permettendo ai capitalisti di abbassare ulteriormente i salari. Questa è una tendenza che possiamo osservare in tutti gli Stati Uniti. Negli Stati in cui vi sono industrie tecnologiche e culturali ben sviluppate, come l’Oregon e la California, il capitale ha una domanda di manodopera più istruita e preparata, e quindi l’istruzione tende a ricevere finanziamenti più elevati; al contrario, nelle regioni rurali e negli Stati in cui la produzione è orientata verso le industrie agricole, l’istruzione tende a essere relativamente sottofinanziata. Variando da regione a regione, la domanda di lavoro da parte del capitale variano anche i finanziamenti ricevuti e la qualità dell’istruzione.

La domanda di lavoro corrisponde alle condizioni economiche generali. Nei periodi di prosperità, quando l’economia è in e­spansione, la domanda di forza lavoro è più elevata. Nei periodi di recessione, quando l’economia si contrae e la crescita diminuisce, la domanda di lavoratori per coprire nuove posizioni diminuisce. In parallelo diminuisce il fabbisogno di insegnanti, nonostante questi non lavorino in imprese capitalistiche ufficialmente “private”, ma in istituzioni “pubbliche” o statali. Le istituzioni educative subiscono gli effetti dei periodi di recessione con tagli nei bilanci dell’istruzione e i licenziamenti di massa degli insegnanti e degli altri lavoratori.

Nell’ambito del modo di produzione capitalistico tali disuguaglianze non potranno mai essere completamente risolte, nonostante quello che vorrebbero farci credere i riformatori liberali o socialdemocratici, perché è sulla base dello sfruttamento del lavoro salariato che si costruisce il potere del capitale e si mantiene il suo brutale e assassino apparato statale.


Come un’azienda

Il sistema scolastico pubblico di Portland, come ogni moderno sistema scolastico, opera e si organizza sul modello dell’azienda. In tutte le imprese capitalistiche si ritrovano alcune caratteristiche fondamentali: l’acquisto di forza lavoro da parte del padronato, la produzione di merci con la creazione di plusvalore o la fornitura di servizi in attività non direttamente produttive ma utili alla valorizzazione complessiva del capitale.

Come lavoratori salariati siamo alienati dai prodotti del nostro lavoro, poiché è la classe capitalista a possedere i mezzi di produzione e il loro prodotto. In definitiva, noi stessi siamo oggettivati e il nostro tempo e le nostre energie vitali sono quantificati sotto forma di valore numerico, in denaro, un valore che è soggetto alla miriade di manipolazioni del mercato da parte della classe capitalista. Come lavoratori esistiamo come merci, la nostra forza lavoro può essere comprata e venduta come le uova, il bacon, il latte o il pane. Come educatori, siamo coinvolti nella produzione di una merce unica, la prossima generazione di forza lavoro.

Marx scrisse ne “Il Capitale”, Volume I: «Per modificare l’organismo umano, in modo che possa acquisire abilità e maneggevolezza in un determinato ramo dell’industria, e diventare forza-lavoro di tipo speciale, è necessaria un’educazione o un addestramento speciale. Questo costa un equivalente in merci di un importo variabile. Tale importo varia a seconda del carattere più o meno complicato della forza-lavoro. Le spese di questa formazione (eccessivamente ridotte nel caso della forza-lavoro ordinaria), entrano in quanto tali nel valore totale speso per la sua produzione. Il valore della forza-lavoro si risolve nel valore di una quantità definita di mezzi di sussistenza. Varia quindi con il valore di questi mezzi o con la quantità di lavoro richiesta per la loro produzione... Il possessore di denaro trova sul mercato una merce speciale: la capacità di lavoro, in altre parole la forza-lavoro».

Quindi l’istruzione pubblica all’interno dell’economia capitalista funziona simile a un’industria come le altre, solo che il suo prodotto è di un tipo speciale, la forza lavoro. Unica in quanto, a differenza di qualsiasi altra merce, può produrre nuovo valore diventando essa stessa lavoro sfruttato.

Lo scontro in corso tra il sindacato e il distretto è in gran parte legato all’uso dei fondi. Aumentare i salari dei lavoratori per minimizzare gli effetti dell’inflazione e salari aggiuntivi necessari per coprire i ruoli delle classi non costituirebbero un progresso dell’impresa, non creerebbero maggiori entrate per l’azienda. Quindi il distretto deve strenuamente opporsi a tali proposte.

Il fondo “imprevisti” del distretto sarebbe bloccato per sovvenire alle “emergenze”, ma stranamente non si sono ritenute emergenze le varie crisi sociali verificate negli ultimi tre anni, una pandemia che ha tolto la vita a più di un milione di lavoratori e una massiccia inflazione che ha visto il costo della vita salire alle stelle.

La battaglia del sindacato contro il padronato è la stessa per i lavoratori di tutto il mondo, contro il crescente sfruttamento e la miseria, contro la spinta del capitalismo verso il profitto. Mentre il Distretto sostiene che i lavoratori devono accettare salari miseri per mantenere il suo fondo di riserva, per i lavoratori accettare una simile premessa significherebbe solo proteggere la classe capitalista ed evitarle di destinare ulteriori finanziamenti a favore dell’istruzione pubblica. Significherebbe accettare le necessità dell’accumulazione del capitale a scapito delle condizioni di vita della classe operaia, affermare la priorità dei profitti rispetto ai salari, portare la classe operaia a sacrificarsi sull’altare onnipotente del regime del capitale.

La lotta dei lavoratori della scuola rivelerà che i finanziamenti possono confluire nella scuola, perché il sistema capitalistico non può farne a meno essendo questa necessaria ai processi produttivi moderni.


Il mito di una educazione “imparziale”

L’istruzione pubblica sotto il capitalismo avrà sempre un unico obiettivo: servire gli interessi del capitale. «I comunisti non hanno inventato l’intervento della società nell’educazione, ma cercano di modificarne il carattere e di sottrarre l’educazione all’influenza della classe dominante» (“Manifesto del partito comunista”).

Negli Stati Uniti l’istruzione pubblica iniziò ad affermarsi in conseguenza della guerra civile. Le masse operaie dell’epoca avevano fatto dell’istruzione pubblica gratuita la loro rivendicazione. La sua attuazione fu una concessione delle classi dominanti per assecondare la classe operaia e nel contempo mantenerla sotto il proprio controllo, mentre l’esercito industriale proletario iniziava ad affacciarsi sul palcoscenico storico in numero sempre più grande.

Lungi dall’essere una istituzione “neutra” rispetto alle classi, l’istruzione pubblica fu creata a immagine del mondo borghese per rafforzare il suo dominio di classe. Le scuole dovevano disciplinare il corpo sociale, suscitare le nuove abilità necessarie per la produzione moderna, insegnare a gestire il tempo, aderire a un programma, a concentrarsi sul lavoro e abituarsi alla routine. Diventavano uno spazio per educare i lavoratori ai valori e alla visione del mondo della borghesia: un individualismo superficiale, un rozzo sciovinismo e l’assenso a uno sfruttamento spietato.

«Più lo Stato borghese era colto, più mentiva sottilmente quando dichiarava che la scuola poteva stare al di sopra della politica e servire la società nel suo complesso. In realtà le scuole furono trasformate in nient’altro che uno strumento del dominio di classe della borghesia. Erano completamente impregnate dello spirito di casta della borghesia. Il loro scopo era quello di rifornire i capitalisti di lacchè obbedienti e di abili operai... Diciamo che il nostro lavoro nell’ambito dell’istruzione fa parte della lotta per il rovesciamento della borghesia. Dichiariamo pubblicamente che l’educazione separata dalla vita e dalla politica è menzogna e ipocrisia».

