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Le miserabili esternazioni di Trump, alle quali si adeguano i governanti
europei, vengono a smascherare alcune delle menzogne e illusioni propagate per decenni dalle borghesie di tutto il mondo, e dai loro partiti di destra e di “sinistra”, per nascondere la ferocia del mondo del capitale, portatore ormai solo di morte e distruzione.
- Il diritto internazionale è una finzione, è il diritto del più
forte.
- Nel capitalismo la guerra è una necessità economica: capitalismo e pace sono incompatibili.
Trump non è più furbo, stupido o folle di chi l’ha preceduto. Solo mostra il vero volto del capitalismo: è esso il mostro anonimo che minaccia l’umanità! Non è Trump che ha il potere, bensì il complesso industriale e finanziario, in mano alla classe borghese, che difende i suoi interessi con quella macchina statale. Questo è vero per gli USA e per tutti gli Stati del mondo: tutti sono regimi borghesi contro la classe lavoratrice. E lo sono a prescindere dalla ideologia e dalla forma di governo con cui lo mascherano: da quella “democratica”, ai falsi socialismi come in Cina o in Venezuela, alla teocrazia degli ayatollah in Iran, allo “Stato ebraico” in Israele.
La stessa borghesia non può “decidere” nulla perché la sua politica le è imposta dalla crisi economica di sovrapproduzione del capitalismo mondiale. Tutti i capitalismi nazionali e i settori industriali sono aggrediti e piegati da una pluridecennale sovracapacità produttiva: Europa, USA, Cina e tutti i minori devono inondare il mondo di merci che non riescono a vendere entro i confini nazionali, con ciò venendo a scontrarsi con i concorrenti.
Gli Stati Uniti, in quanto maggiore capitalismo mondiale, sono i più fragili di fronte alla crisi economica perché fanno sempre più fatica a mantenere il loro dominio sul mondo. Oggi devono ridurre le spese e ne presentano il conto agli “alleati”. Revocano gli “aiuti umanitari”, già utili strumenti di corruzione internazionale. Sono costretti ad alleggerire l’apparato statale di tutto ciò che è “superfluo” (scuola, sanità, assistenza sociale), riducendolo alla sua essenza di macchina per opprimere la classe operaia.
La politica che oggi si afferma negli Stati Uniti non è “isolazionismo” che, pur nell’interesse di quel capitalismo nazionale, porterà la pace nel mondo. È invece un diverso dislocamento delle forze USA, che vanno a concentrarsi nell’Indo-Pacifico, teatro di preminente interesse strategico, a discapito dell’Atlantico e dell’Europa. Serve a preparare la guerra contro l’emergente imperialismo cinese per una nuova spartizione dei mercati mondiali.
L’imposizione di dazi sulle importazioni – che nuoce in parte anche al capitalismo USA, ma nuoce di più ai concorrenti – è una politica disperata, una guerra economico-commerciale che prepara la guerra con le armi. La storia si ripete: il protezionismo di tutti gli Stati precedette la Seconda Guerra Mondiale. La nuova “età dell’oro” promessa da Trump sarà di lacrime e sangue per la classe lavoratrice americana, sacrificata per salvare i profitti della borghesia e il suo privilegio sociale, con la preparazione della guerra.
Ma non saranno i regimi borghesi concorrenti degli USA a salvare la classe lavoratrice mondiale dalla Terza Guerra imperialista! Un pacifico mondo multi-polare nel capitalismo è solo un’altra menzogna.
Spinta dalla crisi, riuscendo sempre meno a vendere altre merci, la borghesia di tutti i paesi si getta nell’industria bellica. La marcia verso il riarmo accelera. L’Unione Europea, dopo che per decenni ha imposto ai lavoratori di stringere la cinghia con la scusa di ridurre il debito, si dice pronta a indebitarsi fino al collo per produrre armi! Al di sopra delle contrapposizioni falsamente ideologiche, tutti gli Stati borghesi sono accomunati dall’interesse a investire cifre enormi nella produzione bellica per tamponare la crisi e preparare la guerra! Per questa ragione tutti hanno il comune interesse a portare i lavoratori alla guerra, convincerli che il nemico non sia il capitalismo, a cominciare dal proprio regime borghese, ma una alleanza “nemica”. A questo scopo è fondamentale ubriacare i lavoratori con l’ideologia nazionalista.
L’Unione Europea non è solo reazionaria, è anche impossibile – come affermò Lenin fin dal 1915 – perché gli Stati borghesi non rinunceranno mai ai loro interessi nazionali. Non esiste un imperialismo europeo, bensì una alleanza fra alcuni imperialismi d’Europa: del piano di riarmo per 800 miliardi in 4 anni, 650 miliardi dovrebbero essere destinati agli eserciti nazionali. Il nazionalismo – che oggi chiamano “sovranismo” – è solo l’altra faccia della menzogna ideologica dell’Unione Europea. L’Europa dei "sovranismi", “multipolare”, sarà risucchiata nel vortice del Terzo conflitto imperialista mondiale, come già accadde nei precedenti due del Novecento, per la pressione delle stesse determinazioni economiche e politiche che spingono oggi l’Unione Europea ad armarsi. I partiti borghesi anti-UE che oggi si ammantano di pacifismo, saranno domani guerrafondai come lo sono oggi i partiti pro-UE.
La sola forza che può impedire la guerra è quella della classe lavoratrice unita al di sopra dei confini nazionali, che rifiuti di versare il suo sangue in difesa della patria. Per i lavoratori è indifferente essere sfruttati e oppressi dalla propria borghesia nazionale o di un altro paese. Combatterà la propria guerra sociale, con potenti scioperi, fino alla rivoluzione, contro ogni borghesia sia al potere, nazionale o straniera, invece che morire a milioni nella guerra fra Stati capitalisti, nei campi di battaglia e sotto i bombardamenti!
L’autentico Partito Comunista augura e promuove la disfatta militare del proprio Stato borghese nella guerra imperialista perché essa pone fine al massacro della guerra, perché il disfattismo proletario nel fronte interno, con scioperi nelle fabbriche e fra i soldati, contagia e unisce i lavoratori in divisa al di sopra dei fronti, perché la sconfitta militare indebolisce la borghesia e favorisce la rivoluzione!
Per impedire o fermare la guerra imperialista la classe lavoratrice deve essere organizzata. Ciò significa inquadrata in forti sindacati di classe che unifichino le lotte dei lavoratori in scioperi sempre più estesi e potenti, finalizzati a difendere il salario e a ridurre ritmi e durata della giornata lavorativa. Queste elementari rivendicazioni del proletariato sono di per sé anti-patriottiche, perché danneggiano il capitalismo nazionale e la sua competitività.
Difendere con la lotta sindacale i propri interessi economici oggi significa porsi già sulla strada che porterà domani a difendere i propri interessi politici, opponendosi al militarismo e alla guerra dei borghesi!
Oggi il maggiore sindacato italiano, la Cgil, partecipa a una manifestazione che promuove il riarmo. Ciò è avvenuto nonostante al suo interno si sia sviluppata una forte opposizione, che la dirigenza nazionale ha bellamente ignorato. Landini deve ubbidire a ordini superiori! Questa è la conferma che la Cgil è definitivamente un sindacato del regime capitalista e che il sindacato di classe, in Italia, può rinascere solo fuori e contro Cgil, Cisl e Uil!
Il sindacalismo conflittuale – sindacati di base e aree conflittuali in Cgil – per ricostruire la forza del movimento sindacale di classe, per liberare i lavoratori dal controllo dei sindacati di regime, deve agire unitariamente nelle lotte in tutte le categorie, per rafforzarle e unificarle, e nel promuovere la lotta contro la guerra:
- Per la solidarietà fra i lavoratori di tutti i paesi !
- Contro ogni patriottismo !
- Guerra di classe contro guerra imperialista !
I capitalisti statunitensi hanno messo su il burattino di Trump costretti a una manovra difensiva, con minacce a destra e manca di dazi sulle importazioni, nel tentativo di salvarsi dall’inesorabile crisi di sovrapproduzione, che è mondiale e che non darà scampo a nessuno e che avvicina il conflitto armato generale.
Le maggiori borghesie imperialiste si stanno spostando negli schieramenti mondiali: gli USA sembrano tornare all’alleanza con la Russia, scaricato il burattino Zelensky nell’ultima sceneggiata alla Casa Bianca, di ammonimento per tutti.
Nello scacchiere mondiale le borghesie europee, disunite e più deboli militarmente – ma non meno infami – vilmente subiscono questa offensiva.
Già nel 2022 era iniziata la guerra commerciale all’Europa, tagliata dal gas
russo a buon mercato e spinta ad acquistarlo, molto più costoso, oltre che a
rifornirsi di armamenti, dagli Stati Uniti.
Ai primi di marzo la Von der Leyen annuncia trionfante 800 miliardi di
investimenti per il riarmo degli Stati europei, che saranno pagati dai proletari
con tagli ai servizi sociali: sanità, previdenza, istruzione, ecc., e con
maggiori tasse.
Ogni equilibrio si rivela infranto. La Nato, imposta dopo il secondo macello mondiale allo scopo dichiarato di difendere l’Europa dall’URSS, si rivela oggi come una forza di stabile occupazione americana dell’Europa.
Il nemico conclamato del maggior imperialismo USA è la Cina, la quale trova un alleato nella Russia. Riporta Alle sfuriate trumpiane un portavoce del ministero degli Esteri cinese ha dichiarato: «Se gli Stati Uniti vogliono la guerra, sia una guerra tariffaria, una guerra commerciale o qualsiasi altro tipo di guerra, siamo pronti a combatterla fino alla fine».
In Medio Oriente si susseguono guerre e massacri. Si minaccia di eliminare intere popolazioni, palestinesi, curdi, israeliani. Un girone d’Inferno: lo Stato di Israele vorrebbe che la Russia mantenesse le sue basi in Siria a scopo di contrastare la crescente influenza della Turchia.
Nel Congo e in Sudan si consumano infinite guerre per il controllo delle ricche risorse del sottosuolo e per uccidere proletari che tentano di alzare la testa.
Gli imperialismi mandano a scannarsi al fronte i proletari, imbevuti di ideologie e false promesse, aizzati l’uno contro l’altro da una propaganda miserabile di odio fra i popoli e di drogato amore patrio, schiacciati da tutte le sovrastrutture della classe dominante: polizie, eserciti, chiese, fonti di disinformazione e distrazione sociale.
La sola, oggi debole, voce a coerentmente contrastare tutto ciò è quella del
Partito che, forte della sua tradizione oramai di oltre un secolo, ricorda la
parola d’ordine da sempre sulla sua bandiera: Proletari di tutto il mondo
unitevi! La nostra salvezza sta solo nell’abbattimento di questo infame modo di
produzione, nella instaurazione della dittatura del proletariato, nella
eliminazione delle classi e del lavoro salariato, nel comunismo!
Una donna su tre nel mondo ha subito violenza fisica o sessuale. Le aggressioni provengono sovente da coloro che affermano di amarle, in una estrema rivendicazione di un diritto patriarcale, tanto che molte donne vivono nella paura di essere uccise fra le mura di casa. Le donne non possono essere libere e protette finché non avranno risolto le loro necessità abitative e di sostentamento.
Guerre, carestie e disoccupazione accrescono la sofferenza delle donne. In Afghanistan, Ucraina, Palestina, Siria, Haiti, Sudan e molti altri Paesi la violenza fa parte della vita quotidiana della classe operaia, e maggiormente delle donne. Con il divampare della guerra per la generale spartizione fra capitalismi crescerà anche ogni brutalità. La storia delle guerre mondiali – conseguenze inevitabili delle crisi del capitalismo, come nel periodo in cui oggi ci troviamo – è anche una storia di violenze sulle donne, portato naturale delle guerre.
Con l’aggravarsi della crisi del capitalismo, le donne, che in tempo di pace sono lasciate sole e senza solidarietà, chiuse nella difesa delle proprie condizioni individuali, in guerra sono sospinte le une nemiche delle altre, sotto le fasulle bandiere nazionali, dietro cui ogni borghesia nasconde le sue finalità di mero profitto capitalistico.
Oggi, ancora perdurando la pace fra i grandi Stati borghesi, il 69% degli uomini ha un lavoro contro il 46% delle donne. Le donne guadagnano il 78% di quanto guadagnano gli uomini: la parità di retribuzione a parità di lavoro è ancora lontana. È una antica disuguaglianza che permarrà per sempre perché questa è la sorte che il capitalismo impone alle donne.
Anche i grandi e moderni capitalismi – che considerano lecita ogni tipo di atrocità per realizzare le loro ambizioni imperialiste – lottano ferocemente per soddisfare il bisogno di manodopera a basso costo al fine di mantenere la loro fetta del mercato mondiale e a questo scopo ricorrono all’oppressione della donna lavoratrice.
Cresce il numero delle “organizzazioni non governative” che dovrebbero difendere le donne ma che il più delle volte non organizzano la lotta e agiscono, quando va bene, su un piano di mera assistenza, mentre il femminismo a direzione opportunista o piccolo-borghese non solo contrappone i lavoratori maschi e le lavoratrici ma spesso esclude anche le immigrate e le trans.
La soluzione non arriverà né dalla politica né dalla carità borghesi! Solo la classe operaia può lottare anche per la difesa delle condizioni delle donne che lavorano! Organizzate nei sindacati autenticamente di classe, le donne aumenteranno la loro consapevolezza e la loro forza, oltre che aiutare i maschi della classe operaia a superare i loro pregiudizi ed abitudini.
Anche a causa della divisione sessuale e razziale dei lavoratori le organizzazioni sindacali di classe sono oggi così deboli: la rabbia dei lavoratori per le loro condizioni, che dovrebbe confluire in sempre più vasti scioperi, è deviata con la retorica nazionalista contro gli immigrati e la cruciale questione delle donne è svilita.
La forza della classe operaia deriva dal suo numero e dalla sua organizzazione, in ultima istanza dalla direzione politica del movimento sindacale che meglio adempie a tale scopo. Per questo la borghesia fa di tutto per mantenere divisa la nostra classe e a tale fine un suo strumento fondamentale sono i grandi sindacati collaborazionisti (in Italia Cgil Cisl e Uil) diretti da partiti fedeli all’economia capitalista e ai suoi regimi politici.
Il patriarcato sarà annientato solo nel comunismo. Ma la classe operaia non rimanda la lotta contro questa mostruosa sopravvivenza. Già oggi pone la questione, impegna i sindacati alla difesa della condizione delle lavoratrici e crea strutture permanenti nei sindacati a questo fine.
L’unione dei lavoratori, al di sopra delle divisioni di genere, nazionalità, religione e di tutti gli orientamenti sessuali, nei ranghi paritari della lotta, oltre ad aiutare gli uomini a dismettere le meschine pretese della mascolinità, darà alle donne le basi materiali e intellettuali per proteggersi. Con solidarietà, combatteremo l’unica guerra onorevole, la guerra di classe, nei nostri luoghi di lavoro, nelle strade, nelle case e, infine, nelle nostre mentalità.
Sotto la guida di un partito che si oppone a tutte le forme di oppressione, il
Partito Comunista Internazionale, la guerra di classe potrà riuscire a liberare
le condizioni materiali per eliminare il patriarcato che ancora avvelena tutta
la vita sociale. L’emancipazione delle donne coincide, si identifica ed è
condizione per l’emancipazione di tutta la classe operaia.
I proletari di Gaza sono scesi per le strade a migliaia in quelle che sono state le prime manifestazioni di massa dal 7 ottobre 2023. E non lo hanno fatto inneggiando alla guerra contro Israele, all’Asse della Resistenza, volti al martirio per una “Palestina libera dal Giordano al mare”, ma urlando “Hamas Barra Barra”, cioè “fuori Hamas”, e chiedendo la fine della guerra.
Le masse proletarie e diseredate di Gaza si sono sì messe in moto ma contro la guerra, voluta e cercata tanto da Hamas quanto dallo Stato borghese israeliano.
Le manifestazioni sono iniziate martedì scorso, 26 marzo, nel Nord della Striscia, a Beit Lahia, una delle cittadine più devastate dalla guerra, con alcune centinaia di partecipanti. Il giorno dopo si sono gonfiate di dimensione ed estese non solo a Jabalia – sempre a nord – ma anche nei quartieri Shejaiya e Zeitoun di Gaza City, rispettivamente a est e sudovest della città, e nel campo profughi di Nuseirat, nel centro della Striscia. Solo dopo tre giorni, da giovedì, sono diminuite di intensità.
Uno degli aspetti più significativi, oltre agli slogan contro Hamas e per far
cessare la guerra, è che in esse non sventolava nemmeno una bandiera palestinese,
solo alcune bandiere bianche.
Il proletariato di Gaza, che ha sfidato la feroce repressione per scendere in
strada, dimostra che il suo sostegno ad Hamas e alla guerra è solo propaganda.
Nel rapporto sulla guerra a Gaza e nel Medioriente alla riunione generale dello scorso gennaio, in questo numero pubblicato per esteso, avevamo scritto «ora che momentaneamente non piovono più le bombe israeliane non sarà facile per Hamas mantenere il controllo su 2 milioni e 300 mila persone, nelle condizioni in cui le ha ridotte la guerra».
Questa previsione è stata confermata: riavuta la pace dopo 15 mesi di massacri, alla ripresa dei bombardamenti migliaia di proletari hanno detto basta, e a morire sotto le bombe hanno preferito rischiare di morire sotto il piombo di Hamas.
Il funerale di un giovane, i cui familiari accusano essere stato torturato e
ucciso dai miliziani di Hamas in risposta alla sua partecipazione alle
manifestazioni dei giorni precedenti, è divenuto un piccolo corteo, e sarebbero
stati giustiziati altri 6 palestinesi con l’accusa di collaborazionismo.
Anche dall’altra parte del fronte del conflitto, in Israele, la fine della
tregua durata soli due mesi, ha ridato forza al movimento contro la guerra, e a
decine di migliaia si contano nuovamente i manifestanti contro il governo
Netanyahu.
Sono condivisibili le parole di un articolo del 27 marzo su “Haaretz”: «Queste proteste non sono solo coraggiose. Sono profondamente commoventi. Rappresentano le vere vittime di questa guerra: accanto agli ostaggi israeliani e alle vittime del massacro, questi sono i civili la cui sofferenza è rimasta inascoltata. Inoltre sfidano direttamente il governo estremista di Israele: qualsiasi attacco continuato ai civili che chiedono la pace metterà a nudo il fatto che non si tratta di autodifesa».
Ancora su “Haaretz” del 28 marzo: “Le Forze di Difesa Israeliane avvertono che si sta sviluppando una crisi nelle riserve a causa dei piani per intensificare i combattimenti nella Striscia (…) Decine di riservisti annunciano che non si presenteranno al servizio (…) faticano a presentarsi per ulteriori chiamate non solo per motivi politici, ma anche perché sono semplicemente stanchi».
Di fatto da una parte e dall’altra del fronte di guerra masse consistenti di popolazione si battono contro i rispettivi governi e contro la prosecuzione del conflitto.
Le manifestazioni a Gaza non possono che rafforzare quelle in Israele, perché
indeboliscono la propaganda bellicista israeliana che vuole tutti i palestinesi
sostenitori di Hamas. La rottura della cappa di piombo del regime borghese a
Gaza non può che favorire la crescita della consapevolezza che anche in Israele
c’è una forza sociale che si oppone alla politica imperialista israeliana.
I due movimenti sono di fatto alleati
Ciò che è necessario è il partito politico che ha nel suo programma questa necessità vitale della classe operaia, di opporsi alla guerra combattendo il proprio regime borghese, unita ai lavoratori degli altri paesi. Questo è il partito del comunismo internazionale, necessario per l’unione internazionale della classe lavoratrice.
In ogni paese dovrà prevalere nel movimento sindacale l’indirizzo di lotta intransigente in difesa delle condizioni di vita dei lavoratori, senza cioè farsi carico della difesa economica del capitalismo nazionale, e domani della sua difesa militare.
* * *
La propaganda delle borghesie che spalleggiano Hamas, non potendo negare le
manifestazioni, le ha sminuite nelle dimensioni e come provocate da partiti
avversi, collaborazionisti con Israele.
L’opportunismo in tutto il mondo ha avallato e veicolato questa propaganda
bellicista anti-proletaria – così come ha fatto lungo tutto il corso del
conflitto.
Un esempio delle argomentazioni dell’opportunismo a difesa di Hamas e a sostegno della prosecuzione della guerra imperialista, presentata come “rivoluzionaria”, è l’articolo pubblicato dal gruppo politico che dirige in Italia il sindacato di base SI Cobas, in cui si legge: «Nell’ultimo anno, Hamas ha reclutato circa 15.000 nuovi combattenti, ricostruendo parte della propria infrastruttura militare e amministrativa e mantenendo un controllo saldo sulla Striscia di Gaza. Questo livello di organizzazione e supporto non sarebbe possibile senza un significativo consenso da parte della popolazione locale». Sfugge evidentemente il fatto che nella Striscia di Gaza arruolarsi nell’apparato militare di Hamas è rimasta quasi l’unica possibilità di sfamare la propria famiglia.
Se le manifestazioni fossero state promosse dai partiti anti-Hamas, il fatto che in migliaia vi hanno partecipato significa che le rivendicazioni – fuori Hamas e fine della guerra – sono condivise dalla massa della popolazione. D’altronde non vi è ragione per la quale i partiti borghesi avversari di Hamas non dovrebbero mostrarsi promotori di tali manifestazioni.
