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Nei 75 anni trascorsi dal 1948 – quando è nato lo Stato ebraico e il nazionalismo panarabo ha subito una sconfitta cruciale in Medio Oriente, perdendo forse il suo ultimo appuntamento con la storia – la popolazione palestinese ha subito deportazioni, massacri, terrore e persecuzioni a non finire.
A contribuire all’oppressione nazionale imposta dallo Stato di Israele sono stati gli altri Stati della regione, che hanno sfruttato le varie organizzazioni armate palestinesi per i propri interessi di potere, ma che, al di là di ipocriti proclami a favore della "causa palestinese", non hanno risparmiato ai rifugiati palestinesi persecuzioni e massacri.
In Giordania, nel settembre 1970, forze militari congiunte giordane e siriane sedarono una rivolta provocando diverse migliaia di morti tra i rifugiati palestinesi. In Libano, nell’agosto 1976, una milizia di estrema destra, i falangisti, con la complicità siriana, uccisero migliaia di palestinesi di tutte le età nel campo di Tell al-Zatar. Nel 1982, sempre in Libano, i falangisti, con la complicità dell’esercito israeliano di occupazione, massacrarono migliaia di palestinesi nel quartiere di Sabra e nell’adiacente campo profughi di Shatila, alla periferia di Beirut.
A nessuno interessa la "causa palestinese", a nessuno interessa il destino del proletariato palestinese. Oggi, invece, tutti i governi si preoccupano della guerra, necessaria per tutte le borghesie, e di come trarne vantaggio. Ma per ogni guerra è necessario un "casus belli".
La borghesia israeliana approfitterà dell’incursione di Hamas per giustificare l’imposizione con la forza della disciplina interna a tutte le classi e azioni sanguinose contro i proletari palestinesi.
Anche Hamas, originariamente una pedina di Israele contro l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, deve mantenere il suo regime di terrore sui proletari di Gaza. Nel frattempo, l’OLP controlla la Cisgiordania per conto di Israele e tace sul destino dei suoi rivali a Gaza.
Il risultato ricercato da tutte le borghesie sarà quello di provocare una nuova carneficina in preparazione di una guerra regionale e forse generale.
Nell’attuale quadro generale del suo estremo marciume, il capitalismo mondiale è pronto a scatenare armi letali per terrorizzare e sottomettere milioni di proletari su tutti i fronti.
Noi comunisti internazionalisti dobbiamo svelare i termini reali di questa minaccia, sempre nascosta dietro schermi nazionalisti, democratici, etnici o religiosi.
Dobbiamo invitare i proletari palestinesi a non farsi ingannare dalla loro borghesia, venduta al servizio delle potenze regionali, a immolarsi come carne da cannone in guerre contrarie ai loro interessi. Lo sciopero generale che ha avuto luogo in tutta la Cisgiordania l’8 ottobre, sebbene non sia ancora libero dall’influenza nazionalista, è stata la prima reazione del proletariato palestinese contro la guerra. Tuttavia, il proletariato palestinese da solo non può impedire i massacri.
Dobbiamo invitare i proletari ebrei israeliani a sabotare lo sforzo bellico della loro borghesia imperialista e genocida e a combattere contro la loro borghesia e contro l’oppressione nazionale dei loro fratelli di classe palestinesi.
Dobbiamo invitare i proletari di ogni paese a non lasciarsi sedurre dalle sirene della propaganda che si schiera con una delle due borghesie assassine in finta lotta in Palestina e Israele.
Il conflitto in corso sarà usato ovunque dalla borghesia mondiale per intimidire il proletariato, per distoglierlo dai suoi interessi vitali, per giustificare misure di peggioramento dei salari, nuovi sacrifici.
Noi comunisti dobbiamo invece dire ai proletari che il rifiuto della guerra inizia per i proletari con l’intensificazione della lotta sindacale per i salari e per la diminuzione dell’orario di lavoro.
La borghesia non potrà condurre la sua guerra se non riuscirà a convincere con la sua propaganda menzognera ampi strati della classe operaia. Dobbiamo contrastare questa propaganda non solo rispondendo con le nostre verità agli inganni della classe dominante. Dobbiamo rispondere indirizzando la lotta operaia verso i bisogni materiali del proletariato, un’esperienza pratica in cui le falsità della borghesia e dei suoi servitori nelle file operaie si svelano.
Il proletariato, di fronte al costante peggioramento delle sue condizioni di vita e all’orrore della catastrofe del capitalismo, darà vita a una gigantesca stagione di lotte che attraverserà mari e confini.
Affinché questa nuova grande guerra di classe, senza quartiere, sia vittoriosa, è necessario rafforzare l’organo essenziale della classe operaia mondiale, il Partito Comunista Internazionale.
In poche occasioni è emersa in maniera così chiara ed evidente la natura borghese e antirivoluzionaria dei cosiddetti partiti socialisti e comunisti come è avvenuto con la guerra attualmente in corso in Ucraina. Alcuni di questi, in Europa, non si sono sbilanciati a sostenere né lo sforzo bellico ucraino né quello russo. In tal modo hanno cercato di rappresentarsi come se stessero sfidando coraggiosamente la linea ufficiale del loro Stato, che nella maggior parte dei casi consiste nell’aiuto militare ed economico all’Ucraina, nella condanna della Russia e nelle sanzioni contro di essa. Hanno voluto così stabilire un cammino apparentemente mediano tra il sostegno all’uno o all’altro attore in quella che spesso descrivono, correttamente ma incidentalmente, come una guerra inter-imperialista.
Ma, il carattere di queste esortazioni contro il sostegno all’Ucraina non ha nulla a che fare col disfattismo rivoluzionario, che riassume la posizione comunista di fronte a tali conflitti. Codesti partiti assumono una posizione ancora peggiore di quella sintetizzata dalla vecchia e sciagurata formula, “né aderire, né sabotare”, coniata da Costantino Lazzari di fronte allo sforzo bellico durante la prima guerra mondiale, formula che non contrastò l’inquadramento militare del proletariato italiano sotto la bandiera della “patria” borghese.
Utilizzando il linguaggio della neutralità umanitaria, invece di quello della rivoluzione proletaria, essi si schierano contro il sostegno a una delle due parti in lotta e a favore della pace borghese, ma spesso questa sbandierata “neutralità” non è altro che un velo sotto il quale viene offerto un tacito sostegno alla loro “parte” in guerra.
Questo atteggiamento si riscontra in tutti i partiti e le organizzazioni che si definiscono “comunisti” o “socialisti” e che affermano di rappresentare gli interessi della classe operaia.
Il Partito Comunista di Spagna (PCE) «chiede l’immediata cessazione di tutte le operazioni militari avviate dalla Russia in Ucraina e sosterrà tutte le iniziative che promuoveranno una soluzione pacifica e definitiva per garantire la sicurezza comune di Ucraina e Russia al di fuori di logiche e risposte militari. La Spagna dovrebbe sostenere iniziative diplomatiche per porre fine all’aggressione russa e contribuire alla costruzione di un Sistema di Sicurezza Continentale Condiviso».
Queste posizioni e rivendicazioni non sono accompagnate da alcun accenno a un’azione che si richiami alla posizione autenticamente comunista del disfattismo rivoluzionario, secondo cui il partito comunista deve lavorare attivamente contro lo sforzo bellico del proprio Paese impegnato nella guerra imperialista. Tale pratica rivoluzionaria, in questo caso, deve essere riferita anche al boicottaggio del sostegno militare del proprio paese all’Ucraina, e non soltanto all’intervento diretto nel conflitto.
Gli stalinisti spagnoli perorano la soluzione di una pace negoziata tra le parti in conflitto. Ma quali metodi propongono per ottenerla? Lasciare che siano gli stessi Stati borghesi a decidere! Questi sedicenti comunisti sosterranno “tutte le iniziative” che promuoveranno la fine negoziata del conflitto, e ciò deve avvenire attraverso i meccanismi della diplomazia fra le forze borghesi, che sarebbero le sole in grado di portare a tale soluzione. Queste forze, ovviamente, non lavoreranno per una pace vantaggiosa per le classi lavoratrici dell’Ucraina, della Russia e non solo, ma si batteranno per una pace più vantaggiosa per la borghesia internazionale e per le borghesie di quelle potenze che sono in grado di avere il sopravvento nella guerra, e dunque nella successiva conferenza di pace. Questa posizione non è nemmeno una mancanza di sabotaggio della guerra: è innegabilmente un atteggiamento di collaborazione alla fase finale dello sforzo bellico, il processo per stabilire la pace più vantaggiosa per la borghesia vittoriosa.
Il PCE si spinge ancora più in là, suggerendo che siano l’ONU e l’OSCE, cioè istituzioni integralmente borghesi, a ospitare la conferenza che dovrà porre fine alla guerra. Siamo forse ad un partito “comunista” di tipo wilsoniano? E, naturalmente, non dobbiamo dimenticare la loro invocazione per un “Sistema di sicurezza continentale condiviso”, che dovrebbe garantire la pace in Europa. Non si dice, ovviamente, che la cooperazione in materia di sicurezza in Europa non porterebbe ad altro che a un rafforzamento dell’imperialismo europeo: gli Stati borghesi del continente non saranno più benevoli in caso di “pace”, ma sfrutteranno la mancanza di pericoli sul continente per sfruttare e brutalizzare ancora più ferocemente il resto del mondo nell’interesse del capitale europeo e internazionale.
Tutto ciò va oltre la già deprecabile e vile formula del “né aderire, né sabotare”: la posizione del PCE non è altro che l’allineamento di un partito sedicente comunista, la cui dottrina non ha alcuna somiglianza con il marxismo rivoluzionario, a istituzioni e obiettivi interamente borghesi.
Il riprovevole Partito Comunista Francese (PCF) va ancora oltre gli spagnoli, chiedendo non solo negoziati borghesi, ma anche sanzioni. Il Consiglio nazionale del partito, in una dichiarazione rilasciata nel marzo 2022, ha sostenuto che «le sanzioni economiche adottate dall’UE e dai paesi occidentali devono essere sufficientemente forti da torcere il braccio del potere politico russo e dei suoi sostenitori economici e finanziari e costringere Vladimir Putin a un cessate il fuoco incondizionato e a negoziati di pace. Le sanzioni non devono colpire indistintamente il popolo russo». Questi ipocriti spiegano che non desiderano costringere la popolazione russa alla fame, come se le sanzioni contro un paese potessero colpire selettivamente la borghesia e i gangli finanziari, ma non i lavoratori.
Il PCF chiede sanzioni “abbastanza forti” da costringere il regime a fare la pace. Chiaramente questa “pace” dovrebbe andare a beneficio della borghesia ucraina e dei suoi sostenitori poiché le circostanze nelle quali la guerra dovrebbe finire, secondo questo piano, saranno create con la forza dagli Stati Uniti e dai loro alleati e clienti europei. Questo è un appello ad aderire alla guerra in tutto, tranne che nell’invio di truppe, ritagliandosi il ruolo di ausiliari della macchina bellica, facilitando così il massacro del proletariato sui campi di battaglia dell’Ucraina meridionale e orientale.
Anche il PCF avanza richieste simili riguardo alla cooperazione paneuropea. Inoltre avanza anche la rivendicazione patriottica della sovranità borghese della Francia, sostenendo «l’indipendenza strategica della Francia, come quella di tutti gli Stati membri dell’Unione Europea». Un partito che si autodefinisce comunista e che mira a sostenere l’indipendenza strategica degli Stati imperialisti europei!
Dall’altra parte della Manica, anche il Partito Comunista Britannico (CPB) ribadisce la sua solida presenza nel campo borghese, chiedendo che le forze di pace delle Nazioni Unite siano dispiegate in Ucraina sulla scia di un accordo di cessate il fuoco. Pur differendo nei dettagli, questa posizione è molto in linea con la posizione dei partiti “comunisti” traditori che da quasi un secolo hanno abbandonato la lotta rivoluzionaria operaia, in quanto l’obiettivo che si propone non è la trasformazione della guerra imperialista in guerra civile per mezzo del disfattismo rivoluzionario, ma si propugna una soluzione pacifica del conflitto in Ucraina sotto gli auspici di un dispositivo borghese, sia esso organizzato dall’ONU, dall’Europa o da qualsiasi altra organizzazione internazionale o sovranazionale o gruppo di Stati.
«Il governo britannico dovrebbe usare la sua adesione permanente al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per lavorare a fianco della Cina per la pace e una soluzione negoziata». Questa bizzarra richiesta appare comica nella sua distanza siderale da qualsiasi punto di vista marxista, dato che fa assegnamento sullo Stato borghese britannico affinché svolga il ruolo di mediatore nella guerra inter-imperialista.
Anche il Partito Comunista Portoghese (PCP), ha assunto una posizione non lontana da quella dei partiti sopra citati, dai quali si differenzia leggermente per la condanna della risposta dell’UE alla guerra. Il partito «considera urgente ritornare sulla via del rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite e dell’Atto finale della Conferenza di Helsinki, della pace e della cooperazione tra i popoli». Si aggiunge anche l’osservazione, assolutamente incongrua se proveniente da un partito sedicente “comunista”, che la politica dello Stato portoghese di sostegno allo sforzo bellico dell’Ucraina è «contraria agli interessi del popolo portoghese e alla Costituzione della Repubblica portoghese». Nefandezza sconfinata, violare la costituzione portoghese!
Le dichiarazioni del PCP, come tutte le altre, non sono state accompagnate da nulla che assomigli ad un appello ad una linea politica comunista nei confronti della realtà della guerra.
Questi esempi sono comuni ai cosiddetti partiti comunisti d’Europa, che si sono interamente impantanati nell’elettoralismo borghese (per non parlare dello stalinismo che ancora anima tutti questi partiti) e hanno rinunciato da tempo immemorabile a ogni aspirazione rivoluzionaria e ad ogni programma proletario di qualsiasi tipo.
Le posizioni politiche di questi partiti sono integralmente borghesi, nonostante
il sottile velo di terminologia pseudo-marxista sparso a casaccio su di esse.
Nelle loro risposte politiche riguardanti la guerra in Ucraina, piuttosto che
qualcosa che assomigli ad un approccio comunista rivoluzionario, troviamo solo
obiettivi borghesi, linguaggio borghese e appelli alla pace borghese all’interno
delle istituzioni borghesi.
Il 19 settembre scorso l’Azerbaigian ha nuovamente lanciato un’offensiva contro la non riconosciuta internazionalmente “Repubblica dell’Artsakh”, che si estende nella regione del Nagorno-Karabakh, contesa con l’Armenia. Questa regione è un’enclave a maggioranza etnica armena, nell’ambito della più ampia regione del Karabakh, la quale è per il resto a maggioranza azera. La Repubblica di Artsakh contava interamente sul sostegno armeno, pur non essendo riconosciuta dall’Armenia.
Con l’ennesima guerra che ha interessato la regione dal dicembre 2022, il Nagorno-Karabakh è rimasto tagliato fuori dall’Armenia e dal resto del mondo, dopo che il corridoio di Lachin è stato bloccato dall’Azerbaigian, mentre le “forze di pace” russe hanno permesso solo la prosecuzione di un volume limitato di traffici. Tradizionalmente, la Russia aveva salvaguardato gli interessi armeni contro l’Azerbaigian, che invece è stato sempre sostenuto dalla Turchia. In questo caso però i russi non hanno dato alcun sostegno all’Armenia, che a sua volta non ha potuto dare alcun appoggio al governo armeno del Nagorno-Karabakh. Di conseguenza, quando l’Azerbaigian ha deciso di fare parlare le armi, la Repubblica dell’Artsakh è stata costretta ad arrendersi in un solo giorno e la regione è stata occupata dall’esercito azero. Per quanto la breve guerra abbia lasciato poche vittime, oltre 100.000 armeni sono stati costretti a lasciare la loro terra e a trasferirsi in Armenia.
Un secolo fa, i proletari rivoluzionari del Caucaso intendevano risolvere le dispute di confine tra le due nazioni in termini ben diversi. Il 1° dicembre 1920, due giorni dopo la vittoria del potere sovietico in Armenia, Nariman Narimanov lesse la seguente dichiarazione al Soviet di Baku a nome dei comunisti azeri: «L’Azerbaigian sovietico, che intende placare il fraterno popolo lavoratore armeno in lotta contro i dashnak, che hanno versato e stanno versando il sangue innocente dei nostri migliori compagni comunisti in Armenia e nello Zangezur, dichiara che d’ora in poi le questioni territoriali non causeranno mai spargimenti di sangue tra due popoli che sono stati vicini per secoli; i territori degli uezd [suddivisioni amministrative dell’impero zarista corrispondenti grosso modo alle province] dello Zangezur e del Nakhchivan sono una parte inalienabile dell’Armenia sovietica. Ai contadini del Nagorno-Karabakh viene riconosciuto il diritto alla completa autodeterminazione».
La dichiarazione aveva il senso di risolvere la questione in termini geografici piuttosto che etnici. I comunisti armeni risposero immediatamente riconoscendo l’autodeterminazione del Nakhchivan, dove prevaleva la componente etnica azera.
Già allora, però, il Commissariato russo delle Nazionalità manifestò una scarsa fedeltà ai principi dell’internazionalismo proletario. Così, la dichiarazione di Narimanov venne alterata, al punto di superare i limiti della falsificazione, da Sergo Ordzhonikidze, il quale collaborava col Commissario delle Nazionalità, Josif Stalin. Essa venne data alle stampe in modo distorto, sostenendo che anche il Nagorno-Karabakh era stato ceduto all’Armenia sovietica, gettando i semi della diffidenza e della futura ostilità tra i comunisti azeri e quelli armeni. Si creò così una situazione che favorì le tendenze “nazionalcomuniste” sia nel partito azero sia in quello armeno, mentre la sinistra internazionalista fu emarginata e condannata a diventare minoritaria. La disputa avrebbe in seguito contribuito a indebolire tanto le maggioranze della destra “nazionalcomunista” quanto le minoranze della sinistra internazionalista, aprendo la strada al dominio della fazione stalinista in entrambi i Paesi.
In seguito, demograficamente più grande e diplomaticamente più influente, l’Azerbaigian riuscì a tenere il Nagorno-Karabakh nei suoi confini e ad acquisire il Nakhchivan. Per alcuni decenni, sotto lo stalinismo, la questione rimase congelata.
Con la disintegrazione dell’Unione Sovietica negli anni ‘80 subito riemersero le tensioni nazionalistiche, contenute dal regime capitalista “sovietico” a uno stato di latenza. Nel 1988, il parlamento del Nagorno-Karabakh decise di fondersi con l’Armenia. Ben presto il conflitto nella regione divenne violento, con azeri e armeni che si accusavano a vicenda di massacri di civili. Nel 1991 si tenne un referendum per l’indipendenza, boicottato dalla popolazione azera della regione, e fu istituita la Repubblica di Artsakh. Nel 1992, la disputa sul Nagorno-Karabakh provocò una guerra su larga scala tra Azerbaigian e Armenia, in seguito denominata Prima guerra del Nagorno-Karabakh. Alla fine del 1994, l’Armenia aveva di fatto vinto la guerra, assumendo il pieno controllo della regione. La Russia mediava allora un cessate il fuoco e si concludeva la fase più sanguinosa del conflitto dopo quasi 40.000 morti da entrambe le parti mentre erano deportati oltre 200.000 armeni dell’Azerbaigian e 800.000 azeri dell’Armenia e del Karabakh, “ripulendo” l’Armenia e il Karabakh dagli azeri e l’Azerbaigian dagli armeni.
Ma gli scontri armati tra armeni e azeri nella regione continuarono anche dopo il cessate il fuoco, causando entro il 2009 circa 3.000 morti da entrambe le parti. Anche nella fase successiva, tra il 2010 e il 2019, gli scontri armati sono proseguiti, anche se non altrettanto sanguinosi, lasciando qualche centinaio di morti.
Le tensioni si sono riacutizzate nel 2020 con la seconda guerra del Nagorno-Karabakh, in cui l’Azerbaigian ha avanzato significativamente, grazie anche all’utilizzo di un armamento più aggiornato, fra cui i droni di fabbricazione turca. Ancora una volta, la Russia ha mediato un cessate il fuoco dopo un conflitto assai sanguinoso che ha provocato quasi 8.000 vittime.
Il cessate il fuoco non ha impedito tuttavia nuovi scontri di confine fra il 2021 e il 2022, portando infine al blocco della fine del 2022 e alla recente offensiva azera che ha finalmente “risolto” la questione del Nagorno-Karabakh cancellando la presenza degli armeni nella regione.
Certamente, il motivo principale per cui la Repubblica dell’Artsakh non ha potuto opporre resistenza all’offensiva azera è che la madrepatria non ha potuto sostenerla. La Russia ha fatto mancare il sostegno all’Armenia, che in precedenza le aveva permesso di vincere. Questo perché il governo armeno di Pashinyan si è avvicinato pericolosamente agli Stati Uniti, organizzando esercitazioni militari congiunte e firmando accordi che gli avrebbero imposto di arrestare Putin nel caso avesse messo piede in Armenia. Di conseguenza si può facilmente supporre che il governo armeno abbia sacrificato la sua repubblica satellite non riconosciuta del Nagorno-Karabakh come una pedina sulla scacchiera.