Lenin affermò nel Discorso al secondo Congresso degli insegnanti internazionalisti di tutta la Russia, nel gennaio del 1919: «La convinzione che la scuola possa restare estranea alla politica è una di queste ipocrisie borghesi. Voi sapete molto bene quanto sia falso questo convincimento. La stessa borghesia, formulando questa tesi, ha fatto della sua politica borghese la pietra angolare dell’insegnamento e si è ingegnata di ridurre la scuola ad addestrare per la borghesia dei valletti svelti e obbedienti; che eseguano la sua volontà e siano schiavi del capitale, senza mai preoccuparsi di fare della scuola uno strumento di educazione della persona umana» (dal resoconto pubblicato sull’Izvestia del 19 gennaio 1919).

Finché la classe capitalista terrà in piedi la sua dittatura di classe non ci sarà alcun “progresso” nell’istruzione.

Il sistema scolastico stesso non può uscire dalle condizioni prevalenti che definiscono la totalità della società attuale. L’istruzione pubblica non è stata concepita per soddisfare i bisogni umani, ma innanzitutto per soddisfare la domanda di forza lavoro necessaria alla produzione capitalistica. Il capitalismo non è un sistema che esiste in una “comunità” neutrale, al di fuori del conflitto di classe. L’amministrazione della scuola pubblica ha il compito di gestire questo “processo produttivo” nel modo più economico ed efficiente possibile, abbassando e mantenendo bassi i salari.

Mentre i lavoratori della scuola sono spinti fino all’esaurimento mentale e fisico a causa dello sfruttamento cui li sottopone il sistema economico e sociale attuale, aspirerebbero a contribuire allo sviluppo di una gioventù solidale, consapevole, volta al proprio futuro, in cui le potenzialità multilaterali degli esseri umani si esplichino in maniera piena e completa; una speranza questa che viene costantemente frustrata dalle carenze di bilancio e dalla impostazione dei programmi scolastici che non lasciano spazio all’umano ma danno priorità alle richieste del mercato del lavoro.

Frattanto la più ampia crisi sociale provocata da questo modo di produzione in decadenza ha un impatto profondo sui bambini con l’aumento delle esperienze traumatiche che sono condannati a vivere a causa del crescente immiserimento materiale e morale della classe lavoratrice, dell’aumento dell’isolamento, della depressione e di altre sfide per la salute mentale che derivano dalla dissoluzione del tessuto sociale quando le relazioni sociali capitaliste si insinuano in tutti gli aspetti della vita. Il diffondersi dell’epidemia di droghe e l’angoscia per le guerre imperialiste globali che si profilano sono solo alcune delle realtà quotidiane in cui bambini e famiglie si trovano a fare i conti.

Gli insegnanti sono in prima linea in questa crisi sociale. Con le loro rivendicazioni sindacali e con i loro scioperi hanno il dovere di educare le famiglie operaie alla realtà concreta della lotta di classe, abbandonando gli occhiali rosa del collaborazionismo e del sistema educativo come istituzione “neutra” in cui lavoratori e padroni avrebbero un illusorio interesse comune.

Questo inganno può solo nuocere, perpetuando un’insidiosa menzogna sulla natura della vita sociale sotto il capitalismo. Le esperienze dolorose, i traumi, lo sfruttamento e la mortificazione che gli studenti più svantaggiati sperimentano sono il portato della decrepita società di classe in cui viviamo. Gli educatori in quanto tali cercano ovviamente di alleviare, nella misura del possibile, queste condizioni e dotare i loro studenti di alcuni strumenti di conoscenza di sé stessi e del mondo che li circonda. Nutrire gli studenti di menzogne significherebbe rendere loro un cattivo servizio.

Ma è solo identificandosi nella più ampia classe operaia che le lotte degli insegnanti condurranno a maggiori possibilità di successo nella difesa delle loro condizioni di vita e di lavoro. È su questa base che possono rendersi utili a sé stessi e alle famiglie operaie, che avvicinano ponendosi come compagni di cui condividono la stessa condizione di lavoratori salariati.


Uno sciopero per l’intera classe operaia!

Chiediamo quindi ancora una volta che l’OEA mobiliti le sue sezioni locali per intraprendere azioni di sciopero solidali con la PAT, attraverso la proclamazione di scioperi e di fermate contro le pratiche di lavoro sleali. Inoltre chiediamo a tutti i sindacati dei lavoratori dell’istruzione della zona di mantenere l’unità degli insegnanti. Al di là della lotta contro un consiglio scolastico isolato, la PAT sta lottando contro tutta la classe dei capitalisti in un confronto con una serie di forze che per poter vincere richiedono una più ampia solidarietà della classe operaia della regione. Noi, Partito Comunista Internazionale, sottolineiamo la necessità di uno sciopero generale dei lavoratori di tutta l’area metropolitana di Portland in cui i lavoratori di tutte le categorie si uniscano nei picchetti.

Oltre a questo, facciamo nostro l’appello dell’UAW affinché i sindacati dei lavoratori inizino ad allineare le date di scadenza dei loro contratti al 1° maggio, in previsione di un potenziale sciopero generale per i contratti nel 2028.

La crisi economica in atto e la crisi nella scuola hanno creato le condizioni per un’ondata di scioperi a livello nazionale. Da Los Angeles, a Vancouver, a Washington, fino al movimento “Red for Ed” nel Sud americano. Gli scioperi degli insegnanti hanno vinto laddove hanno potuto contare su un’ampia solidarietà delle altre categorie di lavoratori della scuola, di ruolo e non, che hanno scioperato insieme a loro, e dove i sindacati di più distretti sono scesi in sciopero contemporaneamente.

Si tratta di lezioni importanti che l’OEA deve tenere in considerazione nella gestione dello sciopero degli insegnanti di Portland, se si vuole ottenere il miglior contratto di lavoro possibile.

Gli insegnanti devono riconoscere i reali antagonismi di classe che prevalgono nel sistema educativo e che sono generalizzati a tutta la società classista. Devono unirsi con tutti i lavoratori della scuola e con la più ampia classe operaia con l’obiettivo di porre fine al marcio sistema di sfruttamento che porta così tanto danno e distruzione al mondo. In primo luogo devono lavorare per riformare un movimento sindacale di classe, abbandonando le vecchie pratiche disfattiste del sindacalismo aziendale, a favore di un movimento sindacale che riconosca la natura di classe della società e si organizzi attorno a un’azione di sciopero di massa esteso all’intera classe operaia.







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Riunione internazionale - 29 settembre - 1 ottobre

Risplende la dottrina rivoluzionaria della classe operaia sul fallimento storico del capitale e unico riscatto dal riemergere dei mostri del crollo economico e della guerra

[R.G. 147]

(Prosegue il resoconto della riunione generale di settembre)


Per la storia del Partito Comunista Internazionale

La serie di rapporti che ci accingiamo a tenere concernente la storia del nostro partito hanno lo scopo di presentarlo nella sua continuità e unicità.

Una nostra specificità è che non abbiamo parentele con nessuno, anzi coloro che appaiono più vicini sono in realtà i più lontani e noi ci siamo sempre ben guardati da assimilarci o avvicinarci a qualsiasi altro raggruppamento politico cosiddetto affine.

La data di nascita del nostro attuale Partito è incontestabilmente il 1952. Ma, come abbiamo scritto, non si trattò di una svolta o di un aggiustamento di rotta, bensì di riprendere il filo del passato saldandolo al presente e proiettandolo nell’avvenire.

Non è certo un caso che in ogni pubblicazione di Partito non omettiamo mai stampare il nostro “distingue”: «La linea da Marx a Lenin a Livorno 1921, alla lotta della Sinistra contro la degenerazione di Mosca, ecc. ecc.». Infatti rivendichiamo totalmente le nostre profonde radici e riconosciamo come parte integrante della nostra tradizione tutta l’opera e l’elaborazione teorica di quella Sinistra marxista già presente e strutturata all’interno del PSI fin dagli albori del XX secolo.

Ciononostante il nostro Partito attuale ha delle caratteristiche ben diverse da quelle dei partiti di allora, dovute a una selezione storica che fa tesoro sia delle vittorie sia delle sconfitte del movimento operaio internazionale e dei suoi partiti.

