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PAGINA 1
Ogni giorno dalla striscia di Gaza giungono immagini e notizie di folle affamate, assetate, ammalate, stremate, mitragliate mentre sotto il sole fanno la coda per un piatto o una bottiglia d’acqua, con bombardati ospedali e scuole. Migliaia di palestinesi, anche giovanissimi, sono detenuti senza processo in Israele, mentre l’intera popolazione di Gaza è rinchiusa in un carcere a cielo aperto che ogni giorno è ridotto e bombardato.
Gaza non è l’unica regione del mondo dove si massacra senza un motivo apparente, si muore di fame o di sete. Ma questo studiato genocidio avviene per responsabilità di un governo e di un parlamento democraticamente eletti, l’“unica democrazia della regione”, per azione di un esercito regolare di uno Stato, non di criminali bande mercenarie, con armi liberamente vendute, quando non donate, da Paesi altrettanto democratici.
Non solo lo Stato di Israele ma tutti gli Stati sono coinvolti nel massacro: anche quelli arabi che si proclamano amici dei palestinesi, la Turchia che pretende difendere i musulmani, l’Iran che, insieme ad Israele, ha finanziato e armato Hamas.
Perché la vita di un popolo conta niente per i commessi dei grandi capitali mondiali. Per le mostruose concentrazioni di ricchezza di tutto il mondo l’unica legge e morale è la ricerca del profitto. Muoia l’umanità, purché sopravviva l‘accumulazione folle dei capitali.
In tutti i paesi il grande capitale, tramite i suoi uomini, i suoi partiti, i suoi apparati statali tiene in ostaggio popoli interi. La vita di questi è solo merce di scambio. Si difende se torna utile, altrimenti che muoiano. Nella selezione naturale fra capitali sopravvive il più spregiudicato e sanguinario.
La distruzione sistematica della Striscia e dei suoi abitanti dura ormai da quasi due anni davanti a tutto il mondo. Solo negli ultimi giorni pare che i governi se ne siano accorti. Ma non deve far sperare in alcun sollievo il coro di biasimo e disapprovazione, del tutto verbali, di numerose cancellerie, e vergognosamente simbolica è qualche cassa di sostentamenti paracadutata, per una popolazione di due milioni.Le organizzazioni internazionali nate alla fine della seconda guerra mondiale di fronte all’evidenza del crimine confermano la loro totale impotenza e ruolo cosmetico per nascondere il volto mostruoso del capitalismo. L’ONU e la Corte Penale Internazionale emettono condanne che restano solo sulla carta.
I fatti dunque dimostrano che l’unico diritto a valere è quello della forza, non v’è diritto senza una forza che possa esercitarlo. Al borghese Stato israeliano, vile mercenario degli USA, sfruttando una situazione di vuoto di potere nella regione, è stato dato il compito di bombardare impunemente le capitali del Libano, della Siria, dell’Iran, dello Yemen. Ma tutto l’occidente ha gioito che, in Iran, “Israele sta facendo il lavoro sporco anche per noi”, come ha detto sprezzante il cancelliere tedesco.
Questo vale il preteso “diritto internazionale”, a difesa della “coesistenza pacifica tra Stati”.
A una forza si può opporre solo un’altra forza. Niente vale quindi il disgusto o la indignazione individuale a fermare né ad attenuare il massacro. In una società di classi la forza l’hanno le classi. Per ora si sono viste delle confuse manifestazioni spontanee, ma le organizzazioni della classe operaia, i partiti, che non esistono, e i sindacati, che sono al seguito del padronato, hanno taciuto. Acconsentendo così al macello dei fratelli lavoratori di Palestina.
In una situazione che vede l’approssimarsi di un più generale scontro militare tra gli imperialismi il genocidio di Gaza si ripeterà molte volte, sia sulle genti che hanno la sfortuna di trovarsi sulle linee di frizione fra i blocchi sia nelle retrovie.
Questo lo scenario che ha di fronte il proletariato internazionale se si lascerà irreggimentare nella guerra che si avvicina.
La classe proletaria, inquadrata nelle sue rinate organizzazioni di difesa
economica e diretta dal rivoluzionario partito comunista, è l’unica forza che si
può contrapporre a quella del marcescente capitale: alla disciplina degli Stati
la sua disciplina di classe, alla guerra borghese la guerra proletaria.
Il governo israeliano ha giustificato l’attacco all’Iran per impedire che si doti dell’arma nucleare. Una guerra difensiva dunque?
Ma il teatro della guerra e le sue cause non si trovano né in Iran né in Israele e nemmeno in tutto il Medio Oriente. È che la crisi irreversibile del capitalismo mondiale nella sua fase terminale ha bisogno della guerra per la sua sopravvivenza. L’attacco dello Stato di Israele contro l’Iran ne è solo un primo sperimento e anticipazione. Così come il massacro di Gaza.
È vero, tutti i capitalismi, tutti gli Stati si debbono oggi difendere. Si debbono difendere dalla crisi economica e finanziaria, dalla concorrenza sui mercati, dal riarmo forsennato dei rivali. Ma più che altro si devono difendere, sul piano storico generale, dal loro comune grande nemico, la internazionale classe operaia. Quella classe, oggi quasi invisibile, ma che è portatrice del Comunismo, della Rivoluzione.
Oggi non ne è cosciente, se non nel suo partito che ne custodisce il determinato futuro.
* * *
Ma il governo israeliano, come tutti gli altri al mondo, difende il Capitale, non il suo popolo. Netanyahu lo immola e consegna agli ordini dei capitalisti di Wall Street.
A questo serve provocare il collasso del regime degli ayatollah per sostituirlo con un altro, più rispondente agli interessi di Washington, nella loro lotta a morte con l’imperialismo rivale cinese: tagliare le sue vie del petrolio e in Asia centrale.
Questo progetto, per altro, mette in grave apprensione gli altri Stati della regione, soprattutto le monarchie del Golfo, che temono un vuoto di potere che è impossibile pronosticare come potrà essere colmato.
L’abbattimento del regime di Saddam Hussein in Iraq è stato un esempio di questa politica che semina caos e distruzione, con effetti devastanti per le popolazioni, ma anche per gli Stati. La caduta del regime iracheno, imposta dagli Stati Uniti, ha abbattuto uno Stato che contrastava l’espansionismo dell’Iran verso il Mediterraneo, e non ha certo favorito Israele. Ci sono voluti vent’anni di guerre continue e di massacri per distruggere la Siria, il Libano, Gaza, la Cisgiordania. E in che modo!
La guerra preventiva di Israele, che pure possiede la bomba atomica e non ha mai permesso ispezioni alle sue centrali, è stata approvata da tutti i Paesi occidentali, quegli stessi che hanno condannato l’attacco della Russia in Ucraina, la quale pure l’ha giustificato come difensivo contro l’allargamento a Oriente della NATO.
Il diritto internazionale è solo un inganno e una illusione. Ormai gli imperialismi non si confrontano che sul piano della forza dispiegata, del riarmo, della guerra.
Noi comunisti non abbiamo da schierarci né con Israele né con l’Iran e con nessuno dei fronti mondiali dell’imperialismo, ugualmente feroci, militaristi, antioperai e anticomunisti.
Il proletariato iraniano non ha motivo di solidarizzare con chi lo sfrutta e lo opprime, subendo da decenni l’oppressione spietata di un regime borghese che uccide e incarcera i capi operai più coraggiosi, che ha mandato milioni di giovani proletari a morire al fronte nella guerra contro l’Iraq.
In questa situazione il proletariato iraniano deve assumere una posizione anticapitalista, nella sua indipendenza politica da ogni partito della borghesia, di governo come di opposizione: nessuna inclinazione verso alternative democratiche, laiche o addirittura monarchiche, al regime dei preti.
In tutti i paesi il dovere della classe operaia è rafforzare le sue organizzazioni di difesa economica, coinvolgere il proletariato femminile nella lotta per l’emancipazione dei lavoratori, rifiutare ogni richiamo alla solidarietà nazionale, religiosa, etnica con le classi padronali.
Solo
la ricostituzione del Partito
comunista rivoluzionario e il perseguimento della rivoluzione
comunista internazionale, potrà mettere fine a sfruttamento,
violenza, guerra.
Il nuovo processo di pace, avviato il 1° ottobre 2024 con la stretta di mano fra Devlet Bahçeli, capo del partito fascista MHP (Milliyetçi Hareket Partisi - Partito del Movimento Nazionalista) e i deputati del partito nazionalista curdo DEM (Partito dell’Uguaglianza e della Democrazia dei Popoli, anche abbreviato HEDEP), è giunto a un punto di non ritorno con l’inizio della consegna delle armi da parte del PKK.
Questo processo, di grande importanza per la politica borghese tanto in Turchia quanto in tutto il Medio Oriente, e nell’attuale quadro dell’imperialismo che sta portando alla guerra mondiale, non offre alcun risultato significativo alla soluzione della questione curda.
Si tratta di una conferma ulteriore di quanto affermato dal nostro partito nel merito della questione delle nazionalità oppresse, per cui la via della loro soluzione entro il quadro del modo di produzione capitalistico si è storicamente chiusa con le rivoluzioni popolari, nazionali, anti-coloniali d’Africa e d’Asia nei 3 decenni successivi alla fine della seconda guerra mondiale, portando in tutto il mondo al potere la borghesia, sulle ceneri dei regimi politici pre-capitalisti su cui si appoggiava il colonialismo storico europeo.
Le residue questioni nazionali – come quella curda, palestinese e molte altre – rimaste irrisolte terminato quel ciclo storico della lotte di liberazione nazionali il cui contenuto rivoluzionario stava nel trapasso da regimi politico-sociali pre-capitalistici a quello capitalista, troveranno sistemazione e soluzione ormai solo dopo il compimento del nuovo contenuto rivoluzionario politico e sociale all’ordine del giorno della storia, e cioè quello della rivoluzione internazionale proletaria.
Senza e prima di essa, ogni partito che ancora oggi si faccia carico di battersi per qualsivoglia causa di emancipazione nazionale, privato com’è e come non può essere altrimenti della base materiale rivoluzionaria che nei movimenti passati risiedeva nel carattere rivoluzionario di una parte della borghesia, generalmente nei contadini poveri, non può che diventare uno strumento di una o dell’altra potenza imperialista regionale e mondiale, divenendo cioè non più uno strumento di emancipazione politica e di rivoluzione sociale bensì della guerra imperialista, supremo strumento della conservazione capitalistica e di distruzione dell’umanità.
Implicito a questo ribaltamento del ruolo e della funzione dei partiti che pretendono ancora di battersi sul suo terreno, è l’inevitabile tradimento della causa nazionale. Il PKK, com’è chiaro da tempo e dal nostro partito da decenni denunciato, ha confermato pienamente questo quadro storico, come illuminato dal marxismo.
I negoziati tra lo Stato borghese turco e il PKK risalgono a prima dell’ascesa al potere dell’AKP nel 2002. Ne “La questione curda alla luce del marxismo” (“Comunismo” nn. 97 e 98 del 2024) abbiamo scritto in merito al precedente processo di pacificazione tentato tra il 2012 e il 2015: «All’inizio del 2015, l’ala parlamentare del PKK, il Partito Democratico dei Popoli (HDP), e il governo turco dichiaravano di aver raggiunto un accordo. Dopo un periodo di cessate il fuoco ampiamente riuscito, le elezioni generali turche del 2015 portarono a un forte guadagno per l’HDP (13% dei voti, +7,5%), un altrettanto forte calo per l’AKP (41% dei voti, -9%) e un parlamento appeso. Di lì a poco, dopo che due poliziotti erano stati uccisi nel Kurdistan settentrionale, il governo turco ha lanciato operazioni di polizia nelle città e militari nelle campagne contro il PKK, ponendo fine al cessate il fuoco e al processo di pace. Le operazioni sarebbero continuate negli anni successivi, portando alla distruzione di numerose città del Kurdistan settentrionale. Tutti i sospettati del PKK per l’uccisione di due poliziotti turchi nel 2018 sono stati assolti dal tribunale, in mancanza di prove. Il “processo di pace” tra la Turchia e il PKK ha dimostrato ancora una volta che nel capitalismo pace è quando si prepara la prossima guerra».
Come la fine del vecchio processo di pace, anche l’inizio del nuovo è avvenuto quando una simile manovra è divenuta consona agli interessi del regime borghese turco, sia in politica estera sia interna.
Gli sviluppi che l’hanno reso necessario in politica estera sono stati, da un lato, la guerra a Gaza scoppiata il 7 ottobre 2023 e il conflitto imperialista che si è approfondito in Medio Oriente; dall’altro, il crollo del regime baathista siriano, avvenuto l’8 dicembre 2024, dei preparativi del quale lo Stato turco era a conoscenza già sei mesi prima. La presenza di una forza militare esperta, equipaggiata e addestrata come il PKK avrebbe rappresentato una fragilità per lo Stato turco in un contesto che sta portando alla guerra mondiale.
In politica interna, la sempre più grave crisi economica, la perdita di popolarità della Coalizione del Popolo – di cui l’AKP (il “Partito della Giustizia e dello Sviluppo” del presidente turco Erdoğan) e l’MHP (il “Partito del Movimento Nazionalista” di Devlet Bahçeli) sono le componenti fondamentali – e l’ascesa del CHP, il Partito Popolare Repubblicano, che è uscito vincitore dalle ultime elezioni comunali e che, nonostante gli arresti su larga scala, sta mettendo sempre più sotto pressione il governo, sono le condizioni che stanno facendo maturare una nuova coalizione di governo.
Così, le parole pronunciate in passato sono state dimenticate e, sotto la guida di Devlet Bahçeli, lo Stato turco ha teso un ramo d’ulivo al PKK. Abdullah Öcalan, definito per decenni “dirigente terrorista” nella retorica di Stato, è divenuto il “capo fondatore”. Ed Öcalan ha fatto la sua parte, ordinando al PKK di deporre le armi e di sciogliersi.
Anche se la direzione guerrigliera di Kandil – sede del quartier generale del PKK nelle omonime montagne del Kurdistan iracheno – ha cercato di ritardare un po’ gli ordini della “leadership” e ha posto alcune condizioni, alla fine la deposizione delle armi è iniziata dopo il discorso ufficiale di Öcalan, prima al congresso del PKK, poi davanti alle telecamere in una cerimonia alla quale hanno partecipato dirigenti importanti come Bese Hozat e Mustafa Karasu. Le armi sono state distrutte nei pressi di Süleymaniye, nel Nordest dell’Iraq.
Sul piano del politicantismo borghese e parlamentare, il DEM (Partito dell’Uguaglianza e della Democrazia dei Popoli), la cui base è contraria all’attuale governo turco, è stato prelevato dall’opposizione e trasformato in una riserva del blocco di governo. Ciò ha costretto il CHP, che ha offerto un sostegno critico al processo di pace, ad avvicinarsi a partiti nazionalisti turchi nemici dei curdi come il “Buon Partito” (İyi) e il “Partito della Vittoria” (Zafer). L’obiettivo di Erdoğan e del suo entourage per le prossime elezioni sembra essere quello di presentarsi come il candidato della pace contro la prosecuzione del conflitto, coi nazionalisti curdi, in contrapposizione a un candidato come Mansur Yavaş, il sindaco di Ankara, nazionalista turco, anti-curdo, con un passato nel MHP. Sebbene l’alleanza con il DEM si affermi limitata alla pace con i curdi, essa potrà preparare il terreno con alcuni suoi membri a una nuova costituzione che rimuova gli ostacoli legali alla rielezione di Erdoğan.
Il fatto che la principale rivendicazione avanzata dai nazionalisti curdi sia la libertà di Öcalan, che per decenni ha guidato l’organizzazione, ponendosi al servizio di tutte le potenze regionali che hanno oppresso i curdi e a questa o quella grande potenza imperialista, mostra cosa promette il processo di pace. Le altre promesse sul tavolo sono una sorta di amnistia per la maggior parte dei guerriglieri e dei politici detenuti, la possibilità per alcuni di partecipare alla politica democratica e la restituzione, in qualche modo, dei comuni curdi che lo Stato turco ha commissariato. Alla vuota retorica pacifista – il silenzio delle armi, il riconoscimento dei diritti, il dialogo invece della guerra – ha fatto da contraltare la ripetuta affermazione che ai curdi non sarà data nemmeno una briciola di autonomia. Né si discute la richiesta dell’istruzione nella lingua madre.
Uno degli aspetti più importanti del nuovo processo di pace è il destino della regione governata dalle Forze Democratiche Siriane (SDF), guidate dal movimento nazionalista curdo in Siria. Il 28 gennaio, il comandante delle FDS Mazloum Abdi ha annunciato, durante i colloqui a Damasco con Al-Jolani, nuovo presidente siriano, di aver raggiunto un accordo sulla riorganizzazione dell’esercito e sull’integrità territoriale del Paese, precisando che le FDS sarebbero entrate a far parte dell’esercito siriano. D’altra parte, la bozza di costituzione preparata da Hay’at Tahrir al Sham – l’organizzazione islamista con a capo Al-Jolani al potere da dicembre – non ha soddisfatto i nazionalisti curdi che hanno insistito sulla richiesta di un’esistenza autonoma, cercando di ritardare il più possibile lo smantellamento, proprio come fatto dalla direzione del PKK a Kandil.
Alla fine i curdi siriani, dopo essere stati per anni gli strumenti degli Stati Uniti sul campo, hanno sentito dalla bocca dell’ambasciatore statunitense ad Ankara e dal rappresentante speciale per la Siria Barrack che non avrebbero ottenuto in Siria nemmeno un briciolo di autonomia. Così la cosiddetta “Rivoluzione di Rojava”, che iniziò con il ritiro del regime di Assad dal Kurdistan siriano, è stata rapidamente liquidata per ordine degli Stati Uniti. I nazionalisti curdi in Siria sono talmente dipendenti dall’imperialismo statunitense che non hanno potuto sollevare la minima obiezione alla decisione loro imposta.
Nell’attuale congiuntura, che porta a una nuova guerra mondiale, lo Stato turco sta colmando la sua più grande lacuna in materia di sicurezza, che è la questione della Siria. I nazionalisti curdi, che dichiarano ormai apertamente che i curdi in Turchia entreranno al servizio dello Stato turco, non possono opporsi all’ingresso dei curdi siriani al servizio dello Stato siriano.
In questo contesto, c’è un unico punto che né la Turchia, né la Siria, né gli Stati Uniti affrontano: il braccio iraniano del PKK, il PJAK. Nessuno parla della resa delle armi del PJAK. Dietro le quinte della messinscena della distruzione delle armi, sembra che la forza militare del PKK stia per essere trasferita nel Kurdistan orientale. In questo modo, il pugnale curdo, in linea con gli interessi dell’imperialismo statunitense, verrebbe puntato al fianco della borghesia iraniana.
Tutti questi eventi dimostrano ancora una volta che, nelle condizioni attuali, la questione curda non può essere risolta nel quadro del regime capitalista, sotto la guida delle potenze imperialiste globali e regionali.
L’unica soluzione passa attraverso la lotta di classe. Il proletariato curdo deve lottare per i suoi interessi, organizzato in sindacati di classe insieme al proletariato turco, arabo e iraniano, ricollegandosi anche alle sue esperienze di lotta, che in passato lo hanno portato alla costituzione anche di consigli operai nel Kurdistan iracheno.
È su questa strada che conduce alla rivoluzione e alla dittatura del
proletariato, conquistando il potere in ciascuno degli Stati capitalisti oggi
esistenti, che, distrutte le basi materiali degli interessi capitalistici che
oggi sfruttano le irrisolte questioni nazionali, esse potranno finalmente
trovare una soluzione.
Di fronte agli attacchi al nostro tenore di vita, al super-sfruttamento e alle deportazioni dei nostri fratelli immigrati, avete scelto la strada dell’azione, della resistenza. Questa deve essere accompagnata da una lotta all’interno dei nostri sindacati e dei nostri luoghi di lavoro verso lo sciopero generale! Le rivolte e le proteste sono un ottimo primo passo, ma senza scioperi e organizzazioni operaie più forti sono destinate a fallire. Attenzione! La borghesia cerca di cooptare la vostra genuina rabbia proletaria per servire i propri fini e per rafforzare il sistema stesso che genera questi attacchi spietati: il capitalismo.
NON LASCIATE CHE LA VOSTRA BELLA DISPONIBILITÀ ALLA LOTTA E AL SACRIFICIO SIA INUTILE!
Democrazia e fascismo sono due facce del sistema capitalista che si rafforzano e dipendono l’una dall’altra. La democrazia liberale è la forma stabile della dittatura di classe dei capitalisti quando l’inevitabile crisi sociale è domata, mentre il fascismo è la stessa classe al potere ma con la centralizzazione dell’autorità e l’esposizione della violenza di Stato all’esterno per mantenere il capitalismo durante la crisi.
Lo Stato borghese, con la sua Costituzione, la sua Carta dei Diritti, i suoi tribunali, la sua legge e il suo parlamento, non è “nostro” né lo sarà mai, perché queste sono istituzioni che servono a difendere e a far rispettare il rabbioso sfruttamento del proletariato da parte della borghesia. Nello Stato borghese non c’è nulla da difendere! Né la democrazia, né la Costituzione, un tempo storicamente grande, né lo Stato di diritto borghese! La borghesia proclama “diritti inalienabili” di ogni tipo (umani, civili, naturali, ecc.), ma sono completamente falsi e non servono a voi, perché sono radicati nella emarginazione, nella concorrenza e nella proprietà. La recente esplosione di rabbia proletaria a Los Angeles dimostra la necessità dello Stato di aggirare le proprie leggi per sottomettere le agitazioni che minacciano la sua esistenza.