Tuttavia questa pretesa “soluzione” della questione del Nagorno-Karabakh porterà solo a nuove guerre, poiché ora l’Azerbaigian ha messo gli occhi sulla provincia dello Zangezur, che gli permetterà di collegare le sue terre con il Nakhchivan e, di conseguenza, con la Turchia. Dunque l’Armenia ha uno scopo preciso per impegnarsi in esercitazioni militari con gli Stati Uniti.
Nel Caucaso come altrove, i proletari non hanno da aspettarsi altro che massacri, distruzioni e deportazioni da parte dei governi borghesi locali e dei loro finanziatori imperialisti regionali e globali. Solo l’autentico comunismo internazionalista potrà sottrarre le masse proletarie all’influenza del veleno nazionalista. Soltanto il marxismo rivoluzionario può porre fine alle dispute fra i capitalisti delle varie nazioni e alle sanguinose guerre che non servono ad altro che a conservare il putrefatto, disumano e odioso regime borghese.
Il Partito Comunista Internazionale è l’unico erede della tradizione del comunismo che a suo tempo ispirò quell’Internazionale che perorava l’unità dei proletari in tutte le parti del mondo. Solo il nostro Partito può fare risorgere il gigante della rivoluzione e unire le masse lavoratrici del Caucaso e di tutto il mondo per superare ls ormai vergognosa opposizione di interessi nazionali, con il circolo infinito delle deportazioni, delle distruzioni, dei massacri.
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La guerra a Gaza, come quella in Ucraina, da entrambi i lati è condotta per interessi delle borghesie locali e delle potenze capitaliste regionali e mondiali che le spalleggiano. Le masse lavoratrici sono carne da cannone, spinte a combattere a colpi di massacri della popolazione civile.
I conflitti in Ucraina, nel Nagorno-Karabakh, a Gaza sono collegati, manifestazioni della marcia verso una nuova guerra mondiale del capitalismo, spinto verso di essa dalla crisi economica mondiale di sovrapproduzione che minaccia i profitti di tutte le borghesie.
Le lotte di liberazione nazionale – in un mondo approdato ovunque e da decenni alla tappa dello sviluppo storico del capitalismo – non hanno più alcun contenuto sociale progressivo e altro non possono essere che strumenti della guerra fra imperialismi. Anche la lotta di liberazione palestinese non ha più alcuna possibilità di soluzione nel quadro attuale di crescente scontro interimperialistico, ma viene usata demagogicamente per asservire il proletariato mediorientale e inquadrarlo in uno dei fronti di guerra.
In tutti i paesi arabi e mediorientali la rivolta delle masse proletarie da decenni è deviata dalle borghesie nazionali contro il binomio USA-Israele. Ogni borghesia ha sempre bisogno del nemico esterno per impedire che la classe lavoratrice capisca che i nemici sono in casa nostra, che sono la borghesia, i suoi partiti, il suo regime.
La terza guerra mondiale potrà essere fermata solo dalla rivoluzione della classe lavoratrice unita al di sopra dei confini nazionali. Per la borghesia portare i proletari al massacro fratricida è una questione di vita o di morte di fronte alla montante crisi economica del capitalismo: se non scatta la guerra non si ferma la rivoluzione.
I partiti operai opportunisti, residui del falso comunismo staliniano, del suo antiamericanismo funzionale agli interessi dell’imperialismo russo o cinese, continuano oggi a sostenere la lotta per il miraggio di uno Stato borghese palestinese. Questi partiti da decenni non contano nulla per i proletari ma sono ancora utili alla borghesia per continuare a screditare il comunismo di fronte alla classe operaia, dopo l’infamia del falso comunismo in URSS e in Cina!
L’oppressione capitalistica sulla classe salariata d’Israele e la doppia oppressione capitalistica e nazionale sul proletariato palestinese avranno fine solo con la rivoluzione proletaria contro le borghesie israeliana e palestinese, con la dittatura rivoluzionaria della classe lavoratrice.
A questo scopo è necessario rafforzare il Partito Comunista Internazionale, la sua conquista nei principali paesi della direzione del movimento di lotta dei lavoratori contro lo sfruttamento capitalista, in difesa delle loro condizioni di vita e di lavoro.
In coincidenza con la micidiale guerra in corso tra Israele e Gaza presentiamo il nostro vecchio studio del 1983 sulla questione della Palestina e del Medio Oriente, intitolato “Lezione marxista della formazione di Stati e delle lotte sociali in Medio Oriente”. Da allora il Partito ha pubblicato su “Communist Left” un articolo e una relazione a una riunione generale, intitolati “Questioni sociali e di classe alla base della tragedia israelo-palestinese” (CL 18, 2003) ed “Economia e società in Israele e Palestina” (CL 46, 2020). Ci basiamo su questi testi per riassumere il senso degli importanti eventi che si sono verificati dopo la pubblicazione di questo studio.
La questione palestinese sarebbe stata infine ufficialmente “risolta” nel 1993, durante le proteste di massa della Prima Intifada contro l’occupazione israeliana, iniziate nel 1987, a seguito di negoziati segreti tra l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e Israele. Con questo accordo Israele e l’OLP si sono riconosciuti ufficialmente legittimi rappresentanti dei rispettivi popoli.
Nel 2003 abbiamo scritto:
«L’accordo di Oslo è stato molto vantaggioso per la borghesia israeliana, l’ha soddisfatta per quanto riguarda le sue richieste territoriali, economiche, sociali e le ha anzi lasciato ben poco da desiderare. L’accordo, accettato dalla timida e corrotta borghesia palestinese, prevedeva la creazione di uno Stato fantoccio, un “bantustan”, dove prometteva di confinare il proprio proletariato, da utilizzare sul posto o in Israele come manodopera a basso costo.
«La borghese Autorità Nazionale Palestinese, dotata di un forte apparato repressivo fornito e addestrato da israeliani e americani, si è assunta il compito di mantenere l’ordine in cambio della possibilità di svolgere i propri affari all’ombra di Israele. L’accordo avrebbe anche garantito una congrua parte dei facili profitti ai Paesi arabi e all’Europa, tutti interessati a spartirsi e a mantenere il controllo su questa regione di grande importanza strategica negli ultimi cinquant’anni; a mantenere la pace tenendo i palestinesi (e gli israeliani) come ostaggi di guerra perpetui.
«La difesa degli accordi di Oslo è stata portata a livelli ridicoli dalla leadership palestinese, la cui sottomessa collaborazione alla borghesia israeliana e al suo Stato è ormai completa. La polizia e i servizi segreti palestinesi hanno collaborato pienamente con la polizia e i servizi israeliani e con quelli degli Stati Uniti, fornendo informazioni a danno non soltanto dei loro attuali avversari, ma anche dei gruppi proletari più combattivi, quando non sono riusciti a reprimerli essi stessi o a mitragliarli per le strade. La stessa cosa vale per i dirigenti dei sindacati palestinesi, bersaglio per le stesse forze di polizia “autonome” dell’Anp.
«Anche sul fronte economico, la collaborazione tra datori di lavoro israeliani e palestinesi è stretta. “Al di là dei legami formalizzati nell’Accordo – scrive N. Pacadou su ’Le Monde Diplomatique’ nel marzo 2001 – la realtà della dipendenza economica dei territori palestinesi dallo Stato ebraico mantiene reti di interessi che uniscono da vicino il “complesso militare-commerciale” dell’Autorità Nazionale Palestinese ai funzionari israeliani, senza i quali non si eserciterebbe il monopolio sulle importazioni di materie prime di cui godono le società pubbliche palestinesi”. L’articolo prosegue: “L’ambiguità iniziale su ciò che costituisce l’autonomia condanna così l’Autorità Palestinese a un impossibile portare avanti la lotta nazionale collaborando con gli occupanti”.
«La ragione del fallimento dell’Accordo di Oslo è che la macchina della repressione palestinese non è stata all’altezza dei compiti di polizia assegnatigli dal capitalismo internazionale, né poteva esserlo.
«Ben consapevole di questo, lo Stato israeliano, oltre a fare i propri interessi, non ha mai smesso di perseguire le sue politiche di espansione, impiantando nuove colonie, espropriando terre e acque, e opponendosi a qualsiasi richiesta per il ritorno dei milioni di rifugiati che ancora vivono nei campi sparsi in tutto il Medio Oriente».
Man mano che l’Autorità Palestinese rendeva più stretta la collaborazione, altre correnti borghesi emergevano per sostituirla come principale organizzazione del nazionalismo palestinese. L’organizzazione che più di tutte ha ricoperto questo ruolo è stata Hamas, sezione palestinese dei Fratelli Musulmani.
Abbiamo scritto nel 2020:
«Hamas è un movimento fortemente connotato di religiosità, creato dai servizi segreti israeliani per opporsi al movimento proletario incontrollato dell’intifada e all’OLP laica. Hamas ha creato una rete di servizi sociali, con i fondi dello Shin Bet (l’agenzia di sicurezza israeliana, il servizio di sicurezza interno di Israele) ed è diventato il rappresentante della resistenza palestinese. Israele ha passato più di vent’anni a organizzare Hamas, con ottimi risultati per quanto lo riguarda.
«Questo movimento fondamentalista e antioperaio ha indubbiamente ottenuto un notevole consenso tra la popolazione palestinese. Ha fornito materiale alla propaganda per l’unità dello Stato sionista e ha giustificato il continuo massacro dei “fanatici religiosi” e dei “terroristi”. Tutto questo, ovviamente, serve a nascondere la vera guerra in corso: la guerra di classe contro il proletariato, e in particolare contro il proletariato palestinese.
«Il fenomeno islamista in Medio Oriente non è un movimento regressivo di contadini o di piccoli borghesi, ma una creatura dell’imperialismo finanziario e petrolifero della regione e del maledetto Occidente. Non è certo un movimento di nazionalisti borghesi che vogliono fare la rivoluzione. È uno strumento utilizzato dagli imperialismi finanziari predatori per prevenire e reprimere la rivolta proletaria e qualsiasi forma organizzativa che i lavoratori elaborino nel corso della loro riaggregazione. La sua base è composta per lo più da elementi della borghesia e della piccola borghesia, da commercianti, studenti, disoccupati e professori delle università islamiche della regione».
Dopo gli accordi di Oslo, Hamas e Fatah si sono scambiati i ruoli, contrapponendo la legittimità di quest’ultima al terrorismo dell’altra. La vittoria elettorale di Hamas su Fatah nel 2006 ha avuto come conseguenza una guerra civile tra i due partiti nazionalisti palestinesi e ha portato alla situazione attuale di una Palestina divisa tra una Gaza controllata da Hamas e uno Stato fantoccio guidato da Fatah nella Cisgiordania, molto più grande.
«In ogni caso, in quegli anni il capitalismo stava rapidamente rimodellando la Palestina. Sia in Israele sia in Palestina il capitalismo ha rapidamente distrutto ogni traccia delle vecchie società e, dopo averle trasformate a sua immagine e somiglianza, entrambe sono ora saldamente legate al mercato mondiale. Il capitalismo, lasciando dietro di sé migliaia di morti, ha plasmato radicalmente la vita di milioni di persone per metterle a sua disposizione (...) L’agricoltura ha sempre meno peso, mentre crescono il settore dei servizi, l’edilizia e l’industria. La disoccupazione, che a Gaza ha raggiunto l’altissimo livello del 44%, in Cisgiordania si aggira intorno al 14%. A Gaza, la scarsità di acqua potabile, di energia elettrica, i tagli all’assistenza economica e la disoccupazione hanno prodotto una situazione esplosiva che inevitabilmente alimenterà la rivolta proletaria».
Riportiamo il riassunto della storia del movimento sindacale in Palestina, tratto dal nostro rapporto 2020:
«Il proletariato palestinese ha sempre lottato da solo, e gli innumerevoli massacri che ha subito negli ultimi settant’anni ne sono la prova. Il suo principale nemico è il suo stesso governo, che parla di rivoluzione ma capitola davanti alla borghesia israeliana e riceve denaro da essa.
«Il bantustan che l’OLP ha creato, unito alla macabra tortura israeliana delle espulsioni e degli insediamenti, è responsabile della miserabile situazione della Cisgiordania.
«Prima della creazione dello Stato israeliano e dell’annessione della Cisgiordania da parte della Giordania, la più grande organizzazione sindacale in Palestina era l’Associazione dei Lavoratori Arabi. Prima della Nakba aveva quasi 35.000 membri. Con la creazione dello Stato israeliano, il fulcro dell’attività sindacale passò a Nablus, con infine una fusione con il movimento sindacale giordano. A Gaza, invece, quando era sotto il dominio egiziano, il movimento sindacale palestinese andò avanti per la sua strada e si formò la Federazione Sindacale Palestinese. Nel 1969 divenne parte integrante dell’OLP.
«Una volta entrata in vigore la legge giordana, i sindacati sono stati sottoposti a un controllo rigoroso. In seguito, con l’occupazione della Cisgiordania da parte di Israele e fino al 1979 tutte le attività sindacali furono vietate. Ciononostante, il sindacato crebbe in modo sorprendente. Si stima che alla fine degli anni Settanta avesse circa 12.000 iscritti, nonostante la condizione di clandestinità.
«Negli anni Ottanta il movimento sindacale si frammentò in più di 160 sindacati separati, che organizzavano in tutto meno di 6.000 lavoratori. Le ragioni di questa divisione sono da ricercare nella lotta settaria tra le varie organizzazioni borghesi che vogliono controllare il movimento proletario e sostituire le rivendicazioni di classe del crescente proletariato urbano con quelle nazionaliste del movimento riformista, che in quel periodo si stava preparando a negoziare la creazione dell’Autorità Palestinese. Quest’ultima, una volta insediatasi, ha dato vita a una centrale sindacale unitaria, denominata Federazione Generale Palestinese dei Sindacati, alleata e guidata da Fatah e successivamente dalla stessa Autorità Palestinese.
«Nel 2011 e nel 2012, durante la Primavera araba, il proletariato è sceso in piazza in violente manifestazioni di rabbia per difendere i propri interessi economici e il potere d’acquisto dei salari di fronte all’aumento delle tasse e del costo della benzina, ed è entrato in diretto contrasto con l’Autorità Palestinese. Le rivolte sono state duramente represse dalle forze dell’ordine palestinesi, che si sono avvalse dell’appoggio logistico delle forze di occupazione israeliane».
Nelle condizioni attuali, la Federazione Generale Palestinese dei Sindacati deve essere considerata un’organizzazione del regime, non solo palestinese ma anche, indirettamente, israeliano. Si tratta di un organismo che probabilmente non ha già più possibilità di essere conquistato a una direzione sindacale classista.
Sembra averlo indicato la lotta degli insegnanti nel febbraio 2013, nel quale l’Unione Generale degli Insegnanti Palestinesi, aderente alla Federazione Generale Palestinese dei Sindacati, si schierò contro lo sciopero, e i lavoratori si organizzarono in un coordinamento fuori e contro il sindacato di regime.
Le federazioni sindacali di base, come la Federazione dei Sindacati Indipendenti e dei Comitati di Lavoratori in Palestina, fondata nel 2004, e il MAAN, che organizza operai e impiegati in Cisgiordania e in Israele, saranno probabilmente un fulcro importante delle future lotte proletarie, nonostante l’ideologia riformista e democratica dei suoi attuali dirigenti.
Nel mentre Israele è diventata una società più diversificata. Il suo funzionamento è determinato dalle esigenze del capitalismo e riflette la realtà della situazione del suo proletariato. Questo il riassunto della storia del movimento sindacale in Israele tratto dal nostro rapporto del 2020:
«I palestinesi che lavorano in Israele e all’interno degli insediamenti dei coloni israeliani tendono ad accollarsi i lavori più faticosi e noiosi, in generale quelli che il proletariato israeliano non vuole fare. Per la maggior parte sono occupati nell’edilizia, molti negli insediamenti ebraici contribuendo alla costruzione delle colonie! (...) Quasi mezzo milione di proletari non nativi lavorano in Israele, nell’edilizia e dell’agricoltura. E questa parte del proletariato è in crescita. Vengono soprattutto dal Sudan, dall’Eritrea, dall’Europa dell’Est, dal Sudamerica e dal Sud-Est asiatico. Sono molto sfruttati e in genere si trovano a lavorare in condizioni particolarmente disagiate, ma non ricevono alcun sostegno dai sindacati del regime».
«La confederazione sindacale Histadrut, per lungo tempo praticamente l’unico rappresentante della classe operaia ebraica, è un pilastro e un fedele sostenitore del sionismo. È stata costituita prima della creazione dello Stato israeliano ed è storicamente legata al MAPAI, il partito sionista dei lavoratori in parlamento.
«Per tutta la sua esistenza l’Histadrut ha fomentato l’odio razziale tra ebrei e arabi. Una sezione araba fu creata solo nel 1943, ma solo nel 1959 gli arabi firono accettati nell’organizzazione principale. Tuttavia ha continuato a porre ostacoli a qualsiasi tipo di solidarietà proletaria tra ebrei e arabi».
Ci erano state «organizzazioni sorte spontaneamente che includevano sia ebrei sia arabi nel 1919 e negli scioperi del 1924».
«Nonostante i numerosi tradimenti dell’Histadrut nei confronti della classe operaia, si sono avuti casi incoraggianti di solidarietà proletaria tra lavoratori ebrei e palestinesi. Gli episodi più noti sono quelli dei postini e dei ferrovieri nel 1946, che si trasformò in un’azione generale con 23.000 scioperanti, dei marittimi nel 1951 e dei portuali nel 1969.
«Ma il movimento proletario israeliano sta cambiando rapidamente. Ai numerosi lavoratori immigrati si aggiunge la rapida crescita demografica del proletariato palestinese. Cresce anche l’intolleranza dei lavoratori ebrei nei confronti degli ebrei ortodossi. Sono quindi sorti alcuni sindacati indipendenti dall’Histadrut che, pur avendo ancora una piccola influenza, sono riusciti a organizzare un paio di scioperi clamorosi nell’importante settore dei trasporti».
I comunisti ebrei in Israele non possono lavorare all’interno dell’Histadrut o aderirvi. I proletari di Israele dovranno distruggere questa federazione sindacale dall’esterno. Quando arriverà il momento della lotta finale, tutti i proletari ebrei che potevano lasciare questo sindacato di razza lo avranno già fatto.
I movimenti operai in Palestina e in Israele devono creare un fronte sindacale internazionale dal basso su un’ondata di lotte che spazzerà via i sindacati di regime, soprattutto l’Histadrut, ma anche la Federazione Generale Palestinese dei Sindacati e gli altri.
In conclusione, solo il proletariato può porre fine alle sanguinose tragedie che da molti decenni infestano il Medio Oriente e può farlo solo rafforzando il suo Partito Comunista Internazionale che, sulla base della sua comprensione marxista della situazione in Palestina, si oppone allo stesso tempo a ogni tipo di oppressione nazionale e di collaborazione di classe.
«Il Partito aveva previsto, e la storia ha confermato, che tutti i movimenti
nazional-borghesi della zona sono destinati a capitolare di fronte
all’imperialismo, indipendentemente dalle azioni bellicose e ultra-rivoluzionarie
intraprese dal panarabismo. Non c’è più spazio per una doppia rivoluzione, ma
solo per lo sviluppo della lotta della classe operaia e delle organizzazioni
necessarie per condurre questa lotta, la quale, quando i tempi saranno maturi,
diventerà una lotta armata che porterà all’insurrezione. La sua guida sarà la
dottrina storica della liberazione del proletariato: il comunismo».
Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale |
Sta facendo un gran scalpore sui mezzi d’informazione, tutti foraggiati dallo Stato della classe dominante e in mano ai gruppi capitalistici, la limitazione allo sciopero generale proclamato da Cgil e Uil da parte della cosiddetta Commissione di Garanzia sullo Sciopero (CGS) e la successiva precettazione da parte del Ministero dei Trasporti.
I pupazzi sulla scena – coi fili tenuti dall’alto dalla borghesia e dal suo Stato – cercano di sfruttare l’occasione a proprio vantaggio, avendo saputo perfettamente dal principio come sarebbero andate le cose e non avendo alcuna intenzione di cambiarne il corso.
Il ministro dei trasporti il 10 novembre ha gridato ai quattro venti che “non si può scioperare per 24 ore”, come se non sapesse che la Commissione di Garanzia era già intervenuta – due giorni prima – esattamente in quei termini, indicano a Cgil e Uil di ridurre la durata dello sciopero per autoferrotranvieri e ferrovieri e di revocare quello nel trasporto aereo e nella igiene ambientale (netturbini).
La CGS ha operato questa limitazione dello sciopero proclamato da Cgil e Uil per venerdì 17 novembre non per gli schiamazzi del ministro, ma semplicemente perché ha applicato le leggi antisciopero approvate nel 1990 (legge 146) e nel 2000 (legge 83). Tuttavia agendo in tal modo il ministro è potuto apparire come vincitore nella tenzone, che è quello che voleva.
La sua ordinanza di precettazione, emessa martedì 14 novembre, non fa che ricalcare quanto già deliberato dalla CGS, eccezion fatta per i ferrovieri, il cui sciopero viene ridotto non a 8 – come richiedeva la CGS – ma a 4 ore.
Da parte delle dirigenze di Cgil e Uil, per evitare l’intervento della CGS sarebbe bastato proclamare un vero sciopero generale: cioè di tutte le categorie e in tutto il territorio nazionale, in un sol giorno. In questo modo, sempre ai termini di legge, la CGS non sarebbe potuta intervenire con alcuna limitazione. Invece, Cgil e Uil hanno diviso lo sciopero generale per settori e per territori: il 17 novembre avrebbero dovuto scioperare tutte le categorie solo nel centro Italia, mentre a livello nazionale solo alcuni settori: trasporti, porti, logistica, igiene ambientale, pubblico impiego.