Se fino al 1914 all’interno dei medesimi partiti e della II Internazionale potevano convivere le due anime, la riformista e la rivoluzionaria, fu lo scoppio della guerra imperialista che si incaricò di separare e definire l’inconciliabilità delle due opposte tendenze: da una parte la socialdemocrazia, al servizio del capitale e delle rispettive patrie borghesi, dall’altra la rivoluzionaria, per il sabotaggio della guerra, la sua trasformazione da guerra fra Stati in guerra tra classi, la presa violenta del potere e l’instaurazione della dittatura del proletariato.

Lo stesso avvenne dopo l’esperienza della controrivoluzione staliniana. Durante tutto lo svolgimento della seconda guerra mondiale la quasi totalità del movimento proletario subì un palese asservimento agli interessi della conservazione capitalista segnando la liquidazione, anche ufficiale, della III Internazionale.

Nessuna altra organizzazione politica all’infuori della nostra corrente ancorata alla Sinistra comunista italiana seppe portare fino in fondo la critica alla degenerazione stalinista. Di conseguenza la guida del proletariato internazionale potrà essere presa solo dall’unico e unitario Partito Comunista Internazionale.

Quando si parla di Sinistra comunista italiana nella mente dei più si pensa al suo astensionismo. Noi possiamo affermare che si trattò, all’epoca, di un aspetto molto importante dal punto di vita tattico, ma non di principio. Al contrario fino da allora la Sinistra comunista aveva elaborato altri caratteri fondamentali della vita interna del partito e dei rapporti tra compagni: centralismo organico, rifiuto di ogni tipo di personalismo, possibilità di ogni compagno a partecipare al lavoro di partito.

A questo proposito nel rapporto esteso verranno riportate ampie citazioni tratte dai nostri testi classici, a dimostrazione di come l’attuale Partito si trovi in perfetta continuità con la tradizione della Sinistra.

Centralismo organico. Fin dal 1922 proponemmo l’abbandono del concetto organizzativo del “centralismo democratico” sostituendolo con il più appropriato “centralismo organico”. «I partiti comunisti devono realizzare un centralismo organico che, col massimo compatibile di consultazione della base, assicuri la spontanea eliminazione di ogni aggruppamento tendente a differenziarsi. Questo non si ottiene con prescrizioni gerarchiche formali e meccaniche, ma, come dice Lenin, colla giusta politica rivoluzionaria» (Tesi di Lione, 1926).

Funzione e ruolo del capo nel nostro partito. «Anche i capi sono un prodotto dell’attività del partito, dei metodi di lavoro del partito, e della fiducia che il partito ha saputo attirarsi. Se il partito, malgrado la situazione variabile e spesso sfavorevole, segue la linea rivoluzionaria e combatte le deviazioni opportunistiche, la selezione dei capi, la formazione di uno stato maggiore, avvengono in modo favorevole, e nel periodo della lotta finale noi riusciremo non certo ad avere sempre un Lenin, ma una direzione solida e coraggiosa» (VI Esecutivo Allargato, 1926).

Disciplina e frazioni. «L’apparire e lo svilupparsi delle frazioni è indice di un male generale del partito, è un sintomo della mancata rispondenza delle funzioni vitali del partito stesso alle sue finalità, e si combattono individuando il male per eliminarlo, non abusando dei poteri disciplinari per risolvere in modo necessariamente formale e provvisorio la situazione» (“Piattaforma della Sinistra”, 1925).

«Non vediamo gravi inconvenienti in una esagerata preoccupazione verso il pericolo opportunista (...) Mentre gravissimo è il pericolo se all’opposto (...) la malattia opportunista grandeggia prima che si sia osato da qualche parte dare vigorosamente l’allarme. La critica senza l’errore non nuoce nemmeno la millesima parte di quanto nuoce l’errore senza la critica» (“Il pericolo opportunista e l’Internazionale”, 1925).

Come fu allora possibile che il Partito nato a Livorno, fondato su simili capisaldi in seguito degenerasse? La risposta è che non si trattò di un problema nazionale, ma internazionale e i partiti della III Internazionale per ragioni storiche nacquero spuri, da scissioni più o meno a sinistra dei vecchi partiti socialdemocratici, da unioni tra gruppi non omogenei e perfino il Partito Comunista d’Italia non poté sottrarsi del tutto a questo difetto di origine. Il processo degenerativo dipese anche dalle debolezze che storicamente avevano contraddistinto il processo di formazione della nuova organizzazione internazionale che, quando si verificò il riflusso rivoluzionario, pesarono sulle sue capacità di reazione alla situazione sfavorevole.

Il rapporto è quindi passato ad esporre le tappe della degenerazione sia del movimento comunista rivoluzionario internazionale, sia del PCd’I.

Gli errori tattici dell’Internazionale portarono ad una lunga serie di sconfitte, a cominciare da quella della rivoluzione in Germania, pagata con la impossibilità di conquistare, dopo il primo, un altro grande paese alla rivoluzione, di decisiva importanza per lo sviluppo della rivoluzione mondiale.

Le fasi degenerative della III Internazionale non potevano non riflettersi anche all’interno del Partito Comunista d’Italia.

Dopo il 1924 il gruppo ordinovista, presa la direzione del partito, iniziò una violentissima campagna contro la Sinistra. In preparazione del suo III congresso, a Lione nel 1926, i procedimenti di voto imposti furono talmente truffaldini che la Sinistra, che un anno prima, alla conferenza di Como, aveva avuto l’adesione della quasi totalità dei delegati, venne confinata a una minoranza irrisoria.

Contemporaneamente nell’Internazionale e nel partito russo la controrivoluzione staliniana stava ormai registrando la sua definitiva vittoria su quanto rimaneva della tradizione rivoluzionaria di sinistra e internazionalista.

Attraverso falsificazioni di documenti, invenzioni di complotti e altri simili espedienti i nuovi capi del partito russo riuscirono ad avere ragione dei veri condottieri della rivoluzione russa. Le vie della deportazione si aprirono a Trotzky e agli altri compagni mentre il partito russo e l’Internazionale, ormai stalinizzati, imponevano come condizione per la permanenza nell’Internazionale l’accettazione della nuova teoria opportunista del “Socialismo in un solo paese”.

Nel Partito nato a Livorno nel 1921, ormai in via di completa stalinizzazione, fin dal 1925 una vera repressione interna era iniziata nei confronti di esponenti della Sinistra: espulsioni, sospensioni, campagne stampa denigratorie, azioni palesemente provocatorie divennero pratica ordinaria.

Da parte di più di uno storico borghese o presunto stratega rivoluzionario è stata evidenziata la “incapacità” della Sinistra comunista italiana di approfittare della occasione propizia e formare una opposizione internazionale in concorrenza e contrapposizione con quella degenerata di Mosca. In effetti quello si aspettavano alcuni compagni e i dirigenti dei gruppi di estrema sinistra internazionale. Sbagliò la Sinistra a mantenersi caparbiamente ancorata ai propri principi? Questo sarà il tema dei prossimi rapporti.



L’attività sindacale del partito in Italia

In Italia permane una condizione generale di passività e rassegnazione delle masse salariate, con lotte sporadiche che ancora non sono in grado di innescare un movimento esteso e men che meno generale.

Su questa base materiale, l’opportunismo politico-sindacale non viene né indebolito né tanto meno scalzato dalle posizioni di controllo delle organizzazioni sindacali e con ciò persistono i danni da esso provocati al movimento sindacale e alla classe operaia.

Lo stesso vale per ciò che nemmeno può dirsi opportunismo, bensì politica apertamente filo-padronale nei sindacati, condotta in Italia dalle dirigenze dei sindacati di regime: Cgil, Cisl, Uil, Ugl.

