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Il processo di centralizzazione del
capitale
(in Il Programma Comunista n. 21, 1960)
Una diffusa varietà di idiozie promana dalle teste elette degli economisti, indaffarati a dimostrare l’eternità del modo di produzione capitalistico. Come al solito essa, non nuova, proviene da ogni parte. Anzi, nel gioco della mistificata “socializzazione” russa, è consentito a ciascuno di parlare non più di cause e leggi, ma di effetti e metodi. Di “tecniche” sempre più si discute: i principi servirebbero solo agli “idealisti”. La diatriba non verte più sulla necessità di un “piano” economico o sulla preferenza della libera iniziativa. Tutti lanciano piani di produzione, e forse è più facile che desistano i “pianificatori” di professione che i “liberisti”, a giudicare da come si mettono le cose in Russia.
Quello che tuttavia appare chiaro in questa farragine (che ci interessa solo come aspetto della decomposizione sociale del capitalismo) è che ciascun gruppo di contendenti vuol celare, sotto le immancabili proteste di “attaccamento alle origini”, l’ineluttabile corsa verso la fine. Il Kennedy ha quindi perfettamente ragione di sostenere, per giustificare un nuovo e più potente slancio imperialistico degli USA, come per far fuori i concorrenti repubblicani, che l’URSS e gli USA “vogliono le stesse cose”. Tutti son d’accordo sull’essenziale, cioè nel voler mantenere intatto l’attuale modo di produzione, che è produzione di plusvalore.
Le molteplici etichette apposte al capitalismo – liberale, democratico, e, in ultimo, popolare – celano tutte la molla che ne accelera lo sviluppo: la centralizzazione. «Il mondo – scrive Marx (Il Capitale, I, 3) – sarebbe tuttora privo di ferrovie, se avesse dovuto aspettare che l’accumulazione avesse messo in grado alcuni capitalisti individuali di poter affrontare la costruzione di una ferrovia. La centralizzazione, invece, è riuscita a farlo d’un tratto, mediante le società per azioni».
Ogni vanteria su giganteschi sviluppi della produzione tace il processo di stritolamento dei piccoli capitali. Si esaltano solo gli indici di accrescimento, che di per sé non dimostrano potenza produttiva se non alla condizione di essere il risultato e la premessa della riunificazione dei capitali sparsi. La pretesa dell’opportunismo di contrastare il passo alla costituzione di grandi monopoli capitalistici è insieme ridicola e reazionaria: i monopoli infatti testimoniano, oltre tutto, dell’insopprimibile processo di centralizzazione, senza cui, giusta Marx, sarebbe impensabile la socializzazione finale della produzione.
Marx esalta addirittura la funzione acceleratrice della centralizzazione che si estrinseca nelle società per azioni, nei trust, nei monopoli:
«Questa espropriazione [dei produttori privati] si compie attraverso il gioco delle leggi immanenti della stessa produzione capitalistica, attraverso la centralizzazione dei capitali. Ogni capitalista ne colpisce a morte molti altri per suo conto. Di pari passo con questa centralizzazione, ossia con l’espropriazione di molti capitalisti da parte di pochi, si sviluppano su scala sempre crescente la forma cooperativa del processo di lavoro, la consapevole tecnica della scienza, lo sfruttamento metodico della terra, la trasformazione dei mezzi di lavoro in mezzi di lavoro utilizzabili solo collettivamente, la economia di tutti i mezzi di produzione mediante il loro uso come mezzi di produzione del lavoro combinato, sociale, mentre tutti i popoli vengono via via intricati nella rete del mercato mondiale e così si sviluppa in misura sempre crescente il carattere internazionale del regime capitalistico. Con la diminuzione costante del numero dei magnati del capitale che usurpano e monopolizzano tutti i vantaggi di questo processo di trasformazione, cresce la massa della miseria, della oppressione, dell’asservimento, della degenerazione, dello sfruttamento, ma cresce anche la ribellione della classe operaia che sempre più s’ingrossa ed è disciplinata, unita e organizzata dallo stesso meccanismo del processo di produzione capitalistico. Il monopolio del capitale diventa un vincolo al modo di produzione, che è sbocciato insieme ad esso e sotto di esso. La centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro raggiungono un punto in cui diventano incompatibili col loro involucro capitalistico. Ed esso viene spezzato. Suona l’ultima ora della proprietà privata capitalistica. Gli espropriatori vengono espropriati».