In questi giorni esponenti politici di governo hanno riproposto il ritorno alle gabbie salariali. Cgil e Uil in gabbia mettono lo sciopero non-generale, diviso per settori e per territori.
Landini schiamazza contro l’intervento della CGS, ma al pari del Ministro dei Trasporti sapeva benissimo cosa poteva fare per evitarne l’intervento e come sarebbe invece andata proclamando uno sciopero generale ammezzato.
Le leggi antisciopero, oggi applicate dalla CGS per limitare lo sciopero di Cgil e Uil del 17 novembre, furono volute proprio da Cgil Cisl e Uil per ostacolare il rafforzarsi dei sindacati di base in corso in tutti gli anni ‘80, che proclamavano veri scioperi permettendo ai lavoratori dei cosiddetti “servizi essenziali” di difendere le proprie condizioni salariali e d’impiego.
Anche l’ordinanza di precettazione del ministro rientra pienamente nelle sue facoltà definite dall’articolo 8 di quella legge antioperaia, voluta dalla Cgil e dai suoi compari. Certo, ora Cgil e Uil denunciano l’inconsistenza delle motivazioni addotte dal ministro a sostegno del suo intervento, ma intanto la precettazione c’è e lo sciopero è colpito.
Grazie a quelle leggi ai sindacati conflittuali è stata spuntata l’arma fondamentale, che è poi l’arma fondamentale dei lavoratori, quella dello sciopero appunto. Non a caso in quei settori, pur con gradualità e parzialità, anche per questo l’avanzata del sindacalismo di base è stata arrestata ed è iniziato un reflusso.
Si deve ricordare che quelle leggi furono approvate da un governo pentapartito di centro (De Mita, 1990) e da un governo di centrosinistra (D’Alema, 2000). La borghesia italiana non ha dovuto attendere “il governo di destra” per giovarsi di una delle leggi più restrittive della libertà di sciopero d’Europa.
Mentre ancora oggi, è notizia di questi mesi, in Germania, Regno Unito, Francia, i lavoratori delle categorie soggette alle leggi volute da Cgil Cisl e Uil scioperano per giorni, anche una settimana intera, in Italia non possono farlo per più di un giorno, pena subire pesanti sanzioni economiche.
Ma a Cgil e Uil non è la forza della mobilitazione e dello sciopero che interessa. Tutto questo chiasso, come è stato utile al ministro, al pari lo è per esse, perché offre una verniciata di radicalismo a organizzazioni sindacali che hanno perso ogni credibilità e autorevolezza nella classe lavoratrice e che devono la loro esistenza non certo alla forza che loro danno i proletari ma al riconoscimento che il padronato e il suo Stato conferiscono loro in quanto fondamentale strumento di opposizione al sindacalismo di lotta.
Hanno voluto le leggi antisciopero per combattere il sindacalismo di classe e ora fingono di dolersi per la loro applicazione. Nel frattempo, un bel borghese – amministratore delegato dell’azienda di trasporto pubblico locale di Milano (ATM), nel consiglio di amministrazione di quella di Roma (ATAC), presidente dell’associazione padronale di categoria aderente a Confindustria (la Agens) – ha mandato a parlamentari di fiducia una bozza di proposta di legge per un ulteriore giro di vite contro la lotta sindacale, limitando la facoltà di proclamare scioperi – per ora fra gli autoferrotranvieri – solo ai sindacati maggiormente rappresentativi, cioè a Cgil Cisl Uil e, in questa categoria, all’autonoma Faisa Cisal.
Non è certo da attendersi che le dirigenze di questi sindacati di regime muovano un dito: brinderebbero nel chiuso delle loro stanze all’approvazione di una simile legge. Lo stesso segretario confederale della Uil, nella conferenza stampa congiunta col segretario confederale Cgil, non ha mancato di tirare un colpo al sindacalismo di base, affermando che la CGS non colpirebbe gli scioperi promossi dal sindacalismo conflittuale ma solo quelli promosso da Cgil e Uil. Una bella menzogna, ma che fa capire dove si andrà a parare con tutta questa messa in scena.
La stessa presidente della Commissione di Garanzia, sulla stampa del 15 novembre, dopo aver sostenuto che occorre un’ulteriore stretta alla residua libertà di sciopero per ciò che attiene, questa volta, gli scioperi generali, ha affermato che “In realtà, poi, delle regole più stringenti sarebbero a vantaggio dei grandi sindacati tradizionali e a svantaggio delle piccole sigle”!
Lo scontro in atto è dunque il solito trito teatrino della politica borghese in cui le varie parti cercano di portare acqua al loro mulino: ci speculano e guadagnano la destra come la sinistra borghesi e i sindacati collaborazionisti e di regime.
A rimetterci sono i lavoratori e le loro autentiche organizzazioni di lotta, vero obiettivo di tutti i burattini della messa in scena.
Affinché l’operazione non vada in porto i lavoratori devono mandare all’aria il teatrino e possono farlo solo unendo le forze del sindacalismo di lotta.
I lavoratori combattivi ancora iscritti ai sindacati collaborazionisti e le residue aree conflittuali ancora in Cgil non possono restare inermi, come vorranno le loro dirigenze. Devono unirsi al resto del sindacalismo conflittuale nella lotta per opporsi al nuovo attacco alla libertà di sciopero che si profila.
I sindacati di base hanno
finalmente ritrovato l’unità d’azione proclamando uno sciopero
nazionale della categoria per il prossimo 27 novembre. Un primo banco
di prova in cui si misurerà la volontà e la capacità di unire
l’azione del sindacalismo di classe.
Il 21 settembre scorso in Grecia c’è stato uno sciopero generale di 24 ore contro la riforma del lavoro, che il Parlamento, impassibile di fronte alla protesta sociale, ha poi approvato. Già a luglio il governo aveva fatto passare una legge che permetteva il lavoro fino a 74 anni di età, 7 anni dopo il pensionamento, che, secondo la sfacciata e bugiarda propaganda borghese, avrebbe avuto il fine di ridurre il lavoro nero. In realtà il governo asseconda la possibilità di continuare a lavorare anche dopo il pensionamento perché le pensioni da fame non permettono di vivere e la maggioranza è costretta a continuare a lavorare. Inoltre così estorce altro plusvalore ai proletari per mezzo delle tasse.
La riforma attuale segue lo stesso cammino: prevede che si possa lavorare fino a 13 ore al giorno. Questo estenuante orario si potrà raggiungere avendo concesso il permesso di svolgere un secondo lavoro part time, oltre a quello a tempo pieno. Anche qui si vuole rendere legale il fatto disumano che con un solo lavoro non si riesce a nutrire la famiglia, neppure se si lavora in due.
Inoltre secondo il disegno di legge, un dipendente può essere licenziato entro i primi sei mesi di lavoro senza preavviso né retribuzione. La settimana lavorativa viene estesa a sei giorni, con aumento del 40% del salrio per il sesto giorno.
Per di più la riforma attacca pesantemente la libertà di sciopero. Attribuisce responsabilità penali agli scioperanti che impediscono ai crumiri di lavorare e prevede che eventuali blocchi stradali e picchetti durante gli scioperi vengano puniti con 5.000 euro di multa e il carcere fino a 6 mesi.
Il governo sa bene che la situazione sociale non potrà che aggravarsi nei prossimi mesi quando, arriverà la prossima recessione, e agisce su due fronti, da una parte favorisce sfacciatamente il padronato e aumenta ulteriormente lo sfruttamento dei lavoratori, dall’altra affila le armi per rispondere alla ripresa della lotta di classe.
Ma se governo e padronato si preparano allo scontro, in ben altra situazione si trova il movimento dei lavoratori, che non riesce a darsi un fronte sindacale di lotta unitario, strumento necessario e indispensabile per respingere l’attacco frontale del padronato. I vari sindacati in cui è ancora divisa la classe lavoratrice vanno ognuno per la sua strada e parlare di unità nella lotta sindacale sembra un’utopia.
Allo sciopero del 21 settembre ha partecipato il sindacato del settore pubblico Adedy, quello degli ospedalieri POEDIN, il PAME, la confederazione sindacale legata al Partito Comunista Greco, vari centri per il lavoro in tutto il paese, i sindacati dei trasporti pubblici e dell’istruzione oltre a decine di sindacati settoriali e industriali, ma non ha partecipato il Gsee, la confederazione sindacale del lavoro privato. Inoltre le manifestazioni ad Atene si sono svolte separatamente.
Gli slogan più gridati erano corretti, "O i loro profitti o le nostre vite", "La giornata di 8 ore è stata e sarà la conquista dei lavoratori", "I padroni affogano nei profitti e il popolo nel fango". Ma la giornata di sciopero, nonostante le dichiarazioni trionfalistiche dei sindacalisti, non è stata quella manifestazione di forza proletaria che avrebbe potuto intimorire l’aula parlamentare, preoccupare il padronato e impedire l’approvazione di questa legge infame, che non riporta la Grecia “al medioevo”, come dicono gli opportunisti, ma proprio nel vortice del più moderno capitalismo imperialista e guerrafondaio.
Quest’anno, per altro, le agenzie di rating sono ottimiste verso la Grecia, e la borghesia certo ne trarrà vantggio. Ma dopo 13 anni il Paese è profondamente segnato dalle lacerazioni inflitte da un’austerità senza precedenti, il prezzo salatissimo che è stato pagato dal proletariato greco per evitare la bancarotta. Nonostante che l’UE stimi una crescita del PIL del 5,9% nel 2022 e del 2,6% per quest’anno, il 30% della popolazione del Paese rischia la povertà, i salari sono ancora sotto il livello del 2010, la sanità pubblica è sempre più sguarnita, le pensioni sono spesso da fame.
L’impennata dell’inflazione e i continui attacchi del capitale gravano in modo sproporzionato sulla classe operaia. Nonostante i proclami ufficiali che la crisi sarebbe finita, per molti proletari le condizioni di vita sono una spirale al ribasso senza fine. Nell’estate scorsa incendi e alluvioni hanno colpito la Grecia, per l’incompetenza e la corruzione del governo nella previsione.
L’influenza nefasta dell’opportunismo politico rappresentato soprattutto da Syriza e dal KKE, e il rafforzamento di un’ideologia piccolo-borghese che lascia il lavoratore medio ignaro o, peggio, indifferente alle vere cause della sua stessa sofferenza, hanno contribuito a una profonda depressione nel movimento operaio.
Ma l’aggravarsi di queste contraddizioni imporrà la rinascita di veri sindacati di classe e il rafforzamento del partito comunista, rivoluzionario e internazionale.
Come accade quando si sviluppa una guerra fra forze e Stati borghesi, il proletariato è l’elemento che scompare da ogni descrizione degli avvenimenti. I lavoratori non hanno mai voce in quell’opera di lunga lena con cui gli Stati borghesi, siano internazionalmente riconosciuti o “di fatto”, e le bande armate del capitale si accingono alla preparazione bellica, materiale e ideologica. Sono solo forza lavoro adibita alla produzione di armi e munizioni per sopprimere altri umani e alla preparazione logistica della guerra. Ai lavoratori toccherà sempre sostenere il costo economico del riarmo e i danni della guerra. Lo sanno bene i lavoratori di Gaza, ai quali per decenni è stato fatto scavare un reticolato di gallerie militari per centinaia di chilometri. Lo sanno i proletari in Israele, che da sempre si sacrificano per sostenere l’enorme spesa militare dello Stato, e che sono costretti a vivere in una perenne minaccia e a dare spesso la vita per le ambizioni imperialiste regionali del loro Stato borghese, braccio armato degli Stati Uniti nella regione.
Il militarismo accompagna ogni fase dell’accumulazione allargata del capitale in tutte le sue fasi storiche, esso, come spiega Rosa Luxemburg ne “L’accumulazione del capitale”, è «un mezzo di prim’ordine per la realizzazione del plusvalore, cioè come campo di accumulazione». È sempre difficile stabilire quale ramo della produzione sia finalizzato a finalità belliche e quale no. Il marxismo rivoluzionario ha definito “militarismo economico” quella fase in cui alla domanda del “libero” mercato di beni di consumo individuali si sovrappone «la domanda dello Stato, accentrata in una grande unitaria e compatta potenza».
Questa ricetta, sperimentata da oltre un secolo dagli Stati capitalisti più avanzati, oggi si generalizza anche alle entità di dominio borghesi più fragili, perché è la strada più agevole per far gravare sui lavoratori il peso economico del riarmo. Il partito di Hamas, di orientamento religioso oscurantista, che si impone sul proletariato di Gaza per conto di altri imperialismi, assolve alla funzione dello Stato, violenza organizzata della classe dominante sulla classe dominata. Hamas gestisce nella Striscia le risorse finanziarie che arrivano sotto forma di aiuti dagli organismi internazionali, da alcuni paesi arabi o a maggioranza islamica e dai finanziatori internazionali, spesso legati all’Islam politico. Ne destina gran parte al settore militare.
Negli oltre sedici anni che ci separano dalla “battaglia di Gaza” del giugno del 2007, con cui si impadronì del potere per mezzo delle armi in uno scontro sanguinoso col rivale partito di Fatah, Hamas ha attuato una repressiva politica antiproletaria. Numerose rivolte per il carovita sono state schiacciate col pugno di ferro da Hamas, che ha agito contro i lavoratori di Gaza come gendarme per conto della borghesia palestinese e internazionale.
Per sradicare nei lavoratori ogni memoria di appartenere al movimento operaio mondiale Hamas dal 2015 ha proibito la celebrazione del Primo Maggio.
La maggior parte della popolazione di Gaza è assai giovane d’età, prigioniera per il blocco imposto da Israele e dall’Egitto. Privati della solidarietà delle lotte operaie degli altri paesi, Hamas alleva quei giovani proletari nell’odio indistinto per gli ebrei allo scopo di tenerli lontani della lotta sindacale di classe. Il dominio politico borghese di Hamas li induce ad arruolarsi nelle sue milizie e nelle altre formazioni fondamentaliste islamiche.
A favorire il reclutamento di nuovi miliziani contribuiscono, oltre all’isolamento totale imposto da Israele, le periodiche stragi consumate dall’aviazione e dalle guardie di frontiera israeliane, la miseria provocata dal blocco, che induce molti giovani a rassegnarsi a una delle poche occupazioni disponibili: il mestiere delle armi. I corpi di élite delle forze armate di Hamas offrono stipendi fra i 400 e i 500 dollari ai loro miliziani, una cifra non troppo misera per gli standard locali.
Inoltre Hamas, in linea in questo con la corrente dei Fratelli Musulmani di cui fa parte, ha potuto comprare la pace sociale garantendo un discreto welfare, sussidi alle vedove, agli orfani, ai parenti dei “martiri”, e col sostegno all’istruzione e alle cure mediche per gli indigenti. Elementi che svolgono un ruolo importante nel mantenere il consenso in un territorio in cui è disoccupata quasi la metà della forza lavoro.
In questo Hamas ha rivelato una maggiore capacità di saldare il fronte sociale interno rispetto al partito concorrente palestinese di Fatah, che dipende in tutto, da un punto di vista politico, economico e militare, dalle potenze occidentali.
La gestione della forza lavoro è il problema essenziale di ogni regime borghese. In questo Israele e l’arcinemica Hamas conducono una guerra parallela contro il proletariato.
Da qualche anno il governo di Gerusalemme favorisce l’ingresso di lavoratori asiatici da diversi paesi per limitare la dipendenza dell’economia dalla forza lavoro palestinese. Si tratta di uno dei mille modi attraverso cui la borghesia israeliana cerca di garantirsi una forza lavoro disciplinata e a buon mercato, e allo stesso tempo vessare e ricattare i lavoratori palestinesi. L’immigrazione asiatica è stata numerosa nel settore agricolo. Fino al 7 ottobre vivevano in Israele oltre 30.000 proletari thailandesi, di cui circa 5.000 impiegati nelle aziende agricole delle zone limitrofe alla striscia di Gaza. Nella furia dell’assalto i miliziani di Hamas non soltanto non hanno risparmiato i lavoratori israeliani, ma hanno fatto strage di immigrati asiatici. A cadere sotto i colpi di questo partito reazionario sono stati anche 30 braccianti thailandesi, 10 nepalesi e 4 filippini. Che non si sia trattato di vittime casuali lo prova il fatto che decine di questi lavoratori thailandesi sono stati presi in ostaggio da Hamas.
Alcune migliaia di lavoratori thailandesi sono stati rimpatriati da Israele con un ponte aereo organizzato dal governo di Bangkok, che ha offerto un indennizzo di 1.300 dollari a tutti coloro che vogliono tornare da Israele.
Hamas, come ogni forza borghese in guerra, non si fa scrupolo di infierire sui lavoratori infliggendo loro lutti e sofferenze. In questo ha alleato l’altrettanto reazionario e borghese governo israeliano che nei mesi prima del 7 ottobre ha aperto e chiuso a singhiozzo il valico di Erez che permette il flusso di ben 20.000 braccianti da Gaza.
Le scaramucce con Hamas, caratterizzate da missili lanciati da Gaza sul territorio israeliano e di raid punitivi dell’aviazione israeliana, o le manifestazioni contro il blocco sedate col piombo dai soldati di Tsahal, hanno tenuto in ostaggio i lavoratori frontalieri gazawi richiudendoli a intervalli dentro il loro territorio-prigione.
Nei giorni precedenti il 7 ottobre in Israele erano presenti 18.500 lavoratori palestinesi gazawi. Come sempre avviene quando scoppia una guerra tra potenze capitaliste, coloro che sono originari del paese che si va a bombardare sono sottoposti a uno stretto controllo poliziesco e privati della libertà di movimento. Le prime misure adottate dal governo Netanyahu sono state la cancellazione di tutti i permessi di lavoro e un ordine del ministro della Difesa Yoav Gallant che permetteva la detenzione dei lavoratori di Gaza per dieci settimane in basi dell’esercito. Centinaia di questi lavoratori edili e braccianti agricoli, considerati “combattenti illegali”, sono stati riaccompagnati a forza a Gaza sotto le bombe. Gli autobus li hanno lasciati al valico dedicato alle merci di Kerem Shalom (toponimo dal significato beffardo di “vigna della pace”) da dove hanno dovuto percorrere sei chilometri per raggiungere la Striscia. Altri 4.000 di questi lavoratori che sono stati spediti in Cisgiordania, dove molti di loro hanno trovato rifugio nel già affollatissimo campo profughi di Dheisheh, nei pressi di Betlemme, oltre il muro che divide Israele dai territori occupati. Tutti loro vivono una condizione assai difficile, aggravata dall’ansia per il destino dei parenti rimasti sotto le bombe che stanno distruggendo Gaza.
In questo piccolo lembo di terra intanto vengono portate al massacro le giovani leve del proletariato in esubero per il capitale.
Ancora una volta, con l’incursione del 7 ottobre compiuta da Hamas, ma colta come un’occasione propizia dalla borghesia israeliana, la guerra è stata imposta ai proletari riluttanti. Il capitale, di Israele e mondiale, non ha, e non avrà alcuna remora a compiere gli atti di violenza più efferati. Una furia distruttrice del morente capitale che farà impallidire il ricordo dell’Olocausto e della Nakba.
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Giungono notizie dalla Cina di una ripresa di scioperi e proteste operaie in tutti i settori dopo il calo delle agitazioni operaie durante la pandemia. Il China Labour Bulletin, un’organizzazione socialdemocratica che raccoglie dati sulle lotte operaie in Cina, ne ha registrate 741 nella prima metà del 2023, quasi quante nell’intero 2022: 830. Di mese in mese sono passate da 86 a gennaio a 165 a maggio. Se la tendenza si mantenesse si arriverebbe ad almeno 1.300 entro l’anno, il numero più alto dall’inizio della pandemia e che si avvicinerebbe a quello del 2019.
Il settore con il maggiore numero di proteste è il manifatturiero, in cui le lotte sono state innescate da un’ondata di chiusure, di delocalizzazioni e di salari non pagati. I padroni scaricano sugli operai la contrazione della produzione connessa a una diminuzione degli ordini da Europa e Stati Uniti, conseguenza del rallentamento economico in queste aree, e della guerra commerciale tra i blocchi imperiali. Rispetto all’ultimo trimestre del 2022 le agitazioni nel settore manifatturiero nel primo trimestre del 2023 sono aumentate di dieci volte. Ma la cattiva situazione del capitalismo cinese colpisce tutti i settori, come nelle costruzioni dove la contrazione del mercato immobiliare spinge i lavoratori a protestare contro i salari arretrati.
A sostegno dell’azione padronale contro la classe operaia ci sono il sindacato di regime e la repressione poliziesca. Il sindacato ufficiale cinese, la Federazione pan-cinese dei sindacati (ACFTU), legata al PCC e allo Stato, agisce in funzione della stabilità economica e sociale borghese. Interviene a smorzare la combattività delle lotte in vario modo: incanalandole nei meandri delle procedure burocratiche, incoraggiando la ripresa del lavoro, in diretto contrasto con gli interessi dei lavoratori. La polizia poi, come negli altri paesi borghesi, mantiene il proletariato sottomesso, arresta i lavoratori in sciopero perseguita i proletari che tentano di organizzare reti sindacali alternative a quella del sindacato di regime.