In realtà tutti i partiti borghesi palestinesi hanno interesse a evitare che i proletari si mettano in movimento. Anche in previsione di una eliminazione di Hamas dal potere, si ritroverebbero masse proletarie in lotta per le proprie condizioni di vita.
Questo a scorno di tutti gli opportunisti che descrivono il conflitto fra Hamas
e Israele come una “guerra rivoluzionaria” delle masse palestinesi invece che
una guerra fra opposti fronti imperialisti – Israele, USA e imperialismi europei
contro Hamas, Iran, Qatar, Cina.
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Stiamo assistendo alla produzione e utilizzo di sistemi d’arma “intelligenti”, di droni che cercano e uccidono i civili.
Vediamo già traduttori, addetti all’assistenza tecnica e ai call center rimasti
senza lavoro a causa dell’introduzione di programmi automatici capaci di
sostituire parte del loro lavoro.
Sono necessarie lotte molto più dure sul campo della battaglia di classe, di
lavoratori manuali e persino intellettuali, che si stanno risvegliando a questa
minaccia.
Il Partito deve essere aggiornato anche sul ruolo della tecnica più moderna
nella perpetuazione del regime borghese.
Intendiamoci con le parole
Già Marx ci insegnava che scienza e intelligenza si concretizzano nelle macchine,
depositarie effettive dell’ingegno e del lavoro delle generazioni passate, un
impersonale patrimonio sociale.
L’intelligenza (che significa “vedere dentro”) è sempre artificiale. Solo il
piccolo borghese, l’intellettuale, crede e rivendica la sua, indefinibile,
intelligenza individuale. Perché cerca di farne una merce e camparci. Ben venga
quindi la intelligenza artificiale a togliere al borghese anche questo suo vanto
illusorio di auto-sufficienza.
È una storia vecchia. Dall’invenzione della scrittura facciamo a meno dei racconti ai giovani di vecchi di particolare buona e ricca memoria. Da quando Pitagora attaccò al muro la sua Tavola non occorse più che ognuno ricordasse che sette per otto fa cinquantasei.
In un solleticamento mercantile all’individualismo li chiamarono Personal Computer: poi si scoprì che non connessi alla rete non servivano a nulla. L’intelligenza è nella rete.
Non esiste una intelligenza al di sopra delle classi. La intelligenza della
classe operaia è il partito comunista. Che è una compagine, disciplinata a un
fine, una dottrina e un’azione, che travalica gli individui, e che affascia
intorno allo stesso programma storico i comunisti di ieri e di oggi.
L’intelligenza rivoluzionaria sorge dal bisogno storico del comunismo ed è
custodita nelle pagine dei nostri testi.
Se un qualunque crivello automatico può aiutare il nostro odio e disprezzo per
questa società morente e la nostra passione per il comunismo a ritrovare più
velocemente nella nostra vasta biblioteca qualche prezioso scatto dialettico per
tener ben saldi i bastioni teorici del partito, ben venga! La vecchia talpa,
anche nel campo della elaborazione dei dati, scava sempre per la rivoluzione.
Anche i borghesi cercheranno le loro citazioni nei loro testi. Serve presto un
articolo di propaganda per la prossima guerra o per una campagna sciovinista o
razzista? lo chiederanno alla intelligenza artificiale. Ma le rivoluzioni non le
decide la propaganda. Altrimenti non ve ne sarebbero mai state nella storia,
avendo da sempre la classe al potere, con il monopolio della sua intelligenza di
classe, oggi anche artificiale, infiniti mezzi e ben più pervasivi di
indottrinamento e falsificazione.
Il vecchio capitalismo monopolistico
Il settore tecnologico, dove attualmente aziende come NVIDIA stanno realizzando
profitti record grazie al boom della cosiddetta intelligenza artificiale, è
stato a lungo dominato da aziende monopoliste. Ma quello che alcuni oggi
definiscono “tecno-feudalesimo” non è un fenomeno nuovo né pre-borghese.
Da tempo ormai giganteschi monopoli, in particolare statunitensi e cinesi, hanno
realizzato rendite spropositate imponendo i loro strumenti, sistemi operativi e
applicazioni, per l’esecuzione del lavoro intellettuale e dei calcoli in
generale. Monopoli simili si sono formati anche nella produzione dei
microprocessori.
Tali prodotti sono utilizzati dalle imprese come capitale fisso, o per il consumo personale, pagando una licenza per l’uso di un’applicazione o del canone per l’accesso a un server cloud e, domani, alla “intelligenza artificiale”.
Ancora un’alta concentrazione si è avuta nella raccolta della pubblicità e nella
vendita per corrispondenza, con conseguenze devastanti sulla piccola borghesia
mercantile.
Grazie al loro controllo monopolistico dei mercati, grandi società come Google,
Amazon, ecc. sono in grado di fissare i prezzi dei loro servizi ben oltre il
costo di produzione. Questi grandi conglomerati possono comprare qualsiasi
concorrente grazie alle loro enormi disponibilità finanziarie. La forza di
questo capitale monopolistico consente loro persino di operare per un certo
tempo senza profitto, al fine di sbaragliare i concorrenti. Prima della fine del
secolo scorso tutta la produzione hardware e software nei paesi europei è stata
eliminata.
Si tratta quindi solo di rendita derivante da un monopolio. Monopoli che si sono costituiti, e si mantengono contro i concorrenti, tramite la energica protezione di grandi Stati imperiali. Nel prezzo dei loro prodotti software la maggior parte è rendita, quasi niente nuovo plusvalore.
Questa rendita è sottratta al plusvalore prodotto in tutti gli altri paesi del mondo. Un enorme flusso di ricchezza che, per esempio, dall’Europa arriva negli Stati Uniti sotto la voce “servizi”. Anche per “risolvere” questa contesa i capitalisti stanno preparando la guerra mondiale.
Per altro ogni monopolio non è assoluto e illimitato. Intorno alle nuove scoperte scientifiche e alle nuove invenzioni si combatte una guerra economica fra i monopoli, vecchi e nuovi, all’interno delle nazioni e fra gli opposti blocchi. Ad esempio l’annuncio del nuovo applicativo cinese DeepSeek ha fatto crollare i mercati azionari statunitensi appena gli investitori si sono accorti della fragilità del vantaggio che pensavano gli Usa mantenessero sui concorrenti imperiali di Cina.
Taiwan è diventata strategica per i semiconduttori, ma la Cina sta aumentando le
sue capacità nel settore, per ironia della sorte stimolata dall’embargo imposto
durante l’amministrazione Biden.
Nel capitalismo nemmeno il progresso tecnico porta la pace. Anzi, la
ramificazione globale dei monopoli tecnologici serve come strumento della
dominazione imperialista, e viceversa. I servizi informatici sono parte
integrante delle infrastrutture nazionali e militari, mentre l’intelligenza
artificiale è sempre più utilizzata in guerra. Queste tecnologie estendono
l’influenza dei principali blocchi imperialisti nella contesa fra le produzioni
di maggiore interesse strategico: fonti e generazione di energia, semiconduttori,
nonché il personale di tecnici e scienziati allenati a costruire e mantenere
questi sistemi.
La IA salverà il capitalismo ?
I capitalisti confidano nella intelligenza artificiale per fermare, se non
invertire, il declino del tasso del profitto, in particolare nei vecchi
industrialismi nazionali. Sognano di una nuova “rivoluzione informatica” e
parlano di investire nel settore somme colossali, 500 miliardi di dollari solo
gli Stati Uniti.
Ma il declino, o la ripresa, del capitalismo non è fatto strettamente tecnico né
di un particolare settore della produzione, piuttosto economico e storico
generale.
L’euforia produttiva dei decenni successivi alla Seconda Guerra mondiale e fino alla crisi del 1975 non fu assicurata dal diffondersi dell’uso e della vendita delle auto, per esempio; al contrario la ripresa si basò sulle ricostruzioni resesi necessarie dopo le distruzioni della guerra, che consentirono, dopo un decennio difficile, anche l’espandersi dei consumi interni. Da allora la crisi si è trascinata e non è precipitata non per la “rivoluzione informatica” ma per l’aprirsi dei mercati asiatici. Oggi anche questi sono saturi.
La vera produzione è quella materiale. La esigibilità del prezzo di un bene, di una merce immateriale come quella informatica, che non ha un proprio valore di mercato, inteso come prezzo medio per la sua riproduzione sociale, dipende solo dalla forza che protegge il suo monopolio. Questa è soggetta alle alterne vicende dei rapporti fra gli Stati e fra gruppi di Stati, peso diplomatico e militare.
Com’è che Pitagora, e i suoi eredi, non si fanno pagare da tutti coloro che
alzano gli occhi alla sua Tavola?
È possibile quindi che tutta questa pubblicità che si sta facendo sulla
intelligenza artificiale si rivelerà infine solo una bolla e a un certo punto
finirà per scoppiare, come fu per le Dot-com.
Ricorda gli enormi investimenti nel dopoguerra nella “corsa allo spazio”, che
anch’essa aveva risvolti militari: non se ne ricavò nemmeno un dollaro. Oggi i
miliardari vorrebbero andare a far del turismo su Marte: fosse vero!
Il lavoro morto
L’intelligenza artificiale, come tutte le forme di automazione impiegate dal capitale da sempre, è “lavoro morto” incarnato. L’uomo ha lavorato per creare queste macchine, successivamente queste stesse macchine, con l’assistenza di nuovi lavoratori o a volte quasi senza alcuna assistenza, se non per manutenzioni, svolgono i lavori che erano stati di artigiani o di operai più specializzati.
Questa automazione tecnica, benché inizialmente costosa da produrre e mettere a
punto, ha grandi e rivoluzionari effetti: aumenta la produttività del lavoro;
richiedendo produzioni a scala più vasta contribuisce alle crisi di
sovrapproduzione; la manodopera morta superando in valore la manodopera viva
induce la diminuzione del tasso di profitto. È una dinamica che culmina nel
blocco dell’accumulazione, che il capitale tenta di risolvere aumentando il
tasso di sfruttamento e, infine, attraverso le guerre imperialiste.
Il capitalismo non entra in crisi perché difetta di “intelligenza”; è la massima
intelligenza capitalistica, quella che meglio informa il suo sviluppo – in
produttività, produzioni, traffici, ecc. – che nello stesso tempo più
velocemente porta all’accumulo delle contraddizioni che lo condannano ad
esplodere. Se la intelligenza artificiale potrà fare meglio dei capitalisti per
il capitalismo ciò verrà immancabilmente a più approssimare la sua rovina e,
infine, il comunismo.
Come funziona
Da tempo i programmi per computer sono utilizzati per svolgere ogni tipo di funzione, comprese quelle complesse che prima erano esclusive della mente umana, in modo molto più veloce di questa: le calcolatrici, i programmi che elaborano grandi masse di numeri e fino a giocare a scacchi!
Ma per intelligenza artificiale in particolare si intendono soprattutto i
modelli linguistici di grandi dimensioni (LLM) attualmente in uso, che sono in
grado di elaborare il linguaggio umano in modo molto simile a come funziona il
completamento automatico delle frasi, trovando la serie di parole più probabili
che ne segue una data. Per arrivare allo stadio del LLM ci sono voluti decenni
di studio e di esperimenti.
Un progresso importante è stata la invenzione di procedure di “trasformazione”
le quali, invece di indovinare una alla volta la parola successiva da proporre,
individuano le parti importanti della frase, che sono tradotte come un tutto.
Lo strumento matematico sono le “reti neuronali”, che si basano sul calcolo della frequenza di associazione fra le parole: a “mela”-”albero” gli diamo 90, a “mela”-”Newton” 5, per esempio. Ovviamente le combinazioni sono un numero enorme, per cui occorrono elaboratori molto potenti.
Sono evidenti le possibilità di errori: “Newton mangiò la mela” potrebbe mettere la “intelligenza” in crisi.
C’è il problema poi molto maggiore dell’affidabilità dei testi da cui si copia. Ciò che appare statisticamente nei Big Data, nei vasti archivi – generati dagli utilizzatori, influenzati dalle mode e dall’ideologia dominante – non è necessariamente vero. Per quanto ci riguarda, la verità, e la Rivoluzione, sta, al contrario, nel dubbio, nel paradosso, nella negazione dell’ovvio.
Inoltre, sempre più testi negli archivi online non saranno prodotti da studiosi
ma da incompetenti, se non dalla stessa intelligenza artificiale, che può “cortocircuitare”
i modelli facendoli collassare su se stessi producendo risultati davvero assurdi.
La concorrenza delle macchine
Il futuro prevede probabilmente l’utilizzo dell’analisi del linguaggio offrendo sistemi più affidabili per compiti attualmente svolti da uomini, che sarebbero licenziati. Questo tipo di automazione porterà comunque a una riduzione delle paghe, anche per gli addetti ad attività intellettuali. È già una realtà che il riconoscimento di diritti d’autore per il proprio lavoro è negato. Il sindacato degli sceneggiatori di Hollywood nel 2023 ha lottato per tutelarsi e ha ottenuto alcune protezioni, ma gran parte dei lavoratori colpiti da queste applicazioni non sono iscritti a un sindacato. E molti sindacati nemmeno cercano tutele nei loro contratti, avendo perduto ogni carattere di classe.
Storicamente i lavoratori hanno resistito alla spinta dell’automazione a
dequalificare e a svalutare il lavoro. I luddisti sono stati una forma
embrionale di questa resistenza. Oggi diciamo: applichi pure il capitale le sue
innovazioni, ma i lavoratori lotteranno comunque per mantenere le loro
condizioni di vita.
Rovesciare il mondo
Oggi l’intelligenza artificiale già sostituisce i lavori più ripetitivi ed è di ausilio per alcune attività intellettuali, ma le sue applicazioni sono limitate dal modo di produzione capitalistico, che impedisce a ogni tecnica di essere utilizzata in modo razionale e a beneficio dell’intera umanità.
La crescente incapacità del capitalismo a mantenere i suoi schiavi sarà di spinta alla classe operaia ad organizzarsi contro i suoi effetti disumanizzanti e a rovesciarlo in tutto il mondo. Questo si renderà possibile quando risorgeranno la solidarietà dei lavoratori e scioperi coordinati contro i padroni e i loro burattini, le armi della classe più efficaci contro l’implacabile depravazione del capitalismo. Potremo allora, rintracciata la direzione del partito comunista, andare oltre guidando la lotta in questa guerra di classe per il comunismo.
È atteso un futuro in cui il capitalismo non esisterà più, con la classe operaia
vittoriosa in tutto il mondo. Saremo allora in grado di impiegare anche queste
tecniche, e le nuove straordinarie che l’umanità affratellata saprà creare, per
il bene e lo sviluppo della specie umana.
In una gelida mattina di dicembre, fuori da una conferenza di investitori a Manhattan, la routine dell’America aziendale è stata infranta da un colpo di pistola: Brian Thompson, amministratore delegato di UnitedHealthcare, appena uscito ha incontrato il suo assassino.
Ne è seguita un’ondata di approvazione da parte dell’opinione pubblica, che ha rivelato un odio diffuso nei confronti di un sistema che ha fatto della sofferenza umana uno strumento di accumulazione capitalistica. Negli Stati Uniti, dove le spese dovute a malattie sono la principale causa di rovina e la mancata assicurazione miete decine di migliaia di vittime ogni anno, l’atto è stato visto da molti non come una insensata violenza, ma come un’espressione dello sdegno di una società che privilegia il profitto sulla vita umana.
UnitedHealthcare, la quarta maggiore azienda degli Stati Uniti, supervisiona l’assistenza sanitaria di milioni di americani, dalla nascita alla morte, traendone profitto in ogni età.
Utilizza sistemi informatici progettati esplicitamente per negare le richieste
di rimborso, scavalcando il giudizio dei medici e lasciando i pazienti senza
cure critiche. Uno di questi programmi, con un tasso di errore del 90%, è stato
utilizzato per rifiutare trattamenti a pazienti anziani, il che spesso ha
portato a morti premature. Il sistema capitalista piega i progressi tecnici al
profitto, trasformando ogni innovazione in strumento di angherie invece che di
liberazione. La stessa vita è un freddo calcolo di profitti e perdite.
L’assassinio è emerso da una società intrisa di violenza. In America, dove le
sparatorie di massa sono una routine, la riprovazione della classe dominante per
questo singolo atto rivela la sua profonda ipocrisia. Gli stessi borghesi che
traggono profitto da un sistema sanitario progettato per negare le cure e
generare sofferenza, ora si ritraggono inorriditi quando la violenza è diretta
contro di loro.
La borghesia e i suoi propagandisti, prima hanno moralizzato che “l’omicidio è inaccettabile in qualsiasi circostanza”, ora chiedono la pena di morte per il presunto assassino. Questo perché per la classe dominante la violenza verso l’alto è una minaccia alla civiltà, mentre la violenza sistemica contro i lavoratori è considerata normale e necessaria all’ordine economico. La borghesia reagisce con l’indignazione morale in difesa della proprietà e del privilegio, e con indifferenza per la sofferenza della classe sottomessa.
Dopo la Seconda Guerra mondiale, le potenze d’Europa hanno agito con decisione
per reprimere gli antagonismi di classe e prevenire gli sconvolgimenti
rivoluzionari. La concessione di uno “Stato sociale”, tra cui l’assistenza
sanitaria universale e i programmi assistenziali e previdenziali, non fu un atto
di altruismo, ma una strategia per pacificare il proletariato e cercare di
stabilizzare il disordine delle società. Queste misure tendevano a far accettare
alla classe operaia la sua condizione nel capitalismo, mentre i sindacati
gradualmente abbandonavano la loro carica rivoluzionaria per collaborare con lo
Stato. Un tempo strumenti di lotta di classe, le organizzazioni dei lavoratori
vennero sempre più addomesticate e riproposte come strumenti di pace sociale,
con le richieste economiche contenute entro i confini delle possibilità del
capitale. In questo modo, le lotte proletarie sono state volte a riforme che
garantivano e perpetuavano l’ordine esistente.
La sanità negli Stati Uniti
Gli Stati Uniti hanno seguito un percorso diverso. A differenza dell’Europa, l’America, in quanto centro della principale potenza imperialista globale, in cui si concentrava oltre la metà della forza produttiva mondiale, poteva contare sulla sua ricchezza per creare una numerosa aristocrazia del lavoro, a fianco della piccola-borghesia, con posti di lavoro ben retribuiti. Per questo motivo negli Stati Uniti non fu mai necessario istituire una copertura medica in stile europeo e russo, ma vennero utilizzati altri metodi per garantire la pace del lavoro, legando i lavoratori al posto di lavoro per poter avere qualsiasi tipo di copertura medica, aggirando il sistema di tassazione che sarebbe stato altrimenti necessario per finanziare il sistema sanitario.
Anche gli Stati Uniti hanno avuto il loro modello di welfare, con il “New Deal” di Roosevelt e i programmi di “Stato sociale” e di edilizia popolare di Johnson, che avrebbero dovuto garantire la pace del lavoro: Ma la classe capitalista americana ha escluso programmi sanitari universali. “Medicare” era una proposta di riforma che fu pubblicizzata per creare un piano sanitario gestito dal governo che avrebbe garantito a tutti visite mediche, ospedali, medicine, cure dentistiche e altro ancora, senza spesa per l’assistito, pagate attraverso la fiscalità generale, non attraverso le assicurazioni private. Ma qualsiasi speranza che la sinistra del capitale possa realizzare una riforma di questo tipo è da escludere in un periodo di calo dei tassi di profitto.
Un altro limitato programma di welfare sanitario è stato lo “Affordable Care
Act” (ACA), noto anche come “Obamacare”. Dopo l’approvazione di questa legge il
numero di non assicurati è diminuito, ma a chi vi ha aderito è stato ancora
negato il 18% delle richieste di rimborsi, e per alcune patologie fino all’80%.
Vano ricorso al terrorismo
Il clamore che circonda il sistema giudiziario capitalista potrebbe trasformare l’assassino di Brian Thompson in un esempio per qualcuno.
Dobbiamo essere chiari che tali atti individualisti, disperati e tragici, sono poco più che un’altra espressione della sofferenza della classe operaia dovuta alla crisi sociale prevalente, ma di per sé fanno poco per cambiare l’equilibrio del potere. Per contro distraggono le masse dall’azione collettiva e concertata necessaria per abbattere il nostro vero nemico: il Capitale.
Lenin ha scritto su questo argomento nel suo saggio del 1902 “Avventurismo rivoluzionario”, così come Trotzki nel 1920 in “Terrorismo e comunismo”. Lenin criticò l’idea dei socialisti-rivoluzionari del “terrorismo esemplare”, che si basa su atti isolati di violenza da parte di singoli individui per ispirare la lotta di massa. Tali atti creano solo sensazioni di breve durata, portando all’apatia e alla fiducia passiva in futuri “eroi”. Quello dei Socialisti Rivoluzionari era un partito piccolo-borghese, mal organizzato e teoricamente debole, che, tra le altre cose, promuoveva gli atti terroristici esemplari, che considerava un “grande lavoro”, e li privilegiava rispetto al lavoro sindacale e all’organizzazione di manifestazioni di massa, che considerava “piccolo lavoro”. Lenin indicava correttamente che si trattava di una forma di avventurismo politico nato dalla mancanza di saldi principi.
Trotzki, a sua volta, vedeva il terrorismo individualista come vano e storicamente privo di scopo mentre il Terrore Rosso era il potente strumento sistematico del proletariato vittorioso in ascesa per consolidare il potere, eliminare i rimanenti elementi borghesi di resistenza, accelerando la loro scomparsa sociale in modo ben più efficace rispetto agli atti di violenza casuale e senza scopo.
