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La crisi globale di sovrapproduzione continua ad ampliare le contraddizioni sociali e di classe e nella periferia del capitalismo la rivolta è la risposta naturale.
In Madagascar manifestazioni di massa sono iniziate il 25 settembre, quando, dopo settimane di blackout, carenza di carburante e inflazione dei beni alimentari, studenti, lavoratori dei trasporti e sindacati del pubblico impiego sono scesi in strada. La repressione della polizia ha fatto decine di feriti e diversi morti. Ma le proteste sono aumentate, gli scioperi si sono estesi ai porti e ai servizi pubblici, paralizzando l’economia e costringendo il giorno 29 il presidente Andry Rajoelina a sciogliere il governo.
Nella crisi locale esplodono le contraddizioni imposte da tempo dalla finanza internazionale. Anni di austerità e ristrutturazione del debito sotto la supervisione del FMI hanno azzerato gli investimenti statali, privatizzato i servizi pubblici e legato l’economia all’esportazione di materie prime, di proprietà di società straniere. Le “riforme” richieste dai creditori hanno ridotto lo Stato malgascio a un agente di recupero crediti, spremendo i lavoratori mentre i profitti dell’industria mineraria e agroalimentare finiscono all’estero.
In Nepal la rivolta ha assunto una forma diversa ma ne condivide la causa. Il 4 settembre il governo ha vietato ventisei piattaforme di media sociali, scatenando rivolte dall’8 al 13 settembre di studenti e lavoratori informali a Kathmandu e in altre città. Sotto la ribellione contro la censura si nasconde una profonda miseria materiale, in una nazione che sopravvive grazie alle rimesse degli emigrati (circa un terzo del PIL) e con un tasso di disoccupazione giovanile superiore al 20%.
Decenni di adeguamenti neoliberisti e prestiti esteri hanno fatto del Nepal un paesi dipendente dalle importazioni e dal credito estero. I partiti politici, siano essi “comunisti”, centristi o monarchici, differiscono solo nella retorica e tutti accettano le leggi del capitalismo imposte dalla Banca Mondiale e dai donatori internazionali. Giovani e lavoratori sono scesi in piazza per rifiutare un ordine sociale basato solo sulla esportazione della manodopera umana come merce.
A settembre anche l’Indonesia ha assistito alla più grande ondata di proteste degli ultimi dieci anni, quando il peggioramento delle condizioni economiche e gli eccessi delle élite hanno scatenato disordini in tutto il Paese. Anni di inflazione post-pandemica, svalutazione della moneta e crescita salariale stagnante hanno lasciato milioni di lavoratori in difficoltà nel pagare gli alimenti, carburante e alloggio, mentre la disoccupazione, soprattutto tra i giovani e i lavoratori informali, è rimasta alta.
Il malcontento è esploso quando si è saputo che i membri del parlamento avrebbero ricevuto ricche indennità mensili per l’alloggio, di molto superiori al salario medio. Si sono avute manifestazioni di massa a Giacarta, Surabaya e in altre grandi città. Il movimento di protesta, che ha unito operai industriali, insegnanti, fattorini della gig economy e studenti, ha chiesto aumenti salariali, la fine dell’outsourcing e dei contratti precari, una maggiore tutela del lavoro, una riforma fiscale e l’abolizione dei privilegi politici per le élite.
Il governo del presidente Prabowo Subianto, sostenuto dai conglomerati imprenditoriali indonesiani e dagli investitori stranieri, ha risposto con gas lacrimogeni, arresti di oltre 1.000 manifestanti e interruzioni temporanee di Internet, promettendo al contempo riforme minori come la sospensione dei privilegi dei legislatori. Queste concessioni non sono riuscite ad affrontare la più ampia contraddizione di classe al centro della rivolta, una società in cui la crescita economica ha arricchito una ristretta minoranza, lasciando la classe lavoratrice gravata dall’inflazione, dall’insicurezza e dalla repressione statale.
In Serbia la rivolta è stata provocata da una tragedia. Il 2 ottobre il crollo della tettoia di una stazione ferroviaria a Novi Sad ha causato la morte di sedici lavoratori, un disastro che è diventato il simbolo di decenni di corruzione, privatizzazioni clientelari e degrado delle infrastrutture. La classe operaia, anche se ancora frammentata, ha improvvisamente gridato la sua voce. I lavoratori dei trasporti, gli insegnanti e i pensionati hanno marciato al fianco dei giovani e degli operai licenziati, denunciando il governo e gli appaltatori che traggono profitto dal malaffare. L’economia serba, legata al capitale europeo con le produzioni a basso costo, ha lasciato milioni di proletari in condizioni di precarietà, mentre una minoranza si arricchisce grazie alla speculazione edilizia e ai sussidi alle esportazioni.
Lo Stato ha risposto con la polizia antisommossa, la censura dei media e le accuse di “ingerenza straniera”. Invece la pretesa del movimento “Giustizia per i morti, pane per i vivi” rivela un risveglio di classe che trascende il nazionalismo.
Nel frattempo in Marocco il movimento Gen Z 212 è esploso in una delle rivolte giovanili più consistenti del Nord Africa dal 2011. Da fine settembre le manifestazioni si sono diffuse da Casablanca a Rabat e Tangeri, unendo giovani, lavoratori precari e insegnanti sotto la parola “dignità e lavoro”. Le ragioni sono inequivocabili: disoccupazione giovanile vicina al 30%, prezzi dei generi alimentari e del carburante alle stelle e un debito che consuma oltre un quinto della spesa pubblica.
La monarchia marocchina, celebrata dai creditori occidentali per la sua “stabilità”, ha risposto con la brutalità tipica dei regimi compradori, arrestando centinaia di manifestanti, sciogliendo i sindacati studenteschi e dando la caccia agli organizzatori online. Le proteste hanno coinvolto i sindacati del pubblico impiego e alcuni settori della forza lavoro dei trasporti, trasformando la frustrazione generazionale in una embrionale solidarietà di classe. Anche in questo caso, il volto della ribellione è quello di un proletariato senza futuro, che si confronta con un ordine capitalista che chiede obbedienza e offre solo debiti, sorveglianza e repressione.
Ad oggi, ottobre, i movimenti in Madagascar, Nepal, Serbia, Indonesia e Marocco rimangono irrisolti. In Madagascar il governo di transizione continua a dover affrontare scioperi nei settori dell’energia, dei trasporti e dell’istruzione, mentre i negoziati con i sindacati non procedono sotto la pressione dei creditori stranieri. In Nepal la coalizione di governo si è frammentata, il divieto sui social media è stato revocato ma le forze di sicurezza continuano a detenere gli organizzatori studenteschi e il costo della vita continua ad aumentare. La Serbia rimane sotto lo stato di emergenza e le prigioni del Marocco sono piene di giovani dissidenti.