Secondo la borghesia, la libertà significa la libertà di sfruttare i lavoratori salariati per il profitto e l’uguaglianza significa l’uguaglianza legale formale dei cittadini in un mercato di potere ineguale. La borghesia e i suoi lacchè vogliono farvi credere che facendo semplicemente sentire la vostra voce e rivolgendovi ai politici, siano democratici o repubblicani, otterrete un cambiamento, ma nulla potrebbe essere più lontano dalla verità!
L’abolizione dell’ICE, della polizia o di qualsiasi altro cambiamento fondamentale nella società non è realistico senza una rivoluzione operaia internazionale. Il proletariato deve continuare a lottare per un aumento radicale dei salari, per la riduzione dell’orario, per migliori condizioni di lavoro e per l’allargamento di una solidarietà significativa che si estenda non solo tra le categorie e i sindacati, ma anche al di là delle divisioni razziali, facendo crescere la nostra capacità a livello internazionale di difendere attivamente i più sfruttati tra noi, compresi i lavoratori immigrati. Ciò significa organizzarsi in sindacati o coordinamenti di lavoratori e lottare per il sindacalismo di classe contro una dirigenza sindacale che collabora con i padroni e lo Stato, in modo che se un lavoratore viene arrestato dall’ICE sul posto di lavoro, il sindacato possa immediatamente indire uno sciopero generale in tutta la città.
Ci
vorranno i numeri e lo slancio impetuoso dei cuori, molte volte
superiore a quello che abbiamo visto a Los Angeles, uniti come
lavoratori al di sopra di tutte le divisioni in un movimento
sindacale di classe, con la direzione del Partito Comunista
Internazionale in guerra contro il capitalismo stesso. La vera
liberazione può avvenire solo attraverso l’instaurazione della
dittatura proletaria e del comunismo mondiale con l’abolizione
del lavoro salariato, del denaro, della produzione di merci e dello
Stato.
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L’accordo del Plaza
e il funerale per l’industria giapponese
Successivamente, il dollaro scese del 50% rispetto allo yen e del 40% rispetto al marco.
La manovra culminò infine nella decimazione dell’industria giapponese, che ancora oggi non si è ripresa. Con l’apprezzamento dello yen, le esportazioni del Giappone subirono un drastico calo, danneggiandone in modo irreversibile l’industria, che era in forte espansione grazie alle esportazioni verso l’Occidente. La Banca del Giappone cercò di risolvere la crisi riducendo i tassi di interesse e iniettando stimoli fiscali. Ma i tassi più bassi nel 1994 portarono a una artificiale bolla immobiliare e finanziaria che scoppiò con una serie massiccia di fallimenti, insolvenze bancarie e un crollo del mercato immobiliare. Si risolse in quello che è stato definito il “decennio perduto” del Giappone. L’indice Nikkei 225, che misura l’andamento delle principali società giapponesi, raggiunse il suo picco nel 1994 e, a trent’anni dal crollo, non è ancora tornato agli stessi livelli. Nello stesso periodo, l’indice azionario statunitense ha registrato un rendimento del 1.000%.
Con il Giappone ridimensionato, gli Stati Uniti hanno mantenuto il loro status di unica potenza egemone fino al 2010, con importanti trasferimenti di produzione e capitali verso la Cina, esplosi all’inizio degli anni 2000 rispetto ai decenni precedenti.
È solo a metà degli anni 2010 che gli apparentemente “democratici” e “liberali” capitalisti statunitensi – che avevano rinunciato alla salute dei propri monopoli industriali per accumulare enormi superprofitti grazie al commercio mondiale e all’ordine finanziario consolidato nei decenni precedenti – riconobbero che la Cina si era trasformata in un imperialismo rivale. Gli Stati Uniti hanno quindi cercato per anni di convincere la Cina ad accettare un altro Accordo del Plaza e ad apprezzare lo yuan; ma il tempo ha dimostrato che è improbabile che la Cina lo faccia volontariamente, dopo aver visto il massacro economico del Giappone.
Ascesa
dell’imperialismo cinese
Dalla fine degli anni ’70, la borghesia cinese si è sviluppata assumendo un ruolo subordinato nell’imperialismo mondiale, da intermediario che svolgeva il lavoro sporco di disciplinare e sfruttare la manodopera cinese a basso costo mentre il capitale finanziario ci estraeva dei superprofitti. Con il continuo crescere di queste manifatture in grandi monopoli industriali, la finanza cinese ha iniziato a svilupparsi e a trasformarsi in un capitale finanziario orientato all’esportazione. In quanto tale ha avuto anch’essa bisogno di un esercito sempre più grande per imporre le proprie merci eccedenti nei paesi in via di sviluppo e per difendere e garantire i propri titoli. La Cina è emersa così solo di recente come un imperialismo rivale.
Le attuali politiche di guerra commerciale non hanno quindi nulla a che vedere con il ritorno dei posti di lavoro negli Stati Uniti, o con la ricerca di un “accordo equo” del quale si avvantaggerebbe la classe operaia, ma solo con le rivalità di due opposti blocchi del capitale finanziario che devono spartirsi il mondo, per continuare ad accumulare o morire.
La Cina si è sviluppata come centro globale della produzione industriale a basso costo dopo aver iniziato ad aprire i propri mercati tra la fine degli anni ’70 e gli anni ’90, esplodendo negli anni 2000. Le società e le istituzioni finanziarie, spesso attraverso investimenti diretti, hanno ottenuto l’accesso al mercato del lavoro cinese a basso costo, dove la stragrande maggioranza della popolazione era ancora nella trappola della povertà della vita contadina. Inizialmente le multinazionali hanno investito nelle zone economiche speciali, dove i proletari cinesi lavoravano in condizioni di sfruttamento, spesso per meno del 5% del salario dei lavoratori statunitensi in settori simili.
Con il trasferimento della produzione in Cina, il valore generato dal lavoro ipersfruttato si realizzava nei paesi cuore dell’imperialismo, vendendo i prodotti a prezzi molto più alti di quelli che si potevano ottenere sui mercati interni cinesi. Ciò ha generato super profitti per i grandi rivenditori e per le aziende tecnologiche che operavano come finanziatori commerciali, mentre i piccoli produttori borghesi in Cina ricevevano quote di profitto molto più ridotte. Tuttavia, entrambe le borghesie hanno beneficiato dell’iper-sfruttamento dei lavoratori cinesi, che ha anche permesso di ridurre il potere contrattuale dei lavoratori occidentali e di mantenere i salari fermi per il mezzo secolo successivo. L’organizzazione sindacale, repressa in Cina dallo Stato, con scioperi e sindacati indipendenti soppressi dal PCC, garantiva rendimenti affidabili.
Anche se agli stranieri non era consentito possedere direttamente quote di maggioranza di aziende manifatturiere o società in settori chiave, il surplus veniva comunque reimmesso nelle mani del capitale finanziario statunitense in vari modi. Mentre la produzione e l’assemblaggio di fascia bassa erano effettuati in Cina da subappaltatori, aziende statunitensi progettavano, commercializzavano e controllavano il marchio e la vendita al dettaglio negli Stati Uniti e in Europa, accaparrandosi la parte del leone dei profitti e costringendo i numerosi piccoli produttori concorrenti ad accettare accordi che garantivano loro solo la quota più piccola possibile. In secondo luogo, le aziende statunitensi mantenevano il controllo monopolistico sulla proprietà intellettuale, i brevetti, il software e il marchio. Le aziende cinesi che volevano accedere ai mercati o alla tecnologia erano spesso costrette a costituire joint venture, che trasferivano i profitti verso l’alto. Le aziende statunitensi concedevano in licenza la tenologia e incassavano i diritti d’autore e le royalties.
Lo Stato cinese faceva rispettare questi contratti. Con lo yuan sottovalutato per gran parte del periodo, i profitti rimpatriati negli Stati Uniti sono stati di fatto amplificati. Questi super profitti hanno portato all’esplosione di società statunitensi come Walmart e Apple, che è diventata la prima azienda al mondo a superare i 3.000 miliardi di dollari di valore di mercato. Inoltre lo Stato cinese, per garantire vantaggi alle proprie esportazioni, riciclava le eccedenze commerciali in titoli del Tesoro statunitense, prestando di fatto il proprio surplus al governo degli Stati Uniti a basso interesse, proprio come avevano fatto i paesi dell’OPEC e gli europei.
Il capitale finanziario statunitense continuava a regnare sovrano, ma era ora consapevole di trovarsi in una crisi esistenziale e di dover attuare rapidamente politiche simili a quelle dell’era Nixon e dell’Accordo del Plaza, oppure far la fine del capitale finanziario inglese.
Nel 2020, il 50-60% delle esportazioni manifatturiere cinesi continuava ad essere legato in qualità di subappaltatori di marchi statunitensi come Apple. Tuttavia nel corso dei decenni la Cina ha sviluppato una propria corte di miliardari provenienti dal settore manifatturiero che hanno creato marchi indipendenti concorrenti e mercati elettronici come TEMU, che rivaleggiano con aziende statunitensi come Amazon. Queste imprese cinesi hanno iniziato a inondare i mercati internazionali con prodotti di qualità sempre più elevata, ad alto valore aggiunto e a prezzi più convenienti. Negli ultimi cinque anni, la quota di tali aziende cinesi indipendenti sul totale delle esportazioni è raddoppiata, raggiungendo oggi il 28% delle esportazioni totali cinesi. Così, con l’accumularsi del capitale proveniente dal settore manifatturiero e immobiliare, hanno lentamente iniziato a svilupparsi imprese globali indipendenti, liberandosi dal monopolio della finanza statunitense da cui dipendevano per l’accesso ai mercati esteri. Di conseguenza la Cina ha iniziato a sviluppare il proprio capitale finanziario, che esporta sempre più il proprio surplus sui mercati globali, entrando in concorrenza con il blocco dominato dagli Stati Uniti e costituendo la base dell’attuale rivalità inter-imperialista tra le due potenze.
Negli ultimi vent’anni il settore finanziario cinese è diventato il più grande al mondo. Nel 1995 il governo cinese ha approvato la legge sulle banche commerciali che ha sancito l’indipendenza delle banche e istituito la Banca Popolare Cinese come riserva nazionale. Le quattro grandi banche commerciali statali sono la Bank of China, la China Construction Bank, la Industrial and Commercial Bank of China e la Agricultural Bank of China, tutte tra le prime dieci banche al mondo nel 2018. Il settore finanziario cinese è ora il più esteso al mondo, con circa 58 mila miliardi di dollari di attività, pari a circa il 300% del PIL alla fine del 2023. In termini di attività totali la sua dimensione nel 2010 ha superato quella del sistema bancario statunitense e nel quarto trimestre del 2016 quella di tutte le banche dell’area dell’euro. Dal 2017 la Cina è diventata il maggiore creditore ufficiale al mondo, superando la Banca mondiale, il FMI e i 22 membri del Club di Parigi messi insieme. Anche se la stragrande maggioranza dei suoi investimenti, il 97%, rimane vincolata all’interno della Cina stessa, ha iniziato a esportare una quantità crescente di capitale finanziario in tutto il mondo. Le quattro grandi banche cinesi sono quotate in borsa, ma il governo cinese ne detiene la maggioranza delle azioni e un singolo investitore straniero non può detenere più del 10% del capitale totale, con una quota massima di proprietà straniera limitata al 25%.
L’ingresso del capitale finanziario cinese destinato all’esportazione a principale concorrente del capitale finanziario statunitense in tutto il mondo sta ora minacciando seriamente il dominio degli Stati Uniti. Mentre l’industria cinese si è sempre più orientata verso prodotti di alto valore, come la tecnologia e le automobili, superando gli Stati Uniti in tutti i mercati esteri, e nonostante la sua finanza interna si sia sviluppata grazie alla sua esplosione industriale, l’unico settore in cui la Cina rimane significativamente indietro è sui mercati finanziari globali. La quota della Cina nei mercati azionari globali rimane al 10-12%, mentre gli Stati Uniti mantengono il 45-50%, i suoi gestori di fondi pensione e assicurativi controllano 3-4 mila miliardi, mentre attraverso BlackRock, Vanguard e State Street gli Stati Uniti circa 20. Ugualmente, la capitalizzazione del mercato azionario cinese è il 10-12% del totale mondiale, mentre quella degli Stati Uniti è compresa fra il 24-50%.
Tra il 2000 e il 2010 gli investimenti diretti esteri del capitale finanziario cinese sono aumentati da 0,9 miliardi di dollari a 68,8 miliardi, con una rapida crescita post-crisi del 2008 alimentata dagli investimenti speculativi nel settore immobiliare. Il capitale finanziario cinese ha poi attraversato un periodo di significativo consolidamento che ha portato a un rapido aumento del capitale finanziario destinato alle esportazioni, raggiungendo nel 2016 un picco di 196,1 miliardi di dollari, comprese le grandi operazioni negli Stati Uniti e in Europa. Nel secondo trimestre del 2017, i crediti transfrontalieri delle banche della Cina continentale ammontavano a 970 miliardi di dollari, classificandosi all’ottavo posto a livello mondiale e superando quelli dei centri finanziari tradizionali come la Svizzera e il Lussemburgo, o dei paesi che ospitano grandi gruppi bancari internazionali come la Spagna e l’Italia. Con la rapida espansione del settore finanziario cinese e l’inizio dell’immissione delle sue eccedenze sui mercati mondiali, la Cina si è trasformata in un imperialismo rivale degli Stati Uniti. Tuttavia, il rapido sviluppo dell’imperialismo cinese porta il sistema capitalista mondiale verso un cataclisma sempre più grave, la crisi globale di sovrapproduzione spinge i due blocchi del capitale finanziario verso una guerra imperialista nel disperato tentativo di continuare ad accumulare profitti.
La Grande Muraglia
Il capitale finanziario statunitense ha lavorato per anni per abbattere le barriere protezionistiche cinesi che circondano il suo sistema finanziario emergente. Storicamente la Cina ha imposto restrizioni alla proprietà straniera, in particolare in settori sensibili come quello bancario, delle telecomunicazioni, dei media e dell’industria pesante. Nel 2001 il governo statunitense ha subordinato l’ingresso della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio alla fine del protezionismo in tutta la sua economia, compreso il settore finanziario. Ciò ha richiesto alla Cina di consentire alle banche straniere di operare nel Paese e di autorizzare joint venture nei settori assicurativo, dei titoli e della gestione patrimoniale. L’obiettivo era aprire il mercato finanziario cinese alle aziende statunitensi come JPMorgan, Citi e Goldman Sachs con la scusa dell’“integrazione globale”, ma con l’intento di penetrare il mercato con i propri capitali.
Gli Stati Uniti nelle trattative strategiche ed economiche con la Cina del 2006-2016, tenute ogni anno sotto le amministrazioni Bush e Obama, chiedevano maggiori diritti per la proprietà straniera nelle banche e nei fondi cinesi, nonché la liberalizzazione del tasso di cambio dello yuan a vantaggio del dollaro. Presentati come “dialogo”, in realtà erano uno strumento di diplomazia economica imperialista per disciplinare e integrare la Cina nella finanza globale dominata dal capitale statunitense.
Fino alla fine degli anni 2010, le imprese straniere potevano generalmente detenere solo fino al 49% delle joint venture nei settori chiave. La piena proprietà straniera era limitata a settori ristretti come l’industria manifatturiera per l’esportazione o le zone di outsourcing tecnologico. Alla fine degli anni 2010, aziende statunitensi come BlackRock, Goldman Sachs e JPMorgan hanno iniziato ad entrare nei settori assicurativo e della gestione patrimoniale in Cina. Sebbene ancora regolamentate, queste aperture rappresentavano una vittoria per la finanza statunitense, che sperava di convogliare i risparmi delle famiglie cinesi verso prodotti legati a Wall Street. Nel 2020, a seguito delle crescenti difficoltà finanziarie, la Cina ha accettato di stipulare trattati con gli Stati Uniti che gli hanno ulteriormente aperto il mercato finanziario. Alle aziende statunitensi è stata concessa la proprietà al 100% in settori come la gestione patrimoniale (ad esempio BlackRock), le società di intermediazione mobiliare (ad esempio JPMorgan) e le assicurazioni (ad esempio AIG, MetLife). Dopo il 2018 BlackRock, Goldman Sachs e JP Morgan hanno ottenuto un accesso sempre maggiore ai mercati dei capitali cinesi, gestendo miliardi di asset.
Oggi le banche cinesi sono ancora alle prese con le prolungate turbolenze nel settore immobiliare. Nel tentativo di stabilizzare le banche regionali in difficoltà, le province cinesi hanno emesso lo scorso anno un capitale record di 31 miliardi di dollari attraverso obbligazioni speciali. Diversi altri segnali suggeriscono la possibilità di una crisi bancaria in Cina. Bloomberg scriveva «la prima contrazione dei prestiti bancari in Cina in quasi vent’anni ha alimentato i timori che la seconda economia mondiale stia precipitando verso una “recessione di bilancio” come quella che ha colpito il Giappone decenni fa. Il crollo dei nuovi prestiti alle imprese, combinato con la tendenza delle famiglie a rimborsare i debiti, ha fatto diminuire i prestiti bancari il mese scorso per la prima volta dal luglio 2005. Ciò ha aggravato la battaglia che la Cina combatte da anni contro la debole domanda di credito, poiché il crollo del mercato immobiliare induce alla cautela nell’acquisto di case e nell’espansione degli investimenti. La determinazione dei consumatori e delle imprese a ripagare i debiti dopo il crollo del mercato immobiliare fu vista come un segno distintivo della caduta del Giappone nel decennio di deflazione negli anni ’90».
Un’ulteriore prova della difficoltà dell’economia cinese si è avuta il 16 gennaio 2025, quando la Banca Popolare e altre quattro importanti autorità di regolamentazione hanno pubblicato congiuntamente un parere che delinea 20 nuove politiche per aprire ulteriormente il settore finanziario, creando zone pilota di libero scambio, per lo più completamente aperte alla finanza statunitense, nelle principali città e province. Sebbene vi siano ancora notevoli incertezze sui dettagli e sui tempi di attuazione, tale parere accelera l’abbattimento delle barriere protezionistiche cinesi intorno al settore finanziario, già messo a dura prova dalla posizione ancora dominante del capitale finanziario statunitense.
La fine dell’era dei petrodollari
A metà degli anni 2010, la posizione dominante del capitale finanziario statunitense e dei suoi monopoli industriali ha iniziato a essere minacciata da una serie di fattori. Il passaggio degli Stati Uniti da maggiore importatore mondiale di petrolio a esportatore netto ha indebolito i legami economici con l’Arabia Saudita. Questo, insieme all’ascesa della Cina come maggiore importatore di petrolio mediorientale e alla rottura della Russia, uno dei principali paesi produttori di petrolio al mondo, con il sistema finanziario internazionale dominato dagli Stati Uniti, ha messo a repentaglio l’egemonia del sistema del petrodollaro, mentre cominciavano a costruirsi nuovi sistemi finanziari internazionali.
Dopo l’invasione russa della Crimea nel 2014 e le successive sanzioni statunitensi, la Russia ha iniziato per la prima volta ad allontanarsi dalla vendita di petrolio in dollari. I grandi contratti petroliferi sono stati denominati in yuan o in euro. Successivamente la Russia ha iniziato a sviluppare sistemi per aggirare le reti finanziarie controllate dall’Occidente: il SPFS (System for Transfer of Financial Messages), un’alternativa nazionale al SWIFT, lanciata dalla Banca Centrale Russa nel 2014, e il MIR Card, un sistema nazionale di carte di pagamento destinato a sostituire Visa e Mastercard in caso di sanzioni. La Russia ha firmato linee di swap valutario con i suoi principali partner commerciali: con la Cina, con uno swap rublo-yuan del valore di 24,5 miliardi di dollari, seguita da Turchia, India e altri. Ciò ha permesso al commercio di energia e materie prime di aggirare il dollaro.
Nonostante le sanzioni finanziarie statunitensi, che si pensava ne avrebbero schiacciato l’economia, la Russia ha continuato ad andare avanti vendendo petrolio all’India e alla Cina, convertendo le sue riserve in euro, yuan e oro e riducendo le sue partecipazioni in titoli del Tesoro statunitensi quasi a zero entro il 2020. Nell’aprile 2024 la Russia ha annunciato che il suo commercio con la Cina aveva quasi completamente abbandonato l’uso del dollaro. Il Fondo Monetario Internazionale ha rilevato che in 125 economie l’utilizzo del renminbi nei pagamenti transfrontalieri con la Cina è aumentato dallo 0% nel 2014 al 20% nel 2021; per un quarto di queste economie l’utilizzo del renminbi (petroyuan) è salito al 70%. Nel 2023 un quinto del commercio mondiale di petrolio è stato regolato in valute diverse dal dollaro. Inoltre, l’intensificarsi dei legami energetici tra l’Arabia Saudita e la Cina ha portato alla stipula di contratti a lungo termine per il commercio di petrolio denominati in renminbi. Nel 2022 la quota del dollaro nelle riserve globali è diminuita dieci volte più rapidamente rispetto ai due decenni precedenti, passando dal 73% del 2001 al 58%.