Questa condizione permane nonostante il generale indebolirsi del movimento sindacale e delle organizzazioni controllate dalle frazioni sindacali filo-borghesi a capo dei sindacati di regime, e opportuniste a capo degli organismi sindacali conflittuali, cioè delle aree di opposizione in seno alla Cgil e dei sindacati di base. L’indebolimento, prodotto da condizioni oggettive del capitalismo, è aggravato da tali dirigenze.

A luglio la federazione metalmeccanica della Cgil, la Fiom, ha proclamato uno sciopero di 4 ore diviso per regioni. Abbiamo redatto un volantino che abbiamo distribuito alla manifestazione per lo sciopero a Genova, il 7 luglio.

Come per lo sciopero generale convocato da Cgil e Uil, il 16 dicembre 2022, a Genova avevamo assistito alla più debole manifestazione cittadina organizzata per una simile manifestazione, con ancora maggior sicurezza possiamo affermare lo stesso per il corteo organizzato per lo sciopero cittadino dei metalmeccanici: mai così poco numeroso.

Il nostro volantino – “La madre di tutte le battaglie sindacali è la lotta per forti aumenti salariali! Per condurla occorre un Fronte Unico Sindacale di Classe!” (www.international-communist-party. org/Partito/Parti424.htm#VolGenova) – metteva alla berlina e colpiva molto efficacemente sia la dirigenza nazionale della Fiom Cgil sia l’opportunismo della frazione sindacale del gruppo politico che dirige la Fiom genovese. Tale dirigenza politico-sindacale locale aveva celebrato il congresso provinciale della Fiom Cgil a dicembre sotto lo slogan: “Coscienza, lotta, organizzazione. Per un Sindacato di Classe”.

Il nostro volantino attaccava innanzitutto la dirigenza nazionale della Fiom. Questa, al pari della dirigenza confederale, da un lato denuncia i bassi salari, per dar mostra ai lavoratori di rappresentare un bastione a loro difesa, dall’altro non rivendica veri aumenti salariali, cioè sul salario base e a carico delle aziende, bensì la riduzione delle tasse sul salario. Infatti, nel volantino della Fiom per lo sciopero del 7 luglio non si leggeva fra le rivendicazioni quella di “aumenti salariali” bensì di “valorizzare e sostenere il reddito da lavoro”.

In Italia la dirigenza della Cgil non usa più da anni il termine di classe lavoratrice e cerca persino di non parlare di salario, bensì di “reddito”! L’opera di demolizione d’ogni idea, principio e pratica di classe, iniziata dalla sua dirigenza fin dalla ricostituzione dall’alto del sindacato nel 1944, perdura tutt’oggi e avanza verso sempre nuove frontiere di sguaiato rinnegamento.

Nel nostro volantino così commentavamo: «Nemmeno hanno il coraggio di nominarlo il salario, che chiamano reddito, come ciò che intascano le classi sociali parassite che vivono sulle spalle della classe operaia».

Un mese prima dello sciopero del 7 luglio, a inizio giugno, il segretario nazionale Fiom aveva lodato il contratto di lavoro dei metalmeccanici firmato due anni prima insieme a Fim e Uilm in quanto, a suo dire, “difende il potere d’acquisto dei salari”. Ciò in quanto a maggio era scattato un aumento medio di circa il 6,6% perché nel contratto è previsto un adeguamento automatico all’inflazione, attraverso una verifica periodica. Ma l’aumento partiva da giugno e non era retroattivo: non recuperava cioè il potere d’acquisto dei salari perduti da fine 2021 a maggio 2023, cioè da quando l’inflazione aveva iniziato a correre. Oltre a ciò l’adeguamento si basava sull’indice IPCA. Questo indice dei prezzi al consumo, proposto nel 2009 da Cisl e Uil e che inizialmente la Cgil aveva dato mostra di rifiutare, per poi accettarlo del tutto a partire dal 2012, non include i prezzi dei beni energetici importati. Che come noto sono una componente fondamentale dell’inflazione di questi ultimi due anni in Italia.

Sul piano redazionale, nei giornali di luglio e settembre, abbiamo pubblicato articoli relativi alla rivolta dei giovani nelle periferie francesi; alla repressione contro le lotte operaie del regime borghese venezuelano, ammantato di “socialismo”; agli scioperi negli USA, in particolare nella UPS e nell’industria dell’auto; agli scioperi in Argentina e in Brasile e, infine, a Fiume, in Croazia, dove i netturbini si sono organizzati per lottare fuori dal sindacato di regime.

In Italia è proseguita l’attività nel Coordinamento Lavoratori Autoconvocati. L’8 giugno è stato pubblicato un comunicato di solidarietà con il Coordinamento Macchinisti Cargo (CMC) in vista del nono sciopero organizzato da questo organismo, proclamato per il giorno successivo.

Il 25 giugno si è tenuta un’assemblea a Firenze, sul tema della Salute Sicurezza e Repressione sui posti di lavoro e nel territorio, al termine della quale è stata redatta una mozione di solidarietà coi lavoratori in lotta, organizzati con il SI Cobas, presso l’azienda Mondo Convenienza di Campi Bisenzio (Firenze), e sono stati raccolti 350 euro da dare ai lavoratori. Nell’assemblea si è deciso di lavorare a una mobilitazione a settembre/ottobre sul tema “Salute Sicurezza Repressione” nonché in direzione della costituzione di un più largo coordinamento che si impegni su questo problema.

Il 29 giugno, al corteo a Viareggio per il 14esimo anniversario della strage occorsa nel 2009, hanno sfilato insieme rappresentanze del CMC, della GKN, di Mondo Convenienza, dell’Area di opposizione in CGIL Toscana e del CLA.

Il 19 luglio il CLA ha pubblicato un nuovo comunicato di solidarietà con il CMC, per il decimo sciopero previsto per il 21 luglio.

Il 23 luglio si è tenuta una riunione allargata, in presenza e on-line, per attuare gli impegni assunti all’assemblea del 25 giugno a Firenze. Il 30 luglio è stato pubblicato il resoconto della riunione. È stata decisa una giornata di mobilitazione a Bologna, dinanzi al tribunale, per il 12 ottobre.

Il 2 settembre è stato pubblicato un comunicato sulla strage ferroviaria di Brandizzo (Torino) occorsa due giorni prima, in cui hanno perso la vita 5 operai addetti alla manutenzione della linea.

* * *

Al rapporto sindacale, esposto a fine settembre, aggiungiamo qui il dato che, dalla giornata di mobilitazione promossa dal CLA e altre organizzazioni, è scaturita una collaborazione permanente fra questi organismi, che per ora si è data il nome di “Coordinamento 12 ottobre”. Vi aderiscono: il CLA, il Coordinamento Macchinisti Cargo, i sindacati SGB, Cub Trasporti e SOL Cobas, attivisti dell’area in Cgil ‘Le Radici del Sindacato”, Familiari della strage ferroviaria di Viareggio e della Torre piloti di Genova, l’Assemblea 29 giugno, Medicina Democratica.



Questione militare
La guerra civile in Russia - Le tre battaglie per Caricyn

Nel fronte meridionale della guerra civile furono molto importanti le grandi battaglie per la conquista di Caricyn per la sua rilevante importanza strategica. Questa città sulle rive del Volga è stata chiamata Tsaritsyn, Stalingrado, ed oggi Volgograd.


Prima battaglia, luglio-settembre 1918

Il generale antibolscevico Krasnov era sostenuto dal Krug, l’assemblea cosacca, e specialmente dall’aiuto economico e militare tedesco. Disponeva di una discreta forza di circa 40.000 soldati, 610 mitragliatrici e di 150 pezzi di artiglieria. Krasnov riuscì ad estendere il suo controllo su altri territori cosacchi e il 17 aprile 1918 fondò la Repubblica del Don, che si estendeva su una superficie vasta più della metà dell’Italia, con meno di 4 milioni di abitanti, per la metà cosacchi e la restante parte mal sopportati contadini e operai immigrati.