La stampa borghese proclama un “ritorno all’ordine”, ma sotto le condizioni di rivolta persistono. Ogni rivolta dimostra che dove governa il capitale la resistenza è inevitabile.
Le lotte in Madagascar, Nepal, Serbia, Indonesia e Marocco non sono tempeste isolate ma manifestazioni di un unico antagonismo globale, del capitale contro il lavoro. Solo attraverso un’organizzazione internazionale disciplinata, al di là dei confini e dei parlamenti, il proletariato può trasformare la sua rivolta in rivoluzione e abolire finalmente le condizioni che ovunque lo schiacciano.
Ciò che ora è necessario è l’organizzazione dei lavoratori in sindacati di
classe e il Partito Comunista Internazionale, portatore del programma marxista
classico, oltre le illusioni della democrazia e del nazionalismo e verso
l’abolizione del lavoro salariato.
Le ideologie nazionaliste, convergenti in tutto il Mondo, sono energicamente propagandate, volte a indurre i popoli a prepararsi a farsi reciproca carneficina.
Nella loro manifestazione in Israele questi deliri nazionalisti attingono apertamente al razzismo, al suprematismo ebraico e al messianismo con riferimenti biblici.
Vi si avanza la tesi di una responsabilità collettiva della popolazione palestinese, il che porterebbe a giustificare una altrettanto collettiva punizione. Il presidente israeliano Herzog, sul giornale “Huffpost” del 13 ottobre 2023 aveva affermato che «È l’intera nazione palestinese responsabile. È retorica quella per cui i civili non siano consapevoli, coinvolti; non è assolutamente vero: avrebbero potuto insorgere». La deputata del Likud Tally Gotliv propose di sganciare un’atomica su Gaza: forse confidava che l’atomica si sarebbe comportata come il biblico angelo della morte della pasqua ebraica, che risparmiava gli ebrei e colpiva solo i loro nemici. Un rabbino israeliano dichiarò che i bambini palestinesi sono i futuri terroristi, per cui non è necessario farsi scrupoli se restano uccisi. Parole che ci fanno venire in mente il Zyclon B...
Di senso diverso la dichiarazione su “Haaretz” del 6 settembre 2023 di Tamir Pardo, ex capo del Mossad: «Un territorio in cui due persone sono giudicate secondo due sistemi giuridici è uno Stato di apartheid».
La supposta condizione “subumana” dei palestinesi nei confronti della superiore razza ebraica è costruita, imposta e mantenuta dallo Stato di Israele, che, per esempio, non ha avuto scrupoli nel sostenere, finanziare e armare Hamas per circa 40 anni, con lo scopo di tenere soggiogati i proletari palestinesi a una brutale dittatura, e impedire qualsiasi ipotesi, pur molto improbabile nelle condizioni al contorno, di una loro affermazione civile e politica.
Alla borghesia israeliana, e all’imperialismo nordamericano di cui è vassalla, è sicuramente utile tenere diviso il proletariato palestinese tra Israele, Gaza e Cisgiordania, e ancor più dal proletariato ebraico israeliano.
Tra i palestinesi le cose non vanno diversamente. Negli anni ’80 nei proclami di Hamas, della Jihad islamica e di Fatah gli ebrei sono chiamati “figli o fratelli di scimmie e porci”. Una trentina di anni dopo il consigliere per gli Affari religiosi del presidente dell’ ANP li definisce “umanoidi”.
Noi comunisti non abbiamo mai sottovalutato l’importanza delle religioni e delle ideologie, ma sappiamo che alla loro base, ciò che in ultima analisi determina le vicende storiche sono i rapporti di produzione, i rapporti di classe. Tutte le aberrazioni accennate sono solo un mezzo di cui la borghesia israeliana si serve per perseguire i suoi scopi, e cioè il rafforzamento del suo Stato, il che è utile anche all’imperialismo di cui è vassallo e di cui salvaguarda gli interessi nella regione mediorientale.
Anche tra i musulmani la plurisecolare rivalità tra sunniti e sciiti ha tuttora importanza, ma ciò non toglie che in pratica sia utilizzata secondo gli interessi delle varie borghesie.
I capitalisti rinfocolano o smorzano le dispute ideologiche e religiose per nascondere i loro veri interessi e i loro veri nemici. L’ennesimo esempio è costituito dalla Siria, dove è arrivato al potere un partito costola siriana di Al Qaeda che ha cambiato nome più volte negli anni. L’odio verso il “Satana” americano e il “Satana” israeliano non ha impedito a tale gruppo di ricevere da loro armi e finanziamenti, direttamente o attraverso la Turchia, il Qatar e altri. Le alleanze borghesi vanno e vengono, come anche le patenti di terrorismo.
Il regime siriano degli Assad, sanguinario come tutti i regimi e gli Stati della borghesia, era un alleato dell’imperialismo russo: per questo gli Stati Uniti, insieme ai loro servi europei e mediorientali, hanno fatto il possibile per farlo crollare, alla fine riuscendoci. A questo fine si sono serviti anche degli ex-nemici di Al Qaeda, ora tornati buoni alleati e avviati sulla strada della tolleranza, se non ancora della democrazia. Alawiti, cristiani e curdi hanno già avuto modo di provare tale “tolleranza”, distribuita con il piombo delle pallottole. Gli interessi della borghesia siriana sunnita, che l’attuale regime rappresenta, hanno quindi portato i nipotini di Osāma bin Laden a buoni rapporti con l’imperialismo statunitense, e a cercarne con Israele.
Ai palestinesi, costretti a sopravvivere in una sorta di cantoni separati tra loro e formalmente indipendenti, come lo erano i bantustan sudafricani, viene prospettata la creazione di un loro Stato indipendente. Anche se questi cantoni non saranno annessi da Israele e a questo Stato si arrivasse o a un nuovo governo fantoccio al posto del vecchio dell’ANP, le condizioni dei palestinesi non cambieranno.
Lo Stato palestinese, così come la Grande Israele, sono solo dei miraggi di cui le borghesie palestinese e israeliana si servono per mantenere il loro dominio, deviando contro i fratelli di classe dell’altra nazione il sano e istintivo odio nutrito dai proletari nei confronti della guerra e della società capitalistica. Non esiste alcuna soluzione nazionale né per i palestinesi né per gli ebrei di Israele. L’unica soluzione è la lotta del proletariato ebraico e palestinese unito contro le rispettive borghesie e i rispettivi Stati o semi-Stati, per la rivoluzione comunista.