Gli amministratori delegati sono facili da sostituire, ma il sistema che li ha generati non può essere sostituito da singoli atti di terrore. Solo un’autentica rivolta proletaria che sfoci in una guerra rivoluzionaria contro la classe capitalista dominante, e per di più su scala internazionale, coinvolgendo più nazioni capitaliste tra le più grandi e sviluppate, sarà in grado di porre fine a questo modo di produzione e a questo sistema maledetto dalla storia. Singoli atti di terrore di questo tipo possono catturare l’immaginazione dei proletari per qualche giorno o settimana, ma non distruggeranno mai il capitalismo, quindi sprecare energie proletarie per promuovere questo tipo di propaganda è qualcosa che non faremo mai, e dobbiamo chiarire esattamente dove e perché è fallace.
La rabbia che la classe operaia, e anche i ceti medi, provano per le
inadeguatezze del sistema sanitario non va ignorata, ma dobbiamo anche
distinguere le motivazioni di ciascuno di questi strati sociali. La classe
operaia si trova nella posizione di dover lottare sul posto di lavoro anche solo
per ottenere prestazioni retribuite o per ottenere uno stipendio sufficiente ad
acquistare questa assicurazione alle tariffe di mercato. Le aristocrazie del
lavoro e i piccoli imprenditori si trovano a pagare prezzi sempre più alti per
un’assicurazione che copre sempre meno e sono probabilmente quelli che finiranno
per pagare le tasse, se mai dovesse passare una versione “per tutti”
dell’assistenza sanitaria. I lavoratori si trovano a lottare sempre più
duramente per ottenere anche solo il minimo, i piccolo borghesi si trovano
proletarizzati e con una copertura sanitaria sempre peggiore.
Ciò che minaccia il capitale è una inquadrata classe operaia
I lavoratori vittime di queste sopraffazioni possono reagire solo organizzandosi sul posto di lavoro nei sindacati esistenti, formando al loro interno dei gruppi militanti che chiedano forti aumenti salariali. In un paese come gli Stati Uniti, con i prezzi esorbitanti dei farmaci e delle cure, l’unico modo per ottenere un’assistenza sanitaria di qualità è avere abbastanza soldi per coprire i costi dell’assicurazione. Chiedere aumenti salariali implica l’accesso all’assistenza sanitaria. Per questo occorre intensificare la lotta di classe e preparare il terreno per un’organizzazione sempre più forte.
Una più ampia strategia di sindacalismo di classe è la vibrante alternativa
militante agli atti di terrore solitario di presunto stampo anticapitalista, ed
è una strategia che in futuro darà frutti molto più consistenti, oltre che
allenare la classe operaia alla lotta e a ricongiungersi con il suo partito
comunista.
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Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale |
In prima pagina è pubblicato il volantino che i nostri compagni hanno distribuito alle manifestazioni di sabato 15 marzo, a Roma, in Piazza Barberini, e a Genova, in Piazza de Ferrari. Precisiamo i luoghi di queste manifestazioni perché si sono svolte in contrapposizione ad altre, in altri punti delle due città – e di altre in Italia – lo stesso giorno.
La principale, come noto, si è avuta a Roma in Piazza del Popolo, cui ha aderito tutto lo schieramento della sinistra borghese, a sostegno dell’Unione Europea e, in modo esplicito o malamente camuffato, del piano di riarmo lanciato pochi giorni prima dai vertici politici dell’UE.
Per quanto il cosiddetto piano di riarmo europeo sia ancora una proclamazione d’intenti e pagherà dazio a vari ostacoli che incontrerà sulla strada della sua realizzazione, quali la contrapposizione fra i capitalismi nazionali europei e mondiali e, ciò che a noi interessa, l’opposizione della classe lavoratrice, esso è nondimeno un fatto estremamente significativo, perché indica la rottura degli indugi da parte delle borghesie d’Europa in direzione dell’aperta dismissione della finzione pacifista, con l’avvio di una politica che riconosce apertamente la possibilità del dispiegarsi della guerra e che col tempo diverrà sempre più preparazione ad essa.
A noi interessa la condotta delle organizzazioni dei lavoratori riguardo alle
manifestazioni di sabato 15 marzo, in quanto solo la classe operaia potrà
impedire la guerra imperialista, o fermarla qualora dovesse iniziare, come già
accadde nel 1917 in Russia e alla fine dell’anno successivo con il crollo del
fronte interno in Germania, a causa degli scioperi e dell’ammutinamento della
flotta.
La Cgil
Sintomo chiaro dell’importanza storica dell’annunciato piano di riarmo europeo è quanto avvenuto nel maggior sindacato di regime italiano, la Cgil. La dirigenza, infatti, dopo aver prima ventilato l’adesione alla manifestazione di Piazza del Popolo e poi tergiversato per diversi giorni, si è infine risolta a confermarla, con una decisione presa in una riunione del 7 marzo e una comunicazione pubblica del 9.
Questa condotta ha provocato una vasta opposizione interna, una vivacità quale non si assisteva da anni entro la Cgil, nemmeno durante i congressi. A opporsi non sono state solo le due piccole aree di minoranza – “Le radici del sindacato” e “Le giornate di marzo” – ma anche l’area “Lavoro e società”, schierata con la maggioranza, diverse Rsu di fabbrica, la Filt di Pisa e, soprattutto, la segreteria nazionale della Fiom Cgil, che con una nota interna si è dissociata dalla decisione della dirigenza confederale di aderire alla manifestazione pro-riarmo, affermando che non avrebbe contribuito a organizzare la partecipazione.
A Genova, l’Assemblea generale della Fiom provinciale ha approvato all’unanimità un Odg in cui si afferma: «riteniamo inaccettabile la partecipazione della Cgil alla manifestazione del 15 marzo che oggettivamente appoggia il rafforzamento dell’Europa potenza (…) Per noi occorre ribadire ancora più di ieri le parole d’ordine scritte sui nostri striscioni quando scioperammo a 24 ore dallo scoppio della guerra in Ucraina: “Per l’unità di tutti i lavoratori, contro tutte le guerre dell’imperialismo”».
Questa opposizione interna ha dato adito a due opposte letture circa la situazione del maggior sindacato di regime d’Italia. Una è stata che dimostrerebbe come sia possibile e necessario militare dentro la Cgil per cambiarne la natura di regime in quella di sindacato di classe.
Il nostro partito ne dà una lettura opposta: il fatto che, nonostante una opposizione interna di tale portata, la dirigenza della Cgil abbia voluto mantenere l’adesione alla manifestazione di Piazza del Popolo, conferma che essa deve obbedire agli ordini superiori della borghesia, anche al costo di nuocere all’organizzazione sindacale stessa approfondendone le divisioni. Con ciò che questo sindacato non è più conquistabile a una direzione di classe, è irreversibilmente di regime. Perciò in Italia il sindacato di classe non potrà che rinascere fuori e contro i sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil, Ugl).
Supporta questa nostra lettura dei fatti relativi a questo svolto del movimento sindacale in Italia il modo in cui tale decisione è stata presa. Come scritto l’11 marzo su “Progetto Lavoro”, il periodico dell’area alternativa in Cgil “Le radici del sindacato”, ciò è avvenuto in una «riunione di venerdì 7, in cui i segretari generali delle categorie e delle regioni, insieme alla segreteria nazionale, hanno assunto questa decisione. Un ambito informale e statutariamente inesistente».
La critica forse più interessante provenuta dall’interno della Cgil è che la dirigenza dell’organizzazione “sociale” più grande d’Italia, con 5 milioni di iscritti, abbia ritenuto di doversi accodare a una manifestazione promossa da altri, che la divide profondamente, invece di farsi promotrice essa stessa di un’autonoma iniziativa di piazza coi propri contenuti.
Landini ha camuffato la subordinazione alla classe dominante e alla sua marcia verso la guerra imperialista con pretesi distinguo rispetto all’aperta adesione al progetto di riarmo europeo dei promotori della manifestazione. Distinguo simboleggiati dalla indicazione di recarsi in piazza con le bandiere arcobaleno pacifiste invece che con quelle del sindacato.
Sostenuta da gran parte della stampa borghese che l’ha preparata per settimane,
dai partiti della sinistra padronale, dagli apparati dei sindacati di regime –
giacché anche Cisl e Uil hanno aderito – nonché finanziata finanche dal Comune
di Roma, la manifestazione di Piazza del Popolo ha avuto una partecipazione
grosso modo di 30.000 persone. La piazza scelta, ben più piccola di San
Giovanni, tradizionalmente meta della grandi manifestazioni sindacali, ha
garantito di riempirla, e alla stampa di regime di celebrarne il successo e
pompare ancora di più la propaganda per il riarmo, con Repubblica che ha
dichiarato esservi stati 50 mila manifestanti. Ad ogni modo le bandiere
arcobaleno della Cgil sono affogate in quelle blu dell’Unione Europea.
Il sindacalismo conflittuale
In risposta alla manifestazione di Piazza del Popolo, a Roma e in altre città sono state organizzate manifestazioni contro il riarmo e la guerra. A quella di Roma, che da Piazza Barberini ha raggiunto Piazza Esquilino, hanno partecipato in 2.500. Trattandosi di una manifestazione sostanzialmente locale e preparata in pochi giorni, è stata una buona partecipazione. Sebbene promossa da associazioni e gruppi politici, ha visto la partecipazione consistente dell’Usb, in misura minore della Cub e della Confederazione Cobas, e quella dell’area alternativa in Cgil “Le radici del sindacato”, con uno striscione e un gruppo di militanti e dirigenti sindacali. Questa è stata l’unica corrente, fra quelle a essersi opposte dentro la Cgil all’adesione alla manifestazione pro-riarmo, a non essersi limitata alla denuncia e ad aver agito conseguentemente, scendendo in piazza insieme ai sindacati di base.
Una delle ultime volte che ciò è accaduto fu 13 anni fa, il 22 giugno del 2012, con l’adesione allo sciopero generale del sindacalismo di base e la contestazione a Maurizio Landini, allora segretario generale della Fiom, che quello stesso giorno partecipava all’assemblea nazionale di Confindustria a Bergamo. Ne conseguì a settembre l’eliminazione dalla segreteria nazionale Fiom dell’unico esponente dell’area di minoranza. La dirigenza Cgil non tollera aperture verso il sindacalismo di base.
Landini ha un curriculum da meritarsi un posto d’onore fra gli “agenti della borghesia in seno al proletariato”. Prima ha impedito un forte movimento di lotta operaia contro il piano Marchionne in FIAT, dilapidando la forza che si era mostrata disponibile nella grande manifestazione del 16 ottobre 2010, con 100 mila lavoratori in corteo. Da allora la Cgil non è più stata lontanamente in grado di portare così tanti lavoratori in piazza. In ciò fu aiutato dai dirigenti della corrente di sinistra interna, che gli diedero credito e che dal palco di quella manifestazione applaudirono, insieme a lui, il discorso dell’allora segretario generale Cgil Guglielmo Epifani. Col far ciò Landini ha dato un fondamentale contributo a piegare il sindacalismo di base nelle fabbriche FIAT – altro grande servigio reso agli industriali – che per oltre 15 anni aveva lottato e provato a costruire in esse una forza sindacale di classe.
Eliminata la sinistra dalla segreteria Fiom nel 2012, Landini è approdato nel 2016 alla firma di quello che è stato considerato il peggior contratto collettivo nazionale metalmeccanico, piegando la Fiom ai due contratti separati di Fim e Uilm precedentemente non firmati. Per cotanto lavoro gli è stato riconosciuto, giustamente, il ruolo di segretario generale del grande sindacato di regime italiano. Oggi, con l’adesione alla manifestazione pro-riamo, coprendo pudicamente le vergogne con la bandierina arcobaleno, non può dirsi che non si sia dimostrato responsabile e riconoscente!
Uno dei dirigenti dell’area alternativa in Cgil “Le radici del sindacato” ha
scritto che occorre «sviluppare un movimento di massa disfattista e
antimilitarista». Questo compito può essere assunto solo dalle forze del
sindacalismo conflittuale e solo se esse – sindacati di base e correnti
sindacali di classe in Cgil – agiranno in modo unitario. La manifestazione di
Piazza Barberini è stato un piccolo passo in questa giusta direzione. Ma per far
ciò i militanti sindacali devono battersi contro le dirigenze opportuniste del
sindacalismo conflittuale, che si oppongo a questo indirizzo: quelle dei
sindacati di base subordinano l’unità d’azione alla competizione con le altre
sigle; quelle delle correnti di classe in Cgil vi antepongono il mantenimento di
ruoli o la mera agibilità entro il sindacato di regime.
Il 25 e 26 gennaio scorso si è svolto l’ottavo sciopero dei ferrovieri promosso
dall’Assemblea nazionale Personale di Macchina e di bordo (PdM-PdB). L’Assemblea
è nata per sostenere la vertenza per il rinnovo del contratto nazionale, con una
propria piattaforma rivendicativa. Lo sciopero ha avuto alte adesioni come i
precedenti. Il rafforzamento di questi scioperi, come spiegato nei numeri scorsi
di questo giornale, è andato crescendo, raggiungendo livelli di adesione che non
si registravano da moltissimi anni.
Dopo alcuni scioperi in giorni feriali, l’Assemblea ha iniziato a scioperare –
sempre di 24 ore, il massimo consentito dalla legge anti-sciopero, la 146 del
1990 – fra il sabato e la domenica. Questo perché nei giorni festivi gli accordi
capestro che in ferrovia regolano ulteriormente lo sciopero impongono un numero
minore di treni “garantiti”.
Visto il successo clamoroso di questi scioperi, la famigerata Commissione di Garanzia per il Diritto di Sciopero si è impegnata a estendere le regole dei giorni feriali anche nei festivi. Leggiamo sul giornale dei ferrovieri della Cub – CubRail – dello scorso febbraio: «È chiaro da tempo l’impegno di Trenitalia e della Commissione di Garanzia, ben coalizzate, nell’ostacolare i ferrovieri e la loro sacrosanta vertenza. Da mesi le stanno provando tutte: cavilli, forzature, minacce, per un repertorio ben assortito, ma sempre respinto al mittente con sette scioperi dalle altissime adesioni. Se si aspettavano – con questa ultima forzatura delle tabelle dei treni garantiti gonfiate a piacimento dall’azienda – di rompere il fronte dei lavoratori, sono stati respinti con grosse perdite. I lavoratori hanno risposto scioperando ancora di più».
Una conferma della riuscita di questi scioperi è venuta dall’Assemblea Generale della Filt Cgil Liguria svoltasi il 27 gennaio. In questa assemblea i delegati Cgil dei tranvieri e della logistica hanno espresso piena soddisfazione per i rinnovi contrattuali dei loro settori. Quello della logistica già approvato, comporta un aumento di circa il 9% a fronte del rivendicato 18% e dell’inflazione secondo l’indice IPCA del 16%; quello dei tranvieri, poi firmato il 30 marzo, un aumento del 5,6%! Il delegato dei portuali non si è espresso nel merito del rinnovo contrattuale, ma l’accordo al porto di Genova – il più importante d’Italia – è stato bocciato dai lavoratori al referendum, unico caso nel paese.
Gli unici delegati a non esprime soddisfazione sono stati quelli dei ferrovieri Cgil, ma non per il merito della piattaforma, bensì in quanto l’unico settore a non essere ancora giunto al rinnovo! Il delegato intervenuto ha affermato che i ferrovieri hanno dimostrato di essere disponibili alla lotta, in quanto hanno aderito massicciamente agli scioperi... a cui la Cgil non ha aderito! Cioè, senza nominarla, a quelli promossi dall’Assemblea Pdm-PdB. Il delegato ha anche detto che diversi delegati Filt Cgil hanno aderito a questi scioperi.
Si è poi lamentato della interpretazione peggiorativa, ancor più restrittiva, della legge anti-sciopero (146/1990), guardandosi bene dal dire però che quella legge fu voluta da Cgil, Cisl e Uil e che è fondamentale lottare per abolirla.
Infine, i delegati ferrovieri Fil Cgil Liguria, guidati da militanti di un partito che si vuole rivoluzionario, hanno anche presentato un OdG che è stato fatto proprio dalla segreteria, dato che non dice assolutamente nulla! In esso si legge: «… è ormai improcrastinabile l’esigenza di un forte sindacato europeo…»: questo è il mantra ripetuto nell’ambito sindacale da questo gruppo. Peccato che non si capisce come si dovrebbe arrivare a costituire un sindacato di classe europeo, nel momento in cui nella pratica sindacale quotidiana si ignorano gli organismi sindacali che lottano per davvero, come l’Assemblea PdM-PdB! In questo senso tale invocazione appare come una comoda foglia di fico.
Poi l’OdG conclude: «Alla luce dei recenti rinnovi degli altri CCNL di categoria e dei numerosi settori del trasporto, l’Assemblea Generale chiede alla Segreteria Nazionale e alla delegazione trattante della FILT di imprimere un’accelerazione al rinnovo del CCNL della Mobilità AF, ricorrendo, se necessario, a una pronta mobilitazione dei lavoratori interessati».
Tutto qui. Non una parola sugli 8 scioperi con adesioni dell’80% dei ferrovieri
e sulla necessità si sostenerli e aderire alla lotta promossa dall’Assemblea
PdM-PdB. Sciopero... “se necessario”!
Per la proclamata necessità – invocata dal gruppo politico di questi ferrovieri
– di restare nel sindacato con più iscritti d’Italia, si sta lontani dai
lavoratori in lotta e si danneggia così il rafforzamento del sindacalismo di
classe. Analogamente questa frazione sindacale ha ignorato il movimento
sindacale di classe nella logistica, un fatto di primaria importanza nel
movimento operaio in Italia negli ultimi 15 anni.
Per il 22-23 febbraio l’Assemblea PdM-PdB aveva stabilito il nono sciopero. La
Commissione ha dato seguito ai suoi intenti e ha imposto lo stesso numero di
treni garantiti anche nelle giornate festive. Conseguentemente l’Assemblea ha
deciso di rimandare lo sciopero che sarà infine svolto fra l’11 e il 12 aprile,
questa volta da venerdì a sabato.
Lorenzo, operaio, è morto a 36 anni in bacino schiacciato dall’elica di prua. Questa la tragedia occorsa ieri alle Riparazioni Navali.
Ogni giorno in Italia 3 operai muoiono sul lavoro. Questa strage è presentata come evento ineluttabile nel quadro “normale” del lavoro. È invece la manifestazione chiara e tragica dello sfruttamento e dell’oppressione della classe operaia. Della normale schiavitù del lavoro salariato.
Le morti sul lavoro sono, nella grande maggioranza dei casi, conseguenza della organizzazione capitalistica del lavoro, cioè della fretta, del risparmio sui costi, della catena degli appalti e subappalti per ingrassare padroni e padroncini e dividere gli operai, in ultima istanza, della corsa al massimo profitto, a ogni costo, innanzitutto sulla pelle dei lavoratori. Oltre mille morti sul lavoro in Italia sono la cifra della guerra di classe di questa società: classe lavoratrice contro classe borghese.
Queste affermazioni, nell’ipocrita mondo borghese non piacciono e non sono di moda. La classe operaia – dicono anche “a sinistra” – non esiste più. I capi di Cgil Cisl e Uil nemmeno la nominano, la classe operaia. Però esiste eccome quando serve ai profitti, e se 3 operai muoiono ogni giorno!
Quel che è vero – e non da oggi – è che la classe lavoratrice è debole. Così debole che non riesce a lottare per difendersi dalle leggi del profitto. Così debole che non riesce a lottare come classe sociale unita, con interessi distinti e opposti a quelli della classe borghese.
Di questa debolezza la responsabilità principale è dei falsi partiti operai – che ormai nemmeno si proclamano più tali – e dei sindacati che hanno diretto e che continuano a dirigere. Quei partiti e questi sindacati predicano – e praticano – la pace sociale, la collaborazione di classe, la conciliazione degli interessi delle aziende e dell’economia della nazione (cioè dell’economia capitalistica) con gli interessi dei lavoratori salariati. Che in pratica si risolve nell’aumentare lo sfruttamento.
Per frenare il sangue e lo
sfruttamento occorre
ricostruire un autentico sindacato di classe,
non compromesso coi vertici aziendali e istituzionali, che organizzi
scioperi unendo i lavoratori al di sopra delle divisioni fra aziende
e categorie. Scioperi non simbolici e cronometrati, di poche ore, ma
che blocchino produzione e servizi per più giorni. Scioperi che
abbiano per obiettivo le rivendicazioni che interessano e uniscono
tutti i lavoratori, che difendano anche la loro salute e la loro
sicurezza, quali, innanzitutto:
- forti aumenti salariali, maggiori per categorie e qualifiche peggio
pagate
- riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario
- smantellamento del sistema degli appalti e subappalti.
Su questo terreno di lotta i
militanti sindacali e i lavoratori combattivi devono battersi per
unire l’azione dei
sindacati di base (Usb, Cub, SI Cobas)
– nati in reazione al tradimento dei sindacati tricolore – con le
minoranze conflittuali nella Cgil, in
un fronte unico sindacale di classe,
primo passo per la rinascita del sindacato di classe fuori e contro i sindacati di regime.
Solo la lotta renderà giustizia agli operai sacrificati sull’altare
del profitto.
Nelle principali città della Grecia, Atene, Salonicco, Patrasso, lo scorso 28 febbraio enormi manifestazioni hanno mobilitato un milione e mezzo di scioperanti, in una nazione che conta 11 milioni di abitanti! Era il secondo anniversario della strage ferroviaria di Tempi quando, nello scontro frontale conn un treno merci persero la vita 57 passeggeri, dei quali molti giovani.