A Krasnov occorreva la conquista di Caricyn, importante nodo ferroviario che collegava il centro della Russia con le regioni del basso Volga e del Caucaso. Dal Sud vi transitava la maggior parte del grano, delle derrate alimentari e del combustibile verso le grandi città del nord controllate dai bolscevichi e di tutte le materie prime occorrenti all’industria bellica sovietica e all’Armata rossa, impegnata nella difesa della “fortezza accerchiata” della rivoluzione su un fronte di 8mila chilometri.

Inoltre i cosacchi, conquistata la città, avrebbero potuto unire le forze con quelle dell’atamano Dutov, all’offensiva sul Volga 450 chilometri più a nord. Questo congiungimento avrebbe facilitato l’avanzata su Mosca.

I piani elaborati dal cosacco bianco Denisov per la prima battaglia per Caricyn prevedevano una offensiva su due direttrici: la principale diretta sulla città; una seconda di contenimento di eventuali soccorsi rossi provenienti da molto più a nord.

Il comando militare bolscevico era subordinato all’approvazione di Stalin, nominato il 31 maggio “dirigente generale degli approvvigionamenti nel sud della Russia investito di poteri straordinari”.

Le difese sovietiche, distribuite lungo il corso del Don, erano numericamente equivalenti a quelle nemiche. Ma erano mal coordinate tra loro e dislocate principalmente a difesa di Caricyn, indebolendo i settori a nord della città.

La difesa disponeva di treni blindati i quali, spostandosi rapidamente sull’anello ferroviario esterno, potevano soccorrere i difensori rossi cannoneggiando il nemico; pure lo potevano fare le cannoniere fluviali sul Volga.

L’attacco bianco a nord contraddistinto dalla forte superiorità numerica e dal mancato coordinamento rosso, permise di interrompere le comunicazioni ferroviarie con Mosca isolando la città e rendendo vani i parziali successi rossi nel settore centrale e meridionale. Le truppe rosse dovettero retrocedere e ridistribuire le unità.

Furono emanati severi decreti contro i disertori, spie e sabotatori e mobilitate le classi più giovani, sottoposte a un frettoloso addestramento.

Il 22 agosto l’Armata rossa riorganizzata lanciò una controffensiva su due direzioni rompendo le linee nemiche con ripetuti assalti alla baionetta, facendole retrocedere sull’intero arco del fronte. Altre vittorie rosse nelle seguenti settimane respinsero i cosacchi al di là del Don, sulle posizioni iniziali, decretando il fallimento della prima offensiva di Krasnov.

Molto pesanti furono le perdite dei cosacchi: 12.000 tra morti, feriti e prigionieri; ma peggiori le nostre: 50.000 tra morti, feriti e prigionieri, nonostante un bottino di decine di mitragliatrici, 27.000 fucili, 3.000 cavalli e gran quantità di munizioni.

Un telegramma di Stalin a Lenin del 6 settembre termina: «Il nemico è in rotta e si ritira dietro il Don. Caricyn è sicura! L’offensiva continua». Trotzki, Presidente del Consiglio militare rivoluzionario e capo dell’Armata rossa, telegrafò invece a Lenin la richiesta di richiamare immediatamente Stalin a Mosca perché: «La battaglia per Caricyn, nonostante le forze superiori, è comunque andata male».

In realtà lo sfondamento non era avvenuto. Denisov, per allentare la pressione, si era ritirato lentamente sostenendo limitati combattimenti che riuscirono a fermare i contrattacchi bolscevichi.

Il grande lavoro di riorganizzazione dell’Armata rossa diretto da Trotzki aveva prodotto una efficiente struttura militare e gerarchica organizzata per fronti e armate con un audace piano di reintroduzione dei militari di professione nell’esercito bolscevico, la selezione dei quali era affidata ad una commissione speciale diretta da Lev Glezarov. All’inizio della guerra civile il corpo ufficiali dell’Armata rossa era composto per il 75% da ex ufficiali dello Zar, spesso utilizzati come specialisti militari, componente che salì all’83% alla fine della guerra civile nel 1922. Si registrò che su 82 generali zaristi al comando nell’Armata rossa solo 5 tradirono. La loro fedeltà fu ottenuta all’occorrenza tenendo in ostaggio le loro famiglie.

Tra gli ex ufficiali che servirono la rivoluzione e si distinsero per notevole capacità era Tuchačevskij, entrato nell’Armata Rossa nel 1918. Per le sue doti strategiche e di comando già nel 1918 gli fu affidato, a soli 25 anni, il comando della Prima Armata.


Seconda battaglia, settembre-ottobre

Nella seconda metà di settembre Denisov lancia una nuova offensiva per la conquista di Caricyn su due direttrici: la prima da nord-ovest affidata al generale Ficchelaurov con 20.000 uomini, 122 mitragliatrici, 47 pezzi di artiglieria e due treni blindati, avrebbe dovuto tagliare le comunicazioni col nord. La seconda, affidata al generale Mamontov, per l’attacco principale da ovest disponeva di 25.000 soldati, 156 mitragliatrici, 93 pezzi di artiglieria e ben 6 treni blindati, mezzi ritenuti ormai indispensabili per le operazioni in quel vasto teatro di battaglia.

Le difese bolsceviche disponevano di circa 40.000 uomini, 200 mitragliatrici, 152 pezzi di artiglieria e 13 treni blindati. Migliorata l’organizzazione, era stata realizzata una rete di fortificazioni attorno alla città con trincee e altre opere difensive.

Stalin, contrario al piano di Trotzki sulla reintroduzione degli ex ufficiali zaristi, su cui nutriva assoluta sfiducia, lo denunciò al Consiglio militare rivoluzionario della Repubblica.

Di fatto sul Fronte sud vi erano due consigli militari: quello ufficiale con Sytin e il suo Stato maggiore, e quello di Stalin con Vorošilov. Ciò produsse una serie di ordini e contrordini che si annullavano a vicenda creando scompiglio.

L’offensiva bianca si sviluppò nel settore centrale e meridionale per tagliare i collegamenti con Astrakhan e il Caucaso e si incuneò nelle linee difensive rosse arrivando a circa 40 km da Caricyn, tagliando fuori dalla battaglia l’ala estrema meridionale bolscevica.

Dall’8 all’11 ottobre l’offensiva si inasprì intorno a Sarepta, sul tratto sud dell’anello ferroviario che circondava la città. Per i controrivoluzionari prendere quella stazione significava scardinare il sistema difensivo di Caricyn ed aprirsi un ampio varco d’accesso nel settore meridionale.

Il primo deciso attacco dei cosacchi bianchi di Mamontov fu bloccato dal fuoco dei treni corazzati e dai ripetuti contrattacchi alla baionetta della fanteria sovietica così che il generale bianco fermò l’operazione in attesa di riserve.

Stalin inviò telegrammi per ottenere rinforzi e viveri, senza ottenere risposta; Vorošilov scavalcò la gerarchia militare e si rivolse direttamente a Lenin. Il 15 ottobre Vacietis, comandante in capo del RVSR, gli rispose addossando la responsabilità della catastrofica situazione a Stalin, ma per l’evidente stato di pericolo gli inviò dei rinforzi.

I bianchi attaccarono tra le stazioni ferroviarie di Voroponovo e Čapurniki. Qui Vorošilov aveva fatto realizzare una doppia linea di trincee.

Il 15 ottobre Mamontov lanciò 25 reggimenti. Le ben organizzate difese russe ressero bene il primo attacco.

Pochi chilometri più a sud, a Beretovka, due reggimenti sovietici, composti di giovani contadini appena arruolati, si ammutinarono, uccisero i comandanti e andarono incontro ai cosacchi. Questi li scambiarono per un assalto di fanteria e li tempestarono di piombo mentre alle spalle erano colpiti anche dal fuoco dalle trincee sovietiche.