A chi si considera meno “utopista” di noi, ci è facile rispondere mostrando dove
hanno portato tutte le soluzioni escogitate dalle politiche dei borghesi e degli
opportunisti.
I media borghesi esibiscono quotidianamente i massacri a Gaza e in Ucraina, descrivendoli come nazionali, di razza e di religione, e che noi marxisti invece definiamo imperialisti, per il controllo strategico di territori e di risorse da parte di enormi interessi economici garantiti dagli Stati.
In molti Paesi si sono mobilitate grandi masse contro lo sterminio a Gaza. Qui le maggiori borghesie imperialiste si sono accordate per una parvenza di tregua, che però miete vittime ogni giorno, con l’esercito israeliano da una parte e Hamas dall’altra indisturbati ad ammazzare palestinesi.
Sul conflitto in Sudan invece tacciono.
Il Paese diventò indipendente nel dicembre del 1956 al ritiro delle forze britanniche ed egiziane che lo occupavano dal 1898, data della storica battaglia di Omdurman, che segnò la fine della rivolta mahdista, condotta dai ribelli sudanesi (soprannominati "dervisci"), seguaci di Muhammad Ahmad (il "Mahdi").
La Repubblica del Sudan fu subito minacciata dalle rivalità fra le provincie settentrionali e meridionali. Accentuate differenze di sviluppo sociale e antagonismi di razza dividono le popolazioni delle provincie del Nord, composte di arabi e nubiani di religione musulmana, da quelle del Sud di etnia nera, che vivono soprattutto nell’Equatoria e nell’Alto Nilo. Da allora una serie di colpi di Stato ha cambiato il vertice del potere, ma non ha risolto nessun problema, meno che mai quello delle tre province meridionali.
Dal Programma Comunista nr.19 del 1971 leggiamo: «Il partito Umma, rappresentante degli interessi dei proprietari terrieri del Sud, e il partito unionista, esponente degli interessi della borghesia del Nord, si sono alternati al governo, servendo a loro volta gli interessi di potenze imperialistiche ben presto ridottesi a tre: Stati Uniti, Germania e URSS. Nel maggio del 1969, con l’ascesa al potere di Gaafar Muhammad an-Numeiry e Awadallah, sembrava che la bilancia dovesse pendere definitivamente a favore dell’URSS; la rottura delle relazioni con gli Stati Uniti e la Germania, accusati di istigare il separatismo sudista, l’avvicinamento alla RAU di Nasser, i rapporti diplomatici e commerciali instaurati con i Paesi dell’area moscovita e con la Cina, parevano confermare questa inversione di rotta. Lo stesso partito comunista sudanese di Mahjub appoggiava Numeiry, anche se “criticamente”, e l’orgia diplomatica faceva dire al Presidente della nuova Repubblica, Awdallah, che “il nostro socialismo è specificatamente sudanese ed è sulla base delle nostre proprie tradizioni che edificheremo il nuovo Sudan”, mentre Numeiry si professava “un socialista moderato che crede al nazionalismo arabo”. Presto, tuttavia, l’inconsistenza non solo dell’ennesima “via nazionale al socialismo” ma della stessa “via” allo sviluppo economico e sociale del Paese si rivelava in tutta la sua crudezza, con l’incapacità politica della borghesia sudanese e col fallimento della politica estera moscovita. Le famose “mine” esplodevano a ripetizione».
Infatti il Sudan avrà un futuro di instabilità. Varie guerre si sono susseguite causando morte, carestie e distruzione. Quella che viene definita la seconda guerra civile, dal 1983 al 2005, causò circa 1,9 milioni di morti e oltre 4 milioni di profughi.
Dopo ulteriori conflitti si arriva al periodo tra il 9 e il 15 gennaio del 2011, quando si tiene un referendum nel Sudan del Sud per la secessione dal Nord e la creazione di uno Stato indipendente. La consultazione era già parte dell’accordo Naivasha del 2005 tra il governo di Khartum e l’Esercito di Liberazione Popolare del Sudan/Movimento (SPLA/M). Un referendum simultaneo si svolse nella provincia di Abyei per scegliere se fare parte del Sudan del Sud o se rimanere nel Sudan. Ciononostante, la Regione è rimasta disputata e di fatto soggetta a un condominio.
Il 7 febbraio 2011 il presidente del Sudan, Omar Hasan Ahmad al Bashir, ufficializzando i risultati del referendum, proclamò la nascita dello Stato del Sudan del Sud, che divenne così il 54° Stato africano. Il 9 luglio, dopo un periodo di prova, fu proclamata l’indipendenza del Sudan del Sud, subito riconosciuta dal governo di Khartum.
Ma il nuovo piccolo Stato ripiomba velocemente nella guerra, combattuta tra il 2013 e il 2018 tra le forze fedeli al presidente Salva Kiir e quelle legate al vicepresidente Riek Machar, che ha provocato almeno 400mila morti e costretto 4 milioni di abitanti, su una popolazione di poco superiore ai 12 milioni, ad abbandonare le proprie case.
Quella che oggi si combatte in Sudan è una guerra per procura, con le borghesie imperialiste regionali in competizione per le risorse di un Paese ricco d’oro e materie prime.
L’Egitto e l’Eritrea sostengono l’esercito sudanese (SAF) del generale Al-Burhan e il suo governo con sede a Port Sudan, mentre l’Etiopia, in conflitto con l’Egitto per la diga GERD, sostiene Hemedti (RSF), già vice di Burhan nella precedente giunta militare, insieme alla Repubblica Centrafricana e al Ciad.
Gli Emirati Arabi Uniti, che sono tra i maggior importatori di oro dalle miniere del Darfur, inviano armi, attraverso Repubblica Centrafricana e Ciad, alle forze RSF, alle quali è stato dato appoggio economico e militare, fornendo anche addestramento e sostegno logistico. In cambio queste sono state coinvolte in operazioni contro i ribelli Houthi in Yemen.
L’Iran, invece, sostenitore degli Houthi, per contrastare l’influenza emiratina e ampliare la propria presenza nella regione del Mar Rosso, fornisce droni alle forze armate sudanesi (SAF) guidate da al-Burhan.
L’Arabia Saudita, in competizione con gli Emirati per l’egemonia sul Mar Rosso, si propone ufficialmente come mediatrice tra i contendenti, ma in realtà mantiene rapporti di vicinanza con il SAF, anche in segno di riconoscenza per l’appoggio ricevuto dai mercenari sudanesi nella guerra contro i ribelli Huthi.