Il PCC, il sindacato di regime, lo Stato cinese con i suoi apparati repressivi sono tutti strumenti di oppressione sul proletariato, mentre il falso socialismo è l’ideologia che in Cina copre lo sfruttamento capitalistico. La combattività operaia è la dimostrazione che, nonostante i tentativi di colorare di rosso l’ordine borghese, il contenuto reale della struttura economica e sociale della Cina è l’inconciliabile antagonismo di classe, come di tutti i paesi.
Le recenti lotte operaie in Cina vanno a smentire la propaganda nazionalistica dei dirigenti di Pechino e si scagliano contro il tentativo di conciliare gli interessi proletari con quelli del capitale attraverso il mito della rinascita della nazione, della “Nuova Era”, del “Sogno Cinese”, da realizzare entro il 2049, centenario della Repubblica Popolare: formule che la borghesia utilizza per stringere le masse attorno alla sua ambizione ad una nuova spartizione imperialistica del mondo.
Sebbene questi scioperi rappresentino la migliore smentita della pretesa “armonia” della società cinese, la loro reale portata resta ancora ristretta nei numeri e nella estensione. Si tratta di lotte operaie difensive, in risposta ai tentativi padronali di scaricare sui lavoratori le difficoltà dell’economia nazionale.
Ben altro ci si aspetta dal proletariato cinese! Non si tratta di un auspicio ma della certezza che viene dalle convulsioni del movimento sociale consumate in quel grande paese da oltre un secolo.
Volgendo lo sguardo indietro scorgiamo che i mutati rapporti delle classi rendono il proletariato cinese una forza straripante che domani, organizzata in sindacati classisti e guidata dal vero Partito Comunista, potrà abbattere l’ordine borghese.
Passato e presente
La lotta internazionale del proletariato, che ormai in tutto il mondo prevede unicamente una rivoluzione monoclassista, è il prodotto di un lungo e sanguinoso sviluppo del capitalismo a scala internazionale. Un secolo fa i primi comunisti asiatici, venuti in contatto con la forza sprigionata dalla Rivoluzione d’Ottobre e con la dottrina marxista, si trovarono di fronte alla necessità di caricarsi del grande compito di formare partiti comunisti, ma in contesti in cui il proletariato era ancora agli albori, immerso in uno sconfinato mondo precapitalistico, dominato da enormi masse contadine.
Nonostante ciò, la rinata Internazionale aveva compreso l’importanza della lotta nei paesi coloniali e semicoloniali. Nel settembre del 1920 si teneva a Baku il Congresso dei popoli d’Oriente. I delegati erano principalmente turchi, persiani, armeni, georgiani e di altre regioni del Caucaso e dell’Asia centrale che avevano fatto parte dell’impero zarista. Quei delegati, in un tripudio di applausi e con spade e pugnali levati in alto, avevano gridato “lo giuriamo” rispondendo all’appello lanciato da Zinoviev per la lotta contro l’imperialismo. A Baku l’Internazionale realizzava nei fatti quanto aveva proclamato nelle settimane precedenti al suo Secondo Congresso: l’unione tra la rivoluzione monoclassista nei paesi a capitalismo maturo con la rivoluzione nazionale nei paesi arretrati.
L’Internazionale comunista, sorta contro il tradimento dei partiti della Seconda Internazionale, della quale aveva smascherato la natura social-imperialista, vedeva nella questione nazionale e coloniale un fattore determinante per lo sviluppo della rivoluzione mondiale. Perché il capitalismo mondiale si manteneva in piedi anche con il supersfruttamento delle colonie e dei paesi arretrati, e facendo piovere le briciole di questi profitti sui capi corrotti del proletariato dei propri paesi per mantenere la pace sociale. Spezzare quindi la dominazione imperialistica sui popoli d’Oriente avrebbe favorito anche la lotta di classe nelle metropoli capitalistiche.
Fu scolpito nelle Tesi dell’Internazionale sulla questione nazionale e coloniale: «La soppressione mediante la rivoluzione proletaria della potenza coloniale dell’Europa rovescerà il capitalismo europeo. La rivoluzione proletaria e la rivoluzione delle colonie devono interagire al fine della vittoria della rivoluzione mondiale. L’I.C. deve dunque estendere ancora il raggio della sua attività allacciando rapporti con le forze rivoluzionarie che sono all’opera per la distruzione dell’imperialismo nei paesi economicamente e politicamente dominati».
A Baku la presenza di delegati dall’Estremo Oriente era bassa, i cinesi erano probabilmente in otto. Nel 1920 i comunisti nei paesi dell’Asia orientale si contavano nell’ordine di poche decine e la Russia rivoluzionaria era ancora lontana, separata da eserciti controrivoluzionari che da est premevano sul potere comunista. Solo all’inizio del 1922 il primo Congresso dei Comunisti e delle Organizzazioni Rivoluzionarie dell’Estremo Oriente riunirà quei comunisti e rivoluzionari, i quali potranno fare rapporti sulla situazione nei loro paesi e ricevere dai vertici dell’Internazionale le direttive del movimento comunista mondiale.
Si trattava per i giovani partiti comunisti d’Oriente di comprendere che il compito rivoluzionario in un contesto arretrato consisteva nel mettersi alla testa di un movimento nazional-rivoluzionario, composto principalmente da contadini: «L’egemonia del proletariato su tutto il movimento rivoluzionario e più ancora la dittatura del proletariato sono impossibili a meno che il proletariato riesca a far schierare dalla sua parte le masse contadine che gemono sotto l’oppressione dei latifondisti, dei guerrafondai e dei burocrati e vengono barbaramente sfruttate dal capitalismo. In paesi a economia rurale prevalentemente primitiva o a debole livello industriale – come è il caso della massima parte dell’Estremo Oriente – un vasto movimento rivoluzionario è pensabile soltanto con la premessa di una stretta alleanza fra operai e contadini, alleanza in cui la classe operaia sia chiamata a sostenere un ruolo di guida».
Era il 1922, oltre un secolo fa. La storia della lotta di classe ha visto in quest’ultimo secolo il grandeggiare della controrivoluzione su scala mondiale, che si è imposta sul movimento rivoluzionario che si era sviluppato a partire dalla Rivoluzione d’Ottobre. Da allora il proletariato è stato sottomesso al brutale dominio borghese.
Ma nello stesso tempo ha accresciuto la sua forza numerica, dato che lo sviluppo del capitalismo nei paesi arretrati ha trasformato enormi masse di contadini in proletari. Questo affermarsi del capitalismo nell’immensa Asia ha prodotto la nascita di un enorme proletariato ammassato in mostruose metropoli. «La borghesia ha assoggettato la campagna al dominio della città. Ha creato città enormi, ha accresciuto grandemente la proporzione della popolazione urbana in confronto di quella rurale, strappando in tal modo una parte notevole della popolazione all’idiotismo della vita rurale», venne annunciato, in un mondo ancora quasi del tutto rurale, dalla nostra dottrina già nel 1848.
Secondo le statistiche ufficiali la Cina solo nel 2011 ha visto la popolazione urbana superare quella delle campagne. Ma negli ultimi anni lo spostamento di contadini nelle metropoli è continuato e si prevede che nei prossimi anni si aggiungano ancora oltre 200 milioni di contadini. Questo epocale processo di proletarizzazione ha creato in Cina il più forte proletariato mondiale, almeno dal punto di vista quantitativo.
Per la nostra dottrina la sola statistica non è sufficiente a definire una classe sociale, in quanto «solo quando scorgiamo una tendenza sociale, un movimento per date finalità, allora possiamo riconoscere la esistenza di una classe nel senso vero della parola». Solo quando è possibile individuare una dottrina e un metodo, una tendenza ad una finalità avremo una classe, e solo nel Partito di classe si condensano questi caratteri. La rivoluzione comunista internazionale compirà un gigantesco passo in avanti solo quando in Oriente un’avanguardia ritroverà l’integrale e immutabile dottrina marxista: «La luce verrà dall’Oriente quando vi sarà ritornato in tutto il suo fulgore il marxismo rivoluzionario», scrivevamo nel 1967.
Questa dottrina non ripeterà quanto prevedeva per il secolo scorso, perché oggi il proletariato cinese, come quello in tutti gli altri angoli del mondo, non ha più l’incombenza di una rivoluzione doppia da condurre, alla testa e in alleanza con le masse contadine. La prospettiva rivoluzionaria è ormai netta e senza ambiguità: il proletariato lotta, da solo, per l’abbattimento violento del potere borghese. Il movimento rivoluzionario del proletariato rigetta qualunque riferimento democratico e interclassista. Nessuna rivoluzione nazionale è da completare, nessuna conquista democratica da rivendicare, nessuna alleanza con altre classi sociali da stringere.
Sul proletariato cinese incombe la minaccia rappresentata da negatori, falsificatori e aggiornatori del marxismo, che ne vorrebbero smorzare la forza incanalandola in finalità compatibili con l’ordine borghese. Per mettere fine allo sfruttamento e alla sottomissione di classe la sola strada che il proletariato cinese può percorre è quella di abbracciare l’unico programma che lo chiama a una rivoluzione sociale distruttrice dei rapporti sociali tra le classi, sovvertitrice del sistema capitalistico di produzione e di scambio, e lo incita a battersi per la propria dittatura!
Il proletariato cinese ha già dimostrato di saper combattere con coraggio e al costo di immensi sacrifici, e di saper vincere, come lo è stato per un breve ma folgorante periodo a Shanghai e Canton nel 1927.
Questo è quanto anche oggi i comunisti rivoluzionari si aspettano dal
proletariato cinese. «Nel 1927, nei grandi dibattiti in seno all’Internazionale
sulla Cina, si disse che da un proletariato come quello cinese, abituato per
lunghi anni a “guardare negli occhi la morte”, ci si poteva attendere qualunque
sacrificio, qualunque eroismo. Con l’arma formidabile della dottrina e del
partito marxista, questo proletariato saprà tentare ancora una volta “l’assalto
al cielo”, e vincere per sé e per i suoi fratelli di tutti i paesi!».
Alla classe operaia messicana, come negli Stati Uniti e in Canada, è mancata per lungo tempo la forza di un movimento sindacale indipendente.
I bassi salari, la scarsità di diritti dei lavoratori e l’impunità nei casi di loro violazione hanno reso il Messico una destinazione attraente per gli investimenti. La borghesia messicana ha ampiamente permesso l’afflusso di nuovi capitali, spinta dalla prospettiva di mercati di esportazione più aperti e dalla speranza di attutire gli effetti delle varie crisi economiche che il Paese ha dovuto affrontare.
La sovrapproduzione ha portato paesi come gli Stati Uniti ad esportare i capitaleiin eccesso in Messico, dove lo sfruttamento del lavoro si può intensificare senza ostacoli, alleviando la crisi e indebolendo il movimento operaio in tutto il Nord America.
Le risposte della classe operaia a questo quadro internazionale sono spesso segnate da confusione teorica. Oggi, quando ci troviamo nuovamente di fronte a una crisi imminente, è pressante la necessità di un’unità di interessi tra la classe operaia di tutti i Paesi e l’importanza di una chiara politica operaia, guidata dal partito comunista. Tale partito deve affrontare a tutto campo le sfide poste dal commercio internazionale, dei flussi di capitale e dei conflitti imperiali che sorgono nel continente, senza riprodurre le insufficienze dei movimenti ristretti nei limiti nazionali.
Il movimento internazionale dei capitali è fortemente influenzato dalla sovrapproduzione, che spinge i Paesi ricchi di capitali, come gli Stati Uniti, a cercare nuovi modi e luoghi per investirli e valorizzarli. In precedenza questi capitali erano diretti verso la Cina, grazie alla sua apertura economica, oggi si registra una maggiore diversificazione degli sbocchi con un aumento dei flussi verso Paesi come il Messico.
Questo spostamento è diventato evidente durante la guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, che ha causato una stagnazione delle importazioni di beni cinesi negli Stati Uniti, con il flusso di esportazioni di capitali dagli Stati Uniti alla Cina fortemente diminuito.
Per altro anche la Cina attualmente deve fare i conti con la propria eccedenza di capitali, che cerca in ogni modo di esportare. È diminuita in Cina la quota delle esportazioni di merci rispetto al PIL.
Invece le esportazioni di merci dal Messico e dai Paesi dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN) in direzione degli Stati Uniti hanno registrato una crescita significativa, chiaro segnale che il capitale statunitense ha iniziato a spostarsi verso queste aree geografiche. Fra queste c’è anche l’India, dove si osserva un fenomeno analogo.
Nonostante l’appartenenza ai BRICS (una formazione di grandi economie regionali che comprende Brasile, Russia, India e Cina), il Messico non è stato oggetto di sanzioni esplicite da parte del governo statunitense e ciò ha permesso l’afflusso di capitali statunitensi che hanno favorito in particolare settori come quello automobilistico e dei componenti per computer.
La abbondanza di capitali in Messico ha permesso di invertire il segno della bilancia commerciale. Questo spostamento a favore del Messico è iniziato dopo la firma del NAFTA (North American Free Trade Agreement) nel 1994. Il libero scambio ha avuto un impatto positivo sulle esportazioni verso gli Stati Uniti, che si è tradotto in un afflusso di capitali in Messico.
Tuttavia, questa tendenza era stata ostacolata dall’aumento degli investimenti statunitensi in Cina all’inizio del secolo, ed è tornata ad affermarsi con la guerra commerciale sino-statunitense.
Approfittando di una posizione economicamente e politicamente più favorevole, lo Stato messicano ha adottato misure protezionistiche per salvaguardare i mercati nazionali. Tra queste, la nazionalizzazione di 13 centrali elettriche di proprietà della società spagnola Iberdrola, il divieto di utilizzare mais geneticamente modificato per il consumo umano e il divieto del glifosato in agricoltura. Inoltre sono state ridotte le esportazioni di petrolio greggio da parte della PEMEX (Petróleos Mexicanos) e in futuro si prevede di cessarle del tutto. È stata anche effettuata la nazionalizzazione delle miniere di litio. Il capitale messicano ha ottenuto così un maggiore controllo su settori industriali che in precedenza erano dominati da investitori stranieri.
Il Consejo Mexicano de Negocios (CMN), che rappresenta le 62 maggiori aziende messicane, ha confermato che investiranno 30 miliardi di dollari entro il 2023. Rolando Vega, presidente del CMN, ha dichiarato ai media che è necessario cogliere l’opportunità storica rappresentata dalla ricollocazione delle imprese in paesi vicini a quello di origine, detta anche nearshoring. Il governo messicano stima inoltre che entro la fine dell’anno ci sarà una crescita del 3%, trainata principalmente dagli investimenti diretti esteri nell’ambito del nearshoring statunitense. Nel 2022, la cifra degli investimenti esteri ha raggiunto i 35 miliardi di dollari, la più alta dal 2015. Si prevede che questo importo continuerà a crescere nei prossimi anni.
Frattanto i tassi di interesse sono aumentati parallelamente a quelli statunitensi: a maggio erano all’11,25%, abbastanza alti da impedire un massiccio deflusso di capitali, mentre ha favorito l’apprezzamento del peso rispetto al dollaro. A maggio un dollaro è stato quotato in media a 18 pesos, mentre durante il precedente governo un dollaro equivaleva in media a 20 pesos.
Il capitale bancario ne è uno dei maggiori beneficiari. Le 15 famiglie più ricche del Paese hanno aumentato le loro fortune di 645 miliardi di pesos. Nel frattempo si è assistito a un forte aumento del numero dei poveri, passati da 51,9 a 55,7 milioni. Il governo sta perseguendo una politica neoliberista classica, nonostante le manierate critiche nei confronti dei governi precedenti.
Gli Stati Uniti cercano di proteggere il loro accesso al mercato del Messico con diverse strategie, nonostante la forza concorrenziale che il crescente afflusso di capitali gli conferisce. Una è la minaccia di una guerra commerciale. L’Ufficio del Rappresentante per il Commercio degli Stati Uniti ha lanciato un ultimatum al Messico, chiedendo l’apertura dei suoi mercati al mais geneticamente modificato, alle compagnie petrolifere straniere e ai generatori di energia, nonché un aumento della sorveglianza alle frontiere. Se non si raggiungerà un accordo, il caso sarà sottoposto a un collegio arbitrale nell’ambito del T-MEC (United States-Mexico-Canada Agreement), che ha sostituito il NAFTA, e saranno imposte sanzioni al Messico.
Oltre a questa minaccia, alcuni politici repubblicani, come il senatore Lindsey Graham e l’ex presidente Donald Trump, hanno menzionato la possibilità di un intervento militare in Messico, sostenendo la necessità di controllare la produzione di fentanyl da parte dei cartelli della droga. Questa posizione riflette l’orientamento ideologico interno del Partito Repubblicano statunitense. Per quanto tale intervento militare sia oggi improbabile, ben esprime le preoccupazioni commerciali degli Stati Uniti. I media statunitensi riflettono questi nuovi atteggiamenti, rimarcando una presunta perdita di democrazia sotto il governo di AMLO, il controllo sul Messico da parte dei cartelli della droga e altre questioni analoghe.
Il NAFTA e i suoi successori hanno avuto effetti significativi non solo sui conflitti commerciali ma anche sul movimento sindacale messicano. Dopo la Rivoluzione messicana, in molte categorie dominavano dei sindacati statali, spesso sotto il diretto controllo del regime. Questi sindacati “ottenevano” aumenti salariali che, in realtà, si traducevano in una diminuzione del potere d’acquisto dei lavoratori.
Dopo le crisi del 1976 e del 1983 lo sforzo per aumentare i profitti e la necessità di trovare nuovi mercati di esportazione hanno portato la borghesia messicana ad aprire il Paese al commercio, destabilizzando il precedente modello di sostituzione delle importazioni. Questi cambiamenti, insieme all’efficacia dei sindacati di regime nel controllo del costo della forza lavoro, hanno portato a un declino storico dei salari e all’impoverimento della classe operaia.
In risposta al grande flusso di capitali in Messico, la necessità della classe operaia messicana, americana e canadese convergeva nel procedere alla creazione di sindacati messicani indipendenti. Gli scioperi in tutti e tre i Paesi fecero pressione sui rispettivi governi.
A questo punto gli Stati Uniti proposero il NAALC (North American Labour Agreement), un trattato che prevedeva indagini sulle violazioni delle leggi sul lavoro, cercando di placare la classe operaia ma senza risolvere il problema di fondo. Infine, a causa di queste pressioni e della percezione che il sistema lavorativo messicano rappresentasse una “concorrenza sleale”, soprattutto da parte dei settori conservatori degli Stati Uniti, nel 2018 sono state concordate maggiori tutele del lavoro nel T-MEC (USMCA). Queste tutele, tuttavia, esistevano solo in teoria fino alla firma della riforma del lavoro nel 2019, che ha migliorato il procedimento di denuncia delle violazioni delle norme sul lavoro grazie alle pressioni dei sindacati messicani.
Un altro fenomeno che caratterizza le relazioni di lavoro tra Stati Uniti e Messico è la migrazione. Questa risponde alle esigenze del capitale nella regione. Dal 2005 al 2014 la tendenza è stata principalmente dagli Stati Uniti al Messico, rafforzatasi dopo la pandemia, quando molti lavoratori statunitensi si sono trasferiti nelle città messicane per sfuggire all’aumento del costo della vita nel loro Paese e per utilizzare il telelavoro.
Al contrario gli Stati Uniti hanno registrato alti tassi di immigrazione da altri Paesi, che contribuiscono a valorizzare il capitale statunitense in eccesso e a ridurre i costi di produzione, impoverendo la classe operaia. Tuttavia questa operazione non è stata sufficiente a risolvere il problema.
I media borghesi presentano questo fenomeno come un confronto tra i due popoli, in cui uno vince e l’altro perde. Invece questo apparente conflitto tra le due nazioni mostra in realtà l’unità della classe operaia, guidata dai flussi e dalla concentrazione del capitale. Infatti la classe operaia statunitense non può essere completamente libera finché la classe operaia messicana è in catene, e viceversa.
Ciò contrasta con la tradizionale retorica della borghesia, che promuove l’ideologia nazionalista. Più volte la borghesia messicana ha esaltato gli interessi nazionali, rappresentati dalla crescita economica, trainata dal flusso di capitali in Messico, come interessi che uniscono il proletariato e la borghesia. Invece questi interessi sono direttamente opposti a quelli dei lavoratori, poiché la presunta gloria nazionale è costruita a prezzo del sangue dei lavoratori. In primo luogo, il flusso di capitali in Messico si basa sul plusvalore che si estorce al lavoratore messicano, che è notevolmente più alto rispetto a paesi come la Cina e gli Stati Uniti. Il presunto “interesse nazionale” in questo caso è quello di massimizzare lo sfruttamento del lavoro per attirare più capitale. Per raggiungere questo obiettivo, è nell’interesse tanto della borghesia quanto della “nazione” aumentare l’orario di lavoro, ridurre i salari e diminuire gli investimenti nella sicurezza sul lavoro.
Storicamente questo è ciò che è accaduto a causa del forte corporativismo, del controllo dei sindacati e della condizione dei lavoratori negli anni ‘80. La borghesia messicana ha lavorato con successo per convertire la crescita economica nella precarizzazione del lavoro. Se i salari aumenteranno, sarà solo grazie all’azione coordinata dei lavoratori e a circostanze esterne favorevoli. La presenza di una forte sinistra opportunista è essenziale per deviare le lotte dei lavoratori e riassorbirle nella logica capitalista, il tutto per mantenere l’ordine nazionale e la crescita economica.