Questi movimenti hanno quindi iniziato a muovere una notevole sfida al sistema
fondato sul dollaro, la carica dei sub-imperialismi ribelli, con in testa la
finanza cinese, in una manovra multivalutaria al fine di staccarsi dall’orbita
statunitense. La prima esportazione di petrolio saudita in yuan verso la Cina
nel 2018 ha posto fine ai decennali accordi internazionali che prevedevano la
vendita di petrolio esclusivamente in dollari, mentre l’Iran ha presto vietato
tutte le vendite di petrolio in dollari. Se altri paesi dovessero acquistare
petrolio in altre valute il dominio del dollaro sarebbe a rischio nel lungo
periodo. Questa realtà, unita dal 2016 alla rapida ascesa del capitale
finanziario cinese per le esportazioni, ha facilitato alcune delle prime
scaramucce tra la finanza cinese e quella statunitense per il dominio globale.
(Continua al prossimo numero)
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Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale |
Lo scorso 9 luglio in India si è svolto uno sciopero generale a scala nazionale che gli indiani chiamano Bharat Bandh. I numeri sono impressionanti, gli organizzatori stimano circa 200 milioni di lavoratori in sciopero che, per un giorno, hanno paralizzato ampi settori dell’economia e dei servizi in molti Stati del gigante indiano.
Lo sciopero è stato indetto da 10 delle 11 maggiori confederazioni sindacali dell’India contro le politiche economiche e del lavoro del governo centrale. È però un fronte sindacale controllato da partiti della sinistra borghese e sedicenti comunisti. Lo Indian National Trade Union Congress è diretto dal grande partito della borghesia indiana Indian National Congress, oggi relegato all’opposizione, ma scalpitante per tornare a servire le necessità di sua maestà il capitale.
L’AITUC, la più antica federazione sindacale indiana, è invece sotto le direttive del Communist Party of India, mentre il Centre of Indian Trade Unions, è l’ala sindacale del Communist Party of India (marxist), nato nel 1964 da una scissione del CPI. Infine altro grande sindacato è lo All India Central Council of Trade Unions che è politicamente legato al Communist Party of India (m-l), nato da una delle numerose divisioni avvenute negli anni ’70.
Non è una novità che da quando in India regna la banda borghese di Modi, l’unica grande confederazione sindacale che generalmente non aderisce a questi scioperi sia la Bhartiya Mazdoor Sangh (BMS), affiliata al partito al governo Bharatiya Janata Party (BJP).
Le richieste dei sindacati
Le rivendicazioni di questo sciopero sono state riassunte in 17 punti presentati al Ministro del Lavoro. Tra le principali si chiede il ritiro dei quattro nuovi Codici del Lavoro, approvati dal Parlamento tra il 2019 e il 2020. Questi revocano 29 preesistenti leggi, con l’obiettivo dichiarato del governo indiano di “migliorare la facilità di fare affari”.
Sebbene il governo abbia dato il via libera a queste riforme ormai da cinque anni, la loro applicazione completa è stata ritardata in attesa che i singoli Stati approvino le regole attuative.
I sindacati sostengono che riducono i diritti dei lavoratori, aumentano le ore di lavoro, la precarietà e lo sfruttamento. Hanno anche chiesto l’introduzione di un salario minimo mensile, adeguato automaticamente all’inflazione, di almeno 26.000 rupie (circa 290 euro). Ribadiscono che l’orario di lavoro debba mantenersi a otto ore giornaliere mentre le nuove leggi permetterebbero alle aziende di far lavorare fino a 12 ore.
I sindacati chiedono anche di bloccare la privatizzazione di aziende di proprietà statale in settori chiave come ferrovie, banche, assicurazioni, poste, miniere, elettricità, difesa e telecomunicazioni.
Si rivendica inoltre il ritorno al precedente sistema pensionistico non contributivo e la garanzia di una pensione minima di 9.000 rupie mensili per tutti gli iscritti al fondo di previdenza obbligatorio e ad altri schemi di sicurezza sociale (escludendo di fatto l’immenso settore informale).
Un altro punto del documento chiede la proibizione della pratica diffusa del lavoro a contratto ed esternalizzato imponendo invece assunzioni a tempo indeterminato nel settore pubblico, nell’industria e nei servizi.
Tutto ciò in uno scenario che garantisca pienamente il diritto di organizzazione e di sciopero a tutti i lavoratori senza restrizioni.
I lavoratori informali
La spina dorsale dello sciopero è stata costituita dai lavoratori del settore pubblico, in particolare i dipendenti di assicurazioni, poste, miniere di carbone e ferro, banche e operai siderurgici. Il settore dei trasporti ha visto una forte adesione di autisti di autobus e treni, sebbene alcuni grandi sindacati ferroviari indipendenti non abbiano aderito. In diverse aree del paese si sono verificati numerosi blocchi dei binari e interruzioni. È da segnalare in diversi Stati anche la vasta partecipazione dei lavoratori della rete elettrica.
Hanno aderito anche milioni di lavoratori del “settore informale”, caratterizzato dalla mancanza di regolamentazione, di contratti scritti, senza ferie pagate, permessi di malattia, assicurazioni sanitarie, piani pensionistici e altre forme di protezione. I salari sono spesso al di sotto dei minimi legali e non c’è alcuna regolamentazione sugli orari di lavoro. Negli ambienti di lavoro la carenza di sicurezza e igiene è la norma. La mancanza di contratti di lavoro rende difficile a questi lavoratori, che costituiscono la maggioranza in diversi Stati, unirsi ai sindacati e contrattare collettivamente. Sono spesso migranti interni, lavorano in micro-imprese non registrate, non di rado a conduzione familiare. Tra di loro si annoverano edili, operai di piccole aziende, domestici, braccianti agricoli, operatori di centri per l’infanzia, lavoratori a domicilio, facchini, operatori di mense scolastiche, autisti di risciò e taxi, e molti altri.
Il quadro regionale
Lo sciopero ha avuto un impatto significativo in quasi tutti gli Stati indiani, sebbene la sua intensità e partecipazione sia stata diversa nelle regioni. Le aree tradizionalmente più forti per i movimenti sindacali e di sinistra hanno registrato una paralisi quasi totale.
Nel Kerala, governato dal 2016 dal Left Democratic Front (LDF), un’alleanza di partiti guidati dal Communist Party of India (Marxist), CPI(M), uffici e trasporti pubblici e privati sono rimasti chiusi e la quasi totalità delle attività commerciali. Anche il porto di Kochi e la raffineria poco distante sono rimasti chiusi nonostante le leggi dello Stato lo impediscano. In diverse città si sono tenute partecipate manifestazioni di protesta.
Anche nel Bengala Occidentale lo sciopero ha registrato un forte impatto con blocchi stradali e ferroviari e massicce manifestazioni. Ci sono stati scontri tra attivisti di sinistra, polizia e sostenitori del TMC (Trinamool Congress) l’attuale partito di centro al governo in Bengala che dal 2011 é subentrato, dopo 34 anni, al Fronte di Sinistra, guidato dai partiti “comunisti”. Il settore del carbone e le fabbriche di juta, dove la sindacalizzazione è forte, hanno visto un’adesione massiccia.
Ma anche Stati non governati dalla sinistra, come Tripura, Odisha, Bihar e Jharkhand, hanno visto i lavoratori aderire allo sciopero con blocchi stradali e ferroviari, e ampie adesioni in diversi settori chiave come l’industria carbonifera. Forti adesioni si sono registrate nell’Uttar Pradesh, in particolare tra i lavoratori della rete elettrica.
Anche in Assam, Andhra Pradesh, Telangana, Puducherry, Gujarat, Goa, Madhya Pradesh e Chhattisgarh si sono registrate adesioni e interruzioni dei servizi.
Nel Maharashtra, negli scioperi e nei blocchi operai si sono inseriti attivisti politici maoisti che hanno protestato contro il recente Public Security Bill. Questa legislazione attribuisce al governo statale poteri più ampi per prevenire “attività illegali”, in particolare il “naxalismo urbano”, i maoisti. Nel Tamil Nadu vi sarebbero state diverse migliaia di arresti temporanei dei partecipanti allo sciopero e alle manifestazioni.
La non risolta questione condadina
Fra i 17 punti delle centrali sindacali vi sono richieste che provengono dal mondo dei piccoli contadini. Uno riguarda il Prezzo di Sostegno Minimo (MSP), la garanzia che i prodotti siano acquistati dal governo a un prezzo “equo”, protetto dalla volatilità del mercato e dalle speculazioni degli intermediari. Un altro punto richiede il condono dei prestiti per questa classe, un laccio cronico e insanabile col quale il capitale strangola le campagne indiane.
Se le cifre dell’adesione allo sciopero dimostrano la grande forza numerica, e quindi le potenzialità della classe operaia indiana va riportato che alla classe dei salariati si sono unite sigle di lavoratori rurali che raccolgono principalmente piccoli contadini che coltivano una terra di proprietà o in affitto a lungo termine.
Tra queste spicca il Fronte unito degli agricoltori (Samyukta Kisan Morcha, SKM), composto da decine di sindacati agricoli che in diversi Stati, tra cui Punjab, Haryana e Rajasthan, hanno organizzato massicce manifestazioni contadine a sostegno dello sciopero e contro il governo.
La loro forza risiede nel grande numero dei piccoli e marginali coltivatori, che ancora costituiscono la grande maggioranza del mondo contadino indiano e che, in un recente passato, avevano guidato massicce proteste contro le nuove leggi agricole dell’esecutivo centrale. Si rilegga l’articolo “Nell’India flagellata dalla crisi e dalla pandemia - Tra proteste contadine e scioperi operai” in questo giornale n.407.
Questa categoria in India rappresenta circa l’86% di tutti i coltivatori, contadini che possiedono meno di 2 ettari di terra. Di questi, i “marginali” (con meno di 1 ettaro) sono la fetta più grande, circa il 65%. Posseggono il 47% della superficie coltivabile totale. Questa quota decrementa di anno in anno, un lento ma continuo processo di proletarizzazione.
Per molti di questi contadini piccoli e marginali il lavoro salariato è divenuta la fonte di reddito principale, o integrativa necessaria. Già dal 2018-19 i salari, o uno stipendio, rappresentavano la voce di reddito maggiore per la famiglia agricola media. Molti "agricoltori proprietari” sono spesso stati costretti a cercare lavoro come braccianti, usualmente senza alcun contratto formale, dopo aver coltivato il loro campo.
Esiste però anche un altro aspetto da considerare: diversi contadini, per quanto “piccoli”, assumono braccianti, magari nelle stagioni e per le operazioni che richiedono forza lavoro. In questo caso il contadino ha interesse a mantenere bassi i salari dei braccianti. L’aumento del salario minimo, rivendicazione chiave dei braccianti, apporterebbe un onere aggiuntivo per il contadino, che fatica a vivere con i profitti della terra.
Si tratta quindi di classi differenti con esigenze differenti ed è in questo quadro che va impostato il rapporto tra il movimento dei lavoratori salariati e quello del variegato mondo contadino, oltre la propagandata dei falsi partiti comunisti.
Intanto il governo, sospinto dai capitalisti, è costretto a rompere con il passato e rendere l’India sempre più competitiva per attrarre capitali. L’agricoltura deve produrre a costi sempre più bassi, in concorrenza con altri mercati regionali e per alimentare i milioni di proletari gettati nel vortice delle industrie, da cui estrarre plusvalore.
È questo il fine del capitale indiano, che domani sarà perseguito anche da chi si pone all’opposizione dell’attuale governo. Il capitale indiano e gli investitori internazionali vogliono nelle campagne una produzione moderna. La borghesia indiana non ha più la possibilità di mantenere queste sotto-classi ibride, la centralizzazione e ammodernamento della proprietà agricola è in India un processo lento ma inesorabile.
Certamente in India l’eterogeneo mondo contadino, che per millenni è stato la base della società, proverà a resistere, a sopravvivere, ma la condanna a morte della piccola conduzione è scritta nella storia. La sola via d’uscita sarà il trapasso rivoluzionario a una nuova società, alla produzione socializzata, liberando i piccoli contadini dal lavoro sulla piccola parcella, che nel mondo del Capitale non rappresenta più una richezza ma una schiavitù.
I lavoratori indiani, e i loro fratelli di classe di ogni paese, spezzeranno queste catene attaccando frontalmente il capitale.
Ma oggi in India, come ovunque, impera l’opportunismo politico e sindacale, che blocca o devia il moto di tutti i diseredati nella difesa dell’interesse nazionale e della conservazione del potere borghese.
La forza del proletarato come classe, unica potenzialmente rivoluzionaria, non
risiede esclusivamente nel numero, ma dalla sana consistenza delle sue
organizzazioni difensive e dalla loro direzione politica, che deve avere come
fine la lotta intransigente contro i padroni e il loro Stato. Questo avverrà
solo quando una loro minoranza si sarà riconosciuta nel partito comunista
rivoluzionario.
Il Parlamento spagnolo sta discutendo la legge sulla Funzione Pubblica, che riguarda i lavoratori del settore pubblico. Il progetto di legge presentato dal PSOE prevede che l’età pensionabile per i lavoratori del settore pubblico sia aumentata da 70 anni, che sono già molti, a 72 anni.
Le Comisiones Obreras e l’UGT hanno espresso il loro rifiuto, ma nel senso che accettano i 70 anni attuali e non intendono impegnarsi nella lotta per la riduzione dell’età pensionabile.
Il movimento operaio anche in Spagna deve avanzare la richiesta di riduzione dell’età per la pensione, come parte di un insieme di rivendicazioni economiche attorno alle quali si deve formare un fronte unitario di classe fra la base dei salariati, che superi il tradimento delle attuali centrali sindacali. Per questo i lavoratori spagnoli devono riprendere le lotte difensive, organizzati alla base e uniti nell’azione.
La ripresa della lotta di classe farà emergere la necessità di veri sindacati di
classe, che portino i lavoratori a scioperare, ad affrontare i padroni e i loro
governi, senza lasciarsi dividere, ingannare e illudere dalla trappola
parlamentare.
* * *
Colombia
Solo lo sciopero generale può imporre le richieste sociali ed economiche
In Colombia il governo Petro ha proposto provvedimenti legislativi per l’eliminazione del rinnovo a tempo indeterminato dei contratti temporanei, l’aumento della retribuzione per gli straordinari e il lavoro nei giorni festivi e il riconoscimento dei diritti dei lavoratori sulle piattaforme digitali, tra le altre cose. Tuttavia, questa iniziativa è stata bloccata al Congresso.
Il governo e i sindacati si sono allora uniti per far pressione sul Congresso. I sindacati Federazione Colombiana degli Insegnanti (Fecode) e la Central Unitaria de Trabajadores (CUT) hanno ribadito il loro sostegno al governo e hanno indetto per il 18 marzo una mobilitazione nazionale in difesa di questo progetto legislativo.
Tuttavia le confederazioni sindacali si schierano con il governo non per migliorare la situazione della classe operaia, ma per inserirsi in una lotta tra frazioni della borghesia colombiana che si contendono il governo. Petro intende fa un uso demagogico dei lavoratori nella sua diatriba con i partiti di opposizione, e i sindacati ufficiali non esitano a mettersi al suo servizio.
Una vera posizione di classe deve proporre l’integrazione di tutte le forze e le
lotte dei lavoratori colombiani in uno sciopero generale, a tempo indeterminato
e senza servizi minimi, per costringere i padroni e il governo demagogico a un
aumento significativo dei salari per i lavoratori attivi e i disoccupati.
A volte i borghesi arrivano, anche se molto parzialmente, ad ammettere i grandi profitti ricavati da loro con le guerre, senza per questo rinunciare alle pretesche e ipocrite deplorazioni degli orrori che provocano.
Il 15 giugno il “Sole 24 Ore”, giornale della Confindustria italiana, pubblica un articolo “Borse e guerra”. Vi leggiamo: «Paradossalmente, il rumore dei cannoni rassicura. Perché? Perché si aprono nuove logiche di profitto. Le aziende attive nella difesa (ma sarebbe più corretto chiamarle “produttrici di armi”) vedono salire gli ordini, i governi aumentano la spesa militare, e gli investitori seguono il denaro… La conferma arriva anche dai dati. Uno studio (...) che ha preso in esame sette conflitti tra il 1983 e il 2011 (da Grenada alla Libia, passando per Panama, Iraq, Afghanistan e le due guerre del Golfo), mostra che nel mese che precede lo scoppio della guerra l’S&P 500 scende in media dello 0,6%. Nei trenta giorni successivi però guadagna il 4%. Ed entro sei mesi l’incremento medio raggiunge il 7,2%. Ma non è tutto. Lo schema (...) non si limita a guerre recenti. Anche nella prima parte del Novecento ha trovato piena conferma. Durante la Prima guerra mondiale il Dow Jones è salito del 21,2% al netto dell’inflazione. Nella Seconda guerra mondiale addirittura del 23% (...) Nei primi mesi del secondo conflitto mondiale, ad esempio, Wall Street si contrae. Poi, nella primavera del 1942, cambia tutto. Due eventi invertono la rotta: la sconfitta giapponese a Midway e il ribaltamento della battaglia di Stalingrado a favore dell’Armata Rossa. L’ipotesi di una vittoria degli Alleati comincia a farsi strada. E i mercati anticipano la fine della guerra, scommettendo sulla ricostruzione. Da lì, il Dow Jones prende quota (...) Così, mentre impazza la guerra di Corea, lo stesso indice guadagna il 19,6%. Durante il lungo conflitto in Vietnam, tra il 1964 e il 1973, segna un rialzo del 20,5%. Le due guerre del Golfo, nel 1991 e nel 2003, hanno avuto impatti simili: shock iniziale, poi ripresa».
I borghesi scoprono l’acqua calda. Dicono apertamente, con l’inevitabile ipocrisia, che la guerra per loro è un paradiso in cui scorrono fiumi di profitti. Possono dirlo (sul giornale letto dai borghesi) perché il proletariato è anestetizzato dalla propaganda borghese, per cui non li tratta come meriterebbero, insieme ai loro giornalisti stipendiati.
Il compito del Partito Comunista è mostrare ai proletari che il nemico non è
oltre la frontiera ma dentro casa e che l’unica risposta è quella già vista in
Russia nel 1917: non disertare e gettare i fucili, secondo l’indicazione di
anarchici e pacifisti, compiendo un bel gesto eroico, per poi essere fucilati.
Agli eroi morti preferiamo i proletari vivi. Il compito dei comunisti coscritti
in guerra è restare vivi per preparare la rivolta, tenendo i fucili ben stretti
per il momento della rivoluzione in cui, per ordine del Partito, li volgeranno
sul proprio Stato Maggiore e sui capitalisti, i loro veri nemici.
PAGINA 4
Dal 6 giugno 2025, Los Angeles è diventata teatro di una significativa e spontanea rivolta proletaria. A seguito di un’escalation delle retate dell’ICE, parte di una direttiva federale volta ad aumentare gli arresti giornalieri a 3.000, le forze repressive dello Stato borghese hanno lanciato operazioni militari contro i quartieri proletari, abitati principalmente da lavoratori immigrati provenienti dall’America Latina. All’inizio di maggio erano già stati catturati 239 migranti privi di documenti.
Agenti dell’ICE (Servizio Immigrazione e Dogana) e del DHS (Dipartimento della sicurezza interna) hanno fatto irruzione nei cantieri, nei magazzini e in spazi pubblici come i parcheggi di Home Depot, prendendo di mira i lavoratori a giornata. In una sola retata, 44 lavoratori sono stati arrestati in un magazzino di abbigliamento. Nel corso della giornata, altri 77 sono stati catturati in tutta Los Angeles. Mentre gli arresti dividevano le famiglie, trascinando via madri terrorizzate dai figli, gettando i genitori in gabbie d’acciaio e lasciando molti bambini dimenticati per strada, amici, familiari e compagni di lavoro si sono spontaneamente sollevati. Sono scoppiate proteste, prima piccole, poi sempre più grandi. In un’esplosione di energia proletaria, giovani e lavoratori non organizzati, insieme a membri dei sindacati, sono scesi in strada.
A differenza delle proteste studentesche degli ultimi due anni contro la guerra a Gaza, che si sono svolte principalmente nelle università e si sono sempre rapidamente disperse di fronte alla repressione dello Stato, queste proteste hanno le loro radici nella resistenza spontanea del proletariato. Molte manifestazioni sono iniziate con gruppi di adolescenti non collegati ad alcuna ideologia politica che si sono scontrati con le forze dell’ordine ben armate ed equipaggiate.