Anche la Russia risulta molto attiva sul terreno. Nel 2017 era riuscita a trovare un accordo per la costruzione di una base navale sulle coste sudanesi del Mar Rosso, che però aveva avuto diversi ostacoli nel corso degli anni e che proprio mentre scriviamo si apprende, per bocca dell’ambasciatore russo a Khartum, Andrei Chernovol, della sospensione della sua costruzione a causa del deteriorarsi della sicurezza interna in Sudan.
Non manca la Cina, che secondo diverse fonti ha raggiunto i 3 miliardi di dollari di investimenti nei giacimenti petroliferi e negli oleodotti che trasportano il greggio dal Nord del Sudan fino a Port Sudan divenendo un partner commerciale di primo piano per il Sudan.
Infine gli Stati Uniti, pur dichiarandosi neutrali, mirano a contrastare la crescente influenza russa, cinese e iraniana nella regione.
Insomma un intreccio di interessi borghesi dove non manca nessuna delle principali potenze mondiali, tranne l’oramai esautorata Europa, senza alcuna forza, economica o militare.
Il 12 settembre Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Stati Uniti hanno annunciato un piano per porre fine al conflitto, prevedendo una tregua di tre mesi seguita da un cessate il fuoco e da un processo di transizione politica.
Ma il 26 ottobre con la conquista della città di El-Fasher le RSF hanno ripreso il controllo dell’intera regione occidentale del Darfur, mantenendolo anche in ampie zone del Sud del paese, mentre l’esercito sudanese controlla le regioni settentrionali, orientali e centrali lungo il Nilo e il Mar Rosso. Le RSF hanno continuato i loro massacri uccidendo centinaia di civili, a riprova che i conti si fanno con la forza delle armi e non con le inutili cartacce di improbabili “roadmap”, e sempre sulla pelle dei poveracci proletari.
Nel sito web dell’ISPI il 22 aprile si legge: «La guerra in Sudan ha generato una crisi umanitaria che si è rivelata fin da subito di estrema gravità. Su una popolazione che, prima dell’inizio della guerra, superava i 45 milioni di persone, 30 milioni sono identificati dalle Nazioni Unite come bisognosi di assistenza umanitaria e quasi 25 milioni sono esposti ad alti livelli di insicurezza alimentare, mentre lo stato di carestia è stato confermato in alcune zone del Darfur e delle Montagne Nuba. 12,6 milioni di persone sono state forzatamente sfollate dal conflitto: di queste, 3,8 hanno cercato rifugio nei paesi vicini, soprattutto in Egitto (1,5 milioni), Sud Sudan (1 milione, in buona parte sudsudanesi forzati a rientrare nel paese da cui erano in precedenza fuggiti) e Ciad (oltre 770.000)».
Su Avvenire del 21 ottobre è apparso l’utopistico appello dei missionari comboniani che lì operano: “L’Italia porti via i civili dall’inferno del Darfur”. «Nella città di El Fasher, assediata da 18 mesi, 260 mila persone rischiano la morte per fame. Terminate anche le scorte del mangime per animali distribuito alla popolazione. El Fasher è la capitale dell’inferno. La metà, 130 mila, sono bambini (...) Un velo di silenzio è calato su un conflitto civile ignorato da media e comunità internazionale che ha provocato la più grande crisi umanitaria del pianeta con 14 milioni tra sfollati e profughi e 26 milioni di persone alla fame».
Questa la considerazione che il capitalismo riserva ai proletari del mondo: li sfrutta nel lavoro o li condanna a morte!
La scellerata guerra per la spartizione delle materie prime del ricco sottosuolo sudanese ha causato negli anni centinaia di migliaia di vittime e le peggiori nefandezze. Ne abbiamo scritto nel 2019 sul numero 396 del nostro giornale. «Contro il separatismo delle popolazioni animiste e cristiane della regione del Darfur, appoggiato dagli Stati Uniti e da Israele, si erano impegnate le milizie filo‑governative Janjawid. Il terrorismo delle RSF è stato impiegato per tentare di arrestare un movimento che ha sconvolto i vecchi equilibri politici del paese e che già nell’aprile scorso aveva portato all’allontanamento dal potere del presidente Omar al‑Bashir, legato ai fratelli musulmani ma anche in buone relazioni con Russia e Cina».
Il modo di produzione capitalistico ormai non ha
nulla da offrire al proletariato e ai diseredati del mondo se non sofferenze e
morte, nel tentavo di sopravvivere alla sua stessa auto-distruzione. Unica
salvezza il suo annientamento tramite la rivoluzione proletaria.
In Francia sono continuate le proteste dopo che, dall’inizio della pandemia di Covid-19, è perdurata la crisi economica, con conseguenti crisi politiche. La borghesia francese, mentre cerca di armarsi col pretesto della guerra tra Russia e Ucraina, persegue nelle politiche di austerità per controllare il crescente deficit e il debito del bilancio statale. Queste misure colpiscono prima di tutto la spesa pubblica in istruzione, sanità e trasporti.
Il blocco parlamentare La Renaissance, che apertamente rivendica questa politica, perde terreno, incapace di approvare leggi senza ricorrere al famigerato articolo 49.3, che consente al governo di far approvare un decreto senza votazione all’Assemblea Nazionale. I governi hanno vita breve. Nel 2024, col prevalere del Front National alle elezioni del Parlamento europeo, Macron ha sciolto il parlamento. Dopo le elezioni successive ha rifiutato di concedere al partito di maggioranza, La France Insoumise (LFI), l’autorità di formare un governo, provocando proteste. Per conflitti interni di interessi fra cordate di capitalisti, il parlamento non riesce ad approvare il bilancio dello Stato. Negli ultimi 18 mesi si sono succeduti tre primi ministri.
Ciò non ha impedito di immiserire i servizi sociali e di tagliare gli aiuti assistenziali. I bilanci dell’istruzione e della sanità sono stati drasticamente ridotti, causando carenza di insegnanti e personale, sovraffollamento e interruzioni del servizio. Il settore dei trasporti è stato privatizzato, molte linee regionali stanno chiudendo e i prezzi dei biglietti stanno aumentando.
Sulle leggi e politiche anti-immigrati si fa un gran clamore, rincorrendo alla lurida demagogia del Front National che sostiene che il paese è invaso dagli immigrati.
Il problema degli alloggi si aggrava da anni poiché la legge del profitto e della rendita demolisce le abitazioni popolari sostituendole con alloggi lussuosi e allontana sempre più dalle città le comunità povere della classe operaia.