Il lettore confronti questa parte finale del I libro del Capitale col “Nuovo corso” russo, e si convincerà che la nostra condanna del “socialismo sovietico” non è frutto di preconcetti ma corre sul filo storico della teoria marxista.
Funzione dei capitali individuali
Lo slancio esasperato della produzione, in una con la maggior rata destinata all’accumulazione, «sviluppa quindi il modo di produzione specificamente capitalistico», e viceversa. La composizione organica del capitale varia continuamente; la parte variabile decresce in rapporto a quella costante; ogni fase di accumulazione implica un’aumentata quantità di mezzi di produzione e «il corrispondente comando su un esercito più (…) grande di operai». Ad un certo grado di sviluppo di questo processo quantitativo, si opera una selezione dei molteplici “capitali individuali”. Importa sottolineare questa definizione scientificamente perfetta di Marx. La nostra prolissità ci è suggerita dallo stesso Maestro, che non si stanca mai di ripetere che il modo di produzione capitalistico “disumanizza” l’umanità, che in esso gli uomini sono al servizio del capitale: tutti gli uomini, ivi compresi gli stessi capitalisti, umani rappresentanti del Capitale.
Nella lunga polemica contro il veicolo opportunista della piccola borghesia, lo stesso Lenin rinfaccia a questa di non aver capito che essa stessa è vittima del processo di produzione capitalistica e che storicamente due sole prospettive le restano: farsi assorbire dal capitalismo o proletarizzarsi.
Il “capitale complessivo sociale” è costituito, appunto, da un gran numero di capitali individuali rappresentati da altrettanti capitalisti, che più o meno crescono con l’accrescersi dell’accumulazione. Questa fase coincide con la concentrazione del capitale. Marx infatti distingue due tipi di concentrazione, il secondo dei quali è chiamato centralizzazione e caratterizza una fase che potremmo definire di capitalismo superiore. Va notato, per non creare equivoci meccanicistici, che questa distinzione non si realizza in due tempi diversi, necessariamente separati l’uno dall’altro: anzi, è molto frequente che le due fasi si intersechino a vicenda. Resta inteso però che la fase di centralizzazione è quella finale. Per esemplificare, possiamo dire che la fase iniziale del capitalismo è caratterizzata dalla concentrazione, cioè dall’estendersi della produzione capitalistica col nascere di molti capitali individuali in contrasto tra loro, sì, ma nello sforzo di appropriarsi nuovi settori produttivi. La fase posteriore è invece caratterizzata dalla centralizzazione, in cui le varie “frazioni” del capitale, i molti capitali individuali “già formati” superano la “loro autonomia individuale” e si assorbono. È la fase dell’“espropriazione del capitalista da parte del capitalista”, “della trasformazione di molti capitali minori in pochi capitali più grossi”.
In Russia si sta svolgendo una fase di concentrazione del capitale. Si formano nuovi capitali individuali, ossia “autonomi”; si moltiplicano là dove solo la rete mercantile lega la periferia pre-capitalista al centro capitalistico. Il “decentramento” russo ha appunto questo significato economico-sociale.
La spirale della produzione allargata
In siffatto modo, dal nascere di molti capitali individuali, dal loro attrarsi e respingersi nel girone della produzione allargata, questa, «dalla forma di circolo, trapassa in quella di spirale», in velocità proporzionale alla centralizzazione.