Nel mentre arrivò la valorosa Divisione di Ferro di Žoloba con 15.000 uomini i quali, con marce forzate anche notturne, utilizzando un percorso defilato riuscirono a portarsi alle spalle dei cosacchi e colpirli presso Čapurniki. I cosacchi sotto il fuoco di fronte e alle spalle resistettero nemmeno per un’ora subendo la perdita di 1.400 uomini, 6 cannoni e 49 mitragliatrici; fu fatto prigioniero il comandante del settore con l’intero suo stato maggiore costringendo i bianchi a retrocedere verso ovest.

16 ottobre: Mamontov conquistò Voroponovo, pur con pesanti perdite. I sovietici a corto di munizioni furono costretti ad arginare le avanzate bianche con ripetuti contrattacchi alla baionetta per riassestarsi per la difesa della stazione di Sadovaja.

Le avanguardie controrivoluzionarie arrivarono, a soli 7 chilometri da Caricyn, all’ultima linea di trincea e filo spinato presso la stazione di Sadovaja, dove Vorošilov organizzò l’ultima difesa. Radunò tutte le bocche da fuoco disponibili, compresi i treni blindati, e concentrò il tiro sui settori del nemico in avanzata.

17 ottobre: Cessato il bombardamento preventivo la fanteria cosacca avanzò secondo il loro classico schema di combattimento in ordinate e compatte file con le bandiere al vento. Giunti a 400 metri dalle trincee rosse furono investiti dal muro di fuoco di sbarramento che creò enormi buchi nei loro ranghi serrati. La fanteria rossa uscì dalle trincee per inseguire il nemico in ritirata che ripiegò verso ovest. L’anello ferroviario intorno a Caricyn rimaneva così sotto il controllo bolscevico.

Dopo questa pesante sconfitta Mamontov lanciò un attacco con le truppe del settore nord. I bianchi aggirarono Caricyn da nord su due direttrici, anche per bloccare il traffico fluviale sul Volga. Vorošilov tramite rapidi spostamenti per linee interne riuscì a ripristinare le difese, rafforzate anche dall’arrivo di esperti reggimenti lettoni dal fronte orientale, che ripristinarono la supremazia numerica a favore dei rossi.

22 ottobre: l’avanzata verso Caricyn da nord fu arrestata e i bianchi respinti a circa 30 chilometri dalla città, permettendo a novembre di ripristinare i collegamenti ferroviari con la Russia sovietica.

Fu chiaro che la seconda offensiva controrivoluzionaria per Caricyn era fallita, i bianchi arretrarono da tutte le loro posizioni precedentemente conquistate lamentando 20.000 uomini persi tra morti e feriti contro i 30.000 sovietici.

Questa notevole sconfitta toglieva a Krasnov ogni speranza di collegarsi con i cosacchi di Dutov, che agivano ad est del Volga; il morale dei cosacchi crollò, sempre meno convinti a combattere lontano dai loro territori d’origine. L’arrivo della stagione fredda determinò un progressivo rallentamento di tutte le operazioni.

11 novembre: l’armistizio stipulato dalla Germania ne sanciva la sconfitta e l’uscita dalla guerra, privando ogni sostegno alle formazioni cosacche, costringendo Krasnov a una politica di apertura verso l’Armata dei Volontari di Denikin, sostenuta principalmente dagli inglesi e dai francesi.

Il fallimento dell’Esercito del Don a Caricyn, pur superiore nei combattimenti, va ricercato in una serie di cause: il forte attaccamento dei cosacchi alle terre d’origine li portava spesso a disertare quando dai loro villaggi giungevano notizie di pericolo; usarono la loro efficiente cavalleria in modo inadeguato rispetto alle nuove modalità della guerra moderna: non rapidi spostamenti di truppa ma ormai superate cariche al galoppo, fermate dalle mitragliatrici piazzate in posizioni fortificate.

Le scelte attuate da Vorosilov e da Stalin per una difesa mobile e attiva, che lasciava sfogare l’impeto cosacco in assalti sanguinosi per poi passare a contrattacchi alla baionetta, fu possibile perché lo standard qualitativo delle truppe rosse migliorava sensibilmente, battaglia dopo battaglia.

La frattura fra Stalin e Trotzki, che arrivò a costituire una sorta di “opposizione militare”, era assolutamente inconcepibile nel mezzo della guerra civile per la difesa della rivoluzione proletaria. Lenin, pressato da entrambi le parti, infine richiamò Stalin a Mosca.




Corso dell’economia - Un quadro generale


Il calo dell’inflazione

L’aumento dei tassi di interesse ha portato a un rallentamento dell’economia mondiale, fino alla soglia di una recessione globale. Questo ha determinato una significativa discesa dell’inflazione che, dopo aver raggiunto un picco nel giugno 2022 del 9,1% negli Stati Uniti e nell’ottobre 2022 del 10,6% in Europa, è scesa a giugno del 2023 al 5,5% in Europa e al 3% negli Stati Uniti. Tuttavia, l’inflazione è leggermente tornata ad aumentare negli Stati-Uniti, raggiungendo il 3,7% in agosto, un fenomeno che viene ascritto alla stagione estiva e agli incentivi governativi per rilocalizzare la produzione industriale e sostenere lo sviluppo di nuove tecnologie.

In Europa il divario dell’inflazione fra i diversi Paesi tende a ridursi: a giugno, il valore più alto, nel Regno Unito, ha registrato il 6,3% e in Francia del 4,9%. Un fattore determinante è sicuramente l’aumento del prezzo dei carburanti, legato all’aumento del prezzo del petrolio

Per rilanciare i prezzi del petrolio, l’OPEC+ ha ripetutamente tagliato la produzione giornaliera, tanto che lo squilibrio tra domanda e offerta nel terzo trimestre ha raggiunto 1,6 milioni di barili al giorno, il livello più alto dal 2021. Per compensare questo calo i Paesi consumatori di petrolio stanno attingendo alle scorte: solo nel mese di agosto hanno prelevato 76,3 milioni di barili, portando le scorte al livello più basso degli ultimi 13 mesi. Il risultato è stato un aumento dei prezzi. Il greggio Brent del Mare del Nord era venduto (settembre 2023) a 94 dollari al barile.

Il monopolio di alcuni Paesi sulla produzione di idrocarburi non è l’unica causa dell’aumento dei prezzi. A ciò si aggiunge il sottoinvestimento degli ultimi dieci anni nei settori delle materie prime e dell’energia, e la speculazione, che vede l’opportunità di ottenere rendite favolose.

Ma, nella crisi cronica del modo di produzione capitalistico, la recessione sarà seguita da una nuova ondata di deflazione. Le banche centrali dovranno allora ancora una volta correre in soccorso del capitale per tenerlo in piedi.


La produzione industriale

La tendenza generale non è solo verso un forte rallentamento, ma addirittura verso la recessione.

Negli Stati Uniti, nonostante le centinaia di miliardi di dollari versati dal governo per sostenere la produzione industriale e per modernizzarla sviluppando nuovi rami tecnologici, dal dicembre 2022 abbiamo assistito a un evidente rallentamento, con una crescita prossima allo zero. Per la produzione industriale, che include la produzione di gas e petrolio di scisto, si registra solo la piccola crescita dello 0,2% nei primi otto mesi del 2023, rispetto all’intero 2022. Se invece consideriamo la sola produzione manifatturiera, notiamo un calo dell’1,7%, che va ad aggiungersi a 15 anni di declino, che porta il settore al -7,6% rispetto al picco del 2007.

Anche se alcune centinaia di miliardi di dollari di aiuti statali permetteranno alla produzione industriale americana di ammodernarsi e di affrontare la “transizione energetica”, questo non impedirà il dilagare della crisi storica del modo di produzione capitalista.

L’economia giapponese continua ad arrancare. Dopo un recupero del 5,1% nel 2021, rispetto al -10,1% del 2020, e la modestissima crescita dello 0,2% nel 2022, il Giappone registrerà un -1,6% nel 2023, portando il livello di produzione a -19% rispetto al massimo raggiunto nel 2007.