Intanto i capitalisti e i rentier non sono tassati e se evasori perdonati.
Eppure l’esercito e le polizie sono dotate dei più moderni strumenti e le aziende militari si vantano di vendere armamenti in tutto il mondo. Continua la concentrazione delle aziende che privatizzano, monopolizzano e divorano tutto.
Quando il ministro Bayrou ha proposto di ridurre i giorni di ferie e accrescere l’austerità, alla fine di agosto i lavoratori sono scesi in piazza, sia attraverso i sindacati sia individualmente. Ciò ha segnato l’inizio delle mobilitazioni in autunno, in un movimento popolare spontaneo. I capi dei sindacati hanno mantenuto le distanze, ma alla fine, benché con poco impegno, nella prima settimana di settembre hanno annunciato i primi scioperi.
Dapprima, l’8 settembre, Bayrou si è dimesso dopo aver perso il voto di fiducia; Macron l’ha sostituito con Sébastien Lecornu, ex ministro della Difesa, vicino al Front National.
Due giorni dopo è iniziata la prima mobilitazione “Bloquons-tout”, Blocchiamo tutto, ispirata ai Gilet Gialli. È un movimento che si organizza nei quartieri e si informa a diverse ideologie, dagli anarchici ai socialisti e ai socialdemocratici, ma pretenderebbero collocarsi al di fuori dei sindacati e rimanere apartitico. Vorrebbero adottare “tattiche diverse” da quelle dei partiti e dei sindacati per dar corpo a una “forza popolare” in grado di esercitare pressione sullo Stato: bloccare in tutto il Paese punti strategici come strade e autostrade, svincoli e stazioni ferroviarie e della metropolitana.
Il 10 settembre la mattina presto gruppi sindacali o occasionali hanno iniziato i tentativi di blocco. Piccoli gruppi spostandosi creavano intralci di breve durata, mentre quelli numerosi bloccavano punti specifici per periodi più prolungati. Parallelamente nei quartieri abitati dalle comunità picchetti bloccavano negli spazi pubblici i mercati, le mense e simili.
La polizia ha cercato di reprimere, con i manifestanti che giocavano al gatto e al topo nelle città. Alcuni assembramenti sono stati dispersi con i gas lacrimogeni e le bombe sonore con molti arrestati e feriti, in particolare a Parigi, Marsiglia e Lione, più dei precedenti negli ultimi tempi. Alla fine i vari gruppi in ogni città hanno costituito comitati d’azione, coordinati anche con i sindacati.
Questo movimento popolare in ottobre ha continuato le azioni e le riunioni, anche se con forza calante. I gruppi nei quartieri e quelli di lavoratori si intersecano, comunicano e, a volte, si coordinano.
Tutto questo, è chiaro, ha i suoi limiti: sia la confusa base sociale, sia l‘assenza di organizzazione, sia la mancanza di indirizzo politico fanno sì che le illusioni riformiste, populiste e radicali prevalgano sulle rivendicazioni di classe. La base individuale e il meccanismo assembleare rendono ogni decisione d’azione molto lenta o impossibile, tutto restando decentralizzato e spontaneo.
La giornata del 18 settembre è proseguita su questa strada. Tuttavia vi sono confluiti gli scioperi e i picchetti organizzati dai sindacati, che hanno coinvolto una folla più sindacalizzata e di classe. I blocchi sono iniziati al mattino con scioperi e occupazioni dei luoghi di lavoro e con l’adesione di un numero crescente di altri sindacati, e si sono trasformati in manifestazioni nel pomeriggio e in cortei unitari. La polizia è intervenuta con le stesse modalità, con un uso massiccio di spray al peperoncino, bombe sonore e arresti.
Se lo sciopero ha dimostrato che la classe lavoratrice reagisce al peggioramento delle sue condizioni, sono evidenti anche le debolezze del movimento sindacale. Una frattura tra la base del sindacato e la dirigenza si è avuta sul considerare un ultimatum o meno la lettera inviata al ministro. La volontà di azione dei lavoratori si scontra con l’approccio conciliante e riformista dei dirigenti, e il movimento rischia di essere soffocato nelle dinamiche interne al sindacato stesso. Sebbene il successo degli scioperi dimostri quanto l’organizzazione e le rivendicazioni incentrate sulla classe operaia siano essenziali, il riformismo e la trasformazione in Europa delle attuali organizzazioni in sindacati di regime rappresentano un serio problema per la lotta di classe.
Quando i colloqui con Lecornu si sono rivelati infruttuosi, il 2 ottobre è stato dichiarato un nuovo giorno di sciopero. Le richieste sindacali, insieme alle proteste europee scatenate dal sequestro da parte dell’esercito israeliano della flottiglia Sumud diretta in Palestina, sono riuscite a portare in piazza una parte significativa della classe operaia in tutta la Francia, anche se con una partecipazione non così massiccia come quella del 18 settembre.
Il governo ha però rifiutato di fare marcia indietro e sta tentando di reprimere violentemente ogni opposizione.
Per resistere al capitalismo oppressore è inevitabile che la classe operaia
prenda la direzione della rivolta sociale, per questo deve essere inquadrata
nella sua organizzazione difensiva, in combattivi sindacati di classe. Ma perché
la lotta dia risultati verso la sua liberazione gli occorre l’indirizzo del
partito comunista rivoluzionario: senza un impersonale programma storico e
scientifico le rivolte non possono nemmeno garantire che le richieste delle
masse lavoratrici siano soddisfatte.
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L’Indonesia è un paese transcontinentale fra il Sud-Est dell’Asia e l’Oceania, un’area geografica, a sud della Cina e a est dell’India, che comprende undici paesi sovrani: Brunei, Cambogia, Filippine, Indonesia, Laos, Malesia, Myanmar (Birmania), Singapore, Thailandia, Timor Est e Vietnam.
È la più grande nazione-arcipelago del mondo composta da oltre 17.500 isole di cui poco più di 2.300 abitate; con oltre 280 milioni di abitanti è la più popolosa al mondo, preceduta da India, Cina e Stati Uniti e davanti a Pakistan, Nigeria e Brasile. La sola isola Giava, la più popolata del pianeta, centro geografico ed economico del paese, ospita oltre metà della popolazione con circa 150 milioni di abitanti. La grande isola si estende per 129 km², come l’Inghilterra, che però ne ha solo 56 milioni.
La popolazione nell’arcipelago è estremamente diversificata, con centinaia di gruppi etnici e lingue parlate. Comprende la più numerosa comunità musulmana al mondo.