All’inizio, il capo di Los Angeles del sindacato SEIU, David Huerta, è stato ferito e arrestato mentre bloccava l’ingresso di un luogo di lavoro per impedire ai veicoli dell’ICE di partire con i lavoratori sequestrati. In risposta a questo e ad altri scontri, le manifestazioni sono diventate rapidamente violente nei giorni successivi, con il Federal Building nel centro della città che è diventato uno dei punti caldi delle proteste, insieme all’Home Depot di Paramount. Il traffico sull’autostrada 101 è stato bloccato. I lavoratori hanno anche cercato di impedire fisicamente agli agenti dell’ICE di effettuare gli arresti lanciando oggetti e cercando di bloccare i veicoli che trasportavano gli immigrati. In un magazzino di abbigliamento, una folla ha circondato i SUV neri e gli altri veicoli, cercando di impedire loro di partire, costringendo gli agenti a usare granate stordenti per disperderli. Negli scontri che sono seguiti, molti veicoli della polizia e sistemi di sorveglianza sono stati distrutti.
Col crescere della rivolta, sabato il presidente Trump ha dispiegato 2.000 uomini della Guardia Nazionale a Los Angeles, seguiti da altri 2.000 lunedì, e 700 marines. Questa mossa ha aggirato il consueto protocollo della richiesta del governatore, con Trump che ha invocato una legge poco conosciuta, chiamata Titolo 10, sostenendo che le proteste costituivano “una forma di insurrezione”. Ma la giustificazione legale per lo schieramento dell’esercito non è ancora stata fornita, poiché probabilmente viola il Posse Comitatus Act, una legge federale del 1878 che in passato la borghesia non è stata disposta a calpestare. Il governatore della California e il sindaco di Los Angeles, entrambi del Partito Democratico, hanno condannato l’invio delle truppe e sono stati successivamente minacciati di arresto dal governo federale.
Mentre i marines e la Guardia Nazionale occupavano gli angoli delle strade di Los Angeles, è stato imposto il coprifuoco e una rigida regolamentazione dei movimenti proletari in tutta la città.
La spontaneità e la tenacia dei lavoratori di fronte alla repressione – coprifuoco, gas lacrimogeni, ulteriori dispiegamenti di forze di polizia e militari – testimoniano anche la loro sfiducia nei meccanismi della “giustizia” dello “Stato di diritto”.
L’imposizione di una legge quasi marziale rivela l’essenza della “democrazia” borghese: una dittatura di classe che abbandona la sua maschera liberale quando la redditività del capitale è minacciata. Il grandioso dispiegamento di forze repressive da parte dello Stato non è un’aberrazione, ma una risposta calibrata alle esigenze di crisi del capitale, che colpisce i ghetti dove si concentra la manodopera per disciplinarla e ricollocare i suoi schiavi salariati sacrificabili in base alle mutevoli esigenze dell’accumulazione.
Sebbene lo scoppio della risposta spontanea dei proletari nelle strade abbia interrotto per un momento le attività repressive dello Stato borghese e distrutto la patina di pace sociale, tali proteste devono svilupparsi in una risposta collettiva e coordinata da parte dei lavoratori per rifiutare di prestare il loro lavoro al capitale e privarlo così della sua linfa vitale, il plusvalore, al fine di costringere la classe nemica a fare concessioni reali alle richieste dei lavoratori.
L’aggravarsi della crisi del capitalismo sta costringendo il regime del capitale a intensificare l’estrazione del plusvalore dal lavoro salariato, riducendo i settori più deboli del lavoro organizzato, come gli immigrati, a condizioni di iper-sfruttamento. Per amministrare questa brutalità, lo Stato borghese mobilita il suo apparato di forze coercitive, in linea con il suo ruolo storico di guardiano armato dell’accumulazione del capitale.
Il proletariato immigrato
I lavoratori immigrati privi di documenti sono la parte più sfruttata della classe operaia. Concentrati in settori in cui il lavoro è lungo, mal pagato e fisicamente estenuante, sono essenziali per il funzionamento del capitale, ma sono privati anche delle più elementari tutele sociali. La loro precarietà giuridica non è casuale, ma un meccanismo deliberato di disciplina di classe. La paura sempre presente delle retate dell’ICE e della detenzione a tempo indeterminato funge da strumento repressivo e preventivo contro gli scioperi, per impedire l’azione collettiva e mantenere bassi i salari.
Con l’aggravarsi della crisi del capitale, la borghesia ricorre quindi al terrore per gestire la classe operaia. Le campagne di espulsione, le retate e le detenzioni non mirano a ridurre la popolazione senza documenti ma ad impedire a questo settore della classe operaia di organizzarsi. L’arresto dei dirigenti sindacali dei lavoratori agricoli a New York, la detenzione di un sindacalista immigrato a Tacoma e il rastrellamento nei quartieri immigrati con operazioni come “Rimandare al mittente” fanno tutti parte di un’azione per spremere più plusvalore dai lavoratori immigrati, attaccando la loro capacità di organizzarsi e ottenere salari più alti e migliori condizioni di lavoro. Canalizzando i lavoratori privi di documenti in uno stato di non esistenza legale, la borghesia cerca di garantire la loro sottomissione al lavoro in condizioni di iper-sfruttamento.
Organizzarsi per difendere la condizione operaia
Nessun appello alle norme umanitarie difenderà i lavoratori immigrati dalle violente esigenze del capitale. L’intensificazione delle campagne di espulsione e l’arresto di attivisti sindacali non sono ingiustizie isolate, ma manifestazioni di un sistema capitalista in decomposizione. I tentativi di appellarsi ai “diritti umani”, alle riforme legali o alle coalizioni interclassiste servono solo a oscurare la vera natura del conflitto e a distogliere la classe operaia dai suoi compiti spingendola verso vie senza uscita.
Queste strategie liberali neutralizzano la forza proletaria legandola all’ordine borghese. Finché la dittatura del capitale rimane intatta, sostenuta dalle sue prigioni, dai suoi eserciti e dalle sue leggi, ogni riforma conquistata è sempre temporanea, ogni protezione legale è revocabile. Il proletariato immigrato è in prima linea nel subire una repressione che alla fine raggiungerà tutti i settori della classe operaia.
Gli attacchi attuali – deportazioni, incarcerazioni, legge marziale nelle città – sono manovre preparatorie per crisi più gravi a venire: il collasso economico e la guerra interimperialista. In questo contesto, solo un’organizzazione sindacale di classe, che unisca i lavoratori autoctoni e immigrati, può offrire una vera via di difesa.
Quando si verificano rivolte spontanee, che vanno accolte come espressioni positive della rabbia proletaria, la classe operaia deve cercare di elevarle al livello di un movimento organizzato di scioperi il più possibile diffuso.
In risposta alle retate nei luoghi di lavoro per arrestare e deportare i proletari immigrati e all’arresto dei militanti sindacali, il Partito Comunista Internazionale indica la via del movimento sindacale di classe e degli scioperi, non limitati al luogo di lavoro colpito, ma estesi il più possibile su tutto il territorio.
A Los Angeles, se ci fosse già stato un movimento sindacale di classe sufficientemente maturo e forte, le retate avrebbero dovuto essere accolte con uno sciopero generale a sostegno della rivolta. Noi comunisti lottiamo per questo obiettivo, per il quale invitiamo tutti i militanti del sindacalismo di classe a unirsi e lottare. I lavoratori che si trovano al di fuori dei sindacati tradizionali devono lavorare per costituire assemblee e consigli territoriali nel corso di tali rivolte, per organizzare e mobilitare la forza lavoro di ampi settori dei lavoratori in un’azione economica generalizzata che possa bloccare, anche se temporaneamente, gli organi di estrazione del plusvalore per il capitale, costringendo lo Stato a capitolare alla richiesta dei lavoratori di porre fine alle deportazioni.
Dalle rivolte disperse e occasionali allo sciopero, questo è l’obiettivo per cui lavorano i comunisti. I giovani proletari che sono scesi in piazza per combattere la polizia devono scoprire la grande forza del movimento operaio, e il movimento sindacale di classe deve attingere ancora una volta alle forze vitali del giovane proletariato.
La resistenza locale deve lasciare il posto a un sindacato di classe nazionale e internazionale, temprato dalla lotta, che non miri a cambiamenti parlamentari ma agli obiettivi concreti della classe operaia: aumenti salariali sostanziali, soprattutto per i lavoratori peggio pagati; riduzione della giornata lavorativa senza perdita di salario; salario pieno per i lavoratori licenziati a spese dei padroni e del loro Stato.
Rifiutiamo la “solidarietà nazionale” e innalziamo la bandiera dell’internazionalismo proletario: l’unica bandiera sotto la quale la classe operaia può vincere.
Nel bel mezzo della guerra commerciale tra le due potenze imperialiste dominanti del mondo, il ministro del Tesoro degli Stati Uniti ha fatto visita a Pechino. All’inizio di giugno è stata negoziata una presunta tregua che ha portato a una riduzione dei dazi doganali imposti dagli Stati Uniti alla Cina, che rimangono comunque molto più alti rispetto al livello precedente all’insediamento del nuovo governo americano a gennaio, mentre quelli della Cina sono stati abbassati. Queste trattative commerciali, condotte per ottenere condizioni “eque” per gli Stati Uniti, sono in realtà un’arma diplomatica dal capitale finanziario statunitense per sottomettere la classe capitalista cinese, alle prese con una crisi sempre più grave.
Mentre erano in primo piano quei negoziati, ha cominciato a organizzarsi un movimento operaio indipendente e combattivo, al di fuori della struttura sindacale ufficiale cinese. Questo movimento potrebbe essere foriero di una rinascita della lotta di classe di massa.
Le conseguenze
economiche dei dazi
A metà del 2025 i dazi doganali statunitensi, che avevano raggiunto il 145% per poi ridursi intorno al 30%, hanno provocato una forte contrazione del settore manifatturiero cinese orientato all’esportazione. Secondo i dati ufficiali, la crescita annua della produzione industriale a maggio è scesa al 5,8%, il livello più basso degli ultimi sei mesi, mentre le esportazioni verso gli Stati Uniti sono diminuite del 34,5%. Secondo Reuters, nonostante la riduzione dei dazi doganali, il numero di posti di lavoro persi nel settore industriale è rimasto tra i 4 e i 6 milioni, mentre gli economisti avvertono che queste misure commerciali potrebbero ridurre la crescita annuale del PIL cinese dell’1,6%.
La crisi immobiliare che da tempo affligge il Paese continua a rallentare la ripresa economica generale. Gli investimenti immobiliari sono diminuiti del 10,7% nel periodo gennaio-maggio, in 70 grandi città i prezzi delle nuove case sono scesi e la superficie degli immobili invenduti ha raggiunto i 391 milioni di metri quadrati.
Questi, insieme ai dazi doganali, ha provocato chiusure di fabbriche, grandi licenziamenti, ritardi nel pagamento degli stipendi. Ma anche un aumento delle proteste, in particolare nelle province in cui il mercato immobiliare è già in rovina, come Henan e Hebei.
In questo contesto, con il pretesto di “normalizzare il commercio”, il Segretario al Tesoro degli Stati Uniti ha presentato alla Cina le sue richieste ormai consuete: aumento degli acquisti di titoli del Tesoro statunitense per finanziare il deficit di bilancio degli Stati Uniti, abolizione delle sovvenzioni statali che proteggono il capitale industriale cinese e apertura forzata dei mercati finanziari nazionali alle società statunitensi.
La Cina, pur accettando formalmente la riduzione dei dazi doganali sui prodotti statunitensi e l’aumento di quelli sui prodotti cinesi, ha sospeso per il momento le operazioni di vendita del debito statunitense avviate nei mesi di marzo e aprile. Come abbiamo riportato sulla nostra stampa, il cosiddetto Accordo di Mar-a-Lago, che costituisce il quadro di riferimento di queste richieste, non è altro che un sistema di taglieggiamento modernizzato e il proseguimento con altri mezzi della stessa vecchia pirateria imperialista.
La combattività
dei lavoratori in Cina
Mentre i funzionari statunitensi e cinesi parlavano di finanza e diplomazia, la realtà dietro le loro parole era il timore che il crollo economico e una crisi sociale potessero in qualsiasi momento sfociare in una rivolta proletaria, che avrebbe minato le fondamenta industriali della Cina.
Negli ultimi anni il movimento operaio cinese è andato attivandosi. Secondo il China Labor Bulletin, nel 2023 si sono avuti 434 scioperi di fabbrica, in forte aumento rispetto ai 37 del 2022 e ai 66 del 2021. Nel 2024 questa tendenza è continuata con un totale di 1.509 proteste/scioperi operai, di cui 719 nella prima metà dell’anno, il che indica il persistere di un elevato malcontento. Tra gennaio e aprile di quest’anno sono stati registrati circa 540 conflitti, con 171 scioperi solo nel mese di gennaio.
La tendenza all’aumento degli scioperi è proseguita. A seguito dei dazi doganali e della chiusura delle fabbriche, da aprile a giugno, mese in cui scriviamo questo articolo, la Cina è stata teatro di proteste proletarie e azioni collettive indipendenti organizzate al di fuori della struttura sindacale repressiva del regime statale. Il 24 aprile, quando la fabbrica della Guangxin Sports Goods nella contea di Dao è stata chiusa senza il pagamento delle indennità e delle prestazioni previdenziali, centinaia di lavoratori hanno iniziato uno sciopero. Gli operai della fabbrica di circuiti stampati della Shangda Electronics hanno iniziato uno sciopero dopo non aver ricevuto gli stipendi dall’inizio dell’anno e i contributi previdenziali da circa due anni. Il 28 aprile, a Wuzhen, nell’est della Cina, è scoppiata una protesta per gli stipendi non pagati da gennaio. In migliaia si sono recati al municipio per protestare e una dozzina di manifestanti sono stati arrestati. I lavoratori della Yunda Express nei distretti di Chengdu, Dongguan e Dao hanno indetto uno sciopero e sono scesi in strada per protestare contro la chiusura delle fabbriche. Anche nella Mongolia Interna si sono verificate proteste per il mancato pagamento dei salari.
Nella provincia sud-occidentale del Sichuan a causa dei salari non pagati è stato dato fuoco a una fabbrica tessile. Precedentemente i lavoratori avevano organizzato turni di guardia, presentato richieste e organizzato sit-in, criticando l’impossibilità di ricorrere alle vie legali. Lo Stato non è riuscito a impedire che questa azione estrema fosse portata all’attenzione dell’opinione pubblica, con la protesta dei lavoratori diventata virale sui social media.
Migliaia di lavoratori della fabbrica di auto elettriche BYD hanno scioperato dopo una delle più grandi azioni sindacali della storia recente della Cina. All’inizio di aprile, circa 1.000-2.000 operai degli stabilimenti elettronici BYD di Wuxi e Chengdu hanno scioperato contro una serie di attacchi economici da parte dell’azienda: i salari basati sul rendimento sono stati tagliati e gli straordinari vietati, con una riduzione complessiva dei guadagni di circa il 40-50%. Lo sciopero, coordinato tra due fabbriche distanti più di 1.000 chilometri, ha rappresentato un’evoluzione nelle lotte degli operai cinesi. Numericamente è stato molto più esteso dei tipici scioperi, che coinvolgono poche centinaia di lavoratori, concentrati su questioni locali e disposti ad accettare accordi segreti dietro le quinte. Al contrario, questo sciopero ha respinto apertamente l’offerta di negoziati con la direzione a porte chiuse e ha imposto trattative pubbliche. I lavoratori così hanno segnato una svolta verso un’azione unitaria di lotta di classe al di fuori della struttura sindacale controllata dall’azienda e dallo Stato, la Federazione dei Sindacati Cinesi (ACFTU).
Questa natura dello sciopero, che ha messo in evidenza una crescente combattività e reti di solidarietà nei luoghi di lavoro, ha allarmato l’azienda e il governo. Le autorità del PCC hanno risposto con incursioni delle squadre SWAT, numerosi arresti e repressione per impedire il diffondersi di movimenti operai più ampi.
Il sindacato ACFTU, presente in tutti i settori, rimane l’unico sindacato legalmente riconosciuto in Cina. Con 302 milioni di iscritti in 1.713.000 apparati sindacali di primo livello, è il più grande sindacato del mondo. Il PCC esercita uno stretto controllo sull’ACFTU, in particolare attraverso la nomina di funzionari a livello regionale e nazionale. Come tutti i sindacati di regime, ha come obiettivo primario reprimere le rivolte dei lavoratori, impedire gli scioperi e assoggettarli agli interessi del capitale nazionale. Ma, di fatto, l’attuale ondata di scioperi dei lavoratori cinesi si sta svolgendo in modo completamente indipendente dal consolidato sindacato del regime e rappresenta uno sviluppo nella lotta di classe indipendente dei lavoratori cinesi.
Allo stesso tempo, in conseguenza della profondità della crisi sociale, altri settori della piccola borghesia, proprietari di case e negozianti, con l’aggravarsi della crisi finanziaria e immobiliare, hanno organizzato manifestazioni di protesta davanti alle istituzioni locali, bloccando le autostrade e occupando i cantieri edili.
La risposta del sindacato di regime e del PCC
La classe capitalista cinese, incapace di risolvere la crisi, ha finora risposto con la violenza di Stato. I manifestanti sono picchiati, arrestati o fatti sparire. In un clima di crescente repressione, il Chinese Labor Bulletin, con sede a Hong Kong, che da anni riportava notizie sullo sviluppo del movimento operaio in Cina, dal 12 giugno ha misteriosamente cessato le sue attività, ha chiuso il suo sito web e i suoi account sui social media.
La Federazione dei Sindacati Cinesi, in particolare in occasione del suo centenario, celebrato nel mese di aprile, ha confermato la direzione del Partito Comunista Cinese, sottolineando la necessità di “rapporti di lavoro armoniosi”, meccanismi di contrattazione salariale e stabilità sul posto di lavoro. Pur evitando nelle dichiarazioni ufficiali di commentare gli scioperi, i vertici del PCC, insieme ad alti funzionari del governo, nelle loro recenti dichiarazioni hanno lanciato un monito contro la “crescente pressione sull’occupazione”, sottolineando che “l’occupazione è il fondamento della stabilità sociale”. Recentemente in province come il Guangdong l’ACFTU ha promosso riforme della contrattazione collettiva guidata dallo Stato come misure di “democratizzazione”, mentre allo stesso tempo lavora per reprimere gli scioperi e i movimenti di massa dei lavoratori.
Le crescenti attività proletarie non sono il risultato di eventi isolati, ma i primi segni del ritorno spontaneo delle masse lavoratrici alla lotta di classe. Sebbene non sia ancora guidata dal proprio partito e dal proprio programma d’azione, né sia organizzata in sindacati di classe, sull’orlo del collasso economico del capitale e delle future guerre imperialiste, la classe sta ricominciando a emergere in tutto il mondo.
La borghesia americana osserva con preoccupazione e calcolo. Trump ha affermato di aver raggiunto un “accordo rapido” per “salvare la Cina da una situazione molto grave”. Le dure tariffe doganali non sono state alleggerite per generosità, ma in cambio di concessioni per rafforzare il dominio finanziario degli Stati Uniti. Ma dietro tutte le manovre degli Stati Uniti per destabilizzare il PCC, c’è il rischio di un involontario risveglio della combattività di classe degli operai della principale potenza industriale del mondo.
Le masse proletarie in Cina e nel mondo non sono ancora organizzate, non sono armate con un proprio programma e un proprio partito e, come in tutto il mondo, continuano a rimanere sotto il dominio dello Stato borghese. Questo apparato in Cina funge da ultimo velo del tradimento stalinista del proletariato mondiale.
Tuttavia il movimento operaio, nell’orizzonte tracciato da Marx, sta avanzando
sulla sua strada storica verso l’obiettivo che la sinistra comunista non ha mai
abbandonato: la dittatura del proletariato, l’abolizione del lavoro salariato e
la distruzione della società di classe. Fino ad allora, ogni riunione di
ambasciatori, ogni missione del Tesoro, ogni disegno di legge o accordo
commerciale non sarà altro che una tattica dilatoria, uno sgabello in
equilibrio su un vulcano.
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Nel capitalismo
il monopolio è inevitabile
Nello scontro tra i cartelli petroliferi per il controllo del mercato ritroviamo ancora tutte le caratteristiche tipiche dell’era dell’imperialismo, ripetutamente sottolineate dalla nostra corrente e sintetizzate, durante la Prima Guerra mondiale, nel 1916, da Lenin.
«Senza dimenticare il valore condizionale e relativo di tutte le definizioni in generale, che non possono mai comprendere tutte le concatenazioni di un fenomeno nel suo pieno sviluppo, dobbiamo dare una definizione dell’imperialismo che includa le seguenti cinque caratteristiche fondamentali: 1) La concentrazione della produzione e del capitale ha raggiunto un tale grado di sviluppo da creare monopoli che svolgono un ruolo decisivo nella vita economica; 2) La fusione del capitale bancario con il capitale industriale e la creazione, sulla base di questo “capitale finanziario”, di un’oligarchia finanziaria; 3) L’esportazione di capitale, a differenza dell’esportazione di merci, assume un’importanza eccezionale; 4) La formazione di associazioni capitalistiche monopolistiche internazionali che si spartiscono il mondo, e 5) si completa la divisione territoriale del mondo intero tra le maggiori potenze capitalistiche» (Cap. VII).
«Più il capitalismo si sviluppa, più diventa sensibile alla scarsità delle materie prime, più acuta è la concorrenza ed esasperata la loro ricerca in tutto il mondo. Da ciò la tendenza del capitale industriale e finanziario ad ampliare il proprio territorio economico nella lotta furiosa per l’ultimo angolo della sfera terrestre non ancora diviso, o per una nuova spartizione di quelli già divisi» (“La Izquierda Comunista”, n.15, novembre 2001).