Certamente c’è lo sdegno per la strage causata dalla mancanza delle più elementari strumentazioni di sicurezza e dalle condizioni di lavoro sempre più gravose per un personale ormai ridotto al minimo. Nonostante le denunce dei sindacati infatti, l’azienda privata che gestisce le ferrovie, la Hellenic Train, appartenente al gruppo italiano Ferrovie dello Stato, ha continuato la sua politica tesa al massimo profitto risparmiando anche sulla sicurezza. Una politica comune a tutti i Paesi.
La collera è contro il governo che sta ostacolando la ricerca delle responsabilità, forse più gravi di quelle subito evidenti. È probabile che l’enorme incendio seguito all’impatto sia scaturito dalla presenza sul treno merci di sostanze non dichiarate, forse xilene, usate per adulterare i carburanti, un business redditizio per le organizzazioni mafiose in combutta con il mondo politico e padronale.
Ma non solo questo ha spinto i lavoratori in piazza. Lo sciopero è stato contro il padronato e contro lo Stato, contro i bassi salari, contro le condizioni di lavoro precarie e insicure, contro le pensioni troppo basse, contro un sistema sanitario che non cura i proletari.
La Grecia è, in piccolo, il futuro del capitalismo europeo. Durante la crisi del debito il padronato ha applicato senza pietà il ricatto tra l’accettare un lavoro a condizioni di estremo sfruttamento o il restare disoccupati. Questo non è cambiato dopo che è finita la crisi dei conti dello Stato. In Grecia i giovani proletari continuano a lavorare 40 o 50 ore settimanali per un salario di 700, 800 euro quando il costo della vita è pressoché uguale ai Paesi dove i salari sono il doppio o tre volte tanto. I pensionati, che hanno visto le loro pensioni tagliate del 40% da un giorno all’altro, continuano a tirare avanti con pensioni da fame mentre l’economia è in ripresa e lo Stato sta rimettendo a posto i conti.
Lo Stato greco, in questa stagione in cui tutti i governi d’Europa spingono per trasformare le fabbriche dal produrre auto e trattori a carri armati e aerei da combattimento, si conferma un modello da seguire: mentre altrove la leva militare è stata abolita, in Grecia è rimasta, con la scusa della difesa dall’aggressiva Turchia. E la spesa militare, anche nel periodo più buio per i conti dello Stato, è sempre stata mantenuta al 3,5-4% del PIL.
In questa situazione di estrema stratificazione sociale, dove un piccolo numero di borghesi, di imprenditori, di politici, di mafiosi e di tutto l’apparato che li serve e li difende vive nel lusso, mentre la grande maggioranza del proletariato e della piccola e media borghesia impoverita tira avanti con difficoltà, sono i partiti populisti di opposizione e di governo che, dirottando la rabbia delle masse verso obiettivi propri di altre classi, ne impediscono l’organizzazione indipendente di classe, sia a livello economico sia politico.
Certo sono da apprezzare le manifestazioni oceaniche che hanno invaso le città della Grecia. Dimostrano che il proletariato greco non ha piegato la testa e che è disposto a lottare per migliorare le sue condizioni di vita e di lavoro, ma il potere della borghesia resta ben saldo, anche se il governo di destra vacilla. La borghesia ha ben chiaro che per mantenere il potere si può cambiare governo e personale politico. L’importante è che lo Stato, cioè l’apparato di potere, la polizia, l’esercito, la magistratura restino sotto il suo controllo.
A questo gioco si presta il KKE, “partito di lotta e di governo” come un tempo si definiva il PCI in Italia.
Ma è un gioco sporco. Non si può lottare per la difesa del proletariato dagli scranni dei parlamenti borghesi. Il potere proletario non si conquista a piccoli passi, a tappe, penetrando nelle crepe del sistema. Il proletariato otterrà la sua emancipazione con la rottura rivoluzionaria dell’ordine borghese, del suo Stato e di tutti i suoi organi di repressione e di gestione del potere.
Il problema della sicurezza non si risolve con il trasferimento di Hellenic Train al settore pubblico, nemmeno “senza indennizzo”, magari “con il controllo dei lavoratori e della società”. Tutte parole vuote. Il fatto che un’azienda sia di proprietà pubblica anziché privata non dà nessuna garanzia al proletariato né può esserci un “controllo” da parte dei lavoratori sulla gestione aziendale. Solo quando il potere politico sarà in mano al proletariato esso potrà esercitare il suo controllo su tutte le attività sociali e produttive.
La parola d’ordine che risuonava nelle manifestazioni: “O i vostri profitti o le nostre vite” la possiamo fare nostra, anzi è nostra e solo nostra perché afferma che questo regime, non il governo Mitzotakis o la Commissione Europea, ma è questo regime capitalista che impesta tutti gli Stati del mondo, alla ricerca del profitto ad ogni costo, nemico non solo del proletariato ma della specie umana.
Per questo è necessario che gli elementi di avanguardia del proletariato intraprendano la strada di una seria preparazione rivoluzionaria che rifugga da ogni velleità ribellistica e si basi su un lavoro quotidiano per la creazione di sindacati dei lavoratori veramente indipendenti dai partiti borghesi. Tra questi sono compresi il KKE, il PASOK e tutto il codazzo di gruppetti della cosiddetta “sinistra”.
Occorrono sindacati di classe che difendano i lavoratori puntando all’unità del proletariato nella lotta quotidiana, superando le divisioni di nazionalità, di religione, di razza.
Si tratta inoltre di ricollegarsi alla tradizione del Comunismo rivoluzionario di sinistra, al Partito Comunista Internazionale.
L’ultimo rapporto sull’attività sindacale in Italia, alla riunione intercalare del 23 novembre, aveva reso conto della battaglia svolta in seno al sindacalismo di base dai nostri compagni, insieme ad altri militanti sindacali, affinché si giungesse a uno sciopero generale unitario in Italia.
Infine si è avuto, dopo lo sciopero generale del 18 ottobre proclamato dal solo
SI Cobas, uno sciopero di quasi tutto il sindacalismo di base e dei due
sindacati di regime, Cgil e Uil, per il 29 novembre.
Solo la dirigenza dell’Usb, il maggior sindacato di base con circa 50.000
iscritti, si è ostinata a perseguire la sua condotta opportunista che divide
l’azione di lotta sindacale: ha disertato lo sciopero del 29 novembre e ha
proclamato, sola, uno sciopero generale per il 13 dicembre.
Lo sciopero del 29 novembre ha segnato un cambiamento rilevante nella condotta della maggioranza del sindacalismo di base, che si è sempre contraddistinto per il rifiuto di scioperare insieme ai sindacati di regime.
Dalla crisi economica del 2008 in poi il sindacalismo di base ha conosciuto un generale indebolimento, anche se con parziali e non trascurabili eccezioni. Questa debolezza è stata uno dei fattori che hanno portato le sue dirigenze a cambiare condotta e a porsi sul terreno sia dell’unità del sindacalismo conflittuale, sia su quello più generale dell’unità d’azione dei lavoratori, secondo cui gli scioperi, in linea generale, vanno sostenuti a prescindere da quale sindacato li organizzi, in particolar modo se si tratta di sindacati il cui sciopero si prevede mobiliterà porzioni rilevanti di lavoratori.
Anche se si è trattato di una scelta a cui le dirigenze dei sindacati di base sono state condotte per debolezza, ciò non toglie che si tratti di un fatto positivo. Un gruppo di sindacati di base ha fatto esplicito riferimento alla condotta tenuta dai sindacati in Francia, dove negli ultimi anni gli scioperi generali sono convocati da un fronte unitario sindacale, una “intersindacale”.
Le manifestazioni, rispetto alle analoghe mobilitazioni di Cgil e Uil negli ultimi anni, hanno visto una crescita della partecipazione. Ma l’adesione allo sciopero – un dato ben più difficile da conoscere nel settore privato – sembra mantenersi a livelli bassi.
Siamo intervenuti, distribuendo il volantino appositamente redatto, alle manifestazioni di Genova e Napoli.
I sindacati di base in quasi tutte le città, pur scioperando lo stesso giorno, hanno organizzato piccoli cortei separati. Una decisione che da sempre critichiamo, occorrendo invece organizzare spezzoni unitari del sindacalismo di base all’interno dei cortei dei sindacati di regime. Unica eccezione a Torino, dove la Cub ha organizzato uno spezzone con una buona partecipazione.
Lo sciopero dell’Usb, come era largamente previsto, è stato debolissimo, tanto
nelle adesioni quanto nella partecipazione alle manifestazioni.
Nelle settimane successive l’attività sindacale è calata, per le festività e per
la generale scarsa combattività dei lavoratori.
Segnaliamo quelli che sono gli impegni di lavoro, cioè i fronti di lotta sindacale i quali vogliamo riferire nei prossimi numeri di giornale:
- Oggi [25 gennaio] è in corso l’ottavo sciopero proclamato dall’Assemblea Nazionale PdM-PdB, cioè del personale di bordo (macchinisti e capitreno) delle ferrovie, nell’ambito della vertenza per il rinnovo del contratto nazionale; i precedenti sette scioperi hanno avuto tutti alte adesioni;
- Il 10 gennaio scorso vi è stato il nono sciopero promosso dalla Assemblea Nazionale dei Manutentori delle ferrovie (RFI), organismo nato un anno prima fuori e contro i sindacati di regime e autonomi, firmatari di un accordo che liberalizza il lavoro notturno, di sabato e domenicale. In questo caso invece l’adesione – 35% – conferma che la spinta alla lotta sia rifluita. Tuttavia si è sedimentata un’organizzazione sindacale combattiva, l’ANLM appunto, che si è costituita formalmente in sindacato;
- Per la logistica è stata firmata la cosiddetta pre-intesa di rinnovo del contratto nazionale da parte dei sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil, Ugl), settore in cui il sindacalismo di base è divenuto forte in questi ultimi 15 anni, in controtendenza con l’indebolimento generale. Commenteremo i contenuti del nuovo contratto e le reazioni dei sindacati, di base e di regime;
- È stata firmata la pre-intesa di rinnovo del contratto nazionale degli autoferrotranvieri. I sindacati di base, unitariamente, si contrappongono alla firma dei sindacati di regime invocando un referendum;
- È stato firmato il rinnovo del contratto nazionale dei lavoratori statali delle Funzioni centrali. Qui la firma è stata apportata dal sindacato di regime Cisl e dai sindacati autonomi e si sono opposti invece Cgil, Uil e Usb. Questi tre sindacati hanno organizzato in modo unitario un referendum, non riconosciuto in alcun modo dalla parte padronale, che ha bocciato il rinnovo contrattuale;
- È invece ancora aperta la vertenza di rinnovo dei metalmeccanici, con le
trattative che si sono rotte per indisponibilità da parte padronale, secondo
quanto dichiarato dalla Fiom Cgil.
La sezione nordamericana del partito ha iniziato in modo sistematico la sua attività nelle lotte operaie da quasi due anni. Sotto la guida della centrale sindacale internazionale ha iniziato a studiare la storia del movimento statunitense e a fare esperienza all’interno dei sindacati.
A causa della storia complicata e diversa del movimento operaio nei vari Paesi,
le direttive contingenti del Partito nei sindacati in una area nazionale devono
essere individuate attraverso uno studio specifico. Occorre inoltre l’esperienza
diretta dei comunisti nelle organizzazioni e nelle lotte operaie.
Nel 2024 negli Stati Uniti ci sono state circa 334 azioni sindacali in 515
località. Le statistiche mostrano che la California ha avuto il maggior numero
di scioperi, seguita da New York, Oregon, Illinois e Stato di Washington. Le
città con il maggior numero di scioperi sono state: Los Angeles, San Francisco,
New York City, Portland, Chicago, Seattle.
Negli ultimi dodici mesi i compagni negli Stati Uniti hanno svolto attività nelle ferrovie, la scuola, la salute mentale, gli alimentaristi, i servizi, la tecnologia e la distribuzione. Direttamente come partito o tramite la Rete d’Azione per la Lotta di Classe (CSAN) siamo intervenuti all’interno di alcuni importanti sindacati. I compagni si sono inoltre impegnati in tre coordinamenti di base della scuola, delle ferrovie e dei servizi, dove piccoli gruppi di lavoratori si sono organizzati intorno a programmi di sindacalismo di classe in opposizione ai dirigenti. Abbiamo anche sostenuto l’organizzazione di nuove opposizioni sindacali in diversi luoghi di lavoro. Siamo stati inoltre presenti nei picchetti di numerosi scioperi e diretto alcune lotte operaie locali. Tre compagni sono stati cacciati dal lavoro per la loro attività sindacale e sono stati costretti a cercarne un altro.
Stiamo così imparando a conoscere il funzionamento di molti dei sindacati esistenti, le loro strutture organizzative, formali e informali, le norme giuridiche che limitano l’azione, i metodi con cui i dirigenti opportunisti e legati al padrone si appoggiano ai settori meglio pagati per imporre moderazione e contrastare la nostra propaganda e la nostra influenza, nonché la volontà e le motivazioni generali dei lavoratori a entrare in conflitto con i padroni e con i dirigenti sindacali, a diversi livelli e nei diversi settori.
A causa delle condizioni economiche prevalenti, della schiacciante perniciosa influenza sulla classe della borghesia e dei suoi agenti, e del numero ancora esiguo di militanti del Partito e dei contatti che abbiamo all’interno della classe, in questo momento storico la capacità dei lavoratori di condurre una seria lotta di classe rimane relativamente bassa rispetto ad altre epoche di maggiore combattività proletaria.
I sindacati esistenti che finora si sono dimostrati più permeabili all’intervento del Partito sono stati quelli con una struttura relativamente più “democratica” e decentrata, o dove le sezioni locali sono piccole e non ancora stabilmente organizzate. Però i sindacati a regime più “dittatoriale” sono quelli che rappresentano i lavoratori più poveri e proletari, come nel caso dell’UFCW. Questi sindacati perseguitano apertamente i nostri militanti, mano nella mano con il padrone, e si adoprano per farli licenziare.
Sebbene svolgere un lavoro sindacale di partito all’interno di molti di questi sindacati sia certamente ancora possibile, la loro natura di istituzioni all’interno del ristretto apparato normativo del National Labor Relations Board, l’Ufficio Nazionale per i Rapporti di Lavoro, significa che, pur arrivando ad esservi ammessi come delegati degli operai, si resta confinati a svolgere solo incarichi burocratici, con implicito riconoscimento della legittimità dell’ordine giuridico borghese, in modalità contrarie ai principi comunisti e della lotta di classe.
Quindi qualsiasi elezione a un ruolo ufficiale deve implicitamente essere accompagnata da un rifiuto totale di rispettare o eseguire le regole e le pratiche stabilite in contrasto con i principi comunisti. Nella maggior parte dei casi, ciò significa abdicare ai doveri e alle responsabilità del ruolo, come indicati nei regolamenti e negli statuti dei sindacati. In sostanza si finisce per praticare un tipo di astensionismo di principio all’interno dei sindacati ogni volta che ci troviamo in simili contraddizioni. Nella maggior parte dei casi le strutture sindacali esistenti non fanno altro che acculturare i lavoratori a un’accettazione disfattista della loro condizione, limitata alle possibilità concesse loro dal misero ordinamento giuridico borghese.
Detto questo, abbiamo constatato che nei momenti di mobilitazione e di possibili aziono di sciopero siamo in grado con il nostro lavoro interno di estendere al massimo la nostra influenza nei sindacati; la conquista di posizioni nei comitati di sciopero e di organizzazione ci ha permesso di promuovere un’azione più combattiva da parte nei sindacati locali.
Invitare a costituire assemblee territoriali e raggruppamenti di lavoratori,
comitati di sciopero, ecc. sono alcune delle iniziative più importanti da
riaffermare nella nostra propaganda in questo momento.
Nel caso degli Stati Uniti, con un proletariato che vive all’interno dell’ordine
imperialista americano, ancora relativamente pingue, i sindacati esistenti
continuano a rappresentare gli interessi ristretti di una piccola parte di
lavoratori relativamente benestanti, promettendo aspirazioni piccolo-borghesi in
cambio della rinuncia alla vera lotta di classe. I sindacati continuano a
conformarsi alle strutture tradizionali, suddivise in sezioni periferiche,
localistiche campanilistiche e microscopiche, segnate da rivalità tra capetti
locali, che rendono ogni azione comune unificata una difficoltà estrema. Fanno
eccezione i sindacati di regime, quelli più grandi, potenti e centralizzati.
Finché la classe non esprimerà una base militante, organizzata intorno a un
programma sindacale di classe, consapevolmente in contrasto con i metodi del
sindacato di regime NLRB e della dirigenza legata al padronato, la conquista di
qualsiasi posizione ufficiale sarà, nel migliore dei casi, momentanea.
Solo una rivoluzione all’interno degli stessi sindacati, che rovesci
completamente i metodi, le regole e le norme esistenti, porterà la maggior parte
di queste organizzazioni sul terreno della lotta di classe.
Allo stesso modo, la creazione di una base combattiva di forze sindacali di classe all’interno dei sindacati già affermati non sempre è possibile, perché non sempre esistono le basi per l’agitazione e l’organizzazione, perché l’assimilazione del rispetto dell’ordinamento giuridico borghese esistente e dei suoi metodi collaborazionisti continua a essere pervasiva nella maggior parte dei sindacati, dove i lavoratori spesso da generazioni sono stati inculcati con questa idea di ciò che è un sindacato.
Abbiamo riscontrato che in molti casi le correnti della sinistra sindacale, rappresentate da elementi di Labor Notes e dei Democratic Socialists of America, hanno accresciuto la loro influenza in molti sindacati, rappresentando una corrente di riforma dei sindacati che mostra di far sua l’azione di sciopero, la democratizzazione del sindacato e simili. Però queste correnti si fermano ovviamente al di sotto della vera lotta di classe, accettando e difendendo l’ordine generale collaborazionista di classe dell’NLRB, nella maggior parte dei casi ammonendo i lavoratori della necessità di attenersi scrupolosamente alle regole dell’ordine stabilito. I nostri interventi alla conferenza nazionale di Labor Notes hanno ampliato la nostra conoscenza dei modi in cui la sinistra sindacale, l’ala sinistra del capitale e il Partito Democratico cooperano all’interno del movimento sindacale esistente per presentare un fronte radicale, per riportare i lavoratori nel campo della collaborazione di classe.
Assistiamo anche alla continua ascesa di sindacati indipendenti emersi in seguito alle elezioni del National Labor Relations Board, come il sindacato Amazon, poi fagocitati dai grandi sindacati di regime, come i Teamsters, o, nel caso di sindacati come il New Seasons Labor Union dei lavoratori del commercio dell’Oregon.
Pertanto, per la stragrande maggioranza dei proletari, che rimangono disorganizzati, né i sindacati di regime né i piccoli sindacati locali indipendenti fondati su garanzie legali borghesi sono la risposta. Solo un sindacato generale di classe, disposto e moralmente in grado di operare al di fuori della trappola dell’NLRB, unendo i lavoratori tra i vari settori e mestieri, può difendere adeguatamente gli interessi economici dei lavoratori.
Negli Stati Uniti, esistono pochi organi di difesa, se non nessuno, che operino su basi di classe e pochissimi che siano in grado di organizzare efficacemente le masse di lavoratori non qualificati in industrie con grandi tassi di sostituzione.
Le nostre esperienze nei sindacati riaffermano la necessità vitale
dell’intervento del partito politico di classe per condurre una battaglia di
indirizzo all’interno dei sindacati, per riportare i lavoratori a lottare lungo
le linee di classe e ad allontanarsi dal programma compiacente e di corto
respiro della collaborazione sociale.
Raimondo ha lasciato detto che non dovevamo parlare della sua persona ma solo ricordare a tutti della grande causa per la quale ha impegnato la sua vita, purtroppo troncata troppo presto.
Raimondo ha infatti militato, fin da giovanissimo, e sempre da allora, nel partito del comunismo internazionale, nel nostro partito.
Ubbidendo al suo desiderio quindi qui non ricordiamo le sue doti non comuni, di sensibilità, la vivace intelligenza nei suoi occhi e il sorriso paziente, di chi sa comprendere gli uomini e le situazioni, prima di intervenire con affettuosa fermezza, rispettosa verso tutti.
Questo è un altro insegnamento che ci lascia. Non si può parlare di un comunista senza parlare del comunismo. E in particolare Raimondo si può ricordare davvero, compiutamente, fedelmente, solo all’interno del suo, e nostro, bisogno di comunismo.
È l’individualismo che mortifica e deforma l’individuo. Raimondo ci ha detto non parlate di me, perché parlando solo di lui l’avremmo tradito.
Superiamo la personalizzazione non per negare l’individuo ma per esaltarlo,
liberarlo in una potenziata e fitta rete di relazioni. Un uomo è fatto dai suoi
rapporti con gli altri. Non è altrimenti definibile.
Quel bisogno di rapporti con tutti gli uomini e le cose del mondo Raimondo l’ha
vissuto, l’ha realizzato e l’ha soddisfatto. E un comunista è un comunista
sempre, in tutte le vicende concrete, quotidiane della vita. Non solo nei sogni
o in una aspirazione o, peggio, in una nostalgia, un rimpianto, o soltanto un
rito.
E questo è possibile perché un comunista vede quello che altri non possono vedere, accecati dai fumogeni di questa società e assordati dalle grida scomposte delle scimmie con le quali si fanno rappresentare tutti i sanguinari Stati del mondo.
Ogni uomo, più o meno coscientemente, sente il bisogno di quello che sa poter e dover essere un indistinto mondo migliore, e soffre per le sopraffazioni sulla gran parte dell’umanità, che chiama ingiustizie, imposte per gli interessi egoistici di una infima minoranza, e per le assurdità, gli sprechi, le sofferenze, i lutti e i massacri che le sono imposti. Le religioni soffocano questo bisogno rimandandolo a un mondo ultraterreno.