Nella sempre più aspra contesa imperialista
“Cancello dell’Oriente” strategico tra l’Oceano Indiano e il Pacifico e con un vastissimo potenziale mercato di consumatori, l’Indonesia è un obiettivo ambito dalle maggiori potenze imperialistiche. Stati Uniti e Cina se la contendono attraverso una rete di accordi e investimenti. Nonostante il peso sempre più consistente dei capitali cinesi, la borghesia indonesiana si mantiene, per ora, in equilibrio tra le due forze.
La partecipazione del presidente indonesiano lo scorso 3 settembre a Pechino alla parata militare per il “Giorno della Vittoria”, avvenuta quando la capitale indonesiana era praticamente in stato d’assedio, dimostra un avvicinamento strategico con la Repubblica Popolare e con gli imperialismi alternativi agli occidentali. A Pechino il presidente indonesiano avrebbe inteso rafforzare la cooperazione bilaterale su temi economici e di sicurezza. Ma l’espansione dei legami commerciali con la Cina non farà cessare gli attuali rapporti con Stati Uniti e Russia, principali fornitori di armamenti al grande arcipelago.
A gennaio 2025 l’Indonesia è stata ammessa a pieno titolo ai BRICS, la prima nazione del Sud-Est asiatico a far parte del blocco.
Parallelamente, dopo quasi un decennio di negoziati, si è arrivati a un accordo di libero scambio con l’Unione Europea, noto come EU-Indonesia Comprehensive Economic Partnership Agreement (CEPA), che prevede l’eliminazione di oltre il 98% delle tariffe doganali sul commercio bilaterale.
In sintesi, la classe dominante indonesiana prova a non allinearsi a non dipendere da nessuno degli imperialismi, in modo da poter trarne vantaggio, ovviamente sulla pelle, il sudore e il sangue della classe operaia.
La forza lavoro, formale e informale
Si stima che la forza lavoro, salariata e non, assommi a circa 150 milioni. Il tasso di disoccupazione negli ultimi dieci anni ha mostrato un andamento generalmente stabile, in media al 5%, tranne che durante il Covid-19.
Come in altri paesi dell’area, la forza lavoro si divide in due categorie principali. I lavoratori “informali” sono circa il 60% del totale, quindi preponderanti. Questi includono piccoli contadini e artigiani e i salariati “a giornata” o “a contratto” non-permanente. Questi sono impiegati per compiti specifici o su base temporanea, giornaliera, settimanale o mensile: edili, braccianti durante il periodo del raccolto, trasportatori, come i conducenti di taxi-moto (ojek).
La predominanza del settore informale è sempre stata una caratteristica strutturale dell’economia indonesiana, riflesso della sua base rurale e di piccolo commercio.
Fra i lavoratori “formali”, 60-65 milioni, i salariati sono in netta predominanza, in generale con regolare contratto. Nel pubblico impiego si trova il 3% circa della forza lavoro. I servizi ne impiegano oltre il 45%, vasta categoria che include commercio, finanza, servizi professionali, amministrativi e settore pubblico. La manifattura occupa il 25-30% della forza lavoro formale, motore fondamentale del capitalismo indonesiano. L’agricoltura, benché cruciale per il Paese, occupa meno del 15% dei salariati con contratto. Infine, il 5-7% è impiegato nelle costruzioni. La rimanente percentuale si distribuisce tra estrazione mineraria, trasporti e forniture pubbliche.
Il panorama sindacale è molto frammentato, benché esistano alcune confederazioni principali che inquadrano la maggioranza dei lavoratori organizzati. A differenza di altri paesi dell’area, i loro legami con i partiti politici sono meno stretti e formali e più legati a coalizioni temporanee. Il KSPI (Konfederasi Serikat Pekerja Indonesia) è una delle maggiori confederazioni, si stima con oltre 2 milioni di iscritti, principalmente nelle miniere e nelle manifatture. Il KSPSI (Konfederasi Serikat Pekerja Seluruh Indonesia), una delle confederazioni storiche, ne conta intorno a 1,5 milioni.
Ma la grande maggioranza dei lavoratori indonesiani, in particolare nel vastissimo settore informale, non è iscritta ad alcun sindacato.
Industria e commerci
La produzione industriale indonesiana non è paragonabile a quella delle maggiori potenze globali. Tuttavia la sua costante crescita ne ha fatto una protagonista tra i capitalismi del Sud-Est asiatico.
Negli ultimi cinque anni i settori manifatturiero e minerario hanno registrato una crescita irregolare a causa della pandemia di Covid-19, ma hanno dimostrato una forte capacità di recupero: dopo la contrazione nel 2020 la produzione è tornata a crescere, trainata dalla domanda interna e dagli investimenti esteri. La crescita media della produzione industriale negli ultimi cinque anni è stata di circa il 4,3%.
L’industria si basa in particolare sulla estrazione e lavorazione del nichel, di cui l’Indonesia è il primo produttore mondiale, ma settori importanti sono il tessile e l’abbigliamento, fortemente orientati all’export, e altri in rapida espansione come auto e l’elettronica, sostenuti dai crescenti investimenti esteri.
La bilancia commerciale ha registrato un surplus negli ultimi anni, in gran parte per le esportazioni di minerali e prodotti dell’agricoltura: carbone, olio di palma, nichel e derivati, gomma naturale. Di prodotti manifatturieri: apparecchiature elettroniche, macchinari, tessuti e abbigliamento. Fra le importazioni: beni strumentali, macchinari industriali, veicoli, apparecchiature elettroniche e componenti; prodotti intermedi: chimici e plastica; beni di consumo: elettronica, farmaci e alimenti.
La Cina è il maggior partner commerciale, sia per le esportazioni sia per le importazioni. Grandi investimenti cinesi sono diretti verso progetti di infrastrutture, come la ferrovia ad alta velocità Giacarta-Bandung e il settore minerario, in particolare del nichel.
Seguono gli Stati Uniti, importanti soprattutto per le esportazioni. Il Giappone acquista prodotti energetici e minerali. Singapore è una piazza importante per il commercio e gli investimenti.
Il governo della borghesia indonesiana e le necessità del capitale
Il governo attuale è guidato dal presidente Prabowo Subianto, in carica dal 20 ottobre 2024, succeduto a Joko Widodo, imprenditore nel settore dell’arredamento, che aveva ricoperto la carica per due mandati. Ex ministro della Difesa, Prabowo è legato all’esercito e alla famiglia dell’ex “dittatore” Suharto, sotto il quale comandava le forze speciali. Prabowo oggi è il capo del partito del Movimento della Grande Indonesia, apertamente nazionalista e conservatore. Ma alle ultime elezioni presidenziali si è assicurato una vittoria schiacciante formando una ampia coalizione parlamentare, la Advanced Indonesia Coalition Plus, che include quasi tutti i partiti politici del paese compreso il Laburista, controllando 470 dei 580 seggi parlamentari.