Il governo populista messicano sostiene di “integrare” gli interessi dei lavoratori con quelli della nazione. Invece i miglioramenti per la classe operaia si concretizzeranno solo se essa rimarrà indipendente e combattiva contro la borghesia. L’adesione del proletariato ai partiti della sinistra borghese rappresenterebbe la fine della lotta e un massiccio disarmo della classe operaia. Il fronte popolare che ne deriverebbe sarebbe soggetto alle inevitabili leggi del capitale e, nonostante le buone intenzioni dei suoi dirigenti, otterrebbe concessioni solo nella misura in cui non turberà i rapporti di produzione. In tempi di crescita, queste concessioni verrebbero a disarmare i lavoratori, mentre in tempi di crisi si tradurrebbero solo in una maggiore precarietà del lavoro, consentita dal loro disarmo.
Una visione ingenua della situazione attuale potrebbe portare a concludere che la migliore linea d’azione per la classe operaia messicana sia sostenere le richieste degli Stati Uniti, che affermano di voler migliorare la libertà di associazione sindacale. Tuttavia il sostegno ai sindacati indipendenti in Messico e considerarvi “ingiusto” lo sfruttamento del lavoro è solo per la difesa degli interessi dei capitalisti che producono negli Stati Uniti. Qualora la presenza di sindacati messicani indipendenti non contribuisse più alla accumulazione di profitti negli Usa e si tornasse ad investire in Messico, attratti dai bassi salari, la demagogia cambiebbe di segno. A quel punto, il Messico non sarebbe un Paese che attrae “ingiustamente” il capitale statunitense.
Al contrario della sottomissione alla politica di un fronte popolare, l’unica soluzione per i lavoratori è rafforzare l’autonomia del movimento operaio, necessariamente a scapito del capitale e della nazione. Dato che gli interessi dei lavoratori sono opposti a quelli della nazione e che si possono ottenere miglioramenti solo attraverso un movimento operaio indipendente, è necessario sostenere il disfattismo rivoluzionario anche in economia.
A breve termine ciò assume la forma di un movimento internazionale indipendente con un programma che mira ad aumenti salariali, riduzione dell’orario di lavoro e miglioramento delle condizioni di lavoro, contro gli interessi nazionali sia in Messico sia negli Stati Uniti. Le rivendicazioni della lotta proletaria in ogni paese devono essere estranee a ogni rivendicazione di carattere nazionale, poiché è storicamente dimostrato che il capitale utilizzerà la posizione più debole del proletariato di altre nazioni per indebolire i movimenti operai più forti. Solo in questo modo si possono risolvere gli apparenti antagonismi nazionali, come la ghettizzazione e l’immigrazione, e rivelare il vero antagonismo tra la borghesia e la classe operaia.
Questa contraddizione centrale si trova nel cuore stesso del sistema capitalista, nella divergenza tra la natura sociale del modo di produzione e l’appropriazione individuale caratteristica del capitale. E si manifesta nel conflitto tra borghesia e lavoratori, ma si riflette anche nel cuore stesso dell’impero statunitense. Gli Stati Uniti emergono come prima potenza mondiale grazie alla loro potenza economica, che li rende l’epicentro delle crisi di sovrapproduzione e il generatore di un’enorme eccedenza di capitale che deve essere esportata in Paesi dove è più redditizio come la Cina, l’India o il Messico. L’esportazione di questo capitale rafforza queste nazioni, creando borghesie abbastanza potenti da sfidare il dominio statunitense. Questo fenomeno è stato evidente nell’attuale caso della Cina, così come nella storia degli Stati Uniti, un tempo centro degli investimenti europei.
Il potere degli Stati Uniti è quindi caratterizzato da questa contraddizione centrale: la forza economice permette loro di esercitare un dominio globale, ma allo stesso tempo li spinge a rafforzare i potenziali rivali in grado di tenergli testa. Questa contraddizione sfocia inevitabilmente nelle guerre interimperialistiche. Ma essa contiene al suo interno anche la propria negazione, aprendo la strada a una società nuova che già lotta per emergere.
Il Messico si trova in un momento storico cruciale. Un significativo afflusso di capitali ha rafforzato la sua economia e gli ha permesso di assumere il controllo di mercati nazionali chiave come quello del petrolio, del mais, del litio. Di fronte alla risposta incerta del governo statunitense, i dirigenti messicani hanno fatto ricorso alla retorica nazionalista e opportunista per mobilitare i lavoratori in difesa della patria e contro gli Stati Uniti. Ma questa politica di unità nazionale serve solo a mantenere l’ordine borghese e impone gli interessi della borghesia al resto della società.
Ciò si traduce in un impoverimento generalizzato del proletariato e degli strati
sociali subalterni e in una sconfitta non solo per la classe operaia di un paese
ma per i lavoratori di tutto il continente. Pertanto è dovere dei lavoratori di
tutto il Nord America coordinare le azioni di lotta in un programma unitario che
affronti i loro problemi in ogni nazione. In questo modo il proletariato potrà
contrapporsi ai movimenti di capitale fra diversi paesi, riflesso del crescente
bisogno di plusvalore, accumulando materiale esplosivo per nuovi conflitti fra
Stati. La sola soluzione a questi orrori è nella rivoluzione proletaria e nella
distruzione del capitalismo.
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Nel nostro articolo “L’India si posiziona fra le potenze dell’Asia” apparso in questo giornale n.417 avevamo descritto le implicazioni del quadrilatero imperialistico Cina, Russia, India e Stati Uniti, e come Nuova Delhi poteva permettersi, grazie a fattori materiali oggettivi, una certa autonomia politica in grado di favorire il proprio espansionismo imperialistico. Tale politica le permette di stringere accordi con i diversi fronti imperialisti, attraverso una redditizia ambivalenza che trae origine dalla base materiale dell’espansione del capitalismo indiano, sempre più deciso a conquistare un ruolo di primo piano nelle contese del capitale internazionale.
L’anno in corso ha confermato questa traiettoria. Con punti di forza ma anche i limiti e le debolezze, il gigante asiatico cerca di diventare una potenza manifatturiera alternativa alla Cina strappando a quest’ultima il primato di “officina del mondo”.
Al confine indo-cinese
Il 9 dicembre 2022 truppe dell’esercito indiano si sono scontrate con quelle cinesi nel distretto di Tawang, nella regione dell’Arunachal Pradesh, nell’estremo nord-est dell’India, che confina a nord con la Cina, a est e a sud-est con la Birmania, ad ovest con il Bhutan e a sud con l’Assam e il Nagaland, Stati federati indiani. Gran parte della regione è rivendicata da Pechino come parte meridionale del Tibet.
Secondo fonti indiane le truppe di Delhi avrebbero respinto quelle cinesi che avevano oltrepassato la frontiera (Line of Actual Control - Lac) violando un’intesa stipulata nel settembre 2022. Pechino ha replicato sostenendo esattamente il contrario: le truppe indiane avrebbero compiuto uno sconfinamento “illegale” mentre era in corso un regolare pattugliamento dell’Esercito di Liberazione cinese.
Un’escalation che era nell’aria, in particolar modo dopo la decisione del governo di Delhi di aumentare lo stanziamento di truppe nel Ladakh, un territorio indiano di confine racchiuso tra le catene montuose del Karakorum e dell’Himalaya.
Sebbene lo scontro possa essere ritenuto di modesta intensità, si contano solo soldati feriti da ambo le parti, è una chiara espressione di come i rapporti tra i due giganti d’Asia rimangano tesi.
Scontri di questo tipo, che generalmente prevedono esclusivamente l’utilizzo di armi bianche, non sono una novità. La precedente schermaglia era avvenuta nel gennaio 2021 nel confine conteso dello Stato indiano del Sikkim. Nel giugno 2020 invece, nella valle di Galwan, tra il Ladakh e l’Aksai Chin cinese, gli scontri avevano provocato la morte di 20 soldati indiani e un numero imprecisato sul fronte cinese, come abbiamo descritto nel nostro articolo “Al confine cinese-indiano - Urti tettonici fra le placche degli imperi” nel numero 402 del nostro giornale.
Le controversie su aree di confine già nel 1962 sfociarono in una guerra, conclusasi con la sconfitta dell’India, cui non seguì la stipula di alcun trattato di pace fra i due paesi, formalmente ancora in guerra.
Il confine sino-indiano, lungo circa 3.500 km, interessa ben 12 regioni. È composto da tre segmenti separati dal Nepal e dal Bhutan. A occidente del Nepal si snoda nella catena himalayana; segue un tratto più breve di confine fra Cina e India; a est del Bhutan si estende fino alla Birmania. Questo lungo confine è presidiato su entrambi i lati da decine di migliaia di soldati e di armi pesanti e vede crescere continuamente nuove infrastrutture militari. Le aree più critiche sono l’Aksai Chin, concesso dal Pakistan a Pechino e rivendicato da Nuova Delhi, e gran parte dell’Arunachal Pradesh indiano, reclamato dalla Cina.
Il 3 aprile 2022 il governo cinese ha diffuso un documento per modificare in cinese mandarino il nome di 11 “zone” all’interno di quello che la Cina chiama Tibet Meridionale. Il quotidiano Global Times, che fa capo al Partito comunista cinese, ha precisato che sono stati rinominati cinque picchi montuosi, due fiumi, due territori e due centri abitati. Questo cambiamento della toponomastica ha due precedenti: nell’aprile del 2017 interessò sei località e nel dicembre del 2021 altre quindici.
«Non è la prima volta che la Cina compie un tentativo del genere. Lo rifiutiamo completamente. L’Arunachal Pradesh è, è stato e sempre sarà parte integrante e inalienabile dell’India. I tentativi di assegnare nomi inventati non cambieranno questa realtà», ha dichiarato il portavoce del ministero degli Esteri indiano.
Il documento cinese annunciava inoltre la volontà di cambiare lo status amministrativo a due territori tibetani di confine, Mainling e Cuona (ancora oggi in parte occupati dall’India) che passerebbero dal rango di contea a quello di città, una condizione che vi permetterebbe la creazione di edifici governativi e caserme.
Le sfide del capitalismo indiano nell’attuale fase di crisi internazionale
L’India nel 2023 è diventato il Paese più popoloso al mondo, sorpassando la Cina. I dati ufficiali del 2022 stimavano 1,38 miliardi di abitanti, contro gli 1,40 del dragone. Mentre la Cina negli anni a venire andrà incontro a un lieve declino demografico, la popolazione indiana continuerà a crescere determinando un aumento della forza lavoro. Oggi circa il 30% della popolazione indiana ha un’età compresa tra i 15 e i 30 anni, dato che porta l’India tra i paesi più “giovani” del mondo. L’età media in India è di 28,4 anni, in Cina è di circa 10 anni più alta. L’andamento demografico contribuisce all’espansione del capitalismo indiano che si posiziona da tempo fra le grandi potenze dell’Asia e si avvia a competere con la Cina anche nel campo della produzione manifatturiera.
Ma per confrontarsi anche sul piano industriale col potente vicino l’India dovrà prima compiere alcuni passaggi. In primo luogo saranno necessari massicci investimenti per superare l’attuale fragilità delle infrastrutture, ammodernando le reti stradali, ferroviarie e le telecomunicazioni. In secondo luogo si dovranno rimuovere i residui di antiche formazioni economico-sociali che, soprattutto nelle sterminate campagne, ancora si oppongono alla penetrazione capitalistica, anche al fine di trasformare milioni di contadini poveri in lavoratori salariati e di rendere più flessibile il mercato del lavoro. Inoltre si tratterà di favorire la nascita di nuove aziende attraverso tagli alle tasse e snellimento delle pratiche burocratiche legate al gigantismo statale, attraendo investimenti stranieri nel paese e mettendo fine al tradizionale protezionismo in campo industriale.
Tuttavia questi obiettivi ambiziosi nell’agenda della classe dominante indiana non sono facili da raggiungere, specie in tempi brevi.
Però il capitalismo indiano non parte da zero. L’India è diventata la quinta economia nel mondo dopo che dal 2014 ha superato Russia, Brasile, Canada, Italia, Francia e infine Regno Unito. Secondo il Fondo Monetario Internazionale entro il 2028 l’India dovrebbe diventare la terza, scavalcando anche Giappone e Germania.
Lo scorso 9-10 settembre a Nuova Delhi è stato ospitato il G-20 dove è emerso che l’India sarà la nazione in più rapida crescita nel 2023.
Il Central Statistics Office, l’ente di statistica di New Delhi, presenta un quadro di ascesa della produzione industriale. Lo scorso aprile si è avuto +4,2% su base annua, che segue il +5,6% di febbraio, assai migliore del 4,3% del dicembre del 2022. Nel trimestre aprile-giugno la produzione manifatturiera è aumentata del 4,7%. Nei primi undici mesi dell’anno fiscale in India, che inizia in aprile, la produzione industriale ha avuto un incremento del 5,5%, contro il 5,2% stimato dagli economisti.
Da diversi indicatori economici emergono scenari espansivi per il capitale indiano determinati in gran parte dalla domanda interna. La produzione di acciaio è aumentata dell’11,9% nel trimestre aprile-giugno, mentre il consumo di acciaio del 10,2%. Anche la produzione di cemento è in forte crescita, 12,2% in più nel trimestre aprile-giugno, mentre quella del carbone è aumentata dell’8,7%. Le vendite di veicoli commerciali sono aumentate nell’anno fiscale 2022-23 del 34,3%, quelle di veicoli privati del 18,7%.
La contesa industriale fra giganti
Il corso del capitalismo ha portato negli anni a far emergere la Cina a primo polo manifatturiero mondiale, un risultato ottenuto grazie a diversi fattori tra cui il costo relativamente basso della mano d’opera e della rendita fondiaria, la presenza di aziende tecnologicamente avanzate, infrastrutture adeguate alla logistica e alla distribuzione delle merci e le politiche della borghesia cinese, maldestramente travestita da socialista, volte ad attrarre e incentivare investimenti dall’estero.
Tuttavia la crisi internazionale del capitalismo, le crescenti tensioni commerciali con Washington, la pandemia mondiale Covid-19, hanno rallentato la filiera cinese. Durante i periodi più acuti della pandemia in Cina vi sono state diverse chiusure forzate di aziende con impatto su settori industriali come l’elettronico, l’automobilistico, e il farmaceutico. Questo ha avuto ripercussioni nel mercato mondiale. Quindi il ritmo di crescita dell’economia cinese è sceso al minimo degli ultimi decenni. Nel quadro di generale crisi del capitale, Pechino deve fare fronte a fenomeni come l’alto indice di disoccupazione giovanile, la crisi del settore immobiliare e la scarsità di risorse finanziarie pubbliche.
In questo scenario diverse multinazionali adottano strategie volte a diversificare la dipendenza produttiva dalla Cina. Allo stesso tempo Nuova Delhi cerca di accreditarsi come principale polo manifatturiero alternativo a Pechino su scala mondiale. Tale processo è in corso da diversi anni. Già all’inizio del 2020 un istituto finanziario svizzero affermava che l’India stava diventando la destinazione preferita dei capitali alla ricerca di un’alternativa alla Cina.
Nuova Delhi invece presenta diversi vantaggi per il capitale internazionale. Il salario base mensile dei lavoratori indiani sarebbe di circa 200 dollari mentre in Cina un lavoratore, a parità di qualifica, guadagna il triplo. Inoltre, le spese di esercizio sono inferiori a quelle che un’azienda deve sostenere in Cina, dopo che la borghesia indiana per dare impulso alla produzione nazionale ha creato “zone economiche speciali” che offrono, oltre ad altri vantaggi, un’esenzione dai dazi sulle esportazioni e forti incentivi. In una parola, un ambiente favorevole alla rapacità del capitale.
Vanno anche considerate le buone relazioni commerciali che il gigante indiano, a differenza della Cina, vanta con il gendarme statunitense.
In questa traiettoria il primo ministro indiano Narendra Modi ha lanciato nel 2021 il piano di investimenti denominato Gati Shakti, “forza della velocità”, che prevede una serie di investimenti per rendere più competitive le arretrate infrastrutture indiane. Nonostante i ritardi già emersi nella realizzazione, il piano per rimodernare la logistica e la connettività, che prevede l’utilizzo di tecniche all’avanguardia, ha un respiro di lungo termine con numerose opere che si concluderanno nel 2040.
Il governo centrale ha adottato aliquote fiscali competitive per il settore manifatturiero. Nel 2022 l’imposta a carico delle imprese è stata ridotta per la prima volta negli ultimi 30 anni. Inoltre le nuove aziende avviate entro il 31 marzo 2023 si sono avvalse di una riduzione dell’imposizione fiscale dal 25% al 15%. Questa politica, che dovrebbe essere replicata in futuro, si propone di rendere l’India competitiva nei confronti di economie emergenti dei paesi del Sud-est asiatico come Vietnam, Thailandia ed Indonesia.
Sempre per cercare di attrarre capitali stranieri il governo indiano ha stanziato lo scorso marzo 6 miliardi di dollari da destinare principalmente al settore della produzione della componentistica elettronica.
Le scelte di Apple e gli ostacoli alle aziende cinesi
Siamo quindi di fronte ad un quadro internazionale soggetto a rapidi mutamenti. Già oggi una grande multinazionale come la Samsung produce gran parte dei componenti al di fuori della Cina. La Apple ha annunciato l’avvio a partire dal prossimo autunno della produzione della nuova serie di telefonini iPhone in India, oltre che in Cina. La Apple si avvale di una grande fabbrica, vicino a Chennai, città affacciata sulla baia del Bengala e capoluogo dello Stato del Tamil Nadu nell’India orientale, dove vengono eseguiti assemblaggi di diversi prodotti. Questa fabbrica è stata aperta nel 2017 da Foxconn, una multinazionale taiwanese, storico partner di Apple, divenuta la più grande produttrice di componenti elettrici ed elettronici del mondo.
Il rapporto tra la Cina e la casa di Cupertino è tra i più complessi e proficui dell’intera industria delle telecomunicazioni mobili. Sicuramente la multinazionale californiana non vuole e non può perdere l’immenso mercato cinese. Nello stesso tempo numerose aziende locali sono legate ai ricchi e proficui contratti di fornitura con la “mela morsicata”. La decisione quindi di produrre ed assemblare il prodotto di punta anche in India risponde a una serie di fattori tra cui le vulnerabilità che si sono riscontrate nella catena di approvvigionamento nell’enorme complesso produttivo di Foxconn cinese a Zhengzhou – la soprannominata “iPhone City” – dove durante il Covid era esplosa la rabbia operaia descritta nell’articolo “La polveriera cinese” in questo giornale n.419. Per mesi la distribuzione dei telefonini ne risultò rallentata causando perdite stimate in alcuni miliardi di dollari. Gli investimenti di Foxconn in India sono motivati anche dalle problematiche relazioni politiche ed economiche tra l’imperialismo cinese e quello americano, acuite dalle tensioni su Taiwan. Non è un caso che mentre scriviamo le autorità cinesi abbiamo iniziato controlli per presunte irregolarità fiscali sulle filiali Foxconn nelle province di Guangdong e Jiangsu.
Gli effetti di questo percorso non si sono fatti attendere: se nel 2021 l’India produceva soltanto l’1% degli iPhone del mondo, ora ne vengono prodotti quasi il 7%, per un valore di più di 7 miliardi di dollari nell’anno fiscale conclusosi a marzo del 2023. Per i telefoni cellulari non c’è soltanto la Apple a guardare all’India. La multinazionale inglese Nothing, dopo il grande successo della sua prima versione ha deciso che anche il nuovo Nothing Phone 2 sarà prodotto in India. Google invece sta ancora valutando dove e come produrre i propri smartphone di ultima generazione. La multinazionale californiana avrebbe già contattato società come Lava, Dixon e Foxconn, che hanno avuto accesso agli incentivi governativi per la promozione della produzione locale.
A difesa dell’industria nazionale lo Stato contrasta l’operatività delle aziende cinesi in India.
Significativo è quanto accaduto all’azienda cinese Xiaomi che ha subìto un sequestro di beni per quasi 700 milioni di dollari, accusata dai tribunali indiani di effettuare rimesse illegali all’estero, esportando così profitti esentasse. Il sequestro ha bloccato l’operatività dell’azienda. Lo stesso si è ripetuto per un’altra grande azienda cinese: recentemente l’agenzia indiana contro la criminalità finanziaria ha fatto irruzione in 48 uffici della Vivo e ha bloccato 119 conti bancari per 60 milioni di dollari. Sul banco degli accusati è finita anche Oppo, un’altra azienda cinese di elettronica di consumo, per 551 milioni di dollari di evasione fiscale. La leader delle telecomunicazioni, la cinese Huawei, è stata messa nel mirino dalle autorità indiane, accusata di aver evaso le tasse per 100 milioni di dollari. La stessa Huawei, insieme a ZTE, un’altra grande società delle telecomunicazioni cinese, nel 2020 era stata estromessa per la gara dalla nuova infrastruttura di rete 5G in India, una commessa del valore di decine di miliardi di dollari. Il governo indiano ha inoltre messo al bando numerose applicazioni made in Cina, tra cui TikTok.
I preziosi microchip
La diversificazione della catena di approvvigionamento nel campo dell’elettronica sta interessando diversi paesi asiatici, tra cui la stessa India e il Vietnam, i cui governi ambiscono ad ospitare alcune produzioni nel settore dell’alta tecnologia che oggi vengono realizzate in Cina.