Ma nel sempre più tormentato questo mondo terreno il comunista vede e sente che il comunismo c’è già. Non è la volontà dei comunisti ma è il capitalismo stesso che progressivamente demolisce tutti i suoi presupposti e fondamenti materiali e ideali. Tutta la nostra vita reale è materialmente pronta al comunismo, anche se gli uomini non lo possono sapere e solo sognare. Ma l’uomo sogna quanto può sognare, ciò che è già a portata di mano.
Non diremo quindi che Raimondo il comunismo non ha fatto a tempo a vederlo. L’ha visto invece. E l’ha visto compiutamente perché per il comunismo insieme ai suoi compagni ha lottato.
Per questa sua grande tranquillità mai Raimondo ha mostrato impazienza, che è
una debolezza dell’individualismo. Quello che non siamo riusciti a comprendere e
a fare noi lo faranno quelli che verranno dopo di noi. E se non qui, inizieranno
in altri paesi e continenti. I comunisti non hanno mai fretta.
Questa preparazione paziente, svolta secondo un piano e di continuità di
atteggiamenti pratici, giorno dopo giorno, anno dopo anno, generazione di
militanti una dopo l’altra, non è forse già il comunismo? La negazione delle
invidie, del disordine, del contingente e degli espedienti del capitale?
Certo questo non basta a consolarci. La vita ha di queste trafitture. Quella
rete che collegava stretto Raimondo a tutti noi si è lacerata, e noi tutti ne
soffriamo e ne traiamo un gran dolore. Dovremo ora riannodare quella rete, fatta
di affetti e di ricordi, per trasmettere i suoi insegnamenti di vita ai giovani
e a quelli che verranno.
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L’amministrazione americana sta avanzando una serie di proposte “scandalose”, tra cui l’annessione del Canada e della Groenlandia. Ha suggerito persino di annettere Gaza per farne una “riviera” mediorientale, mentre si offriva di mediare un accordo di pace in Ucraina in cambio delle sue terre rare, il tutto frammischiato a una sventagliata di proterve minacce rivolte agli Stati dell’emisfero occidentale.
Mentre i liberali gridano all’“oligarchia!” e al colpo di Stato contro la democrazia, noi non chiediamo alcun ritorno alla “normalità”.
Perché simile “follia” non proviene dall’imbonitore borghese messo lì a dirigere il carnevale, ma è il prodotto dell’inevitabile svolgimento storico mondiale dell’economia capitalista, il cui stadio finale è l’imperialismo e il fascismo. Una fase dello sviluppo umano che può essere superata solo dalla rivoluzione comunista.
Gli Stati Uniti, come tutti gli altri capitalismi mondiali, sono sull’orlo di una catastrofe economica, la crisi globale di sovrapproduzione. L’esplosione del debito pubblico, necessario per drogare l’economia mondiale dopo la crisi finanziaria del 2008, è a rischio crescente di default anno dopo anno, e sarà il più grande cataclisma economico della storia.
Mentre alcune potenze imperialiste rivali continuano la loro ascesa, la borghesia statunitense si trova in condizioni disperate, trovando sempre più difficile far crescere i margini di profitto e contemporaneamente pagare i debiti.
Dietro i caporioni della borghesia a Washington ci sono gli interessi delle big oil, delle big tech e delle big car. Essi mirano a riaffermare gli Stati Uniti come potenza industriale, dando il via a una euforia produttiva incentrata sulla intelligenza artificiale, alimentata dai bassi prezzi del petrolio e della manodopera, sfruttando il vantaggio degli Stati Uniti quale maggiore produttore di petrolio per sottomettere i mercati energetici mondiali. Ambiscono a mantenere subordinati gli imperialismi rivali dipendenti dalle importazioni e dalle esportazioni americane tramite una muraglia protezionistica che tagli fuori le aziende cinesi, tendenti irrimediabilmente a superare le statunitensi.
Per “salvare l’America” il Partito Repubblicano, abbracciato il programma della
Heritage Foundation di estrema destra, deve mettere da parte le norme correnti
dell’ordine giuridico borghese, interno e internazionale, e i sistemi di
alleanza, ridimensionare lo “Stato amministrativo” e promuovere una raffica di
progetti pubblico-privati volti a rinnovare le infrastrutture. Per questo
occorre incalzare sull’indottrinamento e lo sgomento nazionalista e conformista,
e adottare misure brutali per garantire la totale subordinazione della classe
operaia.
Troppi debiti
All’apice della potenza statunitense dopo le due guerre mondiali il paese era di gran lunga il maggiore creditore del mondo. Attraverso istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale, l’Organizzazione Mondiale del Commercio e iniziative come il Piano Marshall, ha finanziato la ricostruzione del capitalismo emettendo prestiti massicci e vincolando i paesi di tutto il mondo al dollaro come valuta di riserva.
Ma il capitalismo ha fatto il suo corso naturale, e gli Stati Uniti oggi, da finanziatori del mondo ne sono diventati il massimo debitore. Nei primi giorni del secondo mandato di Trump gli Stati Uniti hanno raggiunto il tetto massimo di 36.100 miliardi di dollari di prestiti annuali. Ciò ha costretto il Dipartimento del Tesoro a prendere “misure straordinarie” per continuare a pagare le spese dello Stato ed evitare il default sui prestiti pubblici.
Un default degli Stati Uniti sul debito potrebbe scatenare una recessione globale, il blocco dei mercati finanziari, il crollo dei mercati azionari e licenziamenti di massa in tutto il mondo.
Gli Stati Uniti hanno attualmente un debito pubblico di 35 mila miliardi di dollari e l’attuale proposta di bilancio repubblicana ne aggiungerebbe altri 4 mila. Con un valore attuale di circa 28.000 miliardi di dollari, quello del Tesoro americano è il più grande mercato obbligazionario del mondo ed è fondamentale per la capacità del governo degli Stati Uniti di finanziarsi e mantenere la stabilità dei mercati finanziari. Nel 2013 il rapporto debito/PIL del Paese aveva superato il 100% e nel 2023 ha raggiunto il livello senza precedenti del 123%. La spesa è aumentata del 50% tra il 2019 e il 2021 a causa dei tagli fiscali dovuti alla pandemia, dei programmi di stimolo, dell’aumento della spesa e della diminuzione delle entrate fiscali dovute alla disoccupazione diffusa.
Il debito pubblico si alimenta con l’emissione di titoli del Tesoro, che sono acquistati da Stati stranieri e da investitori privati, i quali si attendono rendimenti costanti e stabili. Se il governo non è in grado di onorare i pagamenti del debito l’intero sistema implode. Poiché l’attuale amministrazione fa pressioni sul Congresso per rimuovere completamente il tetto del debito, mantenendo al contempo ampi tagli alle tasse, è improbabile che il rapporto tra debito e PIL si riduca, anche con tagli significativi alla spesa, il che non fa che aumentare la crescente incertezza e la possibilità di una grave crisi.
Nel 2024 i fallimenti aziendali hanno raggiunto il numero più alto dopo il 2010, successivo alla crisi del 2008, accompagnati da un forte aumento delle morosità nel rimborso dei prestiti. Il settore del commercio al dettaglio, colpito dalla contrazione dei salari a causa dell’inflazione, ha visto 108 aziende presentare istanza di fallimento, seguite dall’industria e dal settore sanitario, rispettivamente con 88 e 65 imprese. Oltre 30 società che hanno presentato istanza di fallimento avevano un passivo superiore a 1 miliardo di dollari.
L’inflazione probabilmente aumenterà con l’aumento dei dazi, venendo a erodere il potere d’acquisto dei consumatori e i rendimenti delle obbligazioni societarie a lungo termine.
Anche i debiti delle famiglie stanno crescendo ad un ritmo allarmante, i saldi delle carte di credito hanno superato 1,2 trilioni, con un aumento del 7,3% rispetto al quarto trimestre dello scorso anno, e il 33% degli americani ha più debiti con le carte di credito che risparmi.
La minaccia di un default ha già portato al declassamento del rating del governo federale. Fitch ha abbassato il rating del paese a AA+ da AAA nel 2023 a causa del ritardo del governo nel raggiungere un accordo sul tetto del debito. Per i consumatori questo comporta un aumento dei tassi di interesse sui mutui, sui prestiti per l’acquisto di auto e sulle carte di credito. Gli investitori richiederanno tassi di interesse più elevati per compensare il rischio accresciuto, e il debito degli Stati Uniti diventerà più costoso. Ciò renderà più difficile per il governo gestire il deficit di bilancio e lo costringerà a tagliare la spesa.
In vista della vittoria di Trump, nei tre mesi conclusi il 30 settembre gli investitori giapponesi si sono liberati della cifra record di 61,9 miliardi di dollari di titoli. Anche i fondi cinesi ne hanno venduto 51,3 miliardi nello stesso periodo, la seconda somma più grande mai registrata. Giappone e Cina detengono ancora rispettivamente 1,02 trilioni e 731 miliardi di dollari di Treasuries, sottolineando il loro potere sul mercato del debito statunitense. La realtà è che lo Stato borghese americano ha pochissimo spazio di manovra per evitare un crollo economico globale, di dimensione mai sperimentata nella storia.
Pertanto, la scomposta sceneggiata in stile fascista che si sta svolgendo alla Casa Bianca è un tentativo disperato da parte della grande borghesia americana di ritardare le fiamme che si avvicinano al regime del capitale. Mentre affermano di voler spogliare il governo delle funzioni non essenziali, nel tentativo di ridurre il debito, le loro proposte non fanno altro che aumentarlo per i lucrosi contratti governativi e mantenendo 4.500 miliardi di tagli alle tasse per gli ultra ricchi. Nello stesso tempo spremono dalla classe operaia ogni goccia di plusvalore possibile, attraverso l’aumento delle tasse sui consumi, i dazi che aumentano i prezzi e il contenimento dei salari, oltre alle richieste di rimborso dei debiti ai privati, come i prestiti agli studenti.
La grande visione di “Fare di nuovo grande l’America” si riduce a un’autarchia economica costruita su alti dazi, grandi progetti di opere pubbliche, conquiste territoriali all’estero sotto il segno di un rinnovato Destino Manifesto.
Già il governo ammette apertamente che ci sarà da sopportare “un po’ di dolore”
in attesa della futura “prosperità” e che l’America torni a essere un Paese “ricco”.
Troppo petrolio
L’industria petrolifera è centrale nelle macchinazioni dell’imperialismo americano, oggi che la sua disponibilità è utilizzata per estendere e mantenere il muro protezionistico degli Stati Uniti contro la Cina, fornendo petrolio a basso costo per scongiurare la transizione alle auto elettriche. In ultima analisi, per l’accumulazione del capitale statunitense è necessario stringere accordi con la Russia.
Dal 2015 gli Stati Uniti sono diventati il maggiore produttore di petrolio del pianeta grazie alle nuove tecnologie e ai metodi di fratturazione idraulica orizzontale ad alta pressione, nota come fracking. Nel 2016 hanno quindi revocato il divieto di esportazione del petrolio, in vigore dalla crisi petrolifera del 1973.
Per decenni gli Stati Uniti sono stati dipendenti dal petrolio straniero. Nel 1972 l’83% delle importazioni americane di petrolio proveniva dal Medio Oriente. L’insicurezza energetica fu messa a nudo per la prima volta durante la crisi petrolifera del 1973, quando i Paesi dell’OPEC decretarono un embargo sulle vendite di petrolio agli Stati Uniti, che all’epoca rappresentavano il 75% del commercio mondiale di petrolio. Il risultato fu una penuria di carburante, che costrinse a razionare la benzina e a far salire i prezzi alle stelle. Prima dell’embargo un barile di petrolio era venduto a 2,90 dollari, mentre nel gennaio 1974 era quadruplicato a 11,65.
L’embargo petrolifero fu il risultato di una ritorsione dei Paesi del Medio Oriente contro gli Stati Uniti per l’aiuto militare fornito a Israele durante la Guerra dello Yom Kippur, combattuta contro Egitto e Siria. La crisi provocò un forte shock nella borghesia statunitense, che capì che il suo impero costruito sulle portaerei e sulle vendite di automobili alimentate da combustibili fossili aveva un grosso tallone d’Achille. Così, per decenni dopo il 1973, la politica estera imperiale degli Stati Uniti si è concentrata nel subordinare i paesi dell’OPEC in Medio Oriente e sulla ricerca dell’indipendenza petrolifera.
Dal 2009 l’ascesa dell’industria del fracking ha portato a un boom economico che ha permesso all’economia statunitense di riprendersi rapidamente dalla crisi finanziaria del 2008.
Il movimento “drill baby, drill”, “trivella, trivella”, negli anni 2010 ha fatto energiche pressioni perché fossero eliminate le norme che impedivano l’estensione del fracking alle terre demaniali. Entro il 2023 il 64% della produzione di greggio negli Stati Uniti proveniva dalla fratturazione idraulica con una produzione media di 12,9 milioni di barili al giorno, superando di gran lunga la domanda interna. Si è avuto anche un eccesso di gas naturale. Nonostante l’apertura alle esportazioni l’industria petrolifera statunitense si trova quindi in una crisi di sovrapproduzione e deve competere con altre potenze imperialiste per il controllo dei mercati.
Il petrolio americano fratturato, la cui estrazione costa più di quello dei
concorrenti, non riusciva a penetrare al di fuori del Nord America. Finché la
guerra in Ucraina del febbraio 2022 ha consentito di divertire dall’Europa il
greggio e il gas russo.
Troppa “tecnologia”
Il PIL statunitense negli ultimi decenni è cresciuto in media del 2-3% all’anno, circa la metà rispetto a paesi come l’India e la Cina. Inevitabile il sorpasso. Rinomate istituzioni finanziarie come Goldman Sachs hanno individuato nell’intelligenza artificiale la “soluzione” per forzare la crescita del PIL statunitense a oltre il 7% annuo. La stessa ricerca però avvisa che la crescita della “produttività totale dei fattori” tende a rallentare nel tempo dello sviluppo dei paesi, ad eccezione di rari “cambi di regime” come quelli innescati dalla “prima e seconda rivoluzione industriale”.
Tuttavia giganti del settore tecnologico come Amazon, Google, Apple, Facebook, IBM e Microsoft stanno investendo assai nella ricerca e nello sviluppo dell’intelligenza artificiale, aumentando così la loro capitalizzazione sul mercato. Per far vincere la corsa agli Stati Uniti in questa immaginata “rivoluzione tecnologica” OpenAI, Oracle, SoftBank e un fondo d’investimento di Abu Dhabi chiamato MGX hanno rifornito di 500 miliardi di dollari un “Progetto Stargate”, con enormi centri dati negli Stati Uniti. Oracle immagina di “reindustrializzare gli Stati Uniti” e aprire a 100.000 posti di lavoro, oltre che “aumentare le capacità di proteggere la sicurezza nazionale dell’America e dei suoi alleati”.
Trump ha dichiarato che aiuterà a far decollare questi investimenti con ordini esecutivi per garantire che i nuovi centri dati abbiano energia sufficiente: ad esempio il centro dati Stargate di Microsoft potrebbe richiedere da solo fino a sei gigawatt di potenza, quasi l’equivalente del fabbisogno di una grande città. Negli ultimi tre mesi ExxonMobil e Chevron hanno annunciato l’intenzione di costruire centrali elettriche a gas per servire il mercato dei data center, oltre a diversi nuovi impianti già costruiti lo scorso anno allo scopo. Ovviamente gli esperti avvisano che “è più veloce alimentare i data center con il gas che aspettare le tecnologie emergenti per l’energia pulita”.
Pare però che, nel frattempo, una piccola azienda cinese abbia presentato una
nuova applicazione di intelligenza artificiale, chiamata Deepseek, che minaccia
di far svanire i sogni delle Big tecnologiche. Deepseek consuma 1/10 delle altre
ed è costato solo 5,6 milioni di dollari! Nvidia, i cui chip alimentano queste
tecnologie, ha visto il suo titolo crollare alla notizia che Deepseek ne
necessita solo 2.000 rispetto ai 16.000 o più dei concorrenti.
Il nuovo Asso del capitale
I commenti offensivi del vicepresidente JD Vance alla recente Conferenza sulla sicurezza di Monaco hanno indignato e intimorito gli Stati europei a tal punto da chiedere la creazione di un “esercito europeo”, ed alcuni sarebbero impazienti di inviare truppe in Ucraina. Nonostante le grida delle sante democrazie liberali europee contro l’ascesa del “fascismo americano”, alla fine si comportano come cani obbedienti e fanno proprio quello che i “fascisti” li stavano inducendo a fare: la guerra!
Così nella palude della crisi affonda tutto il mondo. E intanto posizionano il loro peso militare sui prossimi teatri della guerra inter-imperialista.
Le minacce odierne contro gli alleati di ieri fanno tutte parte di una nuova divisione che le principali potenze imperialiste si stanno ritagliando. Ma i capitalismi in ascesa dell’Oriente stanno frustrando ogni speranza che gli Stati Uniti possano conservare a lungo il loro status di unico imperialismo egemone, il vecchio “Washington Consensus”.
Le politiche commerciali di un “libero mercato” globale sono spazzate via dal propagarsi delle guerre commerciali. L’apparente “multilateralismo” è sostituito da un mondo “multipolare” di rivali in competizione e di Stati sottomessi. Dall’ipocrita “diritto internazionale liberale”, dall’“ordine basato sulle regole”, che è servito a giustificare innumeri guerre dalla fine dell’ultimo grande conflitto imperialista, si torna al ricorso aperto e spudorato alla retorica nazionalista e militarista. La finzione della internazionale legalità borghese è abbandonata per la brutale affermazione che “la forza è il diritto”, che tutto giustifica, financo le conquiste territoriali.
Lo svelamento della menzogna delle “democrazie liberali”, che si rivelano feroci regimi imperialisti e di classe, e l’incombente generale crisi di sovrapproduzione, sono la premessa per la distruzione dell’ordine mondiale borghese.
La piccola borghesia è ovunque in crisi esistenziale, travolta dall’inevitabile estrema concentrazione delle forze produttive in un numero sempre minore di grandi conglomerati.
Questi, che sostengono la grande borghesia, come un branco di lupi sono costretti ad un rapido inasprimento nelle politiche estere e a infrangere apertamente pratiche giuridiche consolidate. Sono le leggi economiche dell’accumulazione del capitale a determinare il cambiamento delle forme politiche e sociali. Nella fase dell’imperialismo mondiale periodicamente diviene inevitabile che il rude volto del fascismo si scopra al di sotto della liturgia democratica.
Il vecchio ideale di governo borghese fondato sulla separazione e sul bilanciamento dei poteri deve essere messo da parte e occorre una dittatura del capitale non più velata.
La crisi capitalista, sia democratica o fascista la forma del suo governo, alla
fine darà luogo al risorgere del movimento comunista mondiale, che metterà fine
a democrazia e a fascismo e alla stessa classe borghese, per mano della
dittatura del proletariato, guidata dal suo partito comunista internazionale.
La produzione industriale in Italia continua il suo lento declino: a dicembre si è registrato un netto calo in quasi tutti i settori, in particolare la moda e i mezzi di trasporto, con eccezione dell’alimentare e del tabacco. Su base annua, secondo i dati Istat, si è registrato un crollo del 7,1%. L’utilizzo della capacità produttiva si è ridotta al di sotto del 75%, paragonabile al terzo trimestre 2020, in pieno periodo Covid.
Rispetto a questo minimo la produzione industriale a gennaio è cresciuta del 3,2% in un mese, ma nel dato “tendenziale”, cioè rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, gennaio 2025 rispetto a gennaio 2024, l’aumento non basta a tornare in crescita, restando ancora in rosso dello 0,6%. Si raggiungono così due anni esatti di arretramento, avviato a febbraio del 2023 e mai interrotto. Nelle serie storiche degli incrementi annui il calo parte da giugno 2022 con due soli mesi di eccezione: agosto 2022, con un +3%, e gennaio 2023, con il 2,5%. Nelle medie annuali, dopo un modesto aumento dello 0,5% nel 2022, nel 2023 c’è stata una diminuzione del 2,5% e nel 2024 del 3,5%.
Il prezzo più alto delle crisi, come sempre, viene pagato dalla classe lavoratrice; licenziamenti, cassa integrazione, abbassamento dei salari medi, diminuzioni dei servizi sociali sono tornati all’ordine del giorno dopo l’effimera ripresa registrata nell’anno post-covid.
In Italia, neanche il santissimo Piano Nazionale di Ripresa e “Resilienza”, con il suo fiume di denaro a prestito, acclamato da tutti, è riuscito a rianimare l’asfittica economia nostrana, se non a far sì che l’attuale crisi non fosse ancora più profonda.
La produzione automobilistica e la sua filiera sono i settori in cui la sovrapproduzione in quasi due decenni è stata peggiore. Le immatricolazioni in Italia hanno avuto il picco nel 2007 con 2.490.570 unità; nel 2015, benché con un incremento di circa il 16% rispetto all’anno precedente, il numero era già sceso a 1.574.872; nel 2021 1.457.952 e nel 2024 1.558.704, il 37% in meno rispetto al 2007.
La borghesia italiana cerca di dare giustificazioni sostenendo che la frenata è dovuta in particolare alla recessione dell’economia in Germania, la quale genererebbe effetti a catena sugli acquisti delle merci italiane. L’Italia che intrattiene scambi produttivi con le industrie tedesche, non ha tardato a sentire gli effetti della loro contrazione. La crisi in Germania avrebbe provocato 3,6 miliardi di perdite in export nei soli primi 11 mesi del 2024.