Non essendo riuscito ad aumentare le entrate fiscali, il governo ha annunciando un taglio di quasi il 20% della spesa. Circa la metà di questo risparmio, 20 miliardi di dollari, sarà utilizzata per aggiungersi a un fondo sovrano, di recente creazione, Danantara, un veicolo di investimento lanciato dalla borghesia indonesiana per raccogliere finanziamenti esterni. Con la sua enorme base patrimoniale - circa 900 miliardi di dollari - è il quarto fondo sovrano più grande al mondo, superando il PIF dell’Arabia Saudita e il Temasek di Singapore.
Nella campagna elettorale, Subianto aveva promesso di rilanciare l’economia e puntare a una crescita dell’8% entro cinque anni. L’obiettivo è attrarre investimenti e far divenire l’Indonesia la più grande economia del Sud-Est asiatico. Ma la Banca Mondiale stima che l’economia indonesiana fino al 2027 crescerà intorno al 4,8%.
Inoltre i recenti dazi del 19% imposti dal governo Trump sui prodotti indonesiani hanno colpito duramente settori chiave come l’elettronica, il tessile e l’agroalimentare, alimentando la reticenza dei possibili investitori.
Proletarizzazione e urbanizzazione crescenti
Negli ultimi decenni l’Indonesia ha assistito a un costante e significativo flusso di popolazione dalle zone rurali alle urbane. Gran parte di questi migranti è costituita da giovani di famiglie piccolo contadine che abbandonano la terra anche perché i lotti, divisi tra fratelli, sono troppo piccoli per sostenere la famiglia. I piccoli agricoltori oggi non riescono a competere con l’agricoltura su larga scala e ad affrontare i costi di fertilizzanti e sementi. Inoltre i prezzi dei prodotti agricoli (riso, caffè e olio di palma) sono spesso volatili, rendendo precario il reddito degli agricoltori.
Inoltre nelle aree rurali, trascurate dal capitalismo, spesso mancano l’assistenza sanitaria, i servizi di base, l’accesso all’istruzione e, non di rado, l’acqua potabile.
Dinamica comune a molti paesi dell’area è quindi migrare nelle grandi “luccicanti” metropoli in cerca di un salario fisso, sebbene basso e temporaneo. Veloce è la crescita della popolazione urbana: negli ‘50 anni viveva in città meno del 15% della popolazione indonesiana, oggi più del 50%, e con tendenza a crescere. È un riflesso della evoluzione della struttura economica indonesiana da una produzione di autosostentamento al mercantilismo e alla estrazione del plusvalore basata sulla vendita della forza lavoro.
Tuttavia queste città offrono alloggi cari e precari, condivisi con altri proletari. Non tutti riescono a trovare un lavoro formale e molti finiscono per lavorare, quando va bene, nel vasto settore informale: edili a giornata, fattorini, venditori ambulanti, un’enorme massa di lavoratori che, pur vivendo di un salario, non hanno alcuna protezione sociale o sicurezza del e sul lavoro. Altri tornano nelle campagne, magari non distanti dalle grandi città, dove cercano un lavoro nei campi come braccianti.
La rabbia esplode nelle piazze
È in questo scenario che da diversi anni un variegato movimento interclassista, formato da, studenti, giovani disoccupati e precari, ha iniziato a porsi contro la politica del governo. Disillusione e rancore covano tra queste nuove generazioni che, nonostante la crescita economica, non trovano una occupazione stabile e istintivamente capiscono che il mondo del capitale ha da offrirgli solo miseria, sfruttamento e guerra.
L’ondata di proteste, guidata da movimenti giovanili come “Indonesia Gelap” (Indonesia oscura), è iniziata un anno fa subito dopo l’insediamento del nuovo presidente. Si lamentava l’impennata delle tasse, la precarietà del lavoro, il nepotismo e la brutalità della polizia. I manifestanti chiedevano un non ben specificato aumento dei salari, oltre alla tutela delle comunità indigene e una maggiore trasparenza sugli stipendi dei funzionari.
A febbraio decine di migliaia di manifestanti sono scesi in piazza nella capitale per protestare contro le nuove misure di austerità del governo che prevedevano forti tagli allo stato sociale nei comparti dell’istruzione, la sanità e i servizi pubblici.
Dal 25 agosto le manifestazioni, che in precedenza si tenevano principalmente a Giacarta, sono dilagate in tutte le regioni del paese trasformandosi in un’ondata senza precedenti. A innescarle è stata la concessione di un bonus di 50 milioni di rupie (3.000 dollari) destinato ai 580 rappresentanti parlamentari per coprire, così si diceva, le spese d’affitto, premio difficile da digerire per dei lavoratori che ricevano un salario medio 4 milioni, circa 250 dollari.
A Giacarta manifestazioni oceaniche hanno percorso le grandi arterie della città. Sono state attaccate dalla polizia con idranti e lacrimogeni, ma anche armi da fuoco. I manifestanti hanno incendiato edifici pubblici, inclusa la sede del Parlamento.
Il 28 agosto diverse sigle sindacali hanno indetto uno sciopero generale. Sarebbe meglio dire si sono associate: in Indonesia infatti gli scioperi generali coinvolgono più classi sociali, oltre ai lavoratori salariati.
Tra le rivendicazioni delle organizzazioni dei lavoratori era il ritiro della Legge Omnibus sul Lavoro (Job Creation Law) che, approvata nel 2020, facilita i licenziamenti e di fatto abbassa i salari minimi. Scioperi si sono verificati a Giacarta ma anche in importanti aree industriali come Bekasi, Karawang e Tangerang, dove la concentrazione di fabbriche è molto alta.
Subianto pochi giorni dopo si è visto costretto a revocare l’indennità di alloggio e a sospendere i viaggi all’estero per i membri del Parlamento. Tuttavia ha dichiarato che non avrebbe tardato nell’affrontare e punire i responsabili dei disordini.
Il 29 agosto durante una manifestazione un fattorino rider di vent’anni sul lavoro è stato investito e ucciso da un blindato della polizia. Il video dell’evento diffuso sui media sociali ha alimentato l’indignazione nazionale. Le reti sociali sono state utilizzate da strumento di informazione e organizzativo, molti lavoratori vi hanno denunciato le loro misere condizioni di vita e di lavoro, e invitando allo sciopero e alle mobilitazioni. Il governo non ha indugiato a limitare o rendere inutilizzabile la rete.