Nel dicembre 2021 l’attuale banda borghese al potere in India ha approvato una legge che prevede uno stanziamento di 760 miliardi di rupie, 10 miliardi di dollari, per finanziare la nascita di un’industria nazionale dei chip. Alcune stime prevedono che il fatturato di questo settore crescerà dai 20 miliardi del 2020/21 ai 63 nel 2026.
Prima che questa legge fosse approvata non vi erano centri per la produzione di semiconduttori in India, ma nel 2022 sono partiti diversi progetti grazie al finanziamento statale del 50%, cui si aggiungono gli incentivi dei governi regionali.
Il ministro indiano dell’Elettronica e dell’Informazione ha riferito che la produzione nel paese ridurrebbe la dipendenza dalle importazioni evitando rallentamenti o blocchi della produzione nelle fabbriche a causa dei ritardi nella fornitura di chip.
Il premier indiano Modi a fine giugno si è recato a Washington dove sono stati siglati diversi accordi commerciali che, fra l’altro, prevedono la produzione di microchip in India. Tra i più importanti è quello annunciato da Foxconn che prevede la realizzazione di una fabbrica in alleanza con la società indiana Vedanta, il primo produttore di alluminio dell’India, con interessi anche nel settore delle telecomunicazioni. Per la prima unità di fabbricazione, che dovrebbe nascere nel Gujarat, la società taiwanese avrebbe garantito un investimento di circa 120 milioni di dollari, cui si aggiungerebbe l’appoggio finanziario del governo di Nuova Delhi.
È recente invece l’annuncio della Micron Technology, una multinazionale americana con sede a Boise, di costruire un nuovo impianto, sempre nel Gujarat, che consentirà la produzione di memorie elettroniche e risponderà alla domanda sempre crescente dei mercati. L’investimento della Micron, diviso in diverse fasi, sarà di oltre 800 milioni di dollari. La multinazionale americana riceverà il 50% di sostegno fiscale dal governo centrale indiano e il 20% dallo Stato del Gujarat. IGSS Ventures di Singapore ha in programma di investire 3,2 miliardi in un nuovo stabilimento nello Stato meridionale del Tamil Nadu. Un altro progetto è quello di Elest, una filiale di Rajesh Exports, che intende aprire nello Stato meridionale del Telangana una fabbrica di display con un investimento di circa 3 miliardi di dollari.
Ma il controllo di tutti i requisiti posti dal governo per l’erogazione dei contributi statali sta andando a rilento provocando ritardi nella realizzazione di molti progetti, altri invece hanno già completato le prime fasi della pianificazione concordata.
Attacco alla classe operaia
Alla possibilità di diventare una alternativa manifatturiera alla Cina, strappandole anche frazioni minuscole di mercato, equivalenti comunque a miliardi di dollari, la classe dominante indiana non si è fatta trovare impreparata sul “fronte interno”.
Nello Stato meridionale del Karnataka, anche a seguito delle pressioni da parte di alcune multinazionali estere interessate a portarvi le loro produzioni, è stata adottata una riforma delle leggi sul lavoro per spremere meglio i salariati in un’area che conta una popolazione di oltre 60 milioni di abitanti, di cui circa il 40% vive al di sotto della soglia di povertà. (La cosiddetta “soglia di povertà” è un parametro arbitrario della statistica borghese e non dà conto della reale estensione della miseria). In questo Stato, che già ospita una frazione importante dell’industria tecnologica del paese, è stato imposto uno dei regimi di lavoro più flessibili presenti nel subcontinente. Le fabbriche potranno lavorare su turni di dodici ore, contro il precedente limite di nove. Le donne saranno “libere” di fare i turni di notte, emulando le lavoratrici cinesi e di Taiwan, dove nelle fabbriche di elettronica predominano nelle linee di produzione. Il limite massimo di ore di straordinario è salito da 75 a 145 in tre mesi.
Questo il commento di un funzionario del governo indiano rilasciato al “Financial Times”: «L’India è destinata a diventare il prossimo grande polo manifatturiero. Il confronto dell’India con altri Paesi (...) ci impone di aumentare di un grande margine la nostra efficienza in termini di aumento della produttività del lavoro». Ovviamente sulla pelle, il sudore e il sangue della classe lavoratrice.
Questo invece il commento di Mallikarjun Kharge, attuale presidente dell’Indian National Congress e membro del Parlamento del Karnataka, uscito vittorioso nelle elezioni locali di maggio «Se qualcuno vuole ridurre la dipendenza dalla Cina, noi, Bangalore, lo Stato del Karnataka, siamo la sua prima scelta. Siamo in cima all’indice di innovazione dell’India, abbiamo molti colletti bianchi e operai qualificati, siamo agili».
Foxconn, una delle aziende che ha imposto al governo indiano le sue regole del gioco, ha salutato la riforma e ha prontamente annunciato l’apertura di un impianto per la produzione di iPhone anche in questo Stato. Sorgerà vicino all’aeroporto di Bangalore in un’area di 120 ettari investendoci 700 milioni di dollari. Ecco come ha commentato un manager del colosso taiwanese: «Sono adeguamenti cruciali per costruire in quest’area una produzione efficiente e su larga scala (...) Per noi è molto importante produrre su due turni di 12 ore con impianti in funzione 24 ore su 24». Si stima che nel nuovo stabilimento potranno lavorare circa 100.000 operai, numeri che ricordano le infernali fabbriche cinesi.
La possibile ambivalenza dell’imperialismo indiano
Il quadro fin qui descritto pone il gigante indiano come uno dei protagonisti nello scenario internazionale del capitalismo. Secondo alcune stime l’India sarebbe al secondo posto fra i paesi che più contribuiscono alla crescita dell’economia mondiale, per il Fondo Monetario Internazionale “un punto luminoso”... e per le sanguisughe capitaliste, aggiungiamo noi.
L’economia indiana sembra dare al capitale internazionale qualche garanzia in più rispetto ad altri paesi emergenti. Ma la profonda crisi generale potrebbe interrompere bruscamente i sogni di gloria della borghesia indiana, alle prese con diversi e non risolti fattori interni. Fra questi c’è la questione agraria, ancora cruciale e non risolta in alcune aree del paese.
l’India non è minimamente paragonabile alla potenza militare degli Stati Uniti, non può ancora competere con la produzione industriale cinese, ma la sua economia è giunta alla fase della piena maturità imperialista, al di là delle fesserie che molti falsi comunisti propagandano anche all’interno di quel paese.
Per Lenin, e per noi, l’imperialismo è una sovrastruttura del capitalismo, una fase storica dello sviluppo del capitale, non una scelta politica, dovuta a una volontà soggettiva delle classi dominanti borghesi di ciascuno Stato. Ogni singola economia nazionale borghese è immersa nel sistema imperialista mondiale, nella competizione di “trust nazionali”, per citare Bukharin, che lottano per accaparrarsi quote maggiori di plusvalore globale. Un’impresa può essere indebitata o in perdita, ma fino a quando esiste compete con le altre imprese sul mercato. Uno Stato capitalista può essere dominato da una potenza maggiore, ma nella misura in cui è immerso nel capitalismo imperialista è necessariamente imperialista esso stesso, anche se il suo potere è più debole rispetto a quello di altri Stati. Questo è l’errore di tutto il moderno “antimperialismo”, del tutto estraneo al marxismo. Esso diventa soltanto una maschera ideologica per la difesa di un altro imperialismo.
Gli Stati Uniti non possono permettersi di perdere Delhi, alleato fondamentale nella strategia di contenimento di Pechino nell’Indo-Pacifico. Per il momento sono costretti a prendere atto della disinvoltura e delle autonomie con cui il governo di Modi si presenta come un attore nello scacchiere internazionale. Ma India e Stati Uniti non sono legati solo dall’interesse al contrasto alla Cina nell’Indo-Pacifico. Se gli Stati Uniti sono al primo posto nell’interscambio commerciale dell’India, l’”arcinemica” Cina è al secondo. Le alleanze nel mondo del capitale sono assai volubili...
Certo ridurre la dipendenza da Pechino è un obiettivo che la borghesia indiana perseguirà al di là delle richieste e delle pressioni dell’alleato americano. Non è un caso se la visita di Modi negli States sembra essere stata molto proficua in particolare in due campi strategici, il tecnologico e il militare, in cui Nuova Delhi è in ritardo rispetto ad altre grandi potenze.
Allo stesso tempo, per sostenere la crescita della propria industria l’imperialismo indiano deve approvvigionarsi di un volume enorme e crescente di prodotti energetici a buon mercato. Dunque, al di là delle dichiarazioni di facciata di Modi a Washington, l’India sarà interessata a mantenere proficue relazioni con Mosca, continuerà a comprare greggio russo a buon mercato, che in parte rivenderà in Europa. Il rapporto economico e politico con la Russia consente all’India di non affidarsi esclusivamente alle potenze occidentali e ne caratterizza l’ambivalenza attuale, che per ora esclude un allineamento a un fronte imperialistico definito. Non è un caso che gli scambi commerciali tra i due paesi nell’anno in corso siano stati del 20 per cento superiori rispetto al 2022.
Questo anche in vista dell’inevitabile prossima guerra generale del capitale. Con le sue forze armate dotate dei più moderni sistemi di sorveglianza, una marina militare e un’aviazione fra le più potenti del mondo, satelliti in grado di fornire mappature dettagliate e il possesso di armi nucleari, il tutto sorvegliato da un’imponente rete accentrata di burocrati e da un sistema giudiziario ramificato e implacabile coi proletari, l’India è oggi uno degli esempi più vistosi di Stato-mostro capitalista. Il gigante indiano si profila come uno dei principali protagonisti nella bolgia internazionale del capitalismo.
Ma le profonde crisi mondiali interromperanno bruscamente i sogni anche della borghesia indiana, alle prese con una classe di proletari salariati puri sempre più numerosa, concentrata e organizzata. A loro manca solo l’indirizzo del partito comunista internazionale, che guiderà l’emancipazione del proletariato, non solo in India ma in tutto il mondo.
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Nei giorni da venerdì 29 settembre a domenica 1 ottobre è stata convocata la riunione generale del Partito. Si sono collegati in tele-conferenza circa 70 compagni da 10 paesi.
Al solito la seduta del venerdì, riservata ai militanti, è stata dedicata alla organizzazione della riunione e nostra generale, quelle del sabato e della domenica alla esposizione delle relazioni, alle quali è ammesso all’ascolto anche chi è seriamente interessato a impegnarsi nel nostro disciplinato operare.
Venerdì i gruppi di lavoro si sono aggiornati a vicenda sulle molteplici loro attività. I compagni si presentano alla riunione dopo che hanno lavorato assieme, in crescente intesa, anche da paesi lontani, tramite una corrispondenza quotidiana che, nei modi rispettosi, essenziali e densi, ci vantiamo assimilare a quella, lunga una vita, fra Marx ed Engels.
Da questo lavoro collettivo scaturiscono risultati perfettamente intonati alla dottrina marxista e alla nostra migliore tradizione di partito. Questi elaborati e queste attività, per varietà, consistenza e coerenza, date le minuscole dimensioni della nostra compagine, appaiono davvero un “miracolo”, materialmente determinato dall’urgenza storica del comunismo. È reso possibile non da capacità eccezionali dei compagni di oggi ma dal metodo organico del nostro lavoro, scevro dalle miserie della civiltà borghese: individualismo, lotta interna, concorrenza.
Abbiamo ascoltato le relazioni dei gruppi locali, dei progressi nelle nostre iniziative di stampa, periodica e in monografie, di intervento nei sindacati nei diversi paesi, delle possibilità di diffusione delle nostre parole, da formulare sempre meglio in rapporto alle attuali mostruose convulsioni del morente mondo del capitale.
Questo l’elenco delle relazioni esposte invece nelle sedute plenarie.
Il rapporto sulla crisi economica in Giappone è già stato pubblicato in queste colonne nel numero 423; quelli sulle lotte operaie in America Latina e sulla Democrazia appariranno nel numero 427.
Venerdi |
Continuità fra democrazia e fascismo in Italia |
L’agricoltura in epoca feudale |
Sabato |
Il Giappone nella crisi economica |
Per la storia del P.C.Internazionale |
La teoria marxista delle crisi |
Democrazia falsa amica del socialismo |
L’Armata Rossa in Germania 1919 |
Domenica |
La questione militare: Guerra civile in Russia |
Scioperi e attività sindacale in Usa |
Corso della crisi economica mondiale |
Origini del socialismo nell’impero Ottomano |
Attività sindacale in Italia |
I recenti colpi di Stato in Africa |
Il rapporto sugli scioperi negli Stati Uniti e quello sull’Africa sono già stati pubblicati nel numero scorso di questo giornale.
Dei restanti diamo qui, e nel prossimo numero, un primo resoconto sintetico.
La questione agraria
Nel modo di produzione feudale
A questa riunione generale abbiamo trattato il tema del modo di produzione feudale. Un quadro generale di quella formazione economico-sociale in Europa – prima di passare ai nostri classici marxisti – è ricavabile in “L’economia rurale nell’Europa medievale” di Georges Duby. Leggiamo: «Nella civiltà di quel tempo la campagna era tutto. Vaste regioni come l’Inghilterra e quasi tutta la Germania sono del tutto prive di città. Ne esistono di diverse: antiche città romane, il cui processo di decadenza è stato meno profondo nel Sud dell’Occidente, oppure abbiamo nuovissime borgate di traffico, sorte di recente lungo i fiumi che portano ai mari del Nord. Ma tranne qualche eccezione lombarda, queste “città” non sono che piccoli agglomerati con al massimo qualche centinaio di abitanti stabili, legate tanto profondamente alla campagna che non se ne distinguono affatto. Le vigne le circondano, i campi le attraversano, e sono piene di bestiame, di fienili, di lavoranti agricoli. Tutti gli abitanti, anche i più ricchi, i vescovi, gli stessi re, e i rari specialisti, ebrei o cristiani, che nella città esercitano il commercio a lungo raggio, restano dei rurali: la loro esistenza è scandita dal ciclo delle stagioni agricole, il loro sostentamento dipende tutto dai prodotti della terra, dalla quale traggono direttamente ogni risorsa (…) L’Occidente del IX secolo è popolato nel suo insieme da un contadiname stabile, radicato. Il che non significa che si debba immaginarlo del tutto immobile: nella vita rustica un ampio spazio è aperto al nomadismo».
Ci si sposta in estate per la transumanza pastorale o per i trasporti su carri; alcuni si avventurano periodicamente nella raccolta dei prodotti spontanei, per la caccia, o per la rapina, in cerca di un bottino; una parte della popolazione rurale partecipa anche alle “avventure” della guerra.
«Tuttavia, nella maggior parte dei casi, il nomadismo è marginale, stagionale. Gli uomini vivono quasi costantemente su una terra che è quella della loro famiglia, in un agro organizzato, insediati in un villaggio (…) Nei secoli IX e X, i villaggi costituiscono l’ambito normale dell’esistenza, quali che fossero le loro dimensioni. Nell’Inghilterra sassone, ad esempio, il villaggio serviva di base alle riscossioni, alle “requisizioni” rurali. Intorno a questi punti fissi si organizzava dovunque la sistemazione dell’agro, e particolarmente la rete delle strade, delle piste che, nel paesaggio odierno, appare come il vestigio più tenace delle antiche strutture agrarie (...)».
«Nell’Europa occidentale, tranne che sulle rive del Mediterraneo, dove si costruiva in pietra, le abitazioni degli uomini erano, nell’alto Medioevo e anche in tempi meno remoti, delle capanne di frasche e di terra, fragili ed effimere (…) Con tutto ciò i villaggi non cambiarono sito, e ciò, sembra, per due ragioni. Anzitutto perché l’area del villaggio era posta in uno stato giuridico particolare, differente da quello delle terre circostanti, e godeva di privilegi consuetudinari che ne rendevano intangibili i confini. Gli storici del diritto hanno dimostrato che l’agglomerato era costituito da una giustapposizione di quegli appezzamenti che la maggior parte dei testi carolingi indicano con la parola mansus, e che i dialetti contadini del Medioevo più vicino chiamano meix, Hof, masure, toft…Si tratta di “chiusure” saldamente fissate da una cinta permanente di palizzata o di siepe viva mantenuta con cura, di ricoveri protetti, difesi, la cui violazione era punita con le pene più gravi, di isolotti riservati i cui occupanti si ritenevano i soli padroni e sui quali non avevano vigore le servitù collettive e le pretese dei capi e dei signori.
«Queste “chiusure”, in cui ricchezze, bestiame, riserve di viveri, uomini addormentati trovavano rifugio e protezione dai pericoli naturali e soprannaturali e che, unite insieme, formavano il nucleo del villaggio, sono l’espressione dell’insediamento su un agro di una società della quale la famiglia costituiva la cellula principale (…) L’occupazione di uno di questi mansi consentiva l’inserimento nella comunità del villaggio, il cui diritto collettivo si estendeva sull’insieme delle terre circostanti».
I nuovi venuti erano tenuti all’esterno delle “chiusure”, abitanti di seconda categoria. Gli inventari dell’epoca li catalogavano appunto come “ospiti”, dei quali si tollerava la presenza ma che non avevano gli stessi diritti degli altri abitanti. Questi rigidi limiti giuridici impedivano che la colonizzazione avvenisse in ordine sparso e ne frenavano lo spostamento dell’habitat.
Nella relazione il compagno dava conto ampiamente delle peculiarità che caratterizzavano la produzione agricola in epoca feudale, arrivando all’altro aspetto che caratterizza il modo produzione del tempo: l’attrezzatura impiegata nel lavoro nei campi. Si notava che questi attrezzi erano per la maggiore costruiti in legno. Vi erano due tipologie di aratro, semplice e a versoio, che offriva un deciso vantaggio su quello semplice. Questo economizzava la mano d’opera, il contadino in un solo passaggio giungeva a rivoltare sufficientemente la terra, dunque ad aerarla e a ricostruire gli elementi fertili: la vangatura periodica non era più necessaria. Inoltre l’aratro a versoio si poteva utilizzare anche in terreni pesanti che con quello semplice non erano praticabili. Esso permetteva di estendere l’area coltivata, ma esigeva anche una forza di tiro ben superiore, un equipaggiamento di animali da lavoro più vigorosi.
A seguire si accennava allo scarso utilizzo dei metalli.
«I lavoratori dell’enorme azienda di Annapes, che allevava allora circa duecento bovini, disponevano soltanto, in fatto di strumenti in ferro, di due falci, due falciole e due vanghe. Anche qui l’attrezzatura base serviva a modellare il legno. Per gli altri lavori: utensilia lignea ministrandum sufficienter, attrezzi in legno nel numero necessario, che non ci si preoccupava di contare».
Dunque, a parte gli strumenti da taglio per segare l’erba o il grano o per abbattere gli alberi, tutta l’attrezzatura agricola, e in particolare per l’aratura, era normalmente in legno.
«Ciascun centro demaniale doveva contenere soltanto una piccola bottega ben munita di utensili di ferro destinata alla produzione domestica di altri strumenti e alla loro riparazione (...) Tutti i documenti dell’epoca carolingia pongono il fabbro sullo stesso piano dell’orafo e viene presentato come uno specialista di manifatture eccezionali e preziose. Lo si trova molto raramente negli inventari delle tenute rurali (...) In tutte le regioni osservate (tranne forse in Lombardia, dove i ferrarii compaiono molto più frequentemente negli inventari signorili, e dove, nei grandi domini di Bobbio, di S. Giulia di Brescia, di Nonantola, a numerosi possedimenti di villaggio erano imposti canoni regolari in ferro, e questa volta in maniera molto precisa, in vomeri d’aratro semplice) si ha l’impressione che l’impiego del metallo nell’attrezzatura contadina fosse molto limitato».
Nell’Europa del IX e del X secolo anche nei grandi possedimenti l’economia disponeva di pochi utensili in legno, ma ricorreva al lavoro di molti individui, dando forma ai villaggi che divenivano molto popolati per accudire ai campi circostanti.
Per contro permanevano larghe frange incolte, per la mancanza di attrezzi capaci di vincere la natura dei terreni spessi, umidi e folti. Si hanno anche vasti spazi di libera vegetazione utile all’alimentazione del bestiame da allevamento, alla caccia e alla raccolta dei prodotti spontanei.
Ad aumentare la produttività del lavoro furono introdotti i mulini.
«Si vede abbastanza chiaramente come le signorie fossero equipaggiate in quanto a strumenti di macinazione (…) L’installazione di un mulino ad acqua era certamente un’impresa delicata e costosa: la sistemazione dei canali, il trasporto, il taglio e la messa in opera delle pietre molari imponevano pesanti investimenti e anche per la manutenzione dei meccanismi di convogliamento si dovevano fare spese regolari. Tuttavia tali congegni non erano rari, a partire dal IX secolo, nei grandi domini. Sembra anche che il numero dei mulini idraulici aumentasse allora rapidamente attorno a Parigi: dei cinquantanove mulini inventariati dal polittico di Saint-Germain-des-Prés [Il “polittico” era un inventario dei beni dell’abbazia redatto fra l’823 e l’828 dall’abate Irminone, NdR], otto erano stati appena costruiti e due rinnovati di recente dall’abate Irminone (…) I mulini del dominio erano messi a disposizione dei contadini dei dintorni in cambio di un canone (…) In una signoria regia del nord della Gallia, quella di Annapes (…) i cinque mulini e il birrificio facevano entrare ogni anno nei granai signorili tanto grano quanto se ne raccoglieva sulle immense terre arate del dominio (...) Malgrado le tasse e i prelievi che subivano sul proprio raccolto i contadini trovavano vantaggioso servirsi del mulino signorile».