La Corea del Sud, dopo anni di crescita relativamente forte, con una media del 2,8%, si trova ora nel bel mezzo di una recessione con un calo della produzione industriale del 6,1% nei primi sette mesi dell’anno! Non è un dato trascurabile. Una forte tendenza al ribasso che preannuncia una formidabile crisi di sovrapproduzione.

La Germania è entrata in recessione dal settembre 2021. Insieme al Belgio, era uno dei pochi Paesi dell’Europa occidentale ad aver superato il massimo raggiunto nel 2008, ma ora ha perso i suoi guadagni. Dal 2014 al 2018, la crescita della Germania è stata debole (1,5% di media annua) ma costante, mentre negli altri Paesi dell’Europa occidentale la crescita è ripresa solo durante il biennio 2017-18, segnato da una congiuntura internazionale favorevole, per poi calare dal 2019 in poi in tutti i principali Paesi imperialisti, compresa la Cina.

Nei primi sette mesi del 2023, l’industria tedesca ha registrato un leggerissimo guadagno rispetto al 2022, dello 0,21%. Tuttavia il livello della produzione è sceso del 7,7% rispetto al picco del 2018, mentre rispetto a quello del 2008 abbiamo un meno 0,7%, in altre parole il capitalismo tedesco è tornato al punto di partenza.

La scelta tariffaria sull’energia compiuta dalla borghesia tedesca è stata imposta a tutta Europa allineando il prezzo dell’elettricità a quello del gas, in modo che l’industria tedesca non sia svantaggiata rispetto a quella francese, che beneficia di un’energia più economica grazie al nucleare. La borghesia francese ha accettato di sacrificare la propria industria, intravedendo i guadagni dall’aumentata rendita energetica e ha puntato ad arricchirsi, a spese del proletariato e della piccola borghesia, privatizzando la produzione di elettricità. Una crescente massa di parassiti ha comprato l’elettricità da EDF a prezzi bassi per venderla a un prezzo più alto sul “mercato libero”.

La borghesia tedesca per l’approvvigionamento energetico aveva scommesso sul gas russo a basso costo. Ma dopo l’invasione dell’Ucraina da parte dell’imperialismo russo, la Germania si è trovata costretta a comprare petrolio e gas da altri fornitori a prezzi elevati, riducendo così la competitività della sua industria di fronte alla Cina e agli Stati Uniti. Mentre questi ultimi producono gas e petrolio di scisto, la Cina compra gran parte dei suoi idrocarburi dalla Russia con uno sconto del 30%. Il Cremlino diventa così sempre più dipendente dall’imperialismo cinese.

Come molti vecchi Paesi imperialisti, la Germania investe poco in infrastrutture e tecnologia digitale, e parte dell’apparato industriale è obsoleto. Questo indebolisce la competitività del capitalismo tedesco.

Per anni la Germania ha investito pesantemente in Cina per trarre vantaggio dal quel gigantesco mercato, in piena espansione. Il prodigioso sviluppo del capitalismo cinese nel primo ventennio del secolo ha contribuito fortemente ad aumentare il tasso medio di profitto e ha offerto un mercato gigantesco, salvando il modo di produzione capitalista per altri decenni. Questo è stato possibile perché, a partire dagli anni ‘50, il capitalismo di Stato cinese ha sviluppato una formidabile base industriale con le infrastrutture necessarie che hanno permesso l’affluire di investimenti. I monopoli tedeschi dell’industria automobilistica, meccanica e chimica, investendo massicciamente in Cina, hanno realizzato per anni profitti favolosi. Ma il capitalismo cinese, che nel frattempo ha visto rallentare la sua crescita, avendo acquisito il know-how dall’Occidente, è ora in grado di competere in quei settori, come le macchine utensili, i prodotti chimici, gli autoveicoli, che sono la forza del capitalismo tedesco.

La Cina è il principale partner commerciale della Germania, l’interscambio fra i due paesi ha raggiunto 300 miliardi di dollari. Ma il disavanzo commerciale tedesco è in continua crescita. Una tendenza che potrebbe essere rafforzata con la crescente concorrenza delle auto elettriche cinesi, i cui prezzi sono competitivi. L’Europa, e la Germania in particolare, sono in ritardo in questo settore e non possono competere con la produzione cinese. Dopo aver rifiutato per anni di investire nella produzione di batterie, magneti e motori elettrici, l’industria europea, e quella tedesca in particolare, stanno combattendo per la propria sopravvivenza. Il succulento mercato dell’auto potrebbe sfuggire del tutto alla borghesia europea, incapace di produrre veicoli competitivi in termini di prezzo e di qualità.

Il capitalismo tedesco in crisi senile rischia così di doversi piegare a potenze imperialistiche ben più forti.

Il capitalismo francese, come quello tedesco, con una crescita della produzione industriale dello 0,51%, è andato leggermente meglio nel 2023 rispetto al 2022 che era stato di leggera recessione. Ma il quadro generale è ancora meno roseo di quello tedesco. Rispetto al 2019 la produzione è inferiore del 4,9%, mentre resta del 12% al di sotto del culmine del 2007. In altre parole, il livello di produzione è molto vicino a quello del 2009, nel momento peggiore della crisi di sovrapproduzione. Come si vede, nonostante tutti i trucchi che hanno messo in atto, gli Stati imperialisti più vecchi non sono in grado di uscire dalla crisi del 2000-2009.

L’altro grande malato d’Europa è il Regno Unito. Dopo la forte ripresa nel 2021 dalla caduta del 2020, la Gran Bretagna è di nuovo in recessione dall’ottobre 2021. Se confrontiamo l’indice dei primi sette mesi del 2023 con quelli del 2022, abbiamo un -1,4%, un calo che segue quello del -3,7% del 2022. Se confrontiamo l’indice del 2019 con il massimo raggiunto nel 2000, scopriamo che nel 2022 la produzione industriale è ancora del 6,6% inferiore a quella di 22 anni prima. Quindi il capitalismo britannico è in recessione dagli anni 2000. Ma, come per magia, gli statistici della borghesia britannica hanno manipolato tutti gli indici. Se prendiamo la media dei primi sette mesi del 2023, anno di recessione rispetto al 2022, anch’esso in recessione, otteniamo un surplus di 1,5% rispetto all’indice del 2000! Quindi la borghesia britannica vorrebbe farci credere che il capitalismo britannico sta andando meglio di quello tedesco.

Anche questa insipienza è per noi una conferma della loro decadenza: presto le borghesie di tutti i paesi non saranno più capaci di produrre statistiche attendibili. Invece che sulla produzione industriale si affideranno alle ben più dubbie statistiche sul PIL.

La situazione in Italia non è affatto più rosea. Dopo una forte ripresa nel 2021, +11,7%, che ha fatto seguito a un calo dell’11% nel 2020, la crescita è scesa a +0,4% nel 2022, prima di diventare negativa nel 2023 con un -2,7%, sulla base degli indici dei primi nove mesi dell’anno. Dopo i due anni positivi del 2017 e del 2018, il capitalismo italiano aveva ridotto il divario con l’apice del 2007 di un non meno sbalorditivo -17,6%. Nonostante il recupero successivo alla pandemia, la produzione industriale è ancora del 20% inferiore a quella del 2007.

In Polonia l’accumulazione di capitale industriale per alcuni anni si è attestata a un tasso medio annuo del 5,4%, una crescita notevole se paragonata ai decrepiti capitalismi del Vecchio Continente. Ma con la recessione incominciata dall’inizio dell’anno, la produzione registra nei primi sei mesi un calo dell’1,7%.

Il commercio mondiale registra un rallentamento delle esportazioni a partire dall’ottobre 2022, ma sono diminuite drasticamente per la maggior parte dei principali Paesi imperialisti. Le esportazioni di Cina, Corea, Stati Uniti e Belgio sono diminuite di circa il 10%. Quelle del Giappone del 5%. Le importazioni cinesi sono diminuite del 15% a luglio su base annua. Come sempre il calo delle importazioni è sinonimo di recessione interna.