Marx descrive, col suo solito linguaggio preciso, l’incomparabile vantaggio che la centralizzazione apporta alla produzione sociale e al suo estendersi. È una valanga che cresce col suo stesso procedere. Se la accumulazione originaria è stata il ponte di passaggio (e lo è ancora oggi per molti Paesi africani, asiatici e sud-americani) dalla fase artigianale della produzione a quella capitalistica, la riproduzione allargata costituisce il punto di trapasso all’espansione universale del modo di produzione capitalistico. Man mano che i vecchi capitali si rinnovano, “cambiano pelle” – commenta Marx – rinascono in forma “tecnica perfezionata” e cresce “il volume minimo del capitale individuale” necessario per “far lavorare un’azienda nelle sue condizioni normali”. Da qui è confermata la nostra tesi che capitale individuale in Marx vale capitale “aziendale”, non “personale” come titolarità giuridica.
Se 50 anni fa occorrevano una pialla ed una sega a mano con pochissimi operai per costituire una piccola azienda, oggi troverete l’azienda delle stesse dimensioni con macchine combinate, cioè con un capitale assai maggiore. Finché la grande produzione non avrà occupato, in maniera totalitaria, questi settori, ci sarà posto per la piccola produzione, per il fiorire di piccole aziende, di capitali individuali minimi. La loro funzione è di alfieri della massiccia produzione capitalistica. Il trapasso della produzione dalla fase di cerchio a quella di spirale è la caratteristica del modo di produzione capitalistico e al tempo stesso la garanzia dell’assorbimento da parte sua della miriade di capitali individuali.
Il monopolio capitalistico, il trust, il cartello nascono proprio da questa tendenza necessaria, da questo storico trapasso. Marx ben conosceva le società per azioni e, ancora oltre, il monopolio nella sua forma astratta, cioè perfetta, addirittura inattuabile per l’estrema razionalità capitalistica. Non ebbe neppur bisogno di scrivere “Il Capitale” per capire che la piccola produzione sarebbe stata soppiantata dalla grande, e che questa, con lo svilupparsi delle forme capitalistiche, avrebbe assunto sempre più una funzione reazionaria.
Fu tale la sua passione di rivoluzionario da armare la classe operaia, immediatamente all’indomani della grande affermazione del proletariato parigino nella sanguinosa sconfitta del 1848, del “Manifesto dei Comunisti”, che è una orazione funebre della piccola borghesia: «Il progresso dell’industria, del quale la borghesia è l’agente involontario e passivo, sostituisce all’isolamento degli operai, risultante dalla concorrenza, la loro unione rivoluzionaria mediante l’associazione. Lo sviluppo della grande industria toglie dunque di sotto ai piedi della borghesia il terreno stesso su cui essa produce e si appropria i prodotti. Essa stessa produce i suoi propri seppellitori. Il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono ugualmente inevitabili (…) Di tutte le classi che oggi stanno di fronte alla borghesia solo il proletariato è una classe veramente rivoluzionaria. Le altre classi decadono e periscono con la grande industria, mentre il proletariato ne è il prodotto più genuino. I ceti medi, il piccolo industriale, il piccolo negoziante, l’artigiano, il contadino, tutti costoro combattono la borghesia per salvare dalla rovina l’esistenza loro di ceti medi (…) Essi sono reazionari, essi tentano di far girare all’indietro la ruota della storia».
In questo senso, ma solo in esso, i comunisti rivoluzionari esaltano la funzione della grande produzione, le sue forme sempre più centralizzate e centralizzanti, monopolistiche. Sanno che a queste forme, all’accelerata centralizzazione, al più vasto monopolio, succederà la decapitazione rivoluzionaria del capitalismo. Più vasta sarà la spirale della riproduzione, più potente sarà la centralizzazione, il cui estremo limite, insegna ancora Marx, «sarebbe raggiunto soltanto nel momento in cui tutto il capitale sociale fosse riunito nella mano di un singolo capitalista o in quella di un’unica associazione capitalistica».
Ben venga quindi l’unico capitalista, l’unico monopolizzatore, perché sarà suonata l’ora della rivoluzione mondiale del proletariato comunista.