Si è ricordato come il pane fosse il nutrimento base, anche nelle regioni meno civilizzate della Cristianità latina.
Si passava poi a descrivere come era organizzata la produzione agricola, che si può riassumere in questi tre punti: «1) Nei testi la descrizione dei raccolti e delle semine e, più frequente, quella delle prestazioni in grano dovute dai contadini, provano che, generalmente, i campi, sia quelli dei villici che quelli dei signori, producevano non solo grani invernali, ma anche grani primaverili e in particolare avena. 2) La disposizione nel calendario agricolo di corvées per l’aratura richieste ai servi delle signorie indica che il ciclo delle arature si ordinava frequentemente in funzione di due stagioni di semina, una d’inverno, l’altra estiva o primaverile. 3) Gli appezzamenti di aratura nelle grandi tenute appaiono spesso a gruppi di tre; per esempio nella metà circa dei domini dell’abbazia di Saint-Germain-des-Prés descritti nel polittico d’Irminone, gli ispettori hanno contato tre, sei o nove campi signorili. Questa disposizione fa pensare che la coltura vi fosse organizzata in funzione di un ritmo ternario».
Sorgere del movimento operaio e comunista nell’Impero Ottomano
Le prove documentali dell’esistenza di correnti e partiti su posizioni di sinistra si limitano a un periodo di venticinque anni, dal 1909 al 1934. Ma è un periodo caratterizzato, nell’Impero prima in Turchia dopo, da numerosi eventi storici determinanti: la rivoluzione del 1908, la guerra italo-turca, le guerre balcaniche, la Prima guerra mondiale, il genocidio armeno, l’emergere del movimento di indipendenza nazionale contro l’occupazione di parti della Turchia da parte dell’Intesa, la vittoria di Mustafa Kemal contro l’aggressione da parte della Grecia e contro le rivolte reazionarie interne, lo scambio e il trasferimento delle popolazioni greco-turche e infine il consolidamento del potere kemalista e la sconfitta dell’ala sinistra del Partito Comunista.
Per questo motivo abbiamo intanto ordinato i documenti in base al periodo, per occuparci in seguito delle circostanze particolari in cui i singoli documenti che presentiamo sono stati scritti.
Introduzione
È opportuno fornire ai compagni alcune informazioni di base sulla storia dell’Impero Ottomano, che si espandeva in un’ampia regione geostorica.
Alla fine del XVIII secolo l’Impero era una monarchia feudale ben sviluppata ma stagnante, che governava su vasti territori. Grazie alle sue relazioni con l’Occidente all’inizio del secolo XIX il capitalismo iniziò a espandersi e a svilupparsi all’interno dell’Impero. Il grosso della borghesia emerse dalle minoranze non musulmane, estremamente numerose e influenti, direttamente legate al capitale e al commercio occidentale. In precedenza erano stati commercianti e negozianti, e certamente non erano la parte più importante delle loro comunità, ma il loro status aumentò rapidamente con l’espansione delle loro attività e dei loro capitali, in un Impero in cui la fonte della ricchezza era ancora la terra.
Nelle città iniziarono a sorgere fabbriche. Il crescente potere della borghesia non musulmana portò anche nei villaggi più remoti alla creazione di scuole per l’insegnamento delle scienze positive. Si diffusero nuove ideologie come il liberalismo e il nazionalismo. A loro volta i contadini iniziarono a immigrare nelle città, formando la maggior parte della nuova classe operaia.
Ben presto i governanti dello Stato ottomano si trovarono di fronte a una situazione allarmante. Dapprima cercarono di reprimere questo sviluppo indesiderato di nuove classi sociali, cioè la borghesia e il proletariato inurbato, con la repressione, ma ciò non fece altro che alimentare le fiamme del nazionalismo e portare a guerre di liberazione nazionale, molte delle quali riuscirono a creare nuovi Stati nazionali, come avvenne con l’indipendenza della Grecia nel 1829, della Bulgaria nel 1876 e della Serbia nel 1878. Il numero dei non musulmani, come armeni, greci ed ebrei, rimasti all’interno della compagine sociale dell’Impero, e soprattutto il loro peso relativo all’interno della neonata borghesia industriale, rimase molto significativo.
Il capitalismo occidentale si unì alle richieste locali di riforme.
Allo stesso tempo, la burocrazia ottomana cominciò a chiedere una soluzione ai fallimentari tentativi dell’Impero nei secoli precedenti nel competere con gli Stati europei: l’ammodernamento della tecnica, dei modi di conduzione aziendale, dell’industria e della scienza. Anch’essi iniziarono a difendere l’introduzione del capitalismo nell’Impero e persino le riforme democratiche borghesi.
Dopo gli anni trenta del XIX secolo le industrie private iniziarono rapide a sostituire gli artigiani anche tra i musulmani.
Di fronte alle pressioni dei borghesi, dei burocrati e degli ufficiali, nel 1839 la monarchia emanò l’Editto Imperiale di Riorganizzazione. Si inaugurò così il periodo delle riforme, in turco ottomano “Tanzimat”, che culminò nel 1876 con la dichiarazione del Primo Regime Costituzionale.
La comparsa di relazioni capitalistiche ebbe come conseguenza l’insorgere di dure lotte tra il giovane proletariato, formatosi con l’inurbamento delle masse contadine, e la nuova borghesia emergente. Le prime proteste nelle fabbriche iniziarono già nel 1800. Inizialmente l’azione più comune del movimento operaio nell’Impero fu il sabotaggio dei mezzi di produzione, ma in capo ad alcuni decenni tali azioni vennero superate dagli scioperi. Il primo sciopero registrato si verificò nel 1863, nelle miniere di carbone di Ereğli, ma questa arma di lotta si diffuse soltanto a partire dall’inizio degli anni settanta in un’ondata di agitazioni operaie che culminò negli scioperi del 1876. In questo periodo l’industria si stava sviluppando rapidamente e molti tecnici e lavoratori specializzati furono inviati in Turchia da paesi come l’Inghilterra, la Francia e l’Italia. I lavoratori stranieri presero presto a scioperare insieme con i nativi. Gli autoctoni, ancora privi di esperienza di lotte operaie, trassero beneficio dagli scioperi degli operai europei che lavoravano al loro fianco.
Il sultano Abdulhamid II, che avrebbe governato l’Impero con il pugno di ferro per decenni, rispose alle lotte del 1878 con un’ondata di repressione che per un certo periodo provocò un diradamento degli scioperi. Tuttavia non poté impedire nel lungo periodo il radicamento del movimento operaio.
La cronologia che approntata dal relatore evidenzia le tappe di questo sviluppo.
La teoria marxista delle crisi
Thomas Robert Malthus
L’esposizione della teoria generale di Malthus conclude la serie dei rapporti dedicati all’analisi dei principali esponenti dell’economia “classica”.
Malthus assume una posizione che tende a distinguersi da Smith e Ricardo, convinto di introdurre ipotesi innovative e soluzioni alternative nel dibattito economico. L’economia sarebbe sì una scienza, ma è più vicina alle scienze morali e politiche che a quelle naturali, col risultato che lo schema teorico assume connotazioni eclettiche. Posizione questa ben espressa da una citazione tratta dai Principi di Economia Politica di cui abbiamo dato lettura. A dimostrazione di ciò è stato ricordato che la teoria del valore non viene rifiutata da Malthus, ma è considerata solamente come un caso limite, ovvero valida solo nello scambio fra due merci prodotte con capitali di uguale composizione organica, non essendo pertanto generalizzabile; al contrario il principio generale andrebbe ricercato nella legge della domanda e offerta.
La prima preoccupazione di Malthus è quella di cancellare la distinzione ricardiana fra “valore del lavoro” e “quantità di lavoro”. Poiché ciò contro cui si scambia una quantità di lavoro, ovvero il salario, costituisce il valore di questa quantità di lavoro, è una tautologia dire che il valore di una determinata quantità di lavoro è uguale alla massa di denaro o di merci contro cui questo lavoro si scambia. Ciò vuol dire semplicemente che il valore di scambio di una determinata quantità di lavoro è uguale al suo valore di scambio chiamato anche salario. Ma non consegue affatto che una determinata quantità di lavoro sia uguale alla quantità di lavoro contenuta nei salari o nel denaro o nelle merci in cui i salari si rappresentano.
Secondo Malthus il valore di una merce è uguale alla somma di denaro che il compratore deve pagare, e questa somma di denaro è valutata dalla massa di lavoro comune, che con essa si può comprare. Ma da che cosa sia determinata questa somma di denaro, non viene detto. È la rappresentazione volgare che se ne ha nella vita comune in cui prezzo di costo e valore sono identici; è l’immagine del valore propria del filisteo impigliato nella concorrenza.
Ricercando soluzioni interne alla scuola classica ai problemi posti da Smith e Ricardo si compie però il passaggio alla concezione volgare. Infatti è costretto a far derivare il plusvalore dal fatto che il venditore venderebbe la merce al di sopra del suo valore, cioè a un tempo di lavoro maggiore di quello in essa contenuto. In questo modo però ciò che il capitalista guadagnerebbe come venditore di una merce, lo perderebbe come compratore di un’altra, in una truffa reciproca.
Da dove verrebbero allora i compratori che pagano al capitalista la quantità di lavoro che è uguale al lavoro contenuto nella merce più il suo profitto? L’unica eccezione è costituita dalla classe operaia.
Poiché il profitto deriva appunto dal fatto che gli operai possono ricomprare soltanto una parte del prodotto, la classe dei capitalisti non può mai realizzare il suo profitto per mezzo della domanda operaia. È necessaria un’altra domanda. Affinché il capitalista possa realizzare il suo profitto sarebbero quindi necessari compratori che non siano venditori. Di qui la necessità di proprietari terrieri, di chi fruisce di pensione o sinecura, dei preti ecc., con la conseguenza che Malthus si fa paladino del massimo accrescimento possibile delle classi improduttive.
Le conclusioni teoriche di Malthus sono in linea perciò con il proprio ruolo di apologeta. Ricardo rappresenta la produzione borghese in quanto tale, in quanto significa il più sfrenato dispiegamento delle forze produttive sociali. Anche Malthus vuole lo sviluppo più libero possibile della produzione capitalistica, prodotto unicamente dalla miseria di coloro che ne sono i principali artefici, le classi lavoratrici, ma esso deve in pari tempo adattarsi ai “bisogni di consumo” dell’aristocrazia e delle sue succursali nello Stato e nella Chiesa.
L’intreccio fascismo-democrazia “costituzione materiale” dello Stato
La propaganda borghese, democratica o fascista, tende a mettere in risalto l’antitesi tra democrazia e autoritarismo, tra fascismo e anti-fascismo. Noi abbiamo sempre sostenuto che l’antifascismo costituisce una finta opposizione al fascismo e una vera collaborazione fra fazioni borghesi nella comune guerra contro il proletariato.
Se i borghesi nella propaganda quotidiana negano la continuità tra fascismo e democrazia, alcuni di loro negli studi più specialistici, dedicati a un pubblico più ristretto, ammettono tale continuità.
È il caso del testo titolato “Lo Stato fascista”, pubblicato nel 2010 da Sabino Cassese, ex ministro del governo italiano ed ex giudice della Corte Costituzionale. In questo testo troviamo molte conferme alle nostre posizioni, anche se non corrispondono certo all’intenzione del giurista borghese e democratico. Leggiamo:
«Lo Stato fascista si proclamò anti-liberale e totalitario. Sottolineò la cesura tra regime liberale e fascismo. Enfatizzò la cosiddetta rivoluzione fascista. Tuttavia governò in larga misura utilizzando istituzioni prefasciste. Lo Statuto albertino rimase in vigore, sia pur modificato in molte parti. La Corona e il Senato regio rimasero in vita, anche se depotenziati. Il regio editto del 1848 sulla stampa fu conservato, anche se subendo profonde modificazioni (…) In molti casi la legislazione fascista consistette nella raccolta di norme del sessantennio precedente, aggiornate e rese più adeguate al nuovo regime (…) Nel presentare alla Camera dei deputati e al Senato del regno, nel 1925-28, le leggi di difesa dello Stato, Alfredo Rocco poteva sempre mostrare il loro legame con la legislazione prefascista e illustrare l’elemento della continuità statutaria (…) A questa continuità delle istituzioni si affianca la continuità del personale tecnico-politico».
L’autore parla poi di «riproduzione nell’ambito delle corporazioni dei conflitti allora denominati di classe (lavoratori-datori di lavoro). Secondo i corporativisti più intelligenti, lo Stato fascista non annullava la conflittualità sociale in una generica solidarietà. La trasportava all’interno dello Stato, tenendola sotto controllo».
Proseguendo leggiamo di «provvedimenti razionalizzatori (…) non diversi da quelli che aveva adottato l’Italia della destra storica. Questi provvedimenti, anzi, in molti casi, raccoglievano norme desuete dell’età liberale, le valorizzavano e inquadravano in un contesto organico. In altri casi, facevano rivivere istituti e procedure dei primi anni successivi all’Unità o addirittura del regno di Sardegna (...) provvedimenti per fronteggiare la crisi economica. Qui è massima la corrispondenza con scelte fatte fuori d’Italia, specialmente nel settore bancario e delle imprese pubbliche».
Ancora: «Come c’è continuità tra lo Stato liberale-autoritario del prefascismo, c’è continuità tra lo Stato del periodo fascista e lo Stato democratico postfascista. Due terzi delle norme raccolte nel 1954 in un codice delle leggi amministrative sono state adottate nel periodo fascista (…) Alcuni di questi complessi normativi raccolgono addirittura norme prefasciste, per cui la loro codificazione nel periodo fascista fa da ponte tra prefascismo e postfascismo (…) La continuità non è assicurata solo dalla permanenza delle norme, ma anche dal personale: una grande maggioranza del personale pubblico di vertice dell’età democratica proviene dai ranghi della burocrazia formatasi nel periodo fascista (…) L’idea del fascismo come parentesi, di una cesura netta tra periodo fascista e Italia repubblicana, dunque, è errata. O, meglio, corrisponde più a un bisogno dei contemporanei di stabilire una distanza tra il fascismo e se stessi, che alla realtà dei fatti».
Nel 2° capitolo leggiamo: «Definire lo “Stato fascista” è difficile perché, al di là della sua proclamata natura totalitaria, le sue radici affondano nell’Italia liberale e le sue istituzioni sopravvivono alla caduta del fascismo; perché una parte delle sue istituzioni non è diversa da quelle create negli stessi anni in altre parti del mondo (…) Il fascismo stesso proclamò solennemente di voler costruire uno Stato totalitario (…) Aspirò a essere totalitario, perché proclamò “tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato”; ma tollerò, e talora creò corpi intermedi. Lo “Stato fascista” fu dunque capace di combinare una grande varietà di retaggi ideologici e di collegarsi alla dottrina sociale cattolica conservatrice. Sfruttò tutti gli elementi di autoritarismo dello Stato esistente, introducendovi nuovi elementi, di tipo cesaristico e totalitario (…) La stessa rottura costituita dalla liberazione e dalla Costituzione del 1948 diviene meno importante in questa prospettiva: si pensi alla “continuità” tra alcune affermazioni del codice del 1942 (e della stessa Carta del lavoro del 1927) e talune disposizioni della Costituzione del 1948 (…) si pensi alla “continuità” costituita dal permanere in vita di tanta parte della legislazione del periodo 1930-40».
Veniamo al 3° capitolo: «La legislazione su libertà e stato delle persone venne completata nel 1926, con il nuovo testo unico delle leggi di pubblica sicurezza. Questo conservava la stessa struttura del testo unico crispino del 1889, con l’aggiunta del titolo primo, sui provvedimenti di polizia. Ma, da un lato, ampliava la sfera di azione della pubblica sicurezza, dall’altro conteneva una disciplina più limitativa del diritto di riunione, degli spettacoli, delle tipografie, degli stranieri e aggiornava la disciplina del domicilio coatto, divenuto confino di polizia, ampliandone la portata».
Per cui, il fascismo «non mirò a modificare o sostituire integralmente l’ordine giuridico preesistente, ma vi si inserì in modo da sfruttare gli elementi autoritari (…) moltiplicò le organizzazioni statali-sociali (…) Mirò a dominare l’economia con una tecnica simile a quella seguita nel campo politico: riducendo i conflitti e trasportandoli nell’ambito statale, dove potevano essere tenuti sotto controllo (…) Il dominio statale della politica, della società e dell’economia non fu mai pieno: burocrazia, scuola, religione sfuggirono, in modi diversi, al controllo fascista; il corporativismo come strumento di pianificazione dovette lasciare spazio alle pianificazioni di settore di un ex nittiano come Beneduce».
Non possono certo soddisfarci le analisi di Cassese, ma abbiamo iniziato con queste, che ci danno sostanzialmente ragione, per confutare la presunta radicale diversità tra fascismo e democrazia antifascista, e la definizione di Benedetto Croce, sciocchezza non disinteressata, del fascismo come “parentesi” nella storia italiana.
FINE DEL RESOCONTO NEL PROSSIMO NUMERO
PAGINA 7
Cari compagni, oggi ci incontriamo, secondo il volantino che è stato distribuito, per parlare di marxismo e di Sinistra Comunista. Non è un impegno da poco, anche perché vogliamo poter dimostrare che la Sinistra Comunista è niente meno che l’unico movimento realmente comunista marxista, esistente, che chiamiamo Partito.
La nostra storia ha più di un secolo.
Nella teoria, ma anche essenzialmente nella tattica, la nostra parola d’ordine è invarianza. Questa è la nostra caratteristica fondamentale. Pertanto, se qualcuno cerca nuove scoperte, nuove strade per il comunismo, non le troverà qui. Anche se, dopo un secolo di stalinismo, di mistificazione, di falsi regimi comunisti, quello che diciamo può apparire nuovo.
Se il marxismo rivendica con orgoglio e tenacia la sua invarianza, più di un secolo di tormentata storia del movimento proletario dimostra che l’opportunismo, che si vanta di essere nuovo e innovativo, rinnovato e innovatore, inventivo e sempre aggiornato, possiede anch’esso una formidabile invarianza, ed è attaccato a un filo rigorosamente continuo. Le pagine del “Che fare?”, in cui Lenin affronta coraggiosamente una variante revisionista della storia del movimento marxista, descrivono con chiarezza cristallina i tratti caratteristici e l’inevitabile traiettoria di ogni opportunismo. È facile constatare non solo che 120 anni non hanno aggiunto alcun tocco “nuovo” al grigiore uniforme del quadro, ma che hanno confermato la diagnosi di un male che è sempre lo stesso e che, con il passare degli anni, non può che crescere in virulenza distruttiva.
Si comincia – citiamo testualmente Lenin – negando «la possibilità di porre il socialismo su basi scientifiche e di dimostrarne la necessità e l’inevitabilità dal punto di vista della concezione materialista della storia». Poi, per deduzione logica, si nega «l’impoverimento crescente, il processo di proletarizzazione e l’intensificazione delle contraddizioni capitalistiche» (mito della coesistenza pacifica, e simili).
Un altro passo e la necessità della dittatura del proletariato viene completamente rifiutata (a favore della “via pacifica al socialismo”, o del “socialismo con facce diverse”), mentre si afferma il carattere “eccezionale” dell’Ottobre russo, (la rivoluzione e la dittatura in Russia confermerebbero il gradualismo e la democrazia); un altro piccolo passo e si nega l’antitesi di principio tra liberalismo e socialismo; ed eccoci alla fine della strada con “un partito democratico delle riforme sociali” aperto a tutte le idee e agli elementi borghesi.
I più sinistri, che non hanno il coraggio di negare apertamente il marxismo,
accampano scuse che sono sempre le stesse:
- Stiamo in una situazione “nuova”.
- Avete ragione, ma non ora, non qui.
- Non possiamo risolvere i problemi prima che si presentino.
Per più di un secolo, invece, la nostra corrente ha vissuto mantenendo – come il bolscevismo di Lenin – il filo continuo delle posizioni programmatiche e tattiche indissolubilmente legate alla completezza della dottrina.
Per dirla con Marx ed Engels, «le conclusioni teoriche dei comunisti non si basano in alcun modo su idee o principi inventati o scoperti da questo o quel sedicente riformatore universale. Esse esprimono semplicemente, in termini generali, i rapporti reali che scaturiscono da una lotta di classe esistente, da un movimento storico che si svolge sotto i nostri occhi». Il marxismo è scienza.
Il Partito ha come punto di partenza fondamentale della sua dottrina e della sua azione gli 11 punti, il suo Programma, stabiliti alla fondazione del P.C.d’I., che erano allora (e sono tuttora), perfettamente in linea con l’Internazionale Comunista fondata in Russia nel 1919, e in particolare con le posizioni stabilite al suo secondo congresso del 1920.
Sulla base di questo programma, il Partito Comunista Internazionale rivendica i principi dottrinali del marxismo nella loro interezza: il materialismo dialettico come concezione sistematica del mondo e della storia umana; le dottrine economiche fondamentali contenute nel Capitale di Marx come metodo di interpretazione dell’economia capitalista; le formulazioni programmatiche del Manifesto Comunista come piano storico e politico per l’emancipazione della classe operaia mondiale.