Oggi nel business petrolifero 7 mega-Corporations (Exxon, Chevron, Aramco, Rosneft, CNPC, Shell e BP) controllano il 45% della produzione globale, fondendo capitale industriale e finanziario secondo logiche di dominio imperialista. Sebbene nel corso del tempo, dopo ogni crisi e ogni guerra, la ripartizione del business petrolifero sia cambiata, con l’uscita o l’ingresso di qualche società, rimane costante che un pugno di cartelli, che integrano capacità produttive, capitale finanziario e potere politico, mantengono il controllo del ciclo del petrolio e dei suoi derivati.
Il petrolio rimane la risorsa strategica più importante per il funzionamento del capitalismo, condizionando i rapporti di potere tra le potenze. La lotta per il controllo degli idrocarburi non è solo una disputa economica, ma l’espressione della contraddizione intrinseca al sistema capitalista: la competizione inter-imperialista per i mercati, le risorse e i profitti, che tende a sfociare in crisi e scontri armati. La storia del petrolio e delle lotte tra petrolieri è indistinguibile dallo scontro globale per il dominio del mondo.
Una descrizione estesa delle dinamiche che hanno caratterizzato l’affare del
petrolio nella storia, segnata da crisi di sovrapproduzione, concorrenza fra
capitali, scontri e guerre per la spartizione dei mercati e dei territori
associati si trova nel nostro studio “Il petrolio, i monopoli, l’imperialismo”
in Il Partito Comunista, n.357-373, 2013).
La situazione dell’offerta e della domanda
La domanda globale di petrolio continua costantemente a crescere, trainata dalle economie capitalistiche emergenti (sangue giovane per l’accumulazione di capitale), come la Cina e l’India, mentre l’offerta ha subito fluttuazioni dovute a fattori geopolitici (sanzioni alla Russia, conflitti in Medio Oriente) e tecnologici (prelievo dagli scisti in Nord America).
Sul mercato, accanto a paesi con economie ad alto consumo e che dipendono in larga misura dalle importazioni, altri dispongono di elevate riserve ma con un’attività economica relativamente modesta, incapace di consumare tutto il loro petrolio.
Paesi con alto consumo e bassa produzione sono:
- La Cina, 14,5 milioni di barili al giorno (mb/g) nel 2023, importa il 70% del
suo fabbisogno;
- L’India, 5,2 mb/g, dipende per l’85% dalle importazioni;
- L’Europa, 13 mb/g, rimane legata al gas e al petrolio russi nonostante le
sanzioni.
La “intelligenza artificiale” non ridurrà la domanda di petrolio poiché i centri dati richiederanno il 2% dell’elettricità globalmente prodotta (secondo l’Associazione Internazionale dell’Energia), generata principalmente con combustibili fossili. L’agenzia S&P Global ha previsto che la domanda di gas naturale per sostenere i centri dati potrebbe raggiungere i tre miliardi di piedi cubi al giorno entro il 2030. La sola crescita urbana in Asia e per i trasporti manterrà alta la domanda di combustibili e di materie plastiche almeno fino al 2040. Anche gli “eserciti robot” (droni e veicoli autonomi) richiedono per la costruzione e consumano derivati del petrolio.
Nel capitalismo la tecnica fa progressi non per “salvare il pianeta” ma affinché i monopoli possano ottenere superprofitti dalla schiavitù di milioni di uomini.
Ma attualmente, con la domanda che non accenna a riprendersi, assistiamo a uno strutturale eccesso di offerta, simile a quello durante la crisi del 2014‑16, tuttavia con un margine di manovra minore a causa del rallentamento in corso in Cina.
Uno dei fattori al ribasso sulla domanda è la crescita della quota di veicoli elettrici nelle vendite globali, che ha raggiunto il 17% nel 2023.
Quindi la produzione tende oggi a superare la domanda. Questo ha avuto la più evidente origine nella coltivazione degli scisti in Nordamerica (fracking), nell’ingresso sul mercato della produzione della Guyana e nei cambiamenti assunti dall’OPEC+, il cartello dei produttori guidato da Arabia Saudita e Russia, che ha annunciato di voler rompere con la politica di tagli alla produzione, di fronte alla “stabilizzazione del mercato”.
Si segnalano inoltre nuovi impianti nella distribuzione, oltre che nella estrazione, per la liquefazione del gas naturale e i nuovi gasdotti e oleodotti che facilitano il rifornimento dei porti (in Canada).
La capacità di raffinazione globale è aumentata, ma nel 2024 i margini di profitto sono diminuiti.
Le scorte rimangono relativamente elevate. Negli Stati Uniti erano 360 milioni di barili nell’aprile 2024. Anche l’Europa e la Cina ne hanno accumulato, approfittando dei prezzi bassi.
In questo scenario di sovrapproduzione i primi sconfitti saranno chi non può competere con la riduzione del prezzo. Si imporrà un rafforzarsi del controllo monopolistico. Solo le guerre locali possono generare uno squilibrio nell’offerta che consenta di attenuare l’impatto dell’aumento della produzione.
Riserve e prospettive di esaurimento
Tabella 1
I primi 5 paesi consumatori e produttori - 2023 (mb/g) |
|||
Paese | Con- sumo |
Produ- zione |
Deficit /Surplus |
USA | 20,5 | 18,5 | -2,0 |
Cina | 14,5 | 4,1 | -10,4 |
India | 5,2 | 0,7 | -4,5 |
Arabia S. | 3,9 | 11,1 | +7,2 |
Russia | 3,6 | 10,9 | +7,3 |
Fonte: BP Statistical Review 2023 |
Le riserve mondiali accertate raggiungono 1.700 miliardi di barili, ma la loro distribuzione è diseguale, Il Venezuela ne ha le maggiori, 304 miliardi di barili, ma la sua produzione è crollata a causa delle sanzioni e della mancanza di investimenti. L’Arabia Saudita, (267 miliardi, e la Russia, 80 miliardi, mantengono livelli elevati di estrazione, ma con orizzonti temporali di 50-60 anni. Gli Stati Uniti, 69 miliardi, dipendono dallo scisto, le cui riserve sono meno durature: 20-30 anni.
Tabella 2
Riserve accertate e durata utile al ritmo attuale |
||
Paese | Riserve (mld b) |
Vita utile (anni) ** |
Venezuela | 304.000 | >100 |
Arabia S. | 267.000 | 65 |
Canada * | 168.000 | 80 |
Iran | 157.000 | 90 |
Russia | 80.000 | 25 |
USA | 69.000 | 20 |
* Comprese sabbie bituminose. ** Media globale: 50 anni. |
Andamento dei prezzi
nel trascorso decennio
Il prezzo del petrolio in calo indica sovrapproduzione. Ma i prezzi subiscono fluttuazioni a causa della situazione, come la guerra in Ucraina o il rallentamento della crescita nei paesi consumatori, e aumenti temporanei speculativi. Ma è evidente che la situazione attuale vede elevate capacità produttive che si scontrano con una domanda che non cresce allo stesso ritmo. Questo frena lo sviluppo e la concentrazione delle forze produttive associate al business petrolifero.
Questo il recente andamento dei prezzi:
- 2014-2016: Crollo dovuto alla sovrapproduzione (USA+OPEC), con un prezzo che è
sceso fino a 30 dollari al barile.
- 2020: Rallentamento del commercio globale e del settore manifatturiero,
collegato alla crisi del Covid 19 e precipizio del prezzo sotto zero, a -37
dollari (futures WTI): con nei porti i serbatoi pieni non si sapeva dove far
scaricare le petroliere.
- 2022: La guerra in Ucraina ha fatto schizzare il Brent a 139 dollari.
- 2023-2024: Prezzi scesi a 75-90 a causa del rallentamento cinese e
dell’aggiustamento della produzione OPEC+.
- 2025: In aprile i prezzi sono scesi al livello del 2021.
Ma il confronto di questi periodi con il 2008, quando a luglio il prezzo arrivò a un picco di 147 dollari, dimostra la volatilità che risponde alle crisi capitalistiche in corso e come le guerre incidono sulla ripresa dei prezzi. Il tutto non è che il riflesso dell’anarchia del mercato capitalista.
Riflesso dello scontro inter-imperialista
All’inizio di aprile il Brent, di riferimento per l’Europa, è sceso a 65 dollari, il West Texas Intermediate (WTI) a 62.
Le speculazioni finanziarie sul mercato sono state innescate da due annunci particolari. In un comunicato l’OPEC+ (Arabia Saudita, Iraq, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Russia, Kazakistan, Algeria e Oman) ha annunciato che aumenterà la produzione di 411.000 barili al giorno, il triplo di quanto previsto. Sebbene storicamente la funzione dell’OPEC sia stata quella di concordare tagli alla produzione per sostenere i prezzi, l’aggressiva partecipazione degli Stati Uniti al mercato petrolifero l’ha costretto a difendere le proprie quote di mercato. Sono state la Russia e l’Arabia Saudita a imporre l’aumento dell’offerta.
L’OPEC+ già nel 2024 aveva una capacità produttiva inutilizzata di 5,86 mb/g. L’aumento della produzione era previsto. Dovrebbe annullare il 44% della riduzione che il blocco ha mantenuto dal 2022.
Inoltre il mercato ha reagito all’annuncio di dazi da parte degli Stati Uniti e alla reazione della Cina accelerando il calo del prezzo.
Gli Stati Uniti stanno applicando all’Iran e al Venezuela sanzioni più severe, e annunciano dazi secondari per gli acquirenti di petrolio venezuelano iraniano e, forse, russo. La Cina acquista quasi il 75% della produzione venezuelana, sarebbe quindi sanzionabile.
Sebbene il governo statunitense abbia poi sospeso le misure tariffarie, e nonostante abbia raggiunto un accordo sul commercio con la Cina, ciò non è bastato a far risalire i prezzi.
A fine maggio i prezzi si aggiravano intorno a 64,90 dollari il Brent e a 61,85 il WTI. Il governo statunitense ha decretato l’uscita di Chevron dal Venezuela, ma la lobby del petrolio è riuscita ad attenuare questa misura per non cedere questo spazio ai cartelli concorrenti (la Cina, ad esempio). Il governo USA vuole prezzi del petrolio più bassi e ha fatto pressione sui sauditi per aumentare l’offerta. A gennaio, con il prezzo del greggio sopra i 75 dollari, Donald Trump, parlando al World Economic Forum di Davos, in Svizzera, ha espresso il desiderio che l’Arabia Saudita e l’OPEC agissero per abbassare i prezzi, in modo da rendere più facile per la Federal Reserve continuare a ridurre i tassi di interesse.
Resta da vedere l’impatto del calo dei prezzi sulla redditività della estrazione con la tecnologia del fracking. Il calo dei prezzi ai minimi del 2021 (sotto i 65 dollari) ha costretto le società di fracking statunitensi a tagliare gli investimenti e a chiudere i pozzi marginali, dove i costi superano i 60 dollari. Secondo l’AIE la produzione statunitense potrebbe diminuire di 0,7 mb/d entro la fine dell’anno. Uno scenario di prezzi inferiori a 60 dollari porterebbe a un aumento dei fallimenti delle società di scisto, altamente indebitate (come la Whiting Petroleum nel 2020). Tutto ciò esaspererebbe la tensione tra la lobby petrolifera – che chiede protezionismo – e i grandi consumatori (la tecnologia informatica, le compagnie aeree, Amazon, Tesla), che si avvantaggiano di costi energetici più bassi.
Questa contraddizione, sommata alla guerra dei dazi con la Cina, approfondisce la crisi di accumulazione nel settore energetico. Già nei primi quattro mesi del 2025, il Texas e il North Dakota hanno registrato 5.000 licenziamenti nei servizi legati al fracking (perforazione e trasporto).
Nel fracking il costo medio di estrazione nei principali bacini (Permiano, Bakken, Eagle Ford) varia tra i 48 e i 65 dollari, a seconda dell’efficienza operativa e della posizione. I pozzi Tier 1, i più produttivi, possono essere redditizi anche con il petrolio a 50-55 dollari, mentre quelli marginali hanno temporaneamente chiuso.
All’interno del settore energetico una reazione alla crisi sono fusioni che rafforzano i monopoli nella ricerca di ridurre i costi.
Le contraddizioni interborghesi negli USA si acuiscono e si proiettano sulla scena internazionale fino a sfociare in una guerra, che verrà a influenzare anche i prezzi, con grandi variazioni dell’offerta e della domanda.
I cartelli
La dinamica delle contraddizioni interimperialiste per il controllo del petrolio confermano le previsioni del marxismo. Nel mercato petrolifero vediamo il dominio dei monopoli, con 5 Compagnie che controllano il 45% del mercato; la fusione tra banche e industria (JPMorgan e BlackRock dettano gli investimenti) e le guerre locali (Yemen, Ucraina, Golfo Persico).
Il fatto che le 10 maggiori Compagnie petrolifere controllino il 58% del mercato conferma che sono i cartelli internazionali a spartirsi il mercato. I paesi OPEC+ detengono l’80% delle riserve. Per altro sul business petrolifero si concentra il 73% del commercio in dollari.
Sebbene occasionalmente i monopoli stringano accordi tra loro, la lotta e la concorrenza non si attenua ma si acuisce sotto nuove forme. Lo abbiamo osservato nella storia dell’OPEC e nella più recente dell’OPEC+. Esempio: nel 2023 l’Arabia Saudita (alleata degli Stati Uniti) e la Russia (fra i BRICS) hanno concordato tagli alla produzione, ma competono sui mercati asiatici.
La fusione tra capitale finanziario e Compagnie petrolifere è riassunta nella tabella seguente:
Tabella 3
Legami tra banche e petrolio (prime 5 finanziarie, nel 2023) |
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Banca | % Azioni |
Compagnie | Potenza collegata |
JPMorgan Chase | 18% | EXXON-Chevron | USA |
HSBC | 12% | Shell-BP | UK |
Gazprombank | 30% | Rosneft | Russia |
Nel 2023, BlackRock (la più grande società d’investimento) controllava il 7% della Saudi Aramco. Le banche sono passate «da modesti intermediari a potenti monopoli che controllano quasi tutto il capitale monetario di tutti i capitalisti e piccoli imprenditori, nonché la maggior parte dei mezzi di produzione e delle fonti di materie prime, sia in un paese che in diversi paesi. Questa trasformazione di numerosi e modesti intermediari in un pugno di monopolisti è uno dei processi fondamentali nella trasformazione del capitalismo in imperialismo capitalista (...) I capitalisti dispersi si trasformano in un unico capitalista collettivo» (“L’imperialismo”, Cap. II). «L’oligarchia finanziaria tesse una fitta rete di relazioni di dipendenza sulle istituzioni economiche e politiche della società borghese contemporanea senza eccezioni: ecco la manifestazione più evidente di questo monopolio» (Cap. X).
In Cina sono le grandi banche, private e statali, che finanziano e sostengono l’espansione internazionale delle aziende cinesi. Tuttavia sia BlackRock che JPMorgan detengono partecipazioni in società petrolifere cinesi attraverso fondi indicizzati e veicoli di investimento globali, e investono in grandi società energetiche quotate in borsa come PetroChina, CNOOC e Sinopec. Queste partecipazioni tendono a essere di minoranza e fanno parte della strategia di diversificazione globale di questi gestori patrimoniali.
In Russia la principale banca collegata è Sberbank, anche se nel contesto attuale molte società russe stanno aprendo conti in banche cinesi per aggirare le sanzioni internazionali e facilitare le transazioni in yuan.
Chevron è legata alla Standard Oil of California (Socal), che era una delle “sette sorelle” originarie del petrolio; oggi Chevron è considerata l’erede diretta di quella storica società.
Oggi, se aggiorniamo l’elenco delle “sette sorelle” in occidente troviamo grandi società che dominano il business petrolifero globale, colossi statali e privati: Saudi Aramco (Arabia Saudita), ExxonMobil (Stati Uniti), Chevron (Stati Uniti), Shell (Regno Unito/Paesi Bassi), BP (Regno Unito), TotalEnergies (Francia) ed Eni (Italia). Ma compagnie statali come le cinesi Sinopec e China National Petroleum e la russa Gazprom rivaleggiano o superano diverse compagnie occidentali in termini di produzione e di riserve.
In ordine di quota di mercato le maggiori compagnie petrolifere e le loro aree
di influenza sono:
1. Saudi Aramco (Arabia Saudita): Asia e Europa.
2. China National Petroleum: Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente.
3. ExxonMobil (Stati Uniti): America, Africa, Asia ed Europa.
4. Gazprom (Russia): gas in Europa e Asia.
5. Shell: Europa, Africa, Asia, America.
6. BP: Europa, America, Africa e Asia.
7. Chevron (Stati Uniti): America, Africa, Asia e Australia.
8. TotalEnergies: Europa, Africa, Medio Oriente e Americhe.
9. Sinopec: Cina, Asia, Africa e alcuni progetti globali.
10. Eni: Italia, Africa, Europa e Medio Oriente.
Aramco domina in termini di riserve e produzione globale, CNPC e Sinopec sono leader in Asia e hanno una forte presenza in Africa, Gazprom controlla il gas russo e la sua esportazione in Europa, mentre le compagnie occidentali (Exxon, Chevron, Shell, BP, Total, Eni) hanno diversificato le operazioni in tutto il mondo.
Le compagnie cinesi, in particolare CNPC, Sinopec e CNOOC, hanno soppiantato o sottratto quote di mercato a ExxonMobil, Shell, BP e Chevron soprattutto in America Latina (Brasile, Venezuela, Ecuador, Argentina) e in Africa (Angola, Sudan), dove hanno aumentato gli investimenti e gli accordi di sfruttamento petrolifero, entrando in concorrenza diretta con le Major occidentali. Hanno inoltre acquisito una presenza in Asia centrale e sudorientale attraverso alleanze strategiche e acquisizioni.
In termini generali, le grandi Compagnie petrolifere sono associate alle diverse
potenze imperialiste e si fanno difendere dalle diplomazie e dalle armi dei loro
Stati.
- USA e Europa: ExxonMobil, Chevron, Shell e BP: controllano il 15% del mercato
globale, unite nel dominare nella NATO.
- Russia: Rosneft e Gazprom, che comandano al Cremlino.
- Cina: CNPC e Sinopec, a Pechino.
Altri attori:
OPEC - OPEC+ - BRICS
L’OPEC, che fornisce il 40% della produzione mondiale, ha perso influenza rispetto al cartello OPEC+ (che include la Russia), che regola i prezzi contenendo la produzione.
Tuttavia, gli Stati Uniti, col 18% della produzione globale, principalmente da scisti, agiscono come ago della bilancia indebolendo il cartello. Ma l’immissione sul mercato di grandi quantità di petrolio nordamericano contribuisce alla sovrapproduzione e al calo dei prezzi, con conseguente riduzione dei profitti e delle rendite, anche dei produttori di petrolio da scisti, oltre che di tutti i paesi produttori.
Tabella 4
Quota di mercato delle Compagnie (2023) | |||
Compagnia | Produ- zione (mb/g) |
Paese | Alleanza imperialista |
Saudi Aramco |
12,0 | Arabia Saud. |
USA/NATO |
Rosneft | 5,8 | Russia | BRICS |
CNPC | 4,5 | Cina | BRICS |
EXXONMobil | 3,9 | USA | NATO |
Nat.Iranian Oil Co. |
3,6 | Iran | Asse anti-USA |
Queste contraddizioni si verificano nel contesto della concorrenza anarchica tra capitalisti e mandano in frantumi l’utopica “multipolarità”. I bipolari ma instabili blocchi capitalistici riflettono l’evoluzione dei cartelli tipica dell’era dell’imperialismo. L’OPEC+ non sfugge a questa guerra fra le Corporations capitalistiche, all’interno di questi blocchi domina la concorrenza e non ci sarà né solidarietà né collaborazione quando si tratta di difendere gli interessi particolari o di sfruttare le opportunità di ampliare il controllo dei mercati.
Tabella 5
OPEC - OPEC+ - USA | ||
Blocco | % Pro- duzione |
Obbiettivo |
OPEC (13 paesi) | 40% | Controllo dei prezzi |
OPEC+ (con Russia) | 55% | Contrastare gli USA |
USA (scisto) | 18% | Destabilizzare i cartelli |
La guerra
segue l’economia
Il riarmo degli Stati, per altro, si finanzia con i proventi del petrolio. Il capitalismo trasforma il petrolio in sangue e il sangue in profitti.
La guerra è inevitabile finché esistono i monopoli. «Quale altro mezzo potrebbe esserci, se non la guerra, per sopprimere la sproporzione esistente tra lo sviluppo delle forze produttive e l’accumulazione del capitale, da un lato, e la ripartizione delle colonie e delle “sfere d’influenza” per il capitale finanziario, dall’altro? (...) Una caratteristica essenziale dell’imperialismo è la rivalità tra diverse grandi potenze nella loro lotta per l’egemonia, cioè per la conquista di territori, non tanto direttamente per sé stesse quanto per indebolire l’avversario e minarne l’egemonia» (Cap. VII).