Possiamo concludere che, come previsto, dopo due anni di crescita nel 2017 e nel 2018, il capitalismo globale è di nuovo in recessione. Va notato che i vecchi Paesi imperialisti, ad eccezione di Belgio e Germania, non hanno mai riguadagnato il livello raggiunto nel 2007: tutto il recupero di questi due anni è andato perduto e la scala della produzione nella maggior parte dei principali Paesi imperialisti è ora vicina a quella del 2009!

Anche la Cina è colpita dalla recessione e nel settore immobiliare si hanno dei fallimenti spettacolari, come quello di Evergrande. Il quadro generale è quello di un’elevata disoccupazione, con almeno il 20% dei giovani senza lavoro, un calo dei consumi e un ritorno alla deflazione. Con questa crisi, un intero settore della piccola borghesia e della classe media cinese rischia di essere rovinato.

Su scala globale si sommano il colossale debito di aziende, famiglie e Stati, per non parlare della svalutazione di trilioni di obbligazioni. Di conseguenza la situazione è molto peggiore di quella del 2009.

Nella situazione attuale, con ogni capitalismo in lotta per la sopravvivenza, possiamo aspettarci una guerra commerciale sempre più feroce.

Ma arriverà il momento in cui il fallimento di alcune grandi aziende, che a sua volta porterà a quello di una grande banca, farà cadere tutte le tessere del domino. Il “si salvi chi può!” presto o tardi scatterà per i grandi Stati imperialisti e qualcuno di essi potrebbe essere costretto a dichiarare bancarotta.

(FINE DEL RESOCONTO DELLA RIUNIONE)








PAGINA 7
Nostri Lutti

Mauro De Grandi

Siamo oggi qui per salutare e ricordare, anche a nome di quanti non sono potuti giungere, il nostro carissimo Mauro.

Mauro carissimo, prima una sua lunga malattia ti ha separato dalla tua e nostra amata Silvana. Oggi sei tu a lasciarci, Donatella, Manuela, i tuoi adorati nipoti, e noi compagni tutti del partito.

Con noi sei stato un soldato della rivoluzione comunista. Hai dedicato con entusiasmo le tue energie alla causa del comunismo militando per tutta la vita nel nostro partito del Comunismo internazionale, in preparazione della rivoluzione della classe operaia. Quella rivoluzione e quel Comunismo che tu e noi non abbiamo potuto ancora vedere, e che i più vecchi di noi non vedranno, ma di cui, come tutti nel Partito, di eri e di oggi, hai potuto vivere e godere già nella nostra collettiva e quotidiana battaglia sociale, al fianco delle sofferenze, dei coraggiosi assalti e delle numerose sconfitte dei lavoratori di tutto il mondo, lezioni per nuovi vittoriosi assalti di domani.

Ricordiamo anche il tuo lungo impegno, la costante attenzione, l’acuta sensibilità nell’attività e nelle lotte operaie per la difesa delle condizioni di lavoro e per il formarsi e imporsi di genuine e combattive organizzazioni di classe, suscitando l’affetto, l’apprezzamento e la solidarietà dei compagni ferrovieri.

Noi tutti ci troviamo ora più soli, noi che avevamo bisogno di te, e ne avremmo ancora, della tua generosità, della tua intelligenza, della tua bonaria dolce e gioiosa ironia, della tua comprensione, disponibilità e vicinanza per tutti.

Anche per te, per restarti fedeli e per ricordarti, noi comunisti proseguiremo lo studio e la propaganda del Comunismo, per il quale qui riaffermiamo quella nostra non scalfita fede che per una vita abbiamo diviso con te. Il tuo entusiasmo ci resterà di esempio.

Grazie Mauro.


Il saluto dei compagni di Torino

Con enorme tristezza il Partito comunica a tutti coloro che l’hanno conosciuto e amato la morte prematura del compagno Mauro.

Nato e cresciuto in uno dei quartieri più proletari e combattivi di Torino, Le Vallette, sin dalla prima adolescenza Mauro si dimostrò un soldato della rivoluzione. Partecipò non ancora quindicenne agli scontri di strada contro la polizia. Militò dapprima nei circoli della Sinistra Comunista per poi, nel 1986, insieme a molti altri compagni aderire al nostro Partito, e restarci per sempre.

Mauro si contraddistinse per la grande capacità di organizzare i lavoratori, con acuta sensibilità nella direzione delle lotte operaie per la difesa delle condizioni di lavoro. Contribuì alla fondazione dei Cobas del personale viaggiante delle ferrovie.

Generoso, intelligente, dotato di una dolce ironia e disponibilità nei confronti di tutti, era amato dai lavoratori e da tutti coloro che lo conoscevano.

Noi tutti ci troviamo ora più soli, è vero, e non può essere diversamente.

Noi comunisti rifiutiamo le teorie delle religioni, fiori finti per abbellire le catene che imprigionano l’umanità. Ma dal punto di vista della fisica materiale sappiamo che il compagno Mauro non è morto. Esso resta presente nello spazio quadridimensionale degli eventi. Siamo noi esseri umani a percepire il tempo come un flusso inesorabile dal passato al futuro, e dalla nascita alla morte di ogni individuo vivente. Ma è una illusione, prodotta dall’evoluzione della specie, adatta a garantirci la sopravvivenza, ma che non corrisponde alla realtà dell’universo mondo. Da comunisti rigettiamo questa riduzione al personalismo e operiamo, e sentiamo, secondo scienza e coscienza di classe.

La melma borghese e piccolo borghese, che teme la sapienza e le è inaccessibile, impregnata nell’individualismo egoista e competitivo, concepisce la vita solo come estrinsecazione ed enfiarsi dell’io egoista. Per noi comunisti invece il vero valore umano di un uomo si determina nel superare, liberarsi dall’io, fondendosi nella comunità dell’uomo sociale, fino ad accorgersi parte della materia energia dell’universo, autorganizzata polvere di stelle.

Mauro partecipava a questo abbraccio di tutti i nostri compagni, morti, viventi e nascituri, come oggi è vivo nella memoria e nella lotta sociale di tutti i combattenti per un liberato uomo sociale.

San Paolo affermava che i cristiani erano di questo mondo ma non erano di questo mondo. Anche Mauro era di questo mondo ma non era di questo mondo. Viveva come tutti noi nel mondo dell’egoismo, dell’avidità, dell’alienazione del denaro, della competizione degli individui che come belve si battono per strappare il brano di carne da portare nella tana chiamata famiglia. Ma, a differenza di San Paolo, il mondo nuovo noi comunisti non lo collochiamo nei Cieli ma in Terra: il mondo dell’umanità affratellata, dell’uomo sociale che realizza e potenzia la propria individualità nella comunità del genere umano. Una umanità che non vede nell’altro un concorrente nemico ma un fratello con cui dividere gioiosamente i frutti della terra e del lavoro sociale.

Il compagno Mauro partecipava a questo grande sogno e pressante, urgente, necessario e maturo bisogno. E in questo era un uomo.


Giovanni Casertano

La settimana scorsa ci ha lasciato anche il nostro Giovanni. Dopo la morte di Livio, era rimasto l’ultimo compagno della vecchia guardia che avevamo ancora fra noi. Grande studioso, fino in tarda età da Napoli si è mantenuto in continua corrispondenza, mai mancando al suo, e nostro, lavoro e collaborando regolarmente alla migliore redazione della stampa del partito.

Avendo egli lasciato detto di avere in uggia le “commemorazioni”, scriviamo questo poco per informare i compagni e quanti l’hanno conosciuto e gioito della sua vitalità, brillante intelligenza e moti di spirito, e gli hanno voluto bene.


Mamma Ginevra

I compagni tutti abbracciano Alessandro che ha perduto sua madre. Ginevra non era comunista ma approvava che il figlio militasse nel partito. Aveva origini e istinto proletario e si è sempre posta dalla parte degli oppressi. In occasione delle riunioni del partito a Torino apriva volentieri la sua casa e si adoprava per ospitare i compagni venuti da fuori.