In effetti la ex locomotiva d’Europa non se la passa bene. Nel triennio 2022-2024 l’indice della produzione industriale ha segnato in ordine: -0,2%, -1,7%, -4,4%. La borghesia tedesca addebita la crisi all’interruzione dei rapporti con la Russia, da cui importava la metà del suo fabbisogno energetico a prezzi competitivi. La sostituzione forzata delle forniture russe con il più costoso GNL americano, insieme alla concorrenza asiatica hanno decretato la crisi della più grande economia europea, con inevitabili conseguenze per gli altri Paesi.
Sicuramente quanto affermano i capitalisti è vero, ma si tratta soltanto dell’effetto e non della causa, che va ricercata nell’oramai putrescente sistema di produzione capitalistico che ciclicamente s’inceppa perché intasato di capitali e di merci.
Il governo italiano, come tutti, sta per varare nuovi pacchetti di aiuti per il prossimo triennio per cercare di arginare il crollo. Su “Il Sole 24 Ore” del 15 marzo un articolo spiega che ci si prepara a destinare una parte di queste misure a investimenti di diversificazione verso la produzione di componentistica per l’aerospazio e la difesa. Come per la ex fabbrica dell’Audi a Bruxelles, chiusa definitivamente il 28 febbraio, che potrebbe riconvertirsi per la produzione di armi, ha annunciato il nuovo ministro della Difesa, Theo Francken.
Alla borghesia italiana e internazionale non rimane che gettarsi nella
produzione bellica in direzione dell’agognato – dal capitale – macello mondiale.
Al proletariato spetta il compito di salvare se stesso affossando capitalismo e
borghesia insieme.
La Germania nazional-socialista durante gli anni della guerra reintrodusse il sistema dello schiavismo nei campi di concentramento, integrato nella moderna tecnica capitalistica. Lo stesso si faceva nella Russia nei Gulag, lo stesso già si era fatto nelle colonie della Gran Bretagna, della Francia e dell’Italia. Gli Stati Uniti, che avevano attuato una politica genocida verso le popolazioni autoctone del Nordamerica, durante la guerra internarono i cittadini di origine giapponese.
Alla fine della guerra “di liberazione” il capitalismo non esitò a sganciare due (due!) bombe atomiche su inermi città del Giappone, già sconfitto, al solo scopo di terrorizzare il proletariato internazionale e dare eloquente incipit alla “pace” imperialista.
La confusione, che è un’arma di guerra della borghesia contro la classe operaia, ancora oggi già tutto travolge.
Il 27 gennaio di quest’anno si è celebrato il cosiddetto “Giorno della Memoria”, come ogni anno dal 2012 quando fu istituito dal Parlamento europeo. La data ricorda che il 27 gennaio del 1945 le truppe russe arrivarono ad Auschwitz in Polonia liberando i pochi prigionieri sopravvissuti allo sterminio. In quel campo furono eliminati più di un milione di uomini, ebrei soprattutto, ma anche omosessuali, rom, invalidi, e cosa meno ricordata, oppositori politici. Pochi i comunisti che vi finirono: erano già stati eliminati prima dello scoppio della guerra, nei lager in Germania e nei gulag della controrivoluzione staliniana nella Russia del “Socialismo in solo Paese”.
Ma dopo, nel 2022, l’invasione dell’Ucraina, il presidente russo non è stato più invitato alla cerimonia presso il campo di sterminio di Auschwitz, che ha invece visto la partecipazione di molti capi di Stato, re e regine e anche del presidente della Repubblica italiana. I rappresentanti dello Stato (capitalista) le cui armate hanno liberato quel campo sono stati esclusi dalla celebrazione in nome di un diritto internazionale scritto dai vincitori (capitalisti) del Secondo Conflitto mondiale. Quel diritto che gli stessi ogni giorno irridono e si mettono sotto i piedi. Per contro l’esercito russo di oggi rivendica e si ritiene depositario della tradizione di quell’esercito “liberatore” che ottanta anni fa entrava nel campo di Auschwitz. Riprendeva la Polonia alla Germania, che nove anni prima questa aveva invaso, dopo che nel 1939 si erano spartiti col famoso Patto Ribbentrop-Molotov.
La borghesia ha infatti bisogno di mascherare dietro mostruose menzogne e
deformazioni le vere cause della guerra, che risiedono nella necessità del
regime economico capitalistico di uscire dalla crisi di sovrapproduzione, che
l’attanaglia. Le guerre ormai rappresentano solo lo scontro tra imperialismi
rivali e le loro motivazioni nazionali, ideologiche, di religiose, patriottiche
sono solo una lurida propaganda.
Gli ideologici e gli storici borghesi si sono poi incaricati di rappresentare la
Seconda Guerra mondiale come uno scontro tra Stati democratici e totalitari, per
negare che sia stata tra blocchi di Stati imperialisti, tra i quali era compresa
la Russia, già schierata contro la rivoluzione internazionale e in difesa
dell’ordine borghese.
Gli Stati borghesi possono ben celebrare i loro “giorni della memoria” ma i
proletari sanno bene che, “il più pulito di loro ha la rogna”. Solo nel partito
comunista è la coscienza storica della classe operaia e il solo argine e
vittoria sulle infamie propalate dalla confusione borghese.
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Abbiamo tenuto la nostra riunione generale internazionale nei giorni 25 e 26 gennaio, alla presenza di ampia rappresentanza di tutti i nostri gruppi.
Si è tenuta in tele-conferenza. Ove abbiamo sezioni territoriali vi assistiamo dallo stesso locale. Come di consueto abbiamo provveduto a una completa traduzione di tutti gli interventi e delle relazioni nelle nostre tre attuali lingue, italiano, inglese e spagnolo.
I lavori si sono aperti con la relazione del centro che ha tirato un bilancio dello sviluppo dei compiti del partito nell’anno trascorso.
Fa parte di queste funzioni la difesa della natura organica dell’interno rapportarsi fra militanti. Questo modulo – che non è banalmente organizzativo ma di sentimenti e di collaborazione comunista, conforme alla nostra ripugnanza di sempre per tutto quello che sa di borghese – ha dato già ottima prova nella sua applicazione effettiva ormai per almeno sei decenni, consentendo al piccolo partito di svolgere egregiamente i compiti che la situazione esterna gli assegna, nella misura del possibile: dalla difesa del programma e della scienza marxista alla ferma ricerca del contatto con la classe operaia e con le sue battaglie, dalla quale, in ultima istanza, ricaviamo la nostra ragion d’essere e, in un integrale storico, ogni nostra forza e certezza.
Con il diffondersi della nostra minima organizzazione al di fuori di Italia abbiamo potuto felicemente verificare che quei moduli organici sono con naturalezza applicabili a giovani compagni e sezioni lontane, che li riconoscono come consoni e necessari alla milizia comunista e bene ne consentono l’affiatamento e il lavoro comune. Possiamo in questo già vedere la conferma della nostra previsione del funzionamento del futuro rinato partito comunista ben radicato nella classe operaia mondiale.
Una unità di movimento frutto di un serrato lavoro impersonale, collaborativo e non conflittuale fra compagni e gruppi. Non ci affidiamo agli individui, neanche a quelli eventualmente più competenti ed esperti, ma allo sforzo di elaborazione di un organo collettivo che cerca nella dottrina e nel passato la via per il futuro. Una ricerca, un continuo affinamento teorico e di esperienze,
come se sedessero allo stesso tavolo i comunisti di oggi e tutti quelli che
ci hanno preceduto.
Il partito è anche il risultato delle proprie lezioni. Il vivente partito
rinasce sempre “più uguale” a sé stesso, confermato e rafforzato nelle sue
convinzioni. Non con licenza di innovare, che la dottrina fu stabilita una volta
per tutte al suo sorgere, al contrario, sempre più fedeli e coscienti di quello
che siamo sempre stati.
Altre prove attendono il partito, in questi tempi di avvicinamento alla
catastrofe del capitalismo, che rinnoverà i suoi attacchi disperati contro la
rivoluzione e contro il comunismo, e contro i comunisti. Non per questo
assumeremo nel partito i metodi dei nostri nemici.
Ci basta oggi dare continuità agli studi nei diversi campi di indagine, la loro presentazione al partito e alla classe nella propaganda e nella pubblicazione sulla stampa, come prosegue la sempre difficile e molto impegnativa nostra seria battaglia nei sindacati e fra le lotte operaie.
L’attuale minimo accrescersi dell’organizzazione ci chiama a nuovi impegni e a nuovo lavoro, in una visione complessiva delle necessità e delle attività del partito.
I nuovi compagni che arrivano sono incoraggiati, avviati e aiutati ad
affrontare ogni argomento e compito che la vita del partito richiede. Come
scrive Lenin, una vera centralizzazione del partito, non formale, richiede il
massimo decentramento, la armoniosa ripartizione delle sue varie responsabilità.
* * *
Queste le relazioni ascoltate nelle due sedute della riunione:
- La questione agraria: ancora cenni storici |
- La guerra imperialista in Medioriente: A Gaza i vinti saranno i vincitori |
- Il logorante massacro in Ucraina: La situazione al fronte |
- Origini del Partito Comunista di Cina: La sottomissione comunista con il Kuomintang |
- America Latina verso la ripresa della lotta di classe |
- La sinistra del socialismo ottomano e il Partito Comunista di Turchia: L’opposizione di sinistra |
- Le ideologie della borghesia: Dante Alighieri |
- La indipendenza degli Stati del Sahel alla prova |
- Rapporto sull’attività sindacale in Italia |
- Un anno di lavoro nei sindacati della sezione nordamericana |
La logorante guerra per procura in Siria è già stato pubblicato nel numero precedente di questo giornale.
Ne diamo qui subito dei brevi riassunti ad uso dei lettori, rimandandone la pubblicazione per esteso alle nostre riviste “Comunismo” e “Communism”.
La guerra imperialista in Medioriente
I vinti di oggi - vincitori di domani
Il rapporto alla riunione denunciava come già alla fine di gennaio la tregua si
dimostrasse fragile.
Lo Stato israeliano, lunga mano della macchina da guerra statunitense, ha
combattuto su sette fronti: a Gaza, nel Libano contro Hezbollah, in Siria e in
Iraq contro le milizie filo-iraniane, contro gli houthi nello Yemen, contro
l’Iran, infine contro i gruppi armati di Hamas e della JIP in Cisgiordania.
In questo ampio quadro la guerra combattuta in questi 15 mesi da Israele è stata un successo. Hezbollah, militarmente ben più potente di Hamas, è stata fortemente indebolita, con una parte considerevole della sua dirigenza fisicamente eliminata, con le strutture logistiche al Sud del Libano in gran parte distrutte e con altrettanti duri colpi inferti lungo la valle della Beqa’ e nei quartieri Sciiti di Beirut.
Ciò ha costretto Hezbollah alla tregua del 27 novembre, al diritto di Israele di colpire Hezbollah laddove non si ritirino a nord del fiume Litani, diritto di cui Israele si è avvalso con bombardamenti mirati quasi quotidiani.
Nemmeno una settimana dopo è iniziata in Siria l’avanzata delle milizie sunnite inquadrate nel Hay’at Tahrir al-Sham (HTS) che il 2 dicembre hanno conquistato Aleppo fino a prendere l’8 dicembre Damasco, deponendo gli Assad al potere dal 1971. Ciò ha portato alla rottura del cosiddetto “corridoio sciita”, che dall’Iran passando per l’Iraq e la Siria giungeva al Libano, rifornendo di armi Hezbollah, e alla fuga dalla Siria delle milizie filo-iraniane, che hanno ripiegato in Iraq. Questo è stato un secondo pesante colpo per il regime iraniano e le sue ambizioni nella regione.
A distrarre forze israeliane dal conflitto a Gaza sono rimaste quindi solo le milizie filo-iraniane in Iraq e gli houthi nello Yemen.
Infatti, dopo la caduta di Assad in Siria, l’8 dicembre, Israele ha lanciato un’ondata di bombardamenti contro le strutture militari dell’Esercito Arabo Siriano (EAS), l’esercito regolare siriano, distruggendo quasi completamente tutte le sue forze aeree, antiaeree e navali.
La caduta degli Assad ha favorito l’imperialismo turco che con l’Esercito Nazionale Siriano – finanziato, rifornito e addestrato da Ankara – agisce nel Nordovest siriano combattendo le forze curde del Partito dell’Unione Democratica (PYD), la branca siriana del PKK, che dirigono le Forze Democratiche Siriane, a minoranza arabo-sunnita. I curdi controllano l’area a Est dell’Eufrate, la più ricca di petrolio e prodotti agricoli, e limitate parti nel Nord. I curdi siriani avevano un rapporto non ostile col regime di Assad, che concedeva loro una sostanziale autonomia.
Il rafforzamento dell’imperialismo turco in Siria ha portato la dirigenza del PYD a cercare di stringere un sodalizio col regime israeliano. Da rilevare quanto poco valgano le questioni di principio per i regimi e i partiti borghesi, usate per giustificare le loro guerre. Il regime israeliano denuncia l’oppressione nazionale curda mentre perpetua in un mare di sangue quella palestinese. Al contempo partiti nazionalisti curdi si alleano con i due imperialismi – USA e Israele – primi responsabili di una oppressione nazionale identica a quella da essi sofferta. Per contro non esiste alcuna solidarietà fra minoranze nazionali oppresse, pur così vicine geograficamente. Dal momento in cui le lotte nazionali non hanno più alcuna funzione storica progressiva i partiti nazionalisti diventano solo marionette delle potenze imperiali.
A nulla valgano le giustificazioni ideologiche borghesi. Gli Stati Uniti
considerano organizzazione terroristica il PKK, ma non il PYD, la branca siriana
dello stesso partito, sostenuta dagli USA. Anche l’HTS era definito da Stati
Uniti e Unione Europea organizzazione terroristica ma, attraverso l’aiuto
militare ucraino, sono stati sostenuti dagli Stati Uniti, infine riconosciuti al
potere da tutti i paesi Occidentali.
L’imperialismo russo ha dovuto evacuare dalla Siria gran parte delle sue forze
armate – di terra, aeree e navali – e probabilmente anche le basi navale di
Tartus e aerea di Chmejmim. Per Mosca la perdita di queste basi in Siria
rappresenterebbe un duro colpo, venendo meno per essa un polo
logistico-operativo nel Mediterraneo orientale, che serviva alla proiezione
imperialistica russa verso l’Africa.
La reazione ai rovesci subiti da Iran e Russia è stata la firma il 17 gennaio di un “trattato di partenariato strategico globale” fra i due paesi. Però Israele godeva di un accesso quasi illimitato allo spazio areo siriano coordinato con il comando russo.
A Gaza invece il risultato non può dirsi ugualmente a favore d’Israele. Se circa 20 mila miliziani di Hamas e degli altri partiti nazionalisti palestinesi sono morti nei 15 mesi di combattimenti e la loro forza militare è stata fortemente ridotta, l’obiettivo proclamato dal governo israeliano di distruggere Hamas e impedire che si mantenga al potere nella Striscia di Gaza non è stato ottenuto.
Hamas ha dichiarato nei giorni successivi la tregua che lo schieramento dei suoi miliziani e della sua polizia ha lo scopo di “prevenire un vuoto di potere e il caos, assicurare l’ordine pubblico nonostante la devastazione” e “di essere riuscito a rimettere in funzione tutte le stazioni di polizia della Striscia”. Giovedì 23 gennaio il Ministero degli Interni di Hamas ha annunciato che i suoi uomini si stavano scontrando con l’assalto ai camion di viveri da parte di “bande criminali”.
È prossibile che siano gruppi criminali, ma anche la popolazione affamata. Ciò mette a repentaglio i guadagni di Hamas e il suo controllo sulla popolazione.
Ora che momentaneamente non piovono più le bombe israeliane non sarà facile per Hamas mantenere il controllo su 2 milioni e 300 mila persone, nelle condizioni in cui le ha ridotte la guerra.
C’è da ritenere veritieri i resoconti secondo cui Hamas continui a reclutare tanti giovani e giovanissimi, colmi di odio e rabbia per i massacri e le distruzioni compiute da Israele. Ma non vi è da dubitare che fra la popolazione serpeggi anche il malcontento verso Hamas che ha trascinato i gazawi in una guerra rovinosa. Inoltre fare il miliziano consente una fonte di reddito in una economia distrutta.
L’esibizione di forza di Hamas dunque non è rivolta solo contro Israele ma verso il proletariato e i diseredati di Gaza, per ammonirli che a ogni sommovimento verrà risposto col piombo di quei poliziotti e miliziani tanto ben vestiti e armati.
Anche per lo Stato borghese israeliano, se da un lato aver firmato una tregua con Hamas significa ammettere di non aver raggiunto l’obiettivo proclamato della guerra, dall’altro ciò gli permette di mantenere all’interno uno stato di emergenza, di guerra incombente, necessario per controllare la classe operaia israeliana.
La venduta borghesia israeliana propaga la menzogna che tutti i palestinesi starebbero con Hamas, esattamente come, dalla parte opposta, i partiti borghesi palestinesi inculcano l’idea che tutti i lavoratori israeliani acconsentano allo sterminio dei palestinesi e che quindi non possa esservi solidarietà proletaria al di sopra del fronte. Quindi, l’obiettivo della distruzione di Hamas, oltre ad essere di ben difficile attuazione, non è nemmeno auspicabile per la borghesia israeliana.
Le radici di Hamas sono i finanziamenti delle potenze regionali che la spalleggiano e i diseredati e sottoproletari palestinesi che si arruolano nelle sue milizie. Per distruggere Hamas non bastano i bombardamenti dal cielo e servirebbero più uomini sul terreno. Questo non è sostenibile per un esercito armato fino ai denti, grazie alle donazioni dell’imperialismo USA, ma che già mostra segni di crisi potendo contare su una popolazione di solo 8 milioni di cittadini ebrei israeliani, con uno stillicidio quotidiano di vittime.
Anche se militarmente annientato, le fonti di vita di Hamas ne genererebbero un partito analogo.
Vi è poi la questione demografica. Una “Grande Israele” che comprenda Cisgiordania e Gaza avrebbe una popolazione al 50% arabo-palestinese. Un capitalismo nella sua fase giovanile e progressiva ambirebbe a superare nella nazione le divisioni etniche e religiose, con la crescita economica e con radicali positive riforme strutturali. Il capitalismo nella sua fase senile, imperialista, si chiude nel razzismo, nell’oppressione delle minoranze. In Israele nello “Stato ebraico”.
Per la “questione palestinese” quindi lo Stato borghese israeliano non ha una soluzione. Per contro i proclami per la “distruzione d’Israele” di Hamas servono a mantenere i lavoratori israeliani terrorizzati e a cercare protezione nel loro Stato, che li condurrà al massacro.
Per questo Israele ha per anni sostenuto economicamente Hamas e più recentemente accettato che il Qatar aumentasse il suo finanziamento. Per questo oggi rigetta ogni progetto di affidare il controllo politico all’Autorità Nazionale Palestinese, che lo detiene in Cisgiordania: perché dire di “no” all’ANP a Gaza equivale a dire di “sì” ad Hamas.
La “soluzione” che il capitalismo ha da offrire ai proletari israeliani e palestinesi è un conflitto generale, una terza guerra mondiale. In essa sarà possibile, attraverso pulizie etniche e genocidi, “risolvere” capitalisticamente questo secolare conflitto, o con la “Grande Israele” o con la “Palestina libera dal Giordano al mare”, secondo il fronte imperialista che uscirebbe vincitore.
In ogni caso sarebbe il proletariato a essere ancora una volta sconfitto, da una parte e dall’altro del fronte, unito anche nella sconfitta in quanto unica è la sua condizione.
In Iran a fine anno e nei primi mesi di gennaio si sono moltiplicati gli scioperi. La valuta nazionale continua a svalutarsi e l’inflazione a crescere. Se cadesse il regime degli ayatollah sotto i colpi della classe operaia in lotta al regime borghese israeliano verrebbe meno quel “nemico esterno” che puntella il suo fronte interno. Sia fra i palestinesi sia fra gli israeliani s’indebolirebbero i partiti nazionalisti e guerrafondai.
È vero, entrambi i fronti di questa guerra possono dirsi vincitori, perché il vero sconfitto è il proletariato, di Gaza, d’Israele e di tutto il Medioriente.
Una tregua voluta e decisa dalle forze borghesi che hanno voluto la guerra, non determinata dalla ribellione delle masse proletarie da una o da entrambe le parti del fronte, è solo una pausa in attesa della ripresa del conflitto.
Ma è anche vero che tutte le borghesie e i loro Stati sono intrinsecamente deboli, minacciati dalla crisi economica e sociale del capitalismo che avanza e si approfondisce ogni giorno, e che non possono evitare. Sono storicamente tutti già sconfitti perché per salvarsi non hanno da offrire null’altro che morte e distruzione, la devastazione di Gaza e del resto del mondo.
Il proletariato, sconfitto a ogni conflitto che inizia e si consuma fino in fondo, è il problema che il capitalismo non può risolvere e che, quando, per determinazioni materiali inevitabilmente, si ricollegherà al suo partito superando 100 anni di controrivoluzione, sarà la morte per tutte le macchine da guerra del capitale.
Il logorante massacro in Ucraina
È continuata la lenta avanzata delle truppe russe sia sul fronte meridionale del Donetsk sia nella regione russa di Kursk.