Nella disputa per le materie prime e i mercati, spiccano quelle legate al business petrolifero. In questo contesto si intrecciano gli interessi tanto degli Stati e delle Corporations che controllano le riserve e la produzione di petrolio quanto di quelli che ne dipendono per approvvigionarsi: entrambi, sebbene in conflitto, dipendono gli uni dagli altri, ben legati per l’accumulazione del profitto.
La preferenza di alcuni Stati per la nazionalizzazione delle loro riserve, della estrazione, della raffinazione e smercio risponde pur sempre a un modello capitalista, e che continua e non si emancipa dalla soggezione ai monopoli, nazionali e internazionali, attraverso meccanismi finanziari, commerciali e tecnologici. Che sia coperta sotto ideologie nazionaliste e sovraniste o sotto la difesa della cosiddetta multipolarità o pluripolarità, la lotta per il riassetto delle forze monopolistiche per il controllo del petrolio e dei suoi derivati è sempre in atto e tende inesorabilmente alla guerra mondiale, per la quale oggi la generale sovrapproduzione di tutte le merci fa già rullare i tamburi.
Tabella 6
Interventi militari e riserve (2000-24) | ||
Paese | Riserve (mld b) |
Inter- vento |
Iraq (2003) |
145.000 | USA/ NATO |
Libia (2002) |
48.000 | NATO/ Francia |
Venezuela (sanzioni) |
304.000 | USA |
Le guerre che già si combattono esprimono anche la lotta tra i cartelli petroliferi per il controllo dei mercati, delle riserve e dei territori di importanza logistica o politico-militare. Già si stabiliscono aree di influenza e controllo. Gli Stati Uniti, per esempio, in Siria occupano il 90% dei giacimenti petroliferi orientali (Deir ez-Zor), nel Golfo Persico e nel Mar Rosso cinque portaerei statunitensi pattugliano le rotte dove naviga il 20% del flusso mondiale.
I poli di controllo imperialista del petrolio che stanno prendendo forma sono:
- USA, dominano lo Shale (12 mb/g nel 2023) e militarizzano il Golfo Persico
(alleanza con l’Arabia Saudita), ricorrendo anche a sanzioni per strangolare i
concorrenti (Venezuela, Iran).
- Cina: si garantisce le forniture attraverso investimenti in Iraq, Angola e
Kazakistan e sviluppa rotte alternative (corridoio Pakistan-Cina, ferrovia
per Teheran).
- Russia: dopo le sanzioni reindirizza le vendite verso India e Cina, ricorrendo
a sconti e gasdotti (“Power of Siberia” dalla Yakutia alla Cina). Sono bloccati
dalle sanzioni l’oleodotto “Druzhba”, che collega la Russia all’Europa, il
“Nord Stream 2”, dalla Russia alla Germania, la Trans-Adriatic Pipeline (TAP),
dalla regione di Tyumén alla costa del Mar Caspio. Nel 2022 il 60% delle
esportazioni russe era destinato all’Europa; nel 2023 il 45% alla Cina e il
30% all’India.
L’attacco all’Iran
Il conflitto tra Israele e Iran del giugno scorso ha innescato una iniziale impennata dei prezzi del petrolio. Tuttavia sono rapidamente tornati ai livelli precedenti una volta annunciato il cessate il fuoco e confermata l’assenza di gravi interruzioni delle forniture. La guerra di propaganda, la manipolazione delle informazioni e tutte le messe in scena, pur asfissianti, non sono riuscite ad alterare in modo sostanziale le percezioni del mercato sulla domanda e sull’offerta.
Il timore era la potenziale chiusura dello Stretto di Hormuz, braccio di mare vitale attraverso il quale transita il 20-33% del petrolio e del gas naturale liquefatto (GNL) del mondo. L’AIE si è persino preparata a liberare le scorte strategiche di petrolio, riflettendo la gravità della minaccia percepita per l’approvvigionamento globale.
L’Iran non ha risposto agli attacchi statunitensi minando lo Stretto. Gli Stati contrapposti hanno agito in base all’accordo non dichiarato di non danneggiare le strutture di produzione e consegna di petrolio e gas, dando comunque a ciascuna delle parti la libertà di massacrare la “popolazione civile”, gli abitanti delle capitali di Iran e Israele. E questo è ciò che interessa al capitale finanziario e ai cartelli petroliferi. E il prezzo del petrolio non è salito alle stelle: si paventava che con la chiusura dello Stretto potesse raggiungere i 300 dollari.
L’aumento delle capacità produttive in Occidente e la crescita dell’offerta dell’OPEC+ potrebbero compensare la chiusura dello Stretto di Hormuz; ma questo si metterà alla prova solo quando le forze infernali dell’imperialismo porteranno a un prolungato scontro militare.
Scenari di guerra
In Medio Oriente gli Stati Uniti mantengono basi in Siria (Deir ez-Zor) per controllare i giacimenti petroliferi. In Africa la Cina estrae il 10% del petrolio nel continente (Nigeria, Angola), in concorrenza con francesi (Total) e britannici (BP). In America Latina le nazionalizzazioni in Messico (Pemex) e la lotta del Venezuela per il territorio di Essequibo si scontrano con gli interessi della Exxon.
Con l’indebolimento dell’Iran, di Hamas e di Hezbollah, il nuovo governo siriano, più allineato con gli Stati Uniti e la Turchia, e i recenti accordi tra gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita, le grandi compagnie petrolifere occidentali (ExxonMobil, Chevron, BP, Shell) e l’Arabia Saudita stanno rafforzando il loro controllo sul mercato regionale, mentre la Russia e la Cina vedono limitata la loro influenza e l’accesso a nuovi progetti, pur mantenendo le loro posizioni in Iran e in Iraq. La correlazione di forze favorisce gli Stati Uniti e i loro alleati del Golfo, riducendo la capacità di Russia e Cina di espandere la propria quota di mercato nel breve periodo.
Ma oggi i BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Iran, Etiopia, Indonesia) controllano il 43% della produzione mondiale di petrolio e la NATO (Stati Uniti, Canada, Norvegia) il 25%, in parte grazie alla tecnologia del fracking. Ma questa spartizione del mondo è in continuo divenire.
Lo scontro inter-imperialista mostra così diversi teatri operativi ricchi di petrolio, finché la contesa economica e commerciale si eleverà a guerra generale.
In Medio Oriente le tensioni globali si esplicano nell’opposizione fra Iran e Stati Uniti/Israele. L’Iran, sottoposto a sanzioni occidentali, ha cercato di espandere la sua influenza nella regione (Yemen, Iraq, Siria, Libano). Anche l’Arabia Saudita, alleato chiave degli Stati Uniti, compete con l’Iran per l’egemonia regionale. La “guerra dei 12 giorni” non fa cessare questo confronto.
Nel Mediterraneo orientale la Turchia sfida Grecia, Cipro, Israele ed Egitto per i giacimenti di gas. La NATO è divisa (gli Stati Uniti sostengono la Grecia, ma la Turchia è un membro).
Instabilità in Iraq e in Siria: la presenza di truppe statunitensi, russe, turche e iraniane crea attriti. I gruppi jihadisti potrebbero essere usati come proxy.
Africa nuova frontiera della disputa energetica
In Libia la Russia, tramite il Gruppo Wagner e Haftar, si oppone a Turchia/USA/UE, che sostengono il governo di Tripoli, per il controllo dei maggiori giacimenti di petrolio e gas dell’Africa.
Nel Sahel e nel Golfo di Guinea la Francia (e l’UE) perde influenza a favore della Russia (mercenari di Wagner) e della Cina. Gli attacchi jihadisti potrebbero essere di pretesto a un intervento straniero.
In Mozambico, ricco di gas naturale, sono in corso conflitti armati per il controllo dei mega-giacimenti di gas a Cabo Delgado (TotalEnergies, Exxon, Cina).
In Europa orientale è in gioco il gas russo. In Ucraina, come estensione dell’attuale conflitto, la NATO potrebbe intervenire direttamente. La Polonia e gli Stati baltici sono frontiere calde.
Per l’Azerbaigian, in conflitto con l’Armenia, passano i corridoi energetici. Turchia e Russia si contendono l’influenza nel Caucaso. La TAP è fondamentale per l’Europa.
In America Latina gli Stati Uniti resistono a Cina e Russia
In Venezuela, con le maggiori riserve del mondo, Russia e Cina hanno investimenti strategici in partnership con PDVSA.
Nell’Essequibo c’è petrolio offshore: da qui le tensioni tra Venezuela e Guyana, sostenute da ExxonMobil e Stati Uniti.
Nel Mar Cinese Meridionale la Cina è contrastata da Stati Uniti/Filippine/Vietnam per le rotte di navigazione e i giacimenti di gas. Un blocco cinese navale avrebbe ripercussioni sul 60% del commercio mondiale di energia.
A Taiwan, in caso di invasione da parte della Cina, gli Stati Uniti potrebbero intervenire interrompendo le catene di approvvigionamento di chip ed energia.
Verso un conflitto generale
La dinamica delle contraddizioni inter-imperialiste per il controllo del business petrolifero non fa che confermare le posizioni dei comunisti. Nella situazione attuale del mercato petrolifero vediamo il dominio dei monopoli; la fusione tra banche e industria e le guerre locali. Sono caratteristiche dell’epoca dell’imperialismo e il business del petrolio le incarna appieno.
La spesa militare in Medio Oriente dal 2010 è cresciuta del 67% (SIPRI), finanziata dai proventi del petrolio.
Le contraddizioni inter-imperialiste nel quadro del business petrolifero sono un riflesso della tendenza alla sovrapproduzione, che esacerba la concorrenza, e rappresentano una componente importante nello scontro generale degli imperialismi per la nuova distribuzione del mondo, aggiungendo condizioni materiali che portano alla guerra mondiale, che solo il proletariato, riprendendo la lotta di classe, può fermare, trasformandola in una guerra rivoluzionaria, che porrà fine al capitalismo e al dominio della borghesia in tutto il pianeta.
«Dialetticamente il monopolio crea la base della società comunista perché rappresenta un enorme progresso nella socializzazione della produzione e nell’innovazione tecnica. Lo sviluppo della forza produttiva del lavoro sociale è il compito storico del capitale che, attraverso questo sviluppo, crea inconsapevolmente le condizioni materiali per una forma di produzione superiore. Ma nel regime capitalistico la produzione sociale si oppone sempre più all’appropriazione privata basata sul capitale, sul lavoro salariato e sul valore di scambio» (“Petrolio, monopoli e imperialismo”, Il Partito Comunista n.357‑373 de 2015).
Gli opportunisti cercano di ingannare ancora una volta il movimento operaio con le loro indicazioni per la difesa dell’economia nazionale, del controllo sovrano dei giacimenti petroliferi e del commercio e della utopia demagogica della multipolarità, sognando un capitalismo in cui i cartelli e i monopoli competono tra loro pacificamente. Magari in modo “ecologico”, “rispettoso per il pianeta”. Cercano così di mascherare la preparazione ad una nuova violenta spartizione del mondo.
Il proletariato mondiale, sotto la direzione del Partito Comunista
Internazionale, saprà respingere questi inganni e aprire la strada alla storia.
Con la sua lotta di classe trasformerà le sue lotte economiche difensive in
lotta politica per il potere: una nuova guerra dei lavoratori contro il morente
capitale mondiale.
PAGINA 6
Le riunioni generali del partito, ormai dal 2020, si tengono in video-conferenza; solo ove abbiamo sezioni i compagni seguono insieme i lavori dalla sede locale del Partito. Questo comporta che da alcune regioni ci si deve collegare presto la mattina e in altre fino a tarda ora di notte.
Per sopperire alla differenza delle lingue predisponiamo in anticipo e mettiamo a disposizione di tutti la traduzione dei resoconti delle sezioni e dei gruppi, e il testo dei rapporti, in inglese, spagnolo e italiano. Le integrazioni estemporanee dei compagni sono tradotte sul momento.
Come immancabilmente, alle nostre riunioni generali l’atmosfera è fraterna, di collaborazione e di grande rispetto per l’impegno e la fatica di tutti. L’incontro si svolge in un fattivo ordine e produttivo, fra comunisti che pongono il bene del partito, e della rivoluzione, ben al di sopra delle miserie del personalismo e intellettualismo borghese, del quale nel nostro movimento ci siamo da sempre felicemente liberati.
Così emancipati, godiamo di quel comunismo che abbiamo avuto la gioia e soddisfazione di contribuire ad aprirgli la strada.
Al solito alla riunione generale si affidano due funzioni, senza farne una rigida opposizione: una sugli studi e le attività pratiche; l’altra sui risultati e le generali riflessioni su quelli. Una prima seduta la dedichiamo a far confluire le diverse attività del Partito nella comune conoscenza e valutazione, elencandone i progressi e le eventuali difficoltà; una seconda alla esposizione delle relazioni, su diversi argomenti, commissionate allo studio e approfondimento di singoli o di alcuni compagni.
Qui, come di consueto, anticipiamo un breve riassunto delle relazioni.
Questi gli argomenti trattati:
Il riarmo degli Stati |
La guerra tra Ucraina e Russia |
Primo disfattismo del proletariato palestinese e israeliano contro lo Stato d’Israele e contro Hamas |
Il conflitto India-Pakistan |
La crisi del capitale e la competizione per il petrolio |
L’Internazionale dei Sindacati Rossi, capitoli 6-7-8 |
Razza, classi e questione agraria negli Stati Uniti - Schiavismo e ascesa del mondo borghese, parte 2 |
Alienazione e crisi delle relazioni umane nel capitalismo: sesso e amore |
Documenti della sinistra del socialismo ottomano e del Partito Comunista di Turchia, parte 5 |
La classe operaia in Burkina Faso, parte 3 |
Vicende del capitalismo tedesco |
Scopi e metodi dello studio sul corso del capitalismo |
Attività del Partito in Nordamerica |
Rapporti già pubblicati in lingua italiana
Il capitolo del rapporto esposto a questa riunione generale è già pubblicato per esteso nel numero appena uscito di “Comunismo”. Comprende tre capitoli: Il Partito Comunista d’Italia e il Profintern; Tra il 1° e il 2° Congresso; La conferenza di Berlino delle tre Internazionali politiche
Razze, classi e questione agraria negli Stati Uniti
Anche il testo completo di questa seconda parte dello studio, dal titolo “Schiavismo e ascesa del mondo borghese” si può leggere nell’ultimo numero della nostra rivista “Comunismo” ed è in pubblicazione in “Communism” n.2.
Si articola nei sotto-titoli: 1. Schiavitù e reti commerciali nell’età medievale; 2. Prima marineria; 3. Nei Comuni italiani; 4. Le banche italiane e il colonialismo atlantico; 5. La trasformazione agricola nella penisola iberica; 6. La potenza navale portoghese; 7. Gli Stati africani e la tratta degli schiavi; 8. Ascesa e caduta del sistema coloniale spagnolo.
Primo disfattismo del proletariato palestinese e israeliano contro lo Stato
d’Israele e contro Hamas
Il testo del rapporto si rintraccia nel numero scorso di questo giornale.
Questo rapporto appare per intero in altra pagina di questo stesso numero, nei titoli: L’attentato terroristico; Dalle parole ai fatti: l’operazione Sindoor; Il cessate il fuoco; La posizione del comunismo rivoluzionario.
La crisi del capitale
e la competizione
per il petrolio
Il rapporto è pubblicato in altra pagina di questo stesso numero del giornale.
Alienazione e crisi delle relazioni nel capitalismo: sesso e amore
Anche questo rapporto, interno allo studio sulla questione femminile, sarà pubblicato intero nel prossimo numero.
Si articola negli argomenti: Base materiale dell’alienazione nelle relazioni
umane; Sviluppo storico della famiglia nelle società di classe; Oggettivazione e
mercificazione della sessualità; La famiglia borghese; La crisi della
mascolinità; L’amore sotto il capitalismo, ideologia e realtà; Liberazione
sessuale e trasformazione rivoluzionaria; Le donne nella lotta sindacale e il
femminismo borghese; Forme di relazione sotto il capitalismo: monogamia,
poligamia e l’illusione della scelta; Il partito di classe e i rapporti
comunisti tra compagni; La via da seguire, pratica rivoluzionaria e liberazione
umana; Operai di tutti i paesi unitevi! Rompete le catene del capitale! Per la
trasformazione rivoluzionaria di tutti i rapporti umani sotto la guida del
partito di classe!
Durante le scorse trattative la delegazione russa aveva dichiarato che l’obiettivo dei colloqui doveva essere “una pace duratura”, affrontando “le cause profonde” del conflitto. Le condizioni del Cremlino per la pace sono: neutralità dell’Ucraina, cioè non aderire alla Nato, non ospitare truppe e basi straniere e possedere armi di distruzione di massa; riconoscimento da parte dell’Ucraina e della comunità internazionale dell’annessione alla Russia di Crimea, Donetsk, Luhans’k, Kherson e Zaporižžja.
Il governo ucraino ha più volte definito “irricevibili” queste richieste e ripete che “la Crimea, come tutta l’Ucraina, deve essere libera”. Ma non ha “carte da giocare”, come gli è stato ricordato in “mondovisione”.
I capitalisti ucraini sono sicuramente preoccupati dal dover confessare ai proletari spediti al fronte che il loro sacrificio è stato inutile. E non perché quei soldati hanno perso la guerra nazionale, ma perché questo è il risultato di tutte le guerre, una nuova spartizione del bottino dalla quale i proletari sono sempre esclusi e che va a vantaggio delle classi dominanti.
Il rifiuto della borghesia ucraina di far concessioni al vincitore è velleitario e criminale, quando è ormai evidente che non è possibile fermare l’avanzata russa, né tanto meno organizzare un contrattacco per riconquistare i territori perduti. La continuazione della guerra costerà altre migliaia di morti e altre terribili distruzioni senza cambiare l’esito finale del conflitto. Come ha detto un ex consigliere di Zelensky, «l’Ucraina può negoziare e perdere 5 regioni oggi oppure continuare a combattere e perderne 8 tra alcuni mesi».
Ma in questo atteggiamento il governo ucraino è spalleggiato da alcuni Stati d’Europa che continuano gli appelli per la “pace giusta”. Nemmeno i “volenterosi”, cioè Francia, Gran Bretagna, Polonia, cui si è aggiunta la Germania, con pretese di prenderne la direzione, intendono fornire un aiuto militare decisivo all’Ucraina, né in armi né in uomini né in aiuti finanziari. La stessa posizione è tenuta dalla NATO.
Secondo vari osservatori la Russia, rafforzata dalla percezione di un vantaggio militare crescente e dal progressivo disimpegno degli Stati Uniti nel rifornire di armi l’Ucraina, sta preparando una offensiva estiva. L’Ucraina invece soffre di carenza di soldati, non dispone degli armamenti necessari e le disponibilità economiche stanno diminuendo.
Intanto la prosecuzione della guerra va nell’interesse di tutti i capitalisti: favorisce l’industria militare e consente la razzia delle ricchezze dell’Ucraina, minerarie e agricole, a vantaggio dei colossi industriali europei e americani.
Per altro anche la borghesia russa rischia. I problemi economici, sociali, politici si accumulano in questi anni di guerra e potrebbero innescare la ripresa della lotta di classe.
Dunque sono molto scarse le possibilità che le prossime trattative abbiano un esito positivo e mettano fine alla guerra. Non è un luogo comune affermare che è più facile scatenare una guerra che porvi fine.
Una guerra che dura ormai da più di tre anni, coinvolge milioni di soldati, ha costi enormi in uomini e materiali, ha macinato buona parte delle riserve di armi e munizioni dei Paesi occidentali come della Russia e dei suoi alleati.
La Russia ha scatenato la guerra perché nel capitalismo la guerra conviene sempre e per reagire all’accerchiamento della Nato. La oligarchica borghesia ucraina ha fatto una guerra per procura, venduta ai capitalisti di occidente, primi tra tutti gli americani. La guerra dunque terminerà quando le grandi Corporations europee, americane e russe si saranno accordate su come spartirsi il bottino dei beni ucraini.
I colloqui tra Trump e Putin avevano fatto presagire una pace sulla base di una plateale spartizione di quelle ricchezze, parte di un accordo per più ampi legami economici tra i due Stati imperialisti. Attualmente pare che tutto sia rimesso in discussione, forse riaprendo i giochi anche per altri attori, la Cina presente nell’area già da anni, gli Stati d’Europa come la Germania, la Gran Bretagna, la Polonia, la Francia, l’Italia, imperialismi minori che, pur avendo contribuito ad armare Kiev fornendo armi e quattrini, rischiano adesso di vedersi escludere dalla partita.
Inoltre ai confini, i borghesi di Romania, Ungheria, Slovacchia, Polonia attendono il momento propizio per riappropriarsi dei territori che furono loro tolti alla fine del secondo conflitto mondiale. Quale sia il risultato di questa contesa per l’Ucraina lo si può riassumere in una frase: ha perso tutto. Ancora un insegnamento ai proletari su cosa valgono gli appelli dei borghesi alla lotta per la libertà, l’indipendenza nazionale, la difesa della Patria e balle simili.