Rivendichiamo anche l’intero sistema di principi e metodi scaturiti dalla vittoria della Rivoluzione russa, ovvero: il lavoro teorico e pratico di Lenin e del Partito bolscevico durante gli anni cruciali della presa del potere e della guerra civile, e le tesi classiche del secondo Congresso dell’Internazionale comunista. Questi rappresentano la conferma, la restaurazione e il successivo sviluppo dei suddetti principi, oggi messi ancora più in evidenza dalla lezione della tragica ondata revisionista che ha avuto origine intorno al 1926-27 con l’appellativo di “socialismo in un solo Paese”.
Le posizioni fondamentali di cui sopra, benché redatte un secolo fa, sono ancora nostre e nulla di ciò che scriviamo e facciamo oggi è in contraddizione con esse. Sfidiamo chiunque a trovare una contraddizione tra i testi che abbiamo prodotto in questi 100 anni, o tra questi e le opere fondamentali di Marx, Engels e Lenin.
Questa è la nostra caratteristica e chi pensa che la teoria della rivoluzione sia qualcosa che merita di essere aggiornata di tanto in tanto, alla luce di presunte nuove situazioni dovrebbe rivolgere la propria attenzione in altre direzioni. L’invarianza è la nostra forza, la nostra arma di combattimento, lasciamo che gli altri usino la loro: ci hanno provato in tanti, ma sempre con insuccessi, o ricadute nell’opportunismo o nel vero e proprio tradimento.
Il Partito Comunista è uno, invariante nel tempo: il Manifesto Comunista 1848 ha già tutto. Quindi, nessuna evoluzione, solo lavoro per confermare la teoria, niente che contraddica la teorizzazione precedente, solo sempre migliore scolpimento, come si definiamo nel Partito il lavoro teorico.
Un richiamo storico è il modo migliore per comprendere le origini e le caratteristiche della Sinistra.
La Prima Internazionale, fondata nel 1864, già dimostra come si presenta nella storia il partito di classe: uno e internazionale. Naturalmente Marx dovette accettare dei compromessi, dovuti a immaturità della situazione e del movimento rivoluzionario nei vari Paesi. Nel breve periodo di esistenza della Prima Internazionale si verificano due importanti eventi, che influiranno sul futuro del movimento e nella migliore definizione della dottrina. Il primo è la Comune di Parigi: per Marx non basta più conquistare il potere, bisogna distruggere lo Stato borghese per costruire il nostro. Il secondo è la separazione dei marxisti dagli anarchici, con il conseguente abbandono di qualsiasi illusione piccolo-borghese e di rivoluzionarismo romantico e sparafucile.
La Seconda Internazionale, o Internazionale Socialista: a differenza della Prima, unisce grandi partiti socialisti nazionali, in modo meno unitario. È il periodo della crescita del movimento operaio, dell’illusione di un avanzamento inarrestabile, e quindi di conquista del potere in modo pacifico, con la società socialista che crescerebbe all’interno di quella borghese, grazie a graduali riforme. Poggiandosi su ampi strati di aristocrazia operaia, sorge il revisionismo, che nega i postulati rivoluzionari del marxismo. I partiti socialisti, quasi tutti, offriranno sostegno alla guerra mondiale che scoppierà nel 1914
Se il mito dello sviluppo pacifico della società verso il socialismo (ovviamente negato da tutta la letteratura di Marx e Lenin) poteva trovare una giustificazione prima della Prima Guerra Mondiale, sostenerlo dopo il 1914 non sarà altro che un tradimento nei confronti della classe.
Le sole posizioni contro la guerra saranno quelle del Partito Operaio Socialdemocratico Russo, del Partito Socialista Italiano (non chiara, con ripensamenti), e del Partito serbo, ammirevole questo perché la giustificazione dell’aggressione nel loro caso esisteva palesemente. Gli appelli alla classe operaia scaturiti dagli incontri delle sinistre dei partiti europei a Zimmerwald e a Kienthal non produssero alcuna seria sollevazione rivoluzionaria.
Ma nell’Ottobre 1917 il proletariato russo, guidato dal POSDR, conquista il potere. L’anno dopo il partito cambia il nome in Partito Comunista Russo, e nel 1919 è fondata l’Internazionale Comunista.
In seguito alla vittoria in Russia, in tutti i paesi, di solito dalle ali sinistre dei partiti socialisti, si fondano i partiti comunisti. Ma pochi di loro si trovavano su pure posizioni marxiste. I soli partiti, o frazioni, rivoluzionari, alcuni rappresentati solo al secondo congresso, erano, oltre al Partito Comunista Russo, la Sinistra astensionista del Partito Socialista Italiano, lo Spartakus Bund tedesco, il Partito Comunista Ungherese.
Il secondo congresso, nel 1920, è il vero di fondazione dell’Internazionale, che produce i 21 punti per l’adesione. Un contributo venne dalla Sinistra che propose la 21a condizione: i membri del partito che rifiutano le condizioni e le Tesi stabilite dalla IC devono essere espulsi. Quindi, almeno negli auspici, un partito unico mondiale.
Ma la sconfitta della rivoluzione in occidente, in Germania e in Ungheria, e la debolezza economica della Russia sono fattori che determinano tattiche sbagliate. La piramide, che avrebbe dovuto essere: Internazionale comunista, Partiti nazionali, Stati conquistati al comunismo, si inverte: Stato Russo, Partito russo, Partito internazionale, Partiti nazionali.
Progressivamente il partito russo, dominato sempre più dai suoi interessi
nazionali, e che di fatto comanda nell’Internazionale, induce i singoli partiti
nazionali a scelte non sempre corrette e internazionaliste. Presto un percorso
di degenerazione diviene evidente. Numerose sono le tattiche sbagliate, in
contrasto con i fini della rivoluzione internazionale:
- entrismo: nel Labour Party, nel Kuomintang
- frontismo: Ungheria, Spagna
- tattica oscillante e opportunista
- antifascismo
- difesa dello Stato russo al di sopra di tutto
- Socialismo in un solo Paese.
La III Internazionale nasce su una vittoria rivoluzionaria, ma tutta la sua vita è condizionata dalla sconfitta della rivoluzione a scala internazionale.
In Italia nel 1923 la Sinistra cede la direzione del partito ai centristi (Gramsci), riconoscendo che sono più in sintonia con la politica della I.C.
L’unica corrente a capire che il compito dell’ora era salvare dalla degenerazione, intatta, la dottrina integra della rivoluzione, fino alla prossima occasione di attacco rivoluzionario, fu la Sinistra italiana.
Questo spiega l’atteggiamento critico, controcorrente, della Sinistra di quegli anni: 1922 (congresso di Roma), 1924 (convegno di Como), 1926 (terzo congresso del Partito italiano e VI Esecutivo allargato a Mosca, davanti a Stalin (vale la pena di leggerlo). Fino alla nostra espulsione.
In Russia nel frattempo era sconfitta l’opposizione di Trotzki. Ma insufficiente nel chiedere la democrazia nel partito: “La colpa è della burocrazia!”.
La sinistra svolge attività all’estero negli anni Trenta, soprattutto in Francia e Belgio (periodici “Prometeo” e “Bilan”).
Già nel 1933 è chiaro, e pubblicamente dichiarato, che in Russia non c’era altro che un modo di produzione capitalistico, e uno Stato non più proletario né comunista, e quindi non c’era più nulla da difendere.
La Sinistra si batte contro l’antifascismo (Spagna), contro la partecipazione dei lavoratori alla Seconda guerra, poi contro la guerra partigiana (Francia, Italia), poiché è una guerra patriottica, contro i proletari, una guerra pienamente borghese.
Grazie al contributo della Frazione all’estero, nel 1943 nasce il Partito Comunista Internazionalista (riconoscendo l’ormai definitivo passaggio dei partiti “comunisti” ufficiali al riformismo, al legalitarismo, al social-nazionalismo: in breve, alla controrivoluzione).
Molti dei compagni credono in una nuova ondata rivoluzionaria, che non si poteva avere.
Il Partito si dedica a un lungo lavoro di ripresentazione delle posizioni e della teoria marxista classica. È anche il periodo degli articoli “Sul filo del tempo”.
Molti abbandonano il Partito, finché nel 1951-52 avviene una scissione; perdiamo le testate di “Battaglia Comunista” e “Prometeo”. Il periodico successivo sarà “Il Programma Comunista”. Una nuova rivista teorica e internazionale (in francese) apparirà nel 1957 (“Programme Communiste”), seguita da un giornale, “Le Proletaire”. Poi altri organi in altre lingue.
Il Partito è ricostituito su basi chiare, espresse nelle fondamentali Tesi Caratteristiche, del 1951.
Questo corpus di tesi aveva il carattere di base necessaria per l’adesione al partito: i suoi membri le accettano tutte, e quelli che non ne accettano alcune restano fuori. La Sinistra italiana ha sempre respinto l’illusione di ottenere successi immediati attraverso combinazioni e accordi con gruppi eterogenei, come quelli che la crisi dello stalinismo e le vicende del post-stalinismo hanno creato e ricreano continuamente.
Una sintesi su chi siamo si può leggere nel breve testo che si trova subito sotto il titolo di tutti i nostri organi di stampa, dal titolo Distingue il nostro Partito, una definizione che non è cambiata in 70 anni e che è riportata identica in tutte le lingue in cui pubblichiamo.
A partire dal 1952 il partito assunse una direzione decisa e omogenea, basata sul riallacciarsi alle tesi di fondo del periodo 1920-26 e sul bilancio dinamico del venticinquennio successivo, che diede loro linee ancora più nette e ormai inconfondibili.
Il problema centrale era, senza dubbio, la riproposizione della dottrina marxista, mille volte calpestata e sfigurata dalla controrivoluzione staliniana, nella sua interezza. Ma questo obiettivo non poteva essere né è mai stato disgiunto, nella dottrina e nella pratica, dallo sforzo costante non solo di propagandare le nostre posizioni teoriche e programmatiche, ma di “importarle”, secondo la classica definizione di Lenin, nella classe operaia, partecipando, nei limiti delle nostre forze, alle sue lotte per obiettivi anche immediati e contingenti, e non facendo mai del partito, per quanto numericamente piccolo, un’accademia di pensatori, un cenacolo di illuminati, o una setta di cospiratori armati di un bagaglio inestimabile ma conosciuto solo agli iniziati.
Internazionale nei suoi fondamenti programmatici, il Partito è stato in grado di definire anche i caratteri della sua struttura, insieme alle norme tattiche vincolanti per tutti i suoi militanti, in modo molto più netto e completo di quanto fosse stato consentito all’interno della III Internazionale. È rinato, insomma, su basi proprie e specifiche, spogliato di quei necessari adattamenti che la disciplina verso il Comintern aveva imposto anche nella esplicita riaffermazione del suo dissenso.
Da allora abbiamo dimostrato in centinaia di testi come siamo saldamente ancorati a Marx e Lenin. Un’attività che non si è interrotta nei 70 anni successivi e che continua tuttora. Perché?
Le ragioni sono molte:
- trovare sempre conferme, confrontando gli eventi con la nostra dottrina e
spiegandoli con essa;
- definire e comprendere sempre meglio i nostri fondamenti, per avere chiaro il
percorso nel momento in cui ne avremo bisogno; questo chiamiamo “scolpire la
teoria”;
- infine, ma non meno importante, informare le nuove generazioni alla nostra
teoria e al modo in cui conduciamo il nostro lavoro. La dottrina si conquista
lavorando su di essa, vecchi compagni e giovani compagni, per mantenere vivo il
filo che collega il movimento di oggi con quello di ieri e di domani.
Da sempre ci diciamo: studiare, studiare, studiare (“culo di piombo!”). Questo non toglie che dobbiamo svolgere tutte le nostre attività: diffondiamo la stampa e i volantini, partecipiamo alle manifestazioni operaie, ci adopriamo alla riorganizzazione sindacale, eccetera.
Nel 1965, dopo aver acquisito una rete internazionale relativamente estesa, cambiammo il nome in Partito Comunista Internazionale.
Nel 1965-66 il Partito sentì anche il bisogno di descrivere in tesi quello che era stato il suo modo di funzionare, il Centralismo Organico.
L’organizzazione, come la disciplina, non è un punto di partenza ma un punto di arrivo; non ha bisogno di codifiche statutarie e di regolamenti disciplinari; non conosce antitesi tra “base” e “vertice”; esclude le rigide barriere di una divisione del lavoro ereditata dal regime capitalista, non perché non abbia bisogno di capi, e nemmeno di esperti in certi campi, ma perché questi sono e devono essere, quanto e più del più umile dei militanti, vincolati da un programma, da una dottrina e da una definizione chiara e inequivocabile di norme tattiche comuni a tutto il partito, note a ciascuno dei suoi membri, proclamate pubblicamente e soprattutto tradotte in pratica di fronte alla classe nel suo insieme.
“La rivoluzione non è una questione di forme di organizzazione”. È l’organizzazione con tutte le sue forme che, al contrario, si costituisce in base alle esigenze della rivoluzione.
Consultazioni, costituzioni e statuti sono caratteristici delle società divise in classi e dei partiti che esprimono a loro volta non il percorso storico di una classe, ma l’intersezione dei percorsi divergenti o non pienamente convergenti di più classi. Democrazia interna e “burocratismo”, omaggio alla “libertà di espressione” individuale o di gruppo e “terrorismo ideologico” non sono termini antitetici, anzi sono dialetticamente connessi; l’unità della dottrina e dell’azione tattica e il carattere organico del centralismo organizzativo sono facce della stessa medaglia.
Il Partito subì una grave scissione nel 1973 (deviazione attivista del Centro) che ci costrinse a ricostruire l’organizzazione, lentamente, a causa della negativa situazione esterna. Ma questo non è mai stato un problema: da deterministi sappiamo che il partito sarà sempre minuscolo finché la classe non tornerà all’offensiva; e che comunque ci vorrà del tempo prima di essere saldamente radicati in essa.
Cos’altro dovremmo fare? Modificare le nostre posizioni classiche per acquisire un gruppo di nuovi membri? Fare congressi per unire due o tre nullità per formare un’altra nullità? E nel frattempo rinunciare alle nostre posizioni, che ci hanno distinto da tutti gli altri per oltre un secolo?
Così scrivevamo nel 1974:
«La forza del Partito non dipende dalla volontà di qualcuno, ma dalla conservazione e dall’osservanza scrupolosa e gelosa dei suoi elementi costitutivi e delle loro implicazioni pratiche, e in secondo luogo dallo sviluppo favorevole delle contraddizioni sociali. In base a ciò il Partito cresce, si sviluppa e diventa una forza sociale decisiva per lo scontro finale contro il regime del Capitale.
«Queste funzioni escludono la possibilità che il Partito torni alla testa delle masse in lotta, come nel glorioso periodo 1917-26, in virtù di espedienti tattici, espedienti diplomatici, accostamenti promiscui con altri presunti gruppi politici di sinistra, innovazioni di significato sibillino nel campo del complesso intreccio del rapporto tra partito e classe.
«Espedienti, questi, che uccidono il partito come organo della classe, anche se dovessero produrre un aumento degli iscritti. Espedienti che tradiscono la smania di “sfondamento” di leader e semi-leader, nell’illusione di poter uscire dal ghetto, deformando i compiti e la natura del partito stesso. La migliore dimostrazione dell’inanità di tali manovre, più che ricavarla dalla critica delle idee, può essere verificata dall’esperienza storica. I rapporti di forza tra le classi sociali non sono affatto cambiati, nonostante che, da parte di trotzkisti di varie tendenze, di sinistre di mille colori, sia stato predicato ai quattro venti l’adeguamento del Partito alle situazioni, una politica “realistica”, fatta di continui cambi di rotta.
«Se oggi il perimetro del Partito è ristretto e la sua influenza sulle masse proletarie quasi inesistente, la ragione va ricercata nella lotta di classe, negli eventi storici, e bisogna avere il coraggio di concludere o che il marxismo va buttato via e con esso il suo partito politico, o che il comunismo marxista deve rimanere invariato. Anche da questa verifica materialistica e storica, avendola anticipata nella dottrina, la Sinistra ha tratto la fruttuosa lezione: nulla da innovare, nulla da cambiare. Fermi al nostro posto!».
Di conseguenza, chiunque può aderire, ma solo dopo aver accettato in toto ciò che ci contraddistingue. Come individui, non come organizzazioni.
Il nostro lavoro continua come sempre, pubblichiamo la nostra stampa in diverse lingue, seguiamo gli eventi internazionali che presentiamo alla classe nella loro vera luce. Ma soprattutto continuiamo la nostra opera di scolpimento della teoria, presentando alle nostre riunioni internazionali, tre volte l’anno, il risultato del lavoro dei gruppi di studio.
Queste ricerche si svolgono su diverse linee di approfondimento. Le più continue sono il corso dell’imperialismo, lo studio del capitalismo internazionale; le lotte operaie nel mondo e nei sindacati; la storia del movimento operaio (come recentemente per gli USA); la questione nazionale; la storia della rivoluzione in Cina, in Russia; la storia della Sinistra.
Attualmente il nostro lavoro è al 90% volto alla teoria e alla propaganda. Tuttavia, non rinunciamo a partecipare alle lotte dei lavoratori e a dare le nostre indicazioni classiste. Considerandolo altrettanto importante del lavorare per mantenere il partito su posizioni corrette, portiamo avanti tutto il lavoro di propaganda possibile e non rinunciamo mai a lavorare all’interno della classe, per importare le nostre direttive per una battaglia sindacale efficace.
Riguardo la tattica sindacale, già all’epoca del secondo congresso dell’IC avevamo dovuto lottare contro due deviazioni, entrambe emananti da ideologie piccolo-borghesi: la pretesa di fondare sindacati solo di partito e la difesa dei consigli di fabbrica. Questi sarebbero stati i nuclei del potere operaio, affermatosi già all’interno della società capitalista, con la borghesia ancora al potere.
Poiché i sindacati sono associazioni professionali ed economiche, essi riuniscono individui della stessa classe, indipendentemente da chi li guida. È possibile che i proletari organizzati al loro interno eleggano rappresentanti non solo moderati, ma totalmente borghesi, e che i sindacati si trovino direttamente sotto l’influenza del capitalismo. Tuttavia resta il fatto che i sindacati sono composti esclusivamente da lavoratori e quindi non si potrà mai dire di loro quello che diciamo del parlamento, cioè che è suscettibile solo di una direzione borghese.
Il partito quindi lotta per ottenere la direzione dei sindacati in cui sono presenti i lavoratori e per ottenere il massimo grado di unità nelle lotte.
Sappiamo che la borghesia ha modificato il suo atteggiamento nei confronti dei sindacati passando dalla proibizione, alla tolleranza e infine alla sottomissione, perché ormai non può più tollerare una indisciplina reale del lavoro. Quest’ultima fase ha avuto luogo negli anni 1930-40, sia nei Paesi democratici sia in quelli fascisti, che hanno portato a compimento le precedenti richieste riformiste; è una fase cruciale per la sopravvivenza del capitalismo.
La nostra tattica sindacale è continuamente oggetto di studio per adattarla a
situazioni molto diverse nei vari Paesi. In sintesi, possiamo rintracciare 3
fattori necessari perché il partito possa definire la giusta tattica sindacale
di fronte ai sindacati di regime:
1. un’adeguata esperienza di lotta del partito all’interno del movimento operaio;
2. uno studio approfondito della storia del movimento sindacale in quel
determinato Paese che ne permetta una valida comprensione;
3. l’esperienza pratica da parte della classe proletaria e del suo movimento
sindacale di forti movimenti di lotta che mettano in luce il comportamento delle
organizzazioni sindacali, delle loro correnti e dei lavoratori più combattivi al
loro interno.
In ogni caso gli elementi della questione riassunti finora portano a concludere che qualsiasi prospettiva di un movimento rivoluzionario generale dipenderà dalla presenza dei seguenti fattori essenziali: 1) un proletariato di salariati puri, numeroso e in movimento a causa delle condizioni causate dalla borghesia; 2) un consistente movimento di associazioni a contenuto economico che comprenda gran parte del proletariato, nelle quali il partito possa penetrare con i suoi lavoratori militanti e che possa arrivare a dirigere dando le sue indicazioni (la cinghia di trasmissione); 3) un forte partito rivoluzionario di classe, che abbia saputo trarre i giusti insegnamenti dalle lotte e dalle sconfitte della classe e abbia sviluppato la capacità di prevedere gli eventi nei loro contorni principali e di dare alla classe le migliori indicazioni per le sue lotte, anche da un punto di vista meramente economico.
Questo è il Partito. Aderire ad esso significa mettersi al servizio della rivoluzione comunista, della creazione delle condizioni soggettive perché questa abbia luogo. Un militante deve trovare la sua rivoluzione nel lavoro di tutti i giorni, nel piacere di capire ciò che la maggior parte degli esseri umani non capisce ora, e nella sensazione di essere nel percorso che porta a una società finalmente umana. Non nell’attesa di un evento che potrebbe non verificarsi nel corso della sua vita. Non firmiamo un contratto secondo il quale, dopo un lungo e duro lavoro, abbiamo il diritto di ottenere qualcosa in cambio. Questa è una delle tante cause della degenerazione opportunista.
Il militante comunista sente che il suo destino e il suo compito trascendono il risultato pratico immediato, inserito nell’arco millenario che dall’uomo delle caverne del comunismo primitivo giunge fino all’umanità finalmente pacificata del socialismo compiuto.