Le quattro regioni di Luhansk, Donetsk, Zaporižžja e Kherson annesse alla Russia con i referendum indetti nel settembre 2022 non sono ancora completamente sotto il controllo militare russo, a parte Luhansk. Rientrano, insieme alla Crimea, nelle rivendicazioni territoriali che Mosca ha sempre posto come precondizione per negoziare un accordo.
Nel Donetsk un sistema di difese poderoso, costruito negli anni deve essere conquistato metro per metro. La strategia dei russi pare essere costringere gli ucraini ad ammassare truppe in certi punti del fronte dove possono essere colpite dagli aerei o dall’artiglieria.
Sul fronte diplomatico la Russia non pare interessata ad arrivare velocemente ad un cessate il fuoco. La situazione delle forze armate ucraine, colpite da decine di migliaia di diserzioni, dall’incertezza sulle forniture militari, dalla carenza di munizioni e da una aviazione ridotta al minimo, apre la strada a nuovi successi per Mosca, che deve giustificare dinanzi al proletariato le decine di migliaia di morti e i danni economici, causati da questo conflitto.
La Russia chiede inoltre la smilitarizzazione di quanto resta dello Stato ucraino e l’assicurazione che l’Ucraina resterà fuori dalla Nato.
Il recente accordo strategico con l’Iran ha rafforzato la posizione internazionale della Russia, anche se l’alleanza militare ha limiti precisi e non si spinge a prevedere che nel caso uno dei due firmatari venga attaccato da uno Stato terzo l’altro sia obbligato ad intervenire.
Durante la campagna elettorale Trump, in contrasto con le prevalenti idee “isolazioniste” sull’abbandono di Kiev al proprio destino, ha fatto affermare al suo consigliere per la sicurezza nazionale che la nuova amministrazione avrebbe spinto l’Ucraina ad “abbassare l’età di mobilitazione a 18 anni per attirare centinaia di migliaia di nuove truppe”, continuando così la guerra “fino all’ultimo ucraino”.
I vertici della Unione Europea e della Nato insistono nella decisione di aiutare Kiev “fino alla vittoria” con la riconquista dei territori attualmente occupati dalla Russia. Addirittura avrebbero l’intenzione di continuare a sostenere l’Ucraina anche se gli Stati Uniti dovessero cessare di farlo. “Se non facciamo nulla la Russia potrebbe attaccarci”, gridano in coro i guerrafondai che rappresentano l’Unione Europea, per mascherare l’interesse comune ai profitti delle industrie di armi. Attualmente gli Stati Uniti forniscono agli Stati europei della Nato il 70% degli armamenti.
C’è anche accordo con i vertici della Nato perché gli Stati aderenti aumentino la spesa in armi al 5% del PIL, che significherebbe più del doppio dell’attuale.
Si minacciano addirittura rischiose decisioni unilaterali di invio di contingenti militari di alcuni Paesi della Nato a combattere in Ucraina.
Gli Stati europei d’altronde rischiano di essere tagliati fuori da eventuali negoziati di pace perché il presidente statunitense ha già anticipato che è pronto a toglierli di mezzo e a trattare direttamente con Putin, non dando agli Stati europei, come sempre, voce in capitolo.
Per contro le famose sanzioni contro la Russia stanno mettendo in ginocchio soprattutto l’apparato industriale europeo più che l’economia russa, che ha trovato altri acquirenti sul mercato mondiale.
Naturalmente non c’è una posizione univoca tra i 27 Stati dell’Unione che portano avanti politiche diverse e anche contrastanti.
La Francia ha sposato la linea dura della risposta militare invocando, anche recentemente, il coinvolgimento diretto dell’Alleanza Atlantica nel conflitto, e ha tolto le restrizioni all’impiego dei propri missili da crociera SCALP per colpire il territorio russo.
Anche la Polonia ha auspicato un coinvolgimento diretto nel conflitto e ha intrapreso ormai da qualche anno un ardito piano di riarmo con acquisti importanti dagli Stati uniti e dalla Corea del sud e prevede di destinare alla difesa il prossimo anno ben il 4,7% del bilancio statale.
Il governo tedesco, ormai dimissionario, ha tenuto una posizione intermedia
inviando notevoli aiuti militari a Kiev ma impedendo l’uso dei suoi missili
Taurus a lunga gittata all’interno della Russia.
L’Italia continua ad inviare armi e aiuti a Kiev ma si è sempre dichiarata
decisamente contraria all’invio di truppe sul territorio ucraino.
Il Regno Unito si dichiara pronto al confronto diretto con Mosca e autorizza
l’impiego dei missili da crociera contro la Russia. Il nuovo governo laburista,
in perfetta continuità col precedente conservatore, ha siglato un patto di “collaborazione
di cento anni” col governo ucraino che prevederebbe addirittura la possibilità
di installare basi militari nel Paese. Ma gli ambienti militari fanno notare che
le Forze Armate di Sua Maestà non sono mai state così deboli fin dall’era
napoleonica.
In questi giochi di potere lo Stato ucraino non ha alcun
ruolo, dipende in tutto dai suoi “protettori” a Washington. Questa sudditanza
del governo dell’”accattone” Zelensky, come lo ha definito Trump, è comprovata
dal ruolo dei servizi segreti di Kiev nell’appoggiare l’avanzata dei ribelli che
in Siria hanno abbattuto il regime di Assad, affiancando gli Stati Uniti che li
hanno protetti e appoggiati.
Quello della consistenza numerica degli eserciti è un problema che la guerra
d’Ucraina sta ponendo a tutti gli Stati Maggiori d’Europa. Gli eserciti di
mestiere, composti da decine di migliaia di specialisti, non sono adatti a
combattere la guerra che si sta preparando. Sarà necessario mobilitare centinaia
di migliaia, milioni di proletari da dispiegare come carne da cannone. Già in
molti Stati ci si prepara a reintrodurre la leva obbligatoria.
Quello che si sta prospettando dunque, nonostante i discorsi propagandistici sulla possibilità della pace, è un prolungamento di questa guerra ancora a lungo.
I proletari d’Ucraina e di Russia, già provati da anni di guerra, sottoposti al tallone di ferro di governi corrotti e guerrafondai, potrebbero ribellarsi a una nuova richiesta di versare il loro sangue e imporre agli Stati la loro pace, l’unica possibile, abbattendo il regime del capitale come fece il proletariato di Russia nell’ottobre del 1917. Solo il proletariato in lotta per il comunismo potrà mettere fine allo stato di guerra permanente, di miseria e di fame, di incertezza e di terrore del domani in cui il regime capitalista, in piena crisi, non solo economica e ideologica, ma domani sociale e politica, ha portato l’intera umanità.
Origini del Partito Comunista di Cina
8. La sottomissione al Kuomintang
Il secondo Congresso del Partito Comunista di Cina (PCdC) si svolse a Shanghai nel luglio del 1922 alla presenza di nove delegati che rappresentavano i 123 membri del partito. I documenti del Congresso analizzarono la situazione politica e internazionale della Cina, con un focus sull’imperialismo e la lotta contro l’aggressione straniera. Si sottolineò la divisione interna della Cina, caratterizzata dalla presenza dei Signori della guerra e dalla guerra civile, che impediva l’unità del paese.
Una borghesia compradora agiva da intermediaria tra il capitale straniero e l’economia cinese. I contadini, impoveriti, rappresentavano la forza più numerosa nella rivoluzione, ma che sarebbe stata fale solo in alleanza con la classe operaia.
Il Congresso sosteneva che la Cina fosse in una fase di transizione tra feudalesimo e capitalismo, e che la borghesia cinese dovesse lottare contro il feudalesimo, con il proletariato che avrebbe dovuto allearsi con i contadini per guidare la rivoluzione.
Tuttavia i documenti mancavano di una visione chiara riguardo al ruolo delle classi sociali nella rivoluzione, lasciavano aperta una possibile interpretazione verso una “rivoluzione per tappe”, come quella teorizzata in Russia dai menscevichi.
Il PCdC decise di affiancare le altre forze rivoluzionarie, tra cui il Kuomintang, ma cercando di mantenere l’indipendenza del proletariato. Si propose anche una “Alleanza Democratica” che avrebbe unito vari gruppi, ma l’iniziativa non trovò l’approvazione del Kuomintang e fu abbandonata. Il lavoro nel movimento operaio rimase l’obiettivo principale del PCdC, che cercava di promuovere l’organizzazione indipendente della classe operaia.
Inoltre, emersero disaccordi interni sulla centralizzazione del partito, con una tendenza democratica guidata da Li Hanjun che si opponeva alla visione centralizzata del PCdC. Li sosteneva un partito meno centralizzato e più focalizzato sulla promozione del comunismo tra gli intellettuali, una visione che fu sostenuta da Maring per la sua apertura al Kuomintang.
Il secondo Congresso del PCdC nel 1922 accettò le direttive del secondo Congresso dell’Internazionale Comunista riguardo alla questione nazionale e coloniale, ma continuarono a persistere le divisioni sulla tattica da adottare nei confronti del movimento nazional-rivoluzionario, in particolare sulla cooperazione con il Kuomintang (KMT). Nonostante non fosse adottata dal Congresso la proposta di Maring di formare un “blocco interno” con il KMT, Maring ottenne un via libera dal Comitato Esecutivo del Comintern (ECCI) per la sua linea, che prevedeva il trasferimento della sede del PCdC a Canton e una stretta cooperazione con il KMT.
L’ECCI approvò alcune raccomandazioni di Maring, indicando ai comunisti cinesi di lavorare a stretto contatto con lui a Canton, dove il KMT esercitava una forte influenza. Sebbene non ci fosse una dichiarazione ufficiale che giustificasse l’ingresso dei comunisti nel KMT, l’ECCI fornì delle direttive che consideravano il KMT una organizzazione rivoluzionaria, con l’obiettivo di sostenerne l’”ala proletaria” e di educare futuri membri ideologicamente indipendenti verso il PCdC.
Le istruzioni dell’ECCI, pur non approvando esplicitamente la linea di Maring, riflettevano un approccio ambiguo e aperto all’opportunismo, presupponendo che il PCdC dovesse ancora formarsi e che i comunisti dovessero sostenere un’ala del KMT ritenuta rappresentativa degli “elementi proletari”.
L’ECCI produsse delle Istruzioni per il Rappresentante dell’ECCI nella Cina Meridionale, con cui stabiliva la linea da adottare da parte dei comunisti cinesi. Questo approccio avrebbe portato a sostenere la teoria di un’“ala sinistra” all’interno del partito borghese cinese, una posizione che, col tempo, avrebbe avuto implicazioni negative per la rivoluzione in Cina.
A metà del 1922, l’Internazionale Comunista ordinò ai comunisti cinesi di “organizzare gruppi comunisti nel KMT”, una proposta simile a quella di Maring che fu subito respinta dal PCdC. Per superare l’opposizione interna Maring convocò il Plenum di Hangzhou tra il 28 e il 30 agosto 1922, dove, utilizzando l’autorità dell’Internazionale, riuscì a ottenere il consenso del PCdC per la tattica di entrare nel KMT. Questo incontro segnò l’inizio di una cooperazione più stretta tra il PCdC e il KMT, con i comunisti che avrebbero formato un “blocco interno” nel partito nazionalista.
La decisione del PCdC di entrare nel KMT segnò una svolta importante: i comunisti rinunciavano alla loro indipendenza politica e organizzativa e si sottomettevano alla disciplina del KMT. Questo processo culminò nel Terzo Congresso del PCdC, quando i comunisti avrebbero definitivamente ceduto al KMT la direzione della rivoluzione nazionale. Tuttavia, molti comunisti cinesi, come Zhang Guotao e Cai Hesen, erano contrari a questa linea, sostenendo invece la centralità del movimento operaio. Ma, nonostante la resistenza, la disciplina all’Internazionale prevalse, e i dirigenti del PCdC, pur contrari, accettarono la linea imposta. Solo la Segreteria del Lavoro continuò a opporsi.
L’opposizione alla politica di Maring era forte nel partito e detestata persino dai membri del Comitato Esecutivo Centrale. Maring, per rafforzare la sua posizione, ne suggerì l’espansione aggiungendo membri favorevoli alla sua linea, come Li Hanjun e Li Dazhao, rappresentanti della destra nazionalista. Quindi, nonostante le resistenze, la direzione del PCdC si spostò gradualmente verso una posizione favorevole all’ingresso nel KMT.
L’ingresso nel KMT segnò l’inizio di una cooperazione che avrebbe visto i comunisti partecipare alla riorganizzazione del Partito nazionalista. Frattanto al IV Congresso dell’Internazionale si discuteva su un possibile appoggio militare sovietico. Il delegato cinese Lin-Yen-Chin parlò di un “fronte unito” con il KMT, con l’idea che i comunisti entrassero nel partito individualmente per rafforzare l’influenza rivoluzionaria.
Questa tattica di infiltrazione nel KMT, sostenuta dall’Internazionale e da Maring, era fondamentalmente errata, basata sull’illusione di poter strappare influenza ai nazionalisti.
Radek nel suo intervento criticò l’ottimismo dei delegati cinesi e sottolineò la debolezza del movimento rivoluzionario in Cina. Considerava la situazione ancora lontana dall’essere favorevole al socialismo o a una repubblica sovietica, e suggeriva che il compito dei comunisti fosse quello di concentrarsi sull’organizzazione della classe operaia e stabilire alleanze con le forze borghesi rivoluzionarie per combattere l’imperialismo. Radek non appoggiava direttamente la tattica di Maring, ma la realtà del PCdC che entrava nel KMT a livello individuale dei militanti condannava il Partito Comunista a lavorare per la borghesia; avrebbe, in pratica, imposto la sottomissione del Partito Comunista e del proletariato cinese alla borghesia.
L’Internazionale, con le sue “Tesi sulla questione orientale”, promosse la tattica di un “fronte unico antimperialista”, ma senza considerare le problematiche di una simile alleanza in Cina. Il IV Congresso dell’Internazionale e il Partito Comunista d’Italia ribadirono la necessità di chiarezza ideologica e di una struttura organizzativa forte, ma in Cina la penetrazione dei comunisti nel KMT metteva in pericolo l’indipendenza politica e l’efficacia del movimento proletario.
Nel gennaio 1923, il IV Congresso dell’Internazionale formalizzò la sua posizione sulla Cina, favorendo la cooperazione tra il PCdC e il KMT. La risoluzione sottolineava che il KMT era l’unica forza rivoluzionaria in Cina, espresso dalla borghesia democratica, dalla piccola borghesia, dagli intellettuali e dagli operai. Poiché il movimento operaio era ancora debole, il PCdC avrebbe dovuto collaborare con il KMT nella lotta contro l’imperialismo.
Questa alleanza con il KMT segnava un cambiamento rispetto alle critiche precedenti fatte dall’Internazionale riguardo alla borghesia cinese. La politica portava alla subordinazione del PCdC alla borghesia del KMT, abbandonando l’indipendenza del movimento proletario come indicato nei Congressi precedenti.
Nel gennaio 1923, l’Internazionale e il PCdC si allinearono con Sun Yat-sen, il capo del KMT, che era alla ricerca del sostegno sovietico, pur accettando che la Cina non fosse pronta per il comunismo. Questa politica menscevica negava l’adozione di una rivoluzione socialista radicale, optando per un’alleanza con la borghesia.
Nel febbraio 1923, dopo la repressione degli scioperi dei ferrovieri, il PCdC, pur avendo una forte influenza sulla classe operaia, si trovò legato al KMT. Il Terzo Congresso del PCdC, tenutosi a giugno, confermò questa alleanza con il KMT come centrale per la rivoluzione nazionale, abbandonando ogni tentativo di autonomia politica. Questo compromesso con la borghesia avrebbe portato alla sconfitta della classe operaia nella repressione del 1927.
Al Terzo Congresso del PCdC emerse da parte di molti membri, tra cui Mao Zedong, la rinuncia alla possibilità di una rivoluzione autonoma. La disputa sul centralismo all’interno del PCdC fu risolta con l’adozione di misure per rafforzare il centro del partito. Di conseguenza alcuni membri di destra, come Li Hanjun, lasciarono il PCdC per unirsi al KMT.
Tuttavia restavano controverse le relazioni con il KMT. Molti membri del PCdC erano contrari alla tattica dell’entrismo, ma Maring la difese sostenendo che il PCdC dovesse concentrarsi sulla rivoluzione nazionale, unendosi al movimento nazionalista e integrando la forza del KMT. Giustificava questa alleanza con la sua valutazione dell’arretratezza economica e sociale della Cina, unita alla debolezza del PCdC.
Il Terzo Congresso del PCdC non risolse completamente la questione. Se da un lato si riconosceva la necessità di influenzare il KMT, dall’altro si criticava la sua tattica militare, che lo avvicinava ai militaristi e agli imperialisti, ritenuti incompatibili con una rivoluzione nazionale. Il PCdC avrebbe dovuto quindi suscitare un’ala sinistra all’interno del KMT, composta da operai e contadini, per orientarlo verso una politica più rivoluzionaria.
Nel novembre 1923 la resistenza all’interno del PCdC continuava. Zhang Guotao rifiutava l’idea che il KMT fosse l’unico movimento rivoluzionario e sosteneva che la borghesia cinese fosse ancora troppo dipendente dagli imperialisti. Pur riconoscendo la necessità di lavorare all’interno del KMT, Zhang sosteneva che il PCdC dovesse mantenere una posizione indipendente, continuando a organizzare i lavoratori e a sviluppare una lotta autonoma, evitando che il movimento operaio fosse subordinato al KMT. Zhang Guotao criticava il KMT ritenendolo non solo un falso partito nazionalista, ma anche privo di vera organizzazione, infatti il suo primo Congresso avverrà nel 1924.
Alcuni membri del PCdC, tra cui Chen Duxiu, non erano disposti a cedere il ruolo guida della rivoluzione al KMT e ritenevano importante mantenere l’indipendenza politica del PCdC.
Tuttavia, nonostante l’opposizione interna, la dirigenza del PCdC confermò la linea del Terzo Congresso, sostenendo la partecipazione dei comunisti alla riorganizzazione del KMT. Nel novembre 1923 l’Esecutivo del PCdC ratificò la decisione di considerare il KMT la forza centrale della rivoluzione in Cina, con i comunisti che dovevano integrarsi nelle sue sezioni.
La risoluzione non lasciò dubbi sul percorso intrapreso: tutto il lavoro del Partito Comunista doveva essere condotto all’interno del Kuomintang, ora considerato la forza centrale della rivoluzione in Cina. La riorganizzazione e lo sviluppo del Kuomintang erano diventati i compiti principali del Partito Comunista.
La risoluzione emanò direttive precise: i comunisti, pur rimanendo membri del PCdC, dovevano unirsi alle sezioni del KMT nei centri in cui queste erano già presenti o creare loro stessi sezioni del KMT dove non ce n’erano; il programma dettato dalla dirigenza del KMT doveva essere seguito; e la correzione delle tendenze politiche del KMT doveva essere effettuata “in conformità con il principio nazionalista incarnato nei Tre Principi del Popolo”.
Nel dicembre 1923, il PCdC emise una circolare obbligando la partecipazione dei comunisti al Congresso del KMT, che si sarebbe svolto a gennaio 1924. Questo approccio fu accompagnato da una rielaborazione teorica che enfatizzava il ruolo rivoluzionario della borghesia nella guida della rivoluzione nazionale.
Mao Zedong, appena eletto al Comitato Centrale, sostenne questa posizione, teorizzando che i mercanti (parte della borghesia) sarebbero stati i più motivati a lottare contro i militaristi e gli imperialisti, per via dei loro interessi economici. Così, teorizzando un ruolo preminente della borghesia commerciale, si arrivò a prendere la posizione classica del menscevismo, che lascia la guida della rivoluzione nei paesi arretrati alla borghesia nazionale. Questa interpretazione dello sviluppo rivoluzionario nei paesi arretrati, secondo cui il giogo imperialista avrebbe reso la borghesia nazionale dei paesi coloniali e semicoloniali più rivoluzionaria della borghesia antifeudale russa, nelle formulazioni successive sarà la stessa con cui l’Internazionale degenerata giustificherà tutte le direttive imposte ai comunisti cinesi, che porteranno alla tragica sconfitta della rivoluzione proletaria in Cina, mentre Lenin aveva già chiarito che «la rivoluzione borghese è impossibile come rivoluzione della borghesia», separando definitivamente il bolscevismo dalla corrente menscevica.
Lotte di classe in America Latina
Nonostante la Commissione Economica per l’America Latina e i Caraibi valuti tra il 2015 e il 2024 il tasso di crescita medio annuo dei Paesi della regione dell’1% e preveda una crescita di oltre il 2% nel 2025 e una tendenza al ribasso dell’inflazione, ai lavoratori permane molto sfruttamento, un forte calo dei salari reali (nonché delle pensioni), con il 46,7% della forza lavoro impiegata in lavori informali. I governi si trovano di fronte alla necessità di ridurre il carico fiscale e prendono in considerazione di tagliare le buste paga e di privatizzare le imprese e i servizi statali centralizzati.
Ogni governo borghese, insieme ai partiti, ai parlamentari e ai pagliacci dei sindacati, cerca di illudere la classe operaia che la ripresa degli affari e delle imprese porterà loro prosperità. Ma la prosperità delle economie nazionali non si tradurrà necessariamente in un miglioramento dei salari, delle condizioni e dell’ambiente di lavoro. Qualsiasi piano economico dei governi borghesi della regione si baserà sull’aumento del tasso di sfruttamento della classe operaia.