La guerra in Ucraina, come quelle in Medio Oriente, si inserisce nel bisogno di guerra del capitalismo mondiale. Tutti i principali Stati accelerano per migliorare efficienza e consistenza delle Forze Armate. La richiesta di nuove armi è ricevuta favorevolmente da settori industriali che, colpiti dalla crisi di sovrapproduzione, convertiranno le loro produzioni civili. L’Unione Europea esorta gli Stati che ne fanno parte ad aumentare le loro dotazioni militari rivedendo i loro bilanci nazionali, anche aumentando il debito. Una vera eresia fino a qualche mese fa. Si invitano i governi a spendere di meno per sanità, scuola, infrastrutture e di più per gli eserciti.
La questione preoccupa perfino il Ministro dell’Economia dell’Italia che non
nasconde la sua antipatia per i politicanti di Bruxelles: «Sarà molto difficile
politicamente aumentare a dismisura la spesa sulla difesa e ridurre le spese
sociali: non credo che nessun governo sia disposto». Dobbiamo smentire il
Ministro: i governi lo faranno, anche a costo di non essere rieletti, perché
sono al servizio degli interessi del regime borghese e il regime borghese vuole
il riarmo. Non sarà la democrazia né i parlamenti, di destra o di sinistra, a
difendere le condizioni di vita e di lavoro del proletariato durante i prossimi
anni, gli anni di preparazione degli Stati alla guerra generale. Dovrà essere il
proletariato stesso a farlo, lottando fermamente per sostanziali aumenti
salariali, riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, miglioramento delle
condizioni di lavoro, e contro la propaganda nazionalista, patriottica, il
riarmo e le minacce di guerra.
Una Unione Europea sempre più divisa finge di trovare una unità di terzo polo imperialista, in contrapposizione a quelli capitanati dalla Cina da una parte e dagli USA dall’altra. Ma il neoeletto cancelliere Merz già lo smentisce: «Il governo federale fornirà alle forze armate tutti i mezzi finanziari di cui hanno bisogno per diventare le più forti d’Europa».
Il pretesto è che «la forza tiene lontani gli aggressori». In verità, se la storia del secolo scorso ha dimostrato qualche cosa, è che l’urto che si prepara è solo falsamente fra aggrediti e aggressori, perché la guerra è una necessità economica di tutti i capitalismi, e il riarmo ne è una conseguenza.
Per il momento gli Stati di Europa sembrano schierarsi con gli USA. Continua il Cancelliere tedesco: «Rileviamo elementi di rivalità sistemica nelle azioni di politica estera della Cina e guardiamo con preoccupazione alla crescente vicinanza tra Pechino e Mosca». Toni analoghi provengono da Parigi e da Londra.
Non che le borghesie europee siano più guerrafondaie delle altre, sono solo in posizione più debole rispetto alle rivali, e parlano apertamente di guerra mondiale, di riarmo, di mobilitare la popolazione, dopo che per decenni, sempre con lo stesso intento di frastornare il proletariato, avevano proclamato i sacri principi del ripudio della guerra, della pace democratica e simili fandonie.
Dal 2022 le aziende del settore Difesa in tutto il mondo hanno visto gonfiarsi gli ordini, i ricavi e le quotazioni in borsa, con i relativi dividendi per gli azionisti, che in Europa sono spesso anche gli stessi Stati. In Germania Rheinmetall sta valutando di acquistare da Volkswagen lo stabilimento di Osnabrück per costruirvi carri armati, una delle tre fabbriche che il gruppo auto vorrebbe chiudere in Germania. Dall’inizio della guerra in Ucraina l’azienda tedesca ha aumentato di dieci volte il suo valore di Borsa mentre le vendite di auto Volkswagen nel 2024 sono calate del 3,5%.
Alla riunione abbiamo portato all’attenzione dei compagni i dati riguardanti la spesa militare dei singoli Stati. La conoscenza di questi e della loro variazione nel tempo fornisce un quadro dei rapporti di forza tra imperialismi, rifuggendo dalla propaganda mediatica borghese.
I dati pubblicati dal SIPRI partono dal 1949, dai primi anni seguenti la fine della Seconda guerra imperialista, e riguardano più di 140 Stati. Oggi ci limitiamo ad esaminare i cambiamenti avvenuti negli anni più recenti e solo in relazione agli Stati che spendono di più.
Nel corso del 2024 nel mondo sono stati spesi in armamenti ben 2.718 miliardi di dollari (al valore del dollaro nel 2023), con un aumento del 9,4% rispetto all’anno precedente, una impennata. Questa spesa equivale al 2,5% del Prodotto Interno Lordo mondiale. È il decimo anno consecutivo di spesa mondiale in aumento, ma dal 2021 ha accelerato, e di più nell’ultimo anno.
I maggiori investitori in armamenti sono i grandi Paesi imperialisti, quel “pugno di Stati” che oggi come nei primi anni del Novecento dominano il mondo. Otto di essi, gli USA, la Cina, la Russia, la Germania, l’India, la Gran Bretagna, la Francia e il Giappone, con una spesa di 1.804 miliardi di dollari assommano il 66% della spesa per armamenti. I primi 15 spendono l’80% del totale mondiale, ma contano meno della metà della popolazione.
Gli Stati Uniti d’America con una popolazione di 347 milioni di abitanti, il 4% dell’umanità, spendono in armamenti il 37% del totale mondiale.
La disponibilità di armamenti, sempre più potenti e distruttivi, è in proporzione allo sviluppo economico dei capitalismi. La forza militare va quindi a vantaggio del capitale investito nell’apparato militare industriale, che non ha patria ma risponde solo agli interessi della finanza e del profitto.
In Russia la spesa ha raggiunto i 150 miliardi di dollari con un aumento del 38% rispetto al 2023 e il doppio del 2015, corrispondente al 7% del PIL del Paese, più di tre volte la quota dei Paesi dell’Europa. Solo i 5 maggiori europei (Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia e Polonia) ne hanno spesi 311. I dati contrari forniti dalla Von der Leyen sono patentemente falsi.
La mercenaria borghesia ucraina martirizza il Paese agli ordini dell’imperialismo europeo e statunitense, che la rifornisce di prestiti e di armi. Nell’ultimo anno la spesa militare del Paese ha raggiunto i 68 miliardi di dollari, il 34% del PIL del Paese. L’Ucraina dispone anche di una attiva industria nazionale degli armamenti che impiega quasi 300.000 operai. Gli industriali ucraini dunque la loro guerra l’hanno già vinta!
La Germania ha aumentato la sua spesa militare del 28% rispetto all’anno precedente giungendo a quasi 86 miliardi di dollari, guadagnando il quarto posto nella classifica mondiale. La disarmata Germania ha potuto rapidamente risalire la china grazie alle sue potenzialità finanziarie e al suo potente apparato industriale.
In Polonia, Paese di tradizione militare e permeato di nazionalismo antirusso, la spesa militare aveva già iniziato a crescere massicciamente dal 2018; il governo ha profittato della guerra in Ucraina per gridare alla minaccia russa e dal 2017 è pressoché triplicata. Nell’ultimo anno è aumentata di ben il 30%, raggiungendo i 35 miliardi di dollari e superando il 4,0% del PIL.
La Gran Bretagna è uno dei pochi Paesi occidentali che ha mantenuto stabile la spesa. Londra non risparmia anatemi contro la Russia ma l’incremento di spesa nel 2024 fatica a coprire il tasso d’inflazione.
I membri europei della NATO già spendono complessivamente 454 miliardi di dollari, cioè circa tre volte la spesa della Russia, e il 30% della spesa totale della NATO. Ma, come stigmatizza il Sipri: «Il semplice aumento della spesa non si tradurrà necessariamente in un aumento significativo delle capacità militari o in una maggiore indipendenza nei confronti degli USA». L’aumento generalizzato della spesa militare richiesto a gran voce dalla Presidente del Parlamento europeo non serve in realtà a rafforzare una “difesa europea”, che non esiste, ma solo a foraggiare le industrie militari. Ogni Stato spende per il proprio esercito. Un esercito europeo non si costituirà mai. Per contro tra 5-7 anni avremo un potente esercito tedesco, un potente esercito francese, un potente esercito polacco, e il fronte di guerra attraverserà di nuovo l’Europa come due volte nel secolo scorso.
Gli USA, il massimo imperialismo mondiale, hanno raggiunto una spesa di 997 miliardi di dollari con un aumento del 5,7% rispetto all’anno precedente, il 3,4% del PIL, il 37% della spesa militare mondiale e il 66% della spesa degli Stati della NATO. Oltre alla spesa per numero di addetti e per le basi che gli USA mantengono su gran parte del globo, l’impegno, afferma il SIPRI, va «alla modernizzazione delle capacità militari e dell’arsenale nucleare per mantenere un vantaggio strategico su Cina e Russia».
Il Canada, l’altro grande Paese del Nord America, ha mantenuto la sua spesa costante su circa 29 miliardi di dollari, l’1.3% del PIL.
Il Brasile è il massimo investitore in armi del subcontinente latinoamericano con una spesa sui 22 miliardi di dollari, in netta diminuzione rispetto ai 27 miliardi nel 2018.
Il Messico ha aumentato l’impegno del 39% a 16,7 miliardi, soprattutto per rafforzare la Guardia Nazionale e la Marina, attive nella guerra contro il crimine organizzato e nel contrasto dell’immigrazione clandestina.
La spesa militare dei Paesi del Medio Oriente è stata di circa 243 miliardi con un aumento del 15% rispetto al 2023 e del 19% rispetto al 2015.
Israele l’ha aumentata di ben il 67% raggiungendo i 45 miliardi. Rappresenta quasi il 9% del PIL del Paese, seconda solo all’Ucraina. Gli “aiuti” militari americani, per un accordo, firmato durante l’amministrazione Obama, ammontavano a 3,8 miliardi di dollari l’anno, circa il 15% del bilancio normale della difesa israeliano. Dal 7 ottobre 2023 tale impegno è stata superato da “aiuti di emergenza”. Solo nel primo anno di guerra, gli Stati Uniti hanno destinato circa 23 miliardi di dollari a Israele e alle operazioni correlate, quasi sei volte il pacchetto abituale. Gli Stati Uniti hanno coperto circa il 70% delle spese militari di Israele legate alla guerra, consentendogli di condurre una campagna prolungata su più fronti. Le armi sono state fornite per il 67% dagli USA, per il 32% dalla Germania e per l’1% dall’Italia. Possiamo dunque affermare che il genocidio di Gaza è stato commissionato da Washington e reso attuabile da Stati Uniti e Germania.
Gli altri Paesi della regione non hanno aumentato la loro spesa in maniera significativa, con l’esclusione del Libano che l’ha aumentata del 58% per raggiungere i 635 milioni di dollari.
Dato significativo, l’Iran ha diminuito l’impegno militare del 10% per attestarsi a 7,9 miliardi di dollari. L’impatto delle sanzioni e la situazione sociale all’interno impediscono al regime di chiedere nuovi sacrifici per la guerra.
L’Arabia saudita è rimasta pressoché stabile a 79 miliardi, ma pare che si appresti a firmare un accordo per l’acquisto massiccio di armi dagli Stati Uniti: ben 142 miliardi di dollari; per darne una dimensione, tra il 1950 e il 2022 il Regno ha acquistato armi americane per un totale di 164 miliardi.
Il secondo imperialismo mondiale, la Repubblica Popolare Cinese ha aumentato la sua spesa del 7% rispetto all’anno precedente per raggiungere i 318 miliardi di dollari. Pechino investe nel processo di modernizzazione delle sue Forze armate, nel rafforzamento delle sue capacità di cyberguerra e nell’arsenale nucleare. La differenza del costo degli armamenti sul mercato cinese rispetto a quello di altri Paesi, e soprattutto degli USA, rende difficile stimare la reale consistenza dell’apparato militare cinese. La Cina sta concentrando le risorse nell’Indo Pacifico. Le forze armate americane invece, certo complessivamente superiori alle cinesi, sono impegnate in molte regioni del globo, il che dà oggi a Pechino un vantaggio.
Il Giappone ha aumentato la spesa del 20% per raggiungere i 58 miliardi di dollari, il più forte aumento dal 1958, portando la spesa all’1,4% del PIL, superando quell’1% che dalla Seconda Guerra era stato imposto al Paese.
La spesa di Taiwan, nonostante le tensioni crescenti con Pechino, è rimasta pressoché stabile sui 16 miliardi di dollari.
L’India ha aumentato l’esborso militare di poco più del 2% raggiungendo gli 84 miliardi. Questo rappresenta il 28% di quello cinese e il 9% dell’americano, una molto significativa differenza, che si riflette anche nella qualità degli equipaggiamenti, nelle capacità nucleari, nella modernizzazione e nel trattamento del personale. La soluzione cercata è sostituire le importazioni di sistemi d’arma con la produzione nazionale.
Il Pakistan, invece, negli ultimi anni ha diminuito la sua spesa di circa mezzo miliardo, attestandosi sugli 8, dopo il massimo raggiunto nel 2021 con 10,6 miliardi.
Nel continente africano, nonostante che, soprattutto nella regione sub
sahariana, sia scosso da guerre tra le più sanguinose per le popolazioni civili,
l’impegno in armi ed armati è aumentato solo del 3% rispetto al 2023 e del 15%
rispetto al 2015.
Attività del Partito in Nordamerica
La crisi generale del capitalismo continua a manifestarsi nelle sue forme classiche: guerra, disordine economico, sciovinismo nazionale, rovina della natura e intensificazione dello sfruttamento del lavoro. La borghesia, mascherata da fraseologia democratica o apertamente autoritaria, offre solo variazioni della stessa dittatura di classe. L’illusione della democrazia, del “male minore”, rimane un potente ostacolo alla capacità del proletariato di ricostituirsi come classe rivoluzionaria.
Ma questa situazione storica conferma ancora una volta la necessità e la validità senza tempo del partito rivoluzionario, non come strumento estemporaneo adatto al momento, ma come sviluppo organico ancorato all’eredità teorica e programmatica del marxismo. «Il vero partito è un organismo storico, un corpo che agisce, che combatte, che si muove, che lotta nel tempo e nello spazio, e soprattutto nella lotta di classe; ma allo stesso tempo è un filo di continuità attraverso il tempo, attraverso generazioni e generazioni di militanti» (1965). Questa non è retorica, guida ogni intervento, ogni espressione, ogni momento anche quando l’organo di classe del comunismo si trova in mezzo alla confusione e alla sconfitta del proletariato moderno — non per adattarsi, ma per tornare ad affermarsi.
In questo la vera tattica del Partito, verso la ricostituzione del movimento di classe rivoluzionario: essere presenti senza infingimenti, con chiarezza al di fuori di qualsiasi compromesso.
Il proletariato oggi è disarmato, frammentato e saturo di illusioni democratiche. Ma nella nostra concezione organica il partito non è una formazione della spontaneità immediata o locale né una coalizione di correnti. È l’organo storico della classe operaia, che persiste anche nei periodi di sconfitta. Non abbiamo nulla da improvvisare, stiamo continuando un lavoro. Non prevediamo di costruire il partito ex novo a ogni ondata di protesta o rivolta studentesca. Agiamo in continuità con le grandi rotture storiche del 1848, 1871, 1917, 1921, e ci ergiamo sulle rovine lasciate dal tradimento, dalla socialdemocrazia, dallo stalinismo, dall’opportunismo.
Il partito sa che oggi la sua dimensione numerica sarà limitata, ma ugualmente lavora per ripristinare il legame tra teoria e azione, organizzazione e programma, organica compagine militante e bisogno, pratica e lotta per il comunismo.
I nostri compiti rimangono chiari:
- Preservare e trasmettere il programma rivoluzionario nella sua totalità:
l’unionismo di classe, la necessità della dittatura del proletariato,
l’abolizione del lavoro salariato.
- Rifiuto di ogni forma di frontismo, coalizione e compromesso fra partiti.
- Intervenire ovunque si manifesti il proletariato, anche sotto bandiere
mistificate.
Solo il Partito, organo storico forgiato nella teoria e collaudato nella guerra di classe, può ricostituire il movimento comunista.
Il partito riconosce che il sindacato è la forma elementare in cui il proletariato si organizza come classe. Il partito partecipa al movimento sindacale per difendere e rafforzare le posizioni della classe operaia nella sua lotta immediata contro il capitale e per preparare le condizioni organizzative e tattiche per il rovesciamento rivoluzionario dell’ordine borghese. Condizione imprescindibile è la direzione del partito comunista sul movimento sindacale.
Quindi il partito rifugge sia dall’astensionismo settario sia dalla dipendenza opportunista dalle burocrazie sindacali.
Il nostro lavoro di sezione è proseguito in gran parte sulla base degli studi dei compagni e delle pubblicazioni. Alla riunione è stato riportato un dettaglio delle traduzioni/revisioni/impaginazioni in lingua inglese di testi d’archivio dalla fine di marzo in poi. Sono oltre 75 testi ad oggi completati, afferenti a diversi Indici per argomento teorico o storico: Teoria marxista della conoscenza, Cina, Medio Oriente, Africa Nera, Religioni, Teoria della crisi. Attualmente sono in fase di elaborazione 6 testi significativi, tra cui opere fondamentali sull’economia marxista, l’organizzazione internazionale del lavoro e le critiche alla morale borghese. I principali progetti in corso, con il contributo anche dei compagni in Gran Bretagna, includono la traduzione completa di “Economic and Social Structure of Russia Today” (1956) e “The Jewish Question Today”, entrambe opere assai corpose e di argomento impegnativo.
Esce regolarmente il giornale bimestrale “The International Communist Party”, la cui redazione, stampa e distribuzione è curata dalla sezione nordamericana. La sezione è impegnata in studi per produrre contenuti regolari per il giornale. L’ultimo numero contiene 24 articoli che coprono, oltre ad argomenti di teoria e di attualità, corrispondenze di lotte proletarie negli Stati Uniti, in Cile, Grecia, Argentina, Bruxelles, Iran e Turchia.
È uscito anche il primo numero di “Communism”, rivista semestrale del partito (già disponibile per gli ordini sul sito web) della quale redazione si stanno anche incaricando i compagni degli Stati Uniti. È prevista la convergenza dei contenuti e la collaborazione redazionale con la parallela rivista in lingua italiana “Comunismo”.
Abbiamo anche stampato e distribuito negli Stati Uniti in formato Tabloid, in lingua spagnola, su 4 pagine una selezione degli articoli del nostro “El Partido Comunista Internacional”. È una operazione che riteniamo di poter ripetere regolarmente ogni sei mesi. Queste pagine saranno distribuite ai numerosi lavoratori latinos presenti negli Stati Uniti.
I compagni hanno lavorato per mettere a punto e migliorare la Casa editrice del partito e il suo sito web. Attualmente il suo catalogo conta a stampa 11 testi fondamentali, scritti dal 1948 in poi, e 15 scaricabili in Pdf, dal 1848 in poi.
Altri compagni statunitensi sono impegnati a trasferire in formato di audio-testo alcuni degli articoli dalla nostra stampa più recente. Abbiamo già registrazioni in inglese, spagnolo, portoghese, italiano, francese, turco.
Per l’intervento esterno troviamo che anche negli Stati Uniti sta oggi precipitando la crisi del capitalismo con intensificarsi degli attacchi alla classe operaia. Sempre più il capitalismo non può offrire al proletariato altro che sfruttamento, guerra e fascismo.
L’attuale assalto del governo ai lavoratori federali – oltre 260.000 licenziamenti – rappresenta la logica inesorabile dell’accumulazione del capitale in crisi.
L’attuale intensificarsi della crisi capitalista crea sia opportunità sia pericoli per l’intervento del partito. Da un lato sorgono correnti di lotta di classe nei sindacati esistenti e in nuove organizzazioni di base, dall’altro si mantiene l’influenza opportunista e della corruzione borghese all’interno del movimento operaio americano.
Nessun sollievo arriverà mai alle masse sofferenti attraverso metodi riformisti. Solo attraverso la conquista di un’autentica direzione comunista dei sindacati possiamo preparare la classe alle lotte rivoluzionarie che ci attendono.
Questo può essere affrontato da un partito saldo e disciplinato, guidato da una chiara comprensione teorica.
Gli ultimi mesi hanno presentato diversi momenti – sebbene dominati da parole interclassiste e illusioni democratiche borghesi – in cui i compagni della sezione statunitense del Partito sono potuti intervenire per riaffermare i metodi della lotta di classe e distribuire la nostra stampa.
A Chicago, alla manifestazione «Hands Off!», “Giù le mani” (dalla democrazia), erano presenti circa in 700, convocati con parole pacifiste, nazionaliste e democratiche: nonostante la confusione politica della folla – sventolio di bandiere stelle-e-strisce, appelli morali allo Stato e inviti a “difendere la democrazia” – i partecipanti hanno accolto con interesse i nostri materiali. Anche gli eventi politicamente più degenerati possono dimostrarsi utili alla nostra propaganda, non per stringere alleanze, ma, al contrario, per denunciare il riformismo e riaffermare l’alternativa rivoluzionaria.
Anche in Virginia e in Illinois si sono avute manifestazioni “anti-Trump” con la sceneggiata borghese dell’antifascismo in piena mostra, ad incanalare il malcontento proletario nell’elettoralismo e nella collaborazione di classe. Eppure il bisogno di trovare una via di uscita era evidente. Abbiamo distribuito il nostro recente volantino “Attenti lavoratori!” ai partecipanti, molti dei quali disgustati da entrambi i partiti del capitale. Noi interveniamo non per trovare “convergenze”, ma per sabotare la loro presa ideologica, dimostrando che il fascismo e la democrazia sono gemelli nati dallo stesso grembo capitalista.