I governi attueranno incentivi alla crescita, all’accumulazione di capitale e di attrazione di investimenti esteri, accompagnati da disoccupazione e da un calo sostenuto dei salari reali. Sempre più le direzioni sindacali traditrici e i partiti opportunisti troveranno difficile contenere le lotte operaie e incanalare il malcontento nel circo elettorale. Condizioni che imporranno il rafforzamento e l’estensione del terrore e della repressione dello Stato borghese.
Le lotte sono distorte dall’influenza della piccola borghesia e dell’aristocrazia del lavoro. I sindacati di regime e i partiti opportunisti che influenzano il movimento operaio e ne controllano le organizzazioni economiche svolgono un ruolo fondamentale nella smobilitazione, disorganizzazione e divisione del movimento sindacale. Le rivendicazioni dei lavoratori si mescolano con quelle borghesi o piccolo-borghesi: la sovranità nazionale, contro la privatizzazione delle imprese statali, per i crediti alle piccole e medie imprese, ecc.
Tuttavia alcuni lavoratori hanno intrapreso la lotta o rompendo il controllo delle dirigenze sindacali o costringendole ad assumere la guida di scioperi e mobilitazioni. I lavoratori hanno richiesto aumenti salariali, il pagamento degli arretrati e la difesa delle loro condizioni di vita e dell’ambiente di lavoro.
Queste lotte sono state sconfitte o hanno ottenuto scarsi risultati. Ma rappresentano una anticipazione della ripresa della lotta di classe. Da questi episodi non è emersa una nuova direzione sindacale della classe, né tanto meno si sono avuti contatti tra questi movimenti e il partito rivoluzionario. Dobbiamo valutare questa realtà del movimento operaio né con idealismo né con volontarismo, ma a conferma di come la contraddizione capitale-lavoro emerga e si imponga nonostante il controllo dell’opportunismo e del tradimento nel movimento sindacale.
Abbiamo visto l’unità dei lavoratori alla base, la decisione di scioperare a
tempo indeterminato e senza servizi minimi, con assemblee e organizzazioni alla
base, le richieste di aumenti salariali e connesse alla situazione sociale ed
economica dei lavoratori, rifiutando le posizioni infide dei capi sindacali.
Le inadeguatezze politiche di questi movimenti non potranno essere superate
senza un contatto del movimento sindacale con l’indirizzo dei comunisti. Da qui
l’importanza di perseverare nella propaganda rivoluzionaria.
Sono da evidenziare all’inizio di questo 2025:
In Uruguay dal 22 novembre i lavoratori dell’industria della carne hanno intrapreso una lotta con diverse azioni volte a rompere lo stallo della contrattazione collettiva sui salari e sulle condizioni di lavoro. Questo movimento ha superato le frontiere, ricevendo il sostegno della Confederazione Nazionale dei Lavoratori dell’Alimentazione del Brasile e di altre organizzazioni sindacali della regione. L’industria della carne, uno dei settori economici più importanti dell’Uruguay, impiega migliaia di lavoratori e ha un impatto significativo sulle esportazioni del Paese. Tuttavia, le condizioni di lavoro e salariali nel settore sono state oggetto di ricorrenti tensioni. I lavoratori chiedono miglioramento dei salari in linea con l’aumento del costo della vita e l’attuazione di misure per garantire condizioni di lavoro dignitose e la sicurezza nei processi produttivi. Gran parte dei dipendenti del settore riceve salari che superano a malapena il minimo legale, pur dovendo affrontare lunghi orari di lavoro e condizioni che comportano rischi per la salute. Resta da vedere fino a che punto si concreterà la solidarietà internazionale, a partire da quella dei lavoratori brasiliani della stessa industria.
In Argentina la rappresentanza parlamentare del cosiddetto “Frente de Izquierda”, una coalizione elettorale fra diversi partiti opportunisti, ha presentato un progetto di legge per la nazionalizzazione del sistema ferroviario “sotto il controllo, la gestione e l’amministrazione delle organizzazioni dei lavoratori e degli utenti”. Ancora una nefasta influenza dell’opportunismo che cerca di distrarre le lotte dei lavoratori dalle esigenze e dal confronto con il padronato. Il percorso di “lotta” presentato dal Fronte di Sinistra (e da tutti gli opportunisti della regione) è quello del tradimento, del policlassismo, del parlamentarismo, dell’elettoralismo, per mantenere il movimento operaio impotente di fronte all’offensiva dei capitalisti e dei loro governi.
Nel 2024 ci sono stati 35.000 licenziamenti nel settore pubblico ed è continuata la svalutazione della moneta. Il governo Milei non consulta più i sindacati ufficiali, ma questi continuano ad appoggiare la borghesia nello sfruttamento dei lavoratori e ogni reazione critica è solo una pantomima che esclude la lotta operaia.
Nell’ottobre 2024 il potere d’acquisto del salario minimo era inferiore di quasi il 40% rispetto al novembre 2019 e del 54% rispetto allo stesso mese del 2015. Si tratta di un calo del salario che precede la gestione di Milei poiché la borghesia fa comunque i suoi affari aumentando lo sfruttamento della classe lavoratrice.
In El Salvador dal marzo 2022 sono state approvate 33 proroghe del “regime di emergenza”, giustificato per il contrasto alle bande criminali, ma anche utile per terrorizzare la classe operaia, con i dirigenti sindacali perseguitati, incarcerati e uccisi. Col pretesto del regime di emergenza il governo ha annullato i contratti collettivi, ha proibito gli scioperi.
In accordo con il Fondo Monetario Internazionale sono stati eliminati 19 enti pubblici, tagliata la spesa, licenziamenti e tagli alle buste paga nel pubblico impiego, soprattutto nella sanità e nella scuola. Si aggiungono nuove tasse e i tagli ai sussidi per la popolazione.
Nei Paesi della regione prevale la settimana lavorativa di 48 ore.
In Venezuela, dall’emanazione della legge sul lavoro del 2012, la settimana è stata fissata a 40 ore, con 2 giorni successivi di riposo. Con eccezioni per alcuni settori, oltre a consentire prolungamenti della giornata per cause “giustificate”.
In Messico esiste un “Fronte per le 40 ore”. Lì la settimana è di 48 ore. La
proposta di ridurrla a 40 ore fa parte dei “100 impegni di governo” inclusi
nella campagna elettorale dell’attuale presidente.
La settimana lavorativa massima legale in Colombia è stata fissata a 46 ore dal
15 luglio 2024; il 16 luglio 2025 sarà ridotta a 44 ore e dal 16 luglio 2026, a
42, su sei giorni alla settimana. Tuttavia, sono noti casi in cui i datori di
lavoro colombiani ne approfittano per ridurre i salari.
In Cile è previsto il raggiungimento delle 40 ore settimanali a partire dal 26
aprile 2028.
In Brasile a settembre una petizione al Congresso nazionale chiede la fine
dell’orario di lavoro 6x1, sei giorni di lavoro per un giorno di riposo, ha
ricevuto quasi 3 milioni di firme. Il turno 6x1 è diffuso nel commercio e nei
servizi. Dei circa 55 milioni di lavoratori circa due terzi hanno un orario alle
40 ore settimanali. L’82% dei lavoratori del commercio e dei servizi guadagna
meno di 2.824 reais, 455 dollari, e il 42% guadagna meno di 2.100 reais.
Ma il Congresso nazionale ha già insabbiato o respinto almeno 9 proposte sulla riduzione dell’orario di lavoro in Brasile. La maggior parte delle modifiche alla legislazione sull’orario ha favorito i padroni. Nel 2017 una riforma ha stabilito che gli straordinari siano compensati con un uguale numero di ore di riposo entro sei mesi, che spesso le aziende non la rispettano. Secondo le norme precedenti i lavoratori ricevevano un supplemento del 50% per gli straordinari, che saliva al 100% nei fine settimana.
Il governo Lula non si è espresso contro il 6x1 per non inimicarsi i lavoratori. La rivendicazione non è appoggiata della mobilitazione dei sindacati ma dell’opinione pubblica e da interessi elettorali.
La proposta di ridurre la settimana lavorativa nei Paesi dell’America centrale e meridionale rientra nei calcoli della borghesia, che risolve le necessità di prolungamento dell’orario attraverso gli straordinari. Infatti la riduzione dell’orario è accompagnata dalla sua maggiore flessibilità. Inoltre la gran parte della classe operaia è ormai precaria o sottoccupata e per essi nessuna norma è applicata. In Brasile, ad esempio, gli autisti di Uber e gli addetti alle consegne di cibo e pacchi, non sono classificati come lavoratori dipendenti ma “microimprenditori”, senza diritti né Previdenza Sociale.
Il movimento sindacale di classe dovrà farsi carico della richiesta di una riduzione significativa dell’orario di lavoro, senza riduzione dei salari e senza aumento degli straordinari e dell’intensità del lavoro. Ad esempio nell’istruzione riducendo il numero di alunni per classe, o nella sanità riducendo il numero di pazienti per infermiere.
Per l’anno 2025, il salario minimo in Colombia è stato fissato a 1.423.500 pesos. Questo copre solo il 52% delle necessità di base di un lavoratore singolo e il 35,6% di quanto richiesto da una famiglia di quattro persone. Ma il salario minimo si applica solo al 9,9% della popolazione economicamente attiva: 10 milioni di lavoratori non percepiscono nemmeno quello.
In Venezuela, il 10 gennaio, Nicolás Maduro ha giurato come presidente per un nuovo mandato (2025-2031), con un forte dispiegamento mediatico e militare-poliziesco e con l’arresto sia di esponenti dei partiti di destra sia della sinistra opportunista. Annunci di arresti di “terroristi” e di agenti della CIA abbondano. Tutta la tensione politica e mediatica che ha circondato il risultato elettorale del 28 luglio 2024 e la rielezione di Nicolás Maduro riflette una lotta inter-borghese, a sua volta espressione di lotte inter-imperialiste per il controllo delle materie prime del Venezuela, petrolio e gas. Sia le fazioni politiche al governo sia quelle che gli si oppongono rappresentano interessi borghesi e imperialisti per la spartizione della torta.
Paradossalmente, mentre il governo Biden offriva un aumento della ricompensa a 25 milioni di dollari ciascuno per informazioni che portassero alla cattura di Maduro e Cabello (la stessa taglia che pendeva su Osama Bin Laden) ed emetteva restrizioni sui visti per circa 2.000 chavisti, nello stesso tempo la Casa Bianca si accordava con il governo venezuelano sul business del petrolio e del gas e non revocava le licenze alle compagnie petrolifere americane che operano in Venezuela.
Entrambe le fazioni politiche in Venezuela proteggono i profitti della borghesia e dell’imperialismo. Entrambe utilizzeranno l’apparato poliziesco-militare-giudiziario per reprimere e schiacciare le lotte operaie. Entrambe cercano di schierare i lavoratori dalla loro parte, in una polarizzazione tra gruppi borghesi.
Ma la sinistra opportunista cerca di presentarsi come alternativa a questi due poli politici, rivendicando la legalità, la democrazia e i diritti umani. Questa sinistra, parlamentare ed elettorale, nazionalista, patriottica e democratica, è anch’essa nemica dei lavoratori e contribuisce al loro asservimento. Si appella solo a qualche riforma che non cambia l’essenza del regime di sfruttamento dominante. La ripresa della lotta di classe dovrà rompere non solo con la polarizzazione artificiale imposta dalla borghesia, ma anche con le correnti traditrici della sinistra opportunista.
Il percorso che i lavoratori devono seguire è quello di tornare a scioperare, a tempo indeterminato e senza preavviso, per la richiesta di aumenti significativi dei salari, delle pensioni e delle rendite, del sostentamento dei disoccupati, della riduzione della giornata lavorativa, appoggiandosi con l’organizzazione alla base, avanzando verso la rinascita di veri sindacati di classe, raggruppati in un Fronte Sindacale Unico di Classe per lo scontro contro i padroni, i loro governi e la loro repressione.
La indipendenza degli Stati del Sahel alla prova
A questa riunione il compagno ha presentato la seconda parte del rapporto che ha proseguito la ricerca sugli eventi che negli ultimi anni hanno interessato il Burkina Faso e la circostante regione del Sahel, caratterizzati da una forte instabilità politica negli ex territori coloniali francesi, quella che è oggi comunemente conosciuta come Françafrique. Per il riassunto della prima parte rimandiamo al resoconto della riunione di settembre nel numero 431 di questo giornale.
Della regione è stata descritta la storia. Il territorio oggi occupato dallo
Stato del Burkina Faso faceva parte dal XII al XV secolo del più vasto impero
Mossi, il cui regno più grande era quello di Ouagadougou.
Nel 1896, dopo anni di feroce resistenza da parte delle popolazioni indigene dei
regni Mossi, la Francia, durante l’ingloriosa colonizzazione europea, sconfisse
il Regno di Ouagadougou e rese i territori circostanti un protettorato francese.
Nel 1898 fu firmata la Convenzione anglo-francese che venne a definire molti dei
confini ancora oggi in vigore, tra cui quello del Burkina Faso.
Durante la Prima guerra mondiale la metropoli ricorse alla coscrizione dei propri sudditi coloniali destabilizzando le comunità locali.
Flagellati da anni di lavori forzati e pesanti tasse, i diversi gruppi etnici si unirono in una rivolta, iniziata alla fine del 1915 nell’attuale Mali, Volta e Burkina Faso. Combatterono valorosamente mettendo in fuga l’esercito francese grazie a tattiche di guerriglia. I colonizzatori infine vinsero usando solo i metodi più infami. La resistenza anticoloniale del 1915-16 lasciò un’eredità che avrebbe preannunciato e influenzato le rivoluzioni anticoloniali dei popoli dell’Africa nera dopo la Seconda guerra mondiale.
Nel 1919, i francesi istituirono formalmente l’Alto Volta come colonia, che divenne un bacino di manodopera per le colonie francesi vicine, in particolare per le piantagioni di cacao in Costa d’Avorio. Una migrazione di manodopera che esiste ancora oggi.
La Francia tentò di utilizzare l’Alto Volta per la coltura del cotone. Come di consueto la produzione monoculturale sconvolse la primitiva economia comunista locale. Il lavoro a corvée fu imposto alla popolazione nella costruzione delle ferrovie e nelle piantagioni.
La regione è fortemente sottosviluppata ancora oggi, dopo decenni di sfruttamento coloniale e poi imperialista e il Burkina Faso è ancora una delle nazioni più povere dell’Africa. I francesi infine divisero la colonia negli Stati del Mali, del Niger e della Costa d’Avorio.
L’agitazione anticoloniale non fece che crescere. Nel 1958 la colonia divenne una repubblica autonoma ma all’interno della Comunità Francese, un retaggio coloniale in cui la Francia cercava di mantenere la propria sfera di influenza.
L’Alto Volta raggiunse l’indipendenza nel 1960. Dopo una serie di colpi di Stato il popolare Thomas Sankara venne a rappresentare il nazionalismo borghese rivoluzionario e antimperialista che tendeva a svincolare il paese dalla Francia e a cercare una reale sovranità economica all’Alto Volta, rinominato Burkina Faso. Ma il movimento di emancipazione fu infine tradito: Blaise Campaoré governerà per i 25 anni successivi sostenuto dalla Francia democratica e dall’Occidente.
Nemmeno oggi il Burkina Faso è riuscito ad emanciparsi dall’eredità della sua storia coloniale e dagli evidenti rapporti di sfruttamento con la Francia.
Venendo alla situazione attuale il rapporto descriveva la consistenza demografica ed economica del paese. L’attività produttiva del Burkina Faso è centrata sull’agricoltura, che impiega circa l’80% della forza lavoro, in gran parte in una agricoltura di sussistenza. L’industria capitalista si concentra nel Sud. I servizi contribuiscono al 48% del PIL e il manifatturiero meno del 10%. Il PIL pro capite era di soli 774 dollari nel 2019.
Il processo di proletarizzazione del paese è stato estremamente lento. La disoccupazione giovanile è elevata, soprattutto nel Nord, dove i gruppi islamisti la usano come serbatoio di reclutamento. La maggior parte dei giovani lavora nell’agricoltura. Solo il 46% della popolazione è alfabetizzato.
L’agricoltura moderna si è storicamente basata sul cotone. L’oro e il cotone rappresentano l’85% delle esportazioni. La povertà è radicata, soprattutto nelle aree rurali. La limitata meccanizzazione del capitale agricolo rendono vulnerabili le aziende alle cicliche siccità. La mancanza di strade è il motivo per cui il mercato interno è piuttosto ridotto.
Per altro il Burkina Faso è una delle economie africane a più rapida crescita,
con un tasso nel 2019 del 5,68%, nonostante le minacce dei gruppi islamisti e la
pandemia del Covid. Tra il 2000 e il 2022 la quota del PIL del settore
manifatturiero è scesa dal 16,2% al 9,9%, quella dell’agricoltura dal 26,4% al
21,7% e quella dei servizi dal 48,8% al 50,5%. Ma le industrie estrattive sono
aumentate dall’1,9% al 14,5%. Nello stesso periodo la quota di occupazione
dell’industria è passata dal 4,2% al 7,0%, quella dei servizi dal 10,4% al
18,8%, mentre quella dell’agricoltura è scesa dall’85,4% al 74,2%.
Il paese segue così la strada percorsa da tutti i paesi capitalisti. La
popolazione attiva tuttavia è ancora costituita principalmente da contadini.
Come nella maggior parte dei paesi del “terzo mondo” a causa del colonialismo e dell’imperialismo occidentali, si sono ridotti a fornitori di materie prime, con la borghesia autoctona che ricava una rendita attraverso l’affitto della terra delle fattorie e delle miniere, agendo di ostacolo allo sviluppo del paese. L’imperialismo blocca lo sviluppo capitalistico di questi paesi. E in particolare del Burkina Faso.
Nel 2022 l’inflazione sui generi alimentari aveva raggiunto il 14,1%. Questa, unita all’instabilità politica causata dagli insorti islamici, portò al secondo colpo di Stato in meno di un anno, che mise al potere il capitano Ibrahim Traoré.
Il declino dell’imperialismo francese nella regione si era manifestato per la prima volta in Mali, dove si sono succeduti due colpi di Stato in meno di un anno. Questo allontanamento dei francesi ha aperto la strada al coinvolgimento russo, i mercenari dei quali si sono impiantati nella regione.
Il malcontento popolare che ha alimentato questi colpi di Stato era dovuto sia all’incapacità dei regimi precedenti di combattere le insurrezioni jihadiste, sia il drammatico aumento dei prezzi dei generi alimentari, sia la diffusa instabilità sociale. Nel 2023 oltre 2 milioni di burkinabé erano sfollati all’interno del paese e quasi 150.000 avevano cercato rifugio nei paesi vicini.
I contadini nel Nord del Burkina Faso si sono trovati tra la violenza degli islamisti e le rappresaglie dell’esercito.
L’arruolamento obbligatorio dei membri dei sindacati nell’esercito, come denunciato dall’Unité d’Action Syndicale (UAS), riflette la disperata necessità del regime di rafforzare i ranghi militari.
Gli Stati del Sahel hanno cacciato ogni traccia di tutto ciò che sa di francese, sull’onda dei sentimenti anti-occidentali, sopita ma presente in tutta l’Africa occidentale. Il Niger ha esteso questa espulsione al Comando degli Stati Uniti per l’Africa (AFRICOM) e ha ordinato agli Stati Uniti di evacuare tutte le sue presenze militari entro settembre.
Il Senegal, la Costa d’Avorio e il Ciad hanno recentemente voluto liberarsi di
tutta la presenza militare occidentale, e soprattutto francese.
Ma ciò che, per altro, caratterizza tutti gli Stati del Sahel è la crescente
cooperazione con Russia, Cina e Turchia, imperialismi che cercano di espandere
la loro influenza in Africa. Questi tre Stati hanno fornito principalmente
appoggio militare.
Nel 2023, Niger, Mali e Burkina Faso hanno formato l’Alleanza degli Stati del Sahel (AES), finalizzata a rafforzare la cooperazione in materia di sicurezza contro i gruppi islamisti.
Una delle prime azioni intraprese dagli Stati saheliani è stata ritirarsi dalla Comunità Economica degli Stati dell’Africa occidentale (ECOWAS). L’AES ha “irrevocabilmente” tagliato i ponti con l’ECOWAS, una struttura che giustamente vede solo come un portavoce dell’Occidente.
Nel luglio 2024, l’Alleanza si è trasformata nella Confederazione degli Stati del Sahel, con l’obiettivo espresso di rafforzare ulteriormente i reciproci legami economici e politici. L’ambizione della Confederazione è creare una moneta comune e collaborazione in settori come l’agricoltura, l’acqua e l’energia, in una più ampia strategia per raggiungere la “sovranità economica”. Tuttavia, come la storia ha dimostrato, una vera indipendenza economica di queste nazioni – se rimangono disparate e non unite in un vero blocco panafricano – è impossibile nell’ambito del capitalismo, inserite nel sistema globale dominato da imperialismi più potenti.
Il sostegno popolare alla giunta, in particolare tra il proletariato e la piccola borghesia, è in gran parte frutto della retorica nazionalista e “antimperialista” del regime. Tuttavia questo sostegno è fragile e dipende dalla capacità della giunta di mantenere le sue promesse di sicurezza e stabilità.
Il Burkina Faso ha iniziato a nazionalizzare le miniere per sfruttare meglio le proprie risorse naturali, in particolare l’oro. Il governo ha acquisito due miniere per circa 80 milioni di dollari e ha sequestrato 500 chili d’oro per “necessità pubblica”. La maggior parte delle miniere d’oro, tuttavia, è ancora di proprietà straniera, britanniche, canadesi, cinesi e indiane. Vedremo se la borghesia burkinabé non solo abbaia ma anche morde.
(Fine del resoconto al prossimo numero)