Il Primo Maggio siamo intervenuti a Portland, Pittsburgh, Chicago, Richmond, nel New Mexico. Della festa del proletariato continuano ad essersi impossessate forze borghesi e piccolo-borghesi. Noi vi interveniamo per far riemergere il suo contenuto di classe originario.
Procediamo sulla via segnata, verso la riscossa della classe operaia! verso la
comunistica società senza classi!
Scopi e metodi dello studio sul corso del capitalismo
È ben noto che, nella nostra concezione materialistica della storia, è la base economica, come l’uomo produce e si riproduce, a determinare la sovrastruttura dei rapporti sociali, nonché la morale, le religioni, la scienza, il diritto, ecc., che sono ulteriori sovrastrutture della sovrastruttura politica e di forza.
Parte fondamentale del marxismo è quindi conoscere le leggi di questo “primo motore” economico, che viene, in ultima istanza, a determinare la vicenda umana.
Non a caso alle riunioni generali usavamo esporre per primo il rapporto sul corso del capitalismo.
Il marxismo è una scienza sperimentale, individua le leggi generali e astratte dello sviluppo storico e le verifica nei fenomeni empirici. Anticipa delle previsioni, qualitative e talvolta anche misurabili in quantità e in tempi, che sottomette alla prova dei fatti e delle osservazioni.
Questo riscontro nei fatti è stato tratto dagli studi dei marxisti non solo nell’ambito dell’economia in senso stretto: la massa delle merci rallenterà la sua crescita fino a un massimo invalicabile o nel capitalismo deve crescere senza misura? L’organamento produttivo va verso la dispersione o la concentrazione in grandi unità? La proprietà si diffonde e fraziona o si va concentrando in colossali monopoli? Lo smercio mercantile procede in regolare continua crescita o periodicamente si inceppa? Il suo regime politico tende progressivamente alle libertà individuali e alla democrazia o al fascismo, alla dittatura aperta? È da confidare in una pace permanente fra gli Stati o le guerre sono inevitabili?...
Lo scopo del nostro osservatorio sulla produzione e distribuzione delle merci non è solo la verifica delle leggi di Marx sull’economia, a denuncia di falso delle scuole borghesi, ma approfondire la conoscenza dei dettagli e delle particolarità del vulcanico mondo del capitale, che il partito rivoluzionario deve conoscere, e nella misura del possibile prevedere, nel quale si intrecciano regolari crisi catastrofiche, e fenomeni non soltanto puramente economici, come contrasti fra avversi centri nazionali, guerre locali o generali, interventi di Stati, l’effetto di eccezionalità climatiche sui raccolti, ecc.
Lo studio sul corso del capitalismo, dopo i fondamentali di Marx e di Lenin e degli altri nostri grandi compagni, riprese nel Partito alla riunione di Cosenza del 1956 (RG17) e da allora l’argomento non è più mancato fra i nostri studi.
Sulla modalità di questa diligente elaborazione, scrivevamo nella
Presentazione del nostro volume “Il corso del capitalismo mondiale”, che
l’organico lavoro del partito sui diversi temi è articolato nella forma in più
fasi distinte, eppure fuse nella sostanza:
- lavoro collettivo di ricerca di base,
- raccolta e ordinamento dei dati,
- esposizione orale alle riunioni generali,
- primo resoconto sulla stampa,
- apporti ulteriori e affinamento scaturiti da tutto il partito,
- rapporto esteso pubblicato.
Un tessuto di lavoro che in ogni sua fase è in grado di offrire aspetti e rilievi originali.
In quel primo decennio successivo alla Seconda Guerra mondiale – quando il capitalismo stava riprendendo il suo slancio, pur con difficoltà, e quando la propaganda moscovita spacciava per socialismo il suo giovane produttivismo capitalista, e vantava di potere superare gli Stati Uniti su quel terreno – il partito doveva smentire quelle false tesi verificando nel reale decorso storico la legge dell’invecchiamento del capitalismo, che si riassume nella inesorabile diminuzione del tasso del profitto nel tempo, e quindi il rallentamento della sua crescita relativa. Nel raffronto internazionale si verificava numericamente quanto tutti i giovani capitalismi, quale il russo di allora, avevano accumulato e accumulavano più velocemente dei vecchi.
Oggi, dal 1975 in poi, entrato il capitale mondiale in una sua nuova lunga fase di sovrapproduzione, la nostra ricerca tende prevalentemente a documentare le diverse modalità e tempi di affondare nella crisi dei diversi centri nazionali del capitale e le gravi perturbazioni che ne derivano nei rapporti fra le economie e fra gli Stati.
Ovviamente il primo dato da considerare è quello della popolazione, del suo crescere e del suo ripartirsi nei diversi paesi.
Ma la vita del capitalismo si manifesta nella produzione di “una grande massa di merci”, come Marx apre il Capitale, nella formula D-M-M’-D’. Quindi il fenomeno da studiare è il volume delle produzioni, quanto la macchina del capitale vomita sul mercato, in massa fisica e in valore. A sua volta questa serie temporale, con dati annui o mensili, può essere suddivisa per tipo di merce (cereali, carbone, acciaio, cemento, petrolio, elettricità...) o per paese di fattura.
Di queste serie di numeri, che si possono esprimere in unità fisiche o come
indici proporzionali, si indaga:
- La serie in sé, i suoi intervalli temporali crescenti e decrescenti, i suoi
successivi massimi e i suoi minimi, durante le crisi.
- L’entità della crescita nell’anno, o nel mese, e l’andamento di questo
incremento nel tempo.
- Il rapporto fra l’incremento, annuo o mensile, e il valore nell’anno, o nel
mese, precedente. Questo rapporto è inoltre, e molto significativamente
calcolabile come media nei successivi cicli nei quali si avvolge la crescita del
capitalismo.
Il tasso di incremento, nella ipotesi semplificatrice che tutto il profitto annuo sia reinvestito, è assimilabile al Tasso del Profitto = Profitto / (Capitale costante + Capitale variabile) = (Prodotto(n)-Prodotto(n-1)) / Prodotto(n-1).
Passando dalla produzione alla circolazione del capitale è da indagare il decorso delle altre grandezze che ne descrivono il tormentato decorso: consumi, prezzi, commercio internazionale, cambio delle monete, emissione e movimento del capitale finanziario, tasso di interesse, indebitamento delle imprese, dei privati e degli Stati.
È un lavoro che richiede molta diligenza nella raccolta e nella registrazione dei dati, che oggi il capitalismo fornisce in grande abbondanza, ma che devono essere valutati nella loro attendibilità e resi omogenei. Sappiamo che i borghesi imbrogliano sempre e che, per abito di classe, non dicono mai la verità, ma noi dobbiamo saperla individuare anche attraverso le loro menzogne.
Dovremmo oggi riprendere le lunghe serie storiche riportate nel volume del “Corso”, aggiornarle per i successivi 35 anni, e presentarle, successivamente una per una, e molto utilmente commentarle alle riunioni del Partito.
È possibile che più compagni seguano ciascuno l’evoluzione di una diversa grandezza. Sarebbe auspicabile conservare le serie numeriche in un formato elettronico di Partito, accessibile a tutti, e per facilitare i calcoli e i confronti.
Questo lavoro di ricerca “di base”, su lunghi archi storici, è trascurato dai
borghesi, sempre interessati solo alla congiuntura immediata. Ciò non toglie
che è da seguire la lettura dei loro organi specialistici, dei quali va
decifrato il gergo e aggirate le interessate deformazioni.
PAGINA 8
L’attentato terroristico
Il 22 aprile scorso, la valle di Baisaran, una località vicino alla cittadina montana di Pahalgam, nel Territorio indiano dello Jammu e Kashmir è stata teatro di un attacco terroristico. Un gruppo di cinque miliziani armati ha provocato 26 vittime civili e decine di feriti.
Il commando, munito di fucili d’assalto M4 e AK-47, avrebbe preso di mira alcuni gruppi di turisti di fede indù. Da quanto descritto da diversi testimoni, le vittime sarebbero state selezionate in base al genere (solo maschile) e alla loro religione (esclusivamente non musulmani); gli autoctoni kashmiri sarebbero stati risparmiati.
Un modus operandi che ricorda in parte quello impiegato da Hamas negli attacchi del 7 ottobre. Alcune vittime sarebbero state costrette a dimostrare la loro fede islamica recitando la Kalima, un atto di fede pronunciato per esprimere l’adesione all’Islam. L’unica vittima musulmana accertata è un lavoratore del luogo, un affitta-ponies, che avrebbe tentato di difendere i turisti.
L’attacco è stato rivendicato da un gruppo relativamente nuovo, noto come The Resistance Front (TRF), una formazione emersa nel 2019, poco dopo la decisione del governo centrale indiano di revocare la parziale autonomia del Kashmir.
Il TRF è considerato strettamente legato, o parte integrante, del gruppo jihadista Lashkar-e-Taiba (LeT), protagonista di numerosi attacchi in territorio indiano negli ultimi decenni, incluso l’assalto a Mumbai del 2008 che, durato tre giorni, causò 170 morti.
Però pochi giorni dopo l’attacco il TRF ha negato il proprio coinvolgimento sostenendo che la rivendicazione dell’attentato, inviata tramite Telegram, fosse il risultato di una violazione informatica orchestrata dall’intelligenza indiana.
Colpire i turisti non è una novità per questi gruppi, al contrario risponde a una precisa volontà di ottenere una risonanza internazionale e mediatica. L’obiettivo è duplice: minare la stabilità regionale e danneggiare l’economia del turismo indiana, un settore che nel Kashmir indiano ha conosciuto un significativo sviluppo negli ultimi anni.
Nel giugno 2024 un autobus che trasportava pellegrini indù di ritorno dal tempio di Shiv Khori, vicino a Ransoo, nel distretto di Reasi (Jammu e Kashmir), fu assalito e nove passeggeri furono uccisi. L’attacco fu rivendicato dai Kashmir Tigers, un gruppo anch’esso poco conosciuto che si distingue per le sue tattiche di imboscata con armi leggere. È ritenuto affiliato all’organizzazione islamista sunnita, fondata nel 2000, Jaish-e-Mohammed (JeM) che in urdu significa “l’esercito di Maometto” e che nel corso degli anni si è caratterizzata per l’uso di attentatori suicidi.
Nel tentativo di rafforzare un’immagine di normalità della regione, l’India aveva organizzato nel 2023 una tappa del G20 proprio a Srinagar, capoluogo dell’omonimo distretto nello Jammu e Kashmir. Evento che fu seguito da proteste da parte cinese e pakistana.
Gli attacchi sono spesso mirati contro civili, minoranze etniche e religiose, pellegrini, turisti, ma anche lavoratori come dimostra la vile azione sempre del TRF che nell’ottobre 2024 attaccò un cantiere di un tunnel nel distretto di Ganderbal, sempre in Kashmir, a seguito del quale morirono 7 lavoratori immigrati.
Secondo i dati del South Asia Terrorism Portal, tra il 2000 e il 2024, circa 15.000 civili sono stati uccisi in India a causa del terrorismo, non solo nel Jammu e Kashmir, ma in diverse regioni del paese, numeri che riflettono la complessità e la diffusione del fenomeno.
Dalle parole ai fatti: l’operazione Sindoor
I vertici indiani hanno immediatamente incolpato il Pakistan, accusandolo di sostenere e alimentare il terrorismo nella regione. Islamabad, pur ribadendo l’illegittimità della presenza indiana in Kashmir, ha respinto qualsiasi coinvolgimento, rimandando le accuse al mittente.
Il giorno seguente all’attacco Nuova Delhi ha risposto con ritorsioni significative: sospendendo il Trattato delle Acque dell’Indo (Indus Waters Treaty) e chiudendo il confine di Attari-Wagah, l’unico valico legale tra i due Paesi, situato non lontano da Amritsar, nel Punjab indiano.
Il Trattato delle Acque dell’Indo, firmato nel 1960 sotto la supervisione della Banca Mondiale, regola la spartizione delle acque del vasto bacino del fiume più lungo del subcontinente. L’Indo nasce nelle montagne del Tibet, attraversa una parte dell’India (principalmente il Ladakh e il Jammu e Kashmir) e scorre attraverso tutto il Pakistan, sfociando nel Mar Arabico a sud di Karachi.
Il Trattato assegna all’India l’uso esclusivo (usualmente per scopi agricoli ed idroelettrici) degli affluenti di sinistra: Ravi, Beas e Sutlej. L’Indo e quelli di destra: Chenab e Jhelum, sono invece ad uso pakistano. Tuttavia, il trattato consente all’India di costruire progetti idroelettrici anche su questi, ma non alterandone il deflusso verso il Pakistan.
Queste acque sono indispensabili al sostentamento dell’economia pakistana: usate principalmente per la produzione agricola, rappresentano circa l’80% di tutto il fabbisogno idrico del paese. Il Ministro dell’Energia pakistano, Awais Leghari, ha quindi definito la sospensione del trattato «un atto di guerra idrica; una mossa codarda e illegale», ribadendo che «ogni goccia è nostra di diritto e la difenderemo con tutta la forza».
Due giorni dopo l’attentato, entrambi gli Stati hanno annullato i visti e interrotto i legami commerciali. Il Pakistan ha chiuso il suo spazio aereo ai velivoli indiani e sospeso il fragile accordo di Simla, che stabilisce il rispetto della Linea di Controllo (LoC) e l’impegno a non modificarla unilateralmente. A dimostrazione di quanto valgono queste carte firmate tra predoni borghesi questo accordo dal 1972 è stato violato innumerevoli volte.
Il 29 aprile, il premier indiano Modi, durante una riunione con i vertici della difesa, ha concesso alle forze armate indiane la "completa libertà operativa".
Le tensioni aumentano: il 3 maggio il Pakistan mostra i muscoli e testa il missile balistico Abdali, con una portata di 450 chilometri. Lo stesso giorno l’India impone restrizioni marittime alle navi pakistane e taglia tutti i commerci via mare.
La notte tra il 6 e il 7 maggio segna l’inizio della Operazione Sindoor. Le forze armate indiane conducono attacchi in territorio pakistano contro nove siti, identificati come “infrastrutture terroristiche”. Secondo fonti indiane, questi obiettivi includevano campi di addestramento e quartier generali dei gruppi terroristici Jaish-e-Mohammed, Lashkar-e-Taiba e Hizbul Mujahideen (HM), quest’ultima un’organizzazione che vede al suo interno combattenti di etnia kashmira.
Islamabad risponde immediatamente con intensi bombardamenti di mortaio e artiglieria pesante lungo la Linea di Controllo. Nella notte tra il 7 e l’8 maggio il Pakistan colpisce con droni e missili diversi obiettivi militari nel nord e nell’ovest dell’India; alcuni di questi attacchi vengono neutralizzati dai sistemi di difesa aerea indiani.
L’8 maggio le forze armate indiane rispondono con missili e droni, prendendo di mira i sistemi radar di difesa aerea in diverse località pakistane, inclusa Lahore. Nella notte tra l’8 e il 9 maggio i raid di droni pakistani contro obiettivi indiani si susseguono, colpendo, tra gli altri, l’aeroporto di Srinagar e la base aerea di Awantipora. Si stima che Islamabad abbia utilizzato oltre 300 droni.
Il 9 maggio si registra un notevole aumento dell’intensità del fuoco lungo la LoC da entrambi i fronti, caratterizzato dall’uso di mortai e artiglieria di grosso calibro.
Il giorno successivo è negoziato un cessate il fuoco tra le due parti. Tuttavia, nonostante l’accordo si registrano ancora numerosi scontri lungo la linea di confine. Solo il 12 maggio, dopo quattro giorni di violenti scambi militari eseguiti con attacchi missilistici e intensi di droni, i due paesi annunciano una tregua, che risulterà stabile.
Come in ogni scontro tra Stati borghesi le dichiarazioni dei rappresentanti dei governi e dei vertici militari mostrano notevoli differenze riguardo alle vittime e all’esito dei reciproci attacchi. Il Pakistan ha accusato l’India di aver colpito aree civili causando la morte di 40 civili e 11 militari, e circa 200 feriti.
Nuova Delhi ha categoricamente smentito le affermazioni pakistane sulle vittime civili, ma sostenendo che le sue operazioni hanno portato all’uccisione di oltre 100 “terroristi” solo nella prima ondata di attacchi. Secondo le fonti indiane, le sue perdite militari sarebbero state di 5 soldati e 15 morti civili e 43 feriti a seguito degli scambi di artiglieria e armi leggere lungo la Linea di Controllo e dagli attacchi dei droni pakistani.
Il cessate il fuoco
L’annuncio dell’accordo del 10 maggio è stato dato dal presidente americano e solo in un secondo momento confermato dal Ministro degli Esteri pakistano e dal Segretario agli Affari Esteri indiano. Trump, con il ruolo da comico che gli hanno affidato, ha dichiarato: «Dopo una lunga notte di colloqui mediati dagli Stati Uniti, sono lieto di annunciare che India e Pakistan hanno accettato un cessate il fuoco completo e immediato. Congratulazioni a entrambi i Paesi per aver usato il buon senso e una grande intelligenza. Grazie per la vostra attenzione su questa questione!».
Parole che non sono piaciute alla classe dominante indiana: attribuire il merito della mediazione agli Stati Uniti suggerisce che l’India abbia ceduto a pressioni esterne mentre, nell’immaginario nazionalista, la questione del Kashmir e le relazioni con il nemico pakistano sarebbero affari interni ai due Stati. Inoltre Trump avrebbe messo sullo stesso piano i due paesi, non individuando l’India vittima del terrorismo.
È evidente invece che siamo in una fase storica dove le questioni locali si inseriscono in uno squilibrio mondiale, né possano essere affrontate in totale autonomia.
In questa crisi i due maggiori imperialismi, americano e cinese, hanno mantenuto una posizione cauta, invitando alla moderazione entrambi gli Stati contendenti, dopo averli armati per decenni. Certamente gli Stati Uniti, seppur legati storicamente al Pakistan, sono orientati a rafforzare i legami strategici con l’India in funzione anti-cinese. Pechino è invece tradizionalmente un avversario di Delhi e un alleato di Islamabad, con cui ha costruito legami economici e commerciali sempre più stretti.
Inoltre per l’India un conflitto armato minerebbe le già scosse catene di approvvigionamento globale e spaventerebbe il capitale internazionale che oggi vi trova una terra fertile per investire. Una guerra di lunga durata potrebbe mettere a dura prova la capacità indiana di contenere, anche solo in parte, l’influenza cinese.
La posizione del comunismo rivoluzionario
Gli innumerevoli conflitti, più o meno estesi, che caratterizzano l’attuale fase del modo di produzione capitalistico sono manifestazioni inesorabili della marcia del capitale verso una nuova carneficina mondiale, dettata in primo luogo dalla generale crisi economica di sovrapproduzione. La guerra è una ineluttabile necessità per le classi dominanti, non esiste alternativa al nostro “o guerra capitalistica mondiale o rivoluzione proletaria”. Diventa fondamentale per i padroni, per i loro governi di ogni colore, incanalare i lavoratori, di tutte le nazioni, al massacro fratricida.
Tutte le borghesie, e in questo scenario quella indiana e la sua gemella pakistana, continueranno a soffiare sul fuoco del conflitto, alimentando, quando e quanto serve, i molteplici gruppi di “terroristi”, espressione ed utili servitori delle diverse fazioni borghesi che li allevano e li sovvenzionano e che, al di là della loro presunta ideologia, si porranno sempre contro la rivoluzione e contro i lavoratori.
Le contese territoriali come quella del Kashmir saranno un utile pretesto per spingere sul nazionalismo, così come i conflitti religiosi che verranno inaspriti per rafforzare lo Stato borghese e scagliarlo contro il movimento proletario.
Ma la guerra ha anche il merito di smascherare l’opportunismo in ogni sua forma. In India, i due grandi partiti sedicenti comunisti, il Partito Comunista dell’India, e la sua scissione del 1964 il Partito Comunista dell’India (Marxista), hanno di nuovo mostrato la loro vera natura reazionaria sostenendo apertamente l’Operazione Sindoor, sottolineando l’importanza dell’unità nazionale in risposta al “terrorismo”. I proletari indiani dovranno rigettare tali consegne e far proprio, insieme ai loro fratelli di classe pakistani, il motto Il nemico è in casa nostra, contro l’unità nazionale per l’internazionale unità nella lotta della classe lavoratrice.
Altre organizzazioni di sinistra indiane e pakistane, apparentemente più radicali, oggi schierate contro entrambe le borghesie nazionali, sostengono lotte di liberazione di nazionalità, dal Tibet al Belucistan al Kashmir. In un mondo del presente generale grado di sviluppo storico le parole di denuncia di queste oppressioni di minoranze sono utilizzate come strumenti della guerra tra gli imperialismi, così come nello scenario ucraino rispetto alle repubbliche del Donbass, o nella carneficina palestinese.
Un terzo macello mondiale potrà essere fermato solo dal proletariato mondiale, unito al di sopra delle nazionalità, etnie, religioni e che, guidato dal partito comunista internazionale, trasformi la guerra tra gli Stati in guerra tra le classi per l’affermazione del Comunismo.