Nei giorni seguenti l’ondata di scontri con le forze dell’ordine ha causato la morte di altri manifestanti. A Makassar, sull’isola di Sulawesi, una folla inferocita ha appiccato il fuoco al parlamento locale causando la morte di tre persone all’interno. Anche i parlamenti di Pekalongan, nella Giava Centrale, e Cirebon, nella Giava Occidentale, sono stati dati alle fiamme e saccheggiati. Mobilitazioni si sono svolte persino nella famosa meta turistica di Bali, dove è stato preso di mira il comando di polizia.
Il bilancio delle vittime è salito rapidamente a otto morti. Difficile quantificare gli arresti, ma diverse fonti parlano di migliaia di fermi solo a Giacarta, per un totale di oltre tremila arresti.
Le manifestazioni sono continuate ancora per qualche giorno, per poi gradualmente affievolirsi, riportando il paese a una apparente, temporanea, normalità.
Comunismo unica prospettiva
Le proteste sono espressione di una sofferenza e di un malcontento profondi a causa delle condizioni materiali della popolazione. Nonostante l’economia continui a crescere, i lavoratori accusano un deterioramento del potere d’acquisto dei salari mentre si esasperano le disuguaglianze sociali.
Sempre più giovani lavoratori sono super-sfruttati, privi di qualsiasi diritto, pedine indispensabili per garantire la flessibilità e le esigenze del giovane capitalismo indonesiano. Un milione di laureati e 1,6 milioni di diplomati delle scuole professionali risultano disoccupati. Questi giovani, fulcro delle recenti manifestazioni, hanno una generale sfiducia nella politica borghese e nei sindacati del regime e una sempre più marcata disillusione verso le prospettive della società capitalista.
In questo scenario, fertile per il comunismo e la rivoluzione, occorre che venga in primo piano la classe lavoratrice, presente nelle sue organizzazioni formali, esplicitamente in lotta disciplinata e centralizzata contro la propria borghesia. Anche in Indonesia molti lavoratori hanno partecipato alla rivolta, spesso, in maniera non coordinata, ci sono stati scioperi. Ma le centrali sindacali si sono dimostrate non all’altezza della situazione, accodandosi passive al movimentismo interclassista, e non ordinando lo sciopero generale con rivendicazioni sentite e condivise di classe. I lavoratori per imporre la loro difesa dovranno prendere la direzione di questi sindacati, o organizzarsi fuori e contro se necessario, per arrivare ad impugnare l’unica vera loro arma davvero efficace, lo sciopero.
Il
movimento operaio, liberato dai partiti opportunisti e dai sindacati
di regime, riconoscerà il suo programma di classe come espresso dal
partito comunista. Prenderà allora in mano la dirigenza della sua
lotta senza compromessi. Sarà così riconosciuto da tutti gli
oppressi, anche dai piccoli contadini e dai giovani precari, rivolto
ad un domani di riscossa contro le sempre più mostruose barbarie del
regime del capitale.
L’accelerazione della crisi del capitalismo globale sta costringendo la classe dominante a prevenire la reazione della classe operaia e tutto ciò che ostacola il suo potere. La borghesia deve impedire ai lavoratori di organizzarsi e diventare politicamente consapevoli come classe.
Negli Stati Uiniti l’assassinio di Charlie Kirk, vistosa figura della propaganda “di destra” del capitale, ha scatenato un delirio mediatico che ricorda i giorni successivi all’attacco terroristico dell’11 settembre o gli anni dell’era McCarthy.
Kirk era famoso per aver propagandato una forma di razzismo nota come cristo-nazionalismo in dibattiti a oltranza che lo ha infine esposto al tiro di fucile di un giovane personalmente infastidito. Questo non era affiliato ad alcuna fede politica, tanto meno comunista, ma era dedito al passatempo americano del tiro a segno, del tutto individualistico e nichilista; solo stavolta è toccato a una figura di spicco della politica borghese, piuttosto che a scolari, colleghi di lavoro, persone di altre razze o religioni o altri.
L’omicidio presenta alcune somiglianze con il caso di Luigi Mangioni, autore dell’omicidio del dirigente delle assicurazioni United Healthcare Group, a dicembre 2024. Con gli stessi risultati: quell’amministratore delegato è stato rapidamente sostituito e il vuoto della retorica fascista sarà colmato da un altro simile propagandista.
È una necessità del capitalismo in tutti i paesi accrescere drasticamente il potere del governo e dell’esecutivo. Molti di questi obiettivi sono già stati raggiunti, come la presa di controllo delle istituzioni legislative e giudiziarie
Ma gli scopi sono gli stessi della propaganda “di sinistra” del capitale: tentare di colmare il vuoto di coscienza di classe dei lavoratori, rendendoli complici degli ideali della borghesia nazionale, in cui i lavoratori sono ridotti a poco più che schiavi, e di cui le prime vittime sono gli immigrati, le minoranze razziali, di genere, sessuali e di altro tipo, seguiti a ruota dagli stessi lavoratori aristocratici bianchi, appena si rende necessario.
Proseguendo coerentemente nella linea delle precedenti amministrazioni, l’attuale governo sta consolidando il potere dello Stato borghese, tra cui l’epurazione delle istituzioni governative e l’insediamento di fedelissimi, l’uso della fobia dell’antisemitismo per costringere le università a conformarsi alle attuali esigenze politiche del capitale e persino il dispiegamento dell’esercito nelle città.
Qualsiasi contrattacco sferrato dall’opposizione all’attuale amministrazione dall’interno delle file della borghesia e dei suoi sostenitori rimane fatalmente compromesso e impotente perché si colloca entro i confini strutturali della politica borghese e riporta proprio allo stesso problema che sta cercando di risolvere attraverso i suoi fronti popolari e le lotte antifasciste, le campagne elettorali, le manovre legali e le prese di posizione moralistiche.
Dando priorità alla “difesa della democrazia repubblicana” all’interno del quadro esistente e affidandosi implicitamente alle organizzazioni politiche legate al Partito Democratico, qualsiasi movimento di opposizione di questo tipo finisce per subordinare l’agenda rivoluzionaria del proletariato alla conservazione dello Stato borghese.
Per conseguire l’obiettivo storico della classe operaia, anche nell’obiettivo minimo che oggi propongono, “sconfiggere l’agenda autoritaria sostenuta dai miliardari”, occorre smantellare e distruggere l’intero spettro del potere borghese, lo stesso che ci riempie di sacro patriottismo e rispetto per l’ordine e la legge borghese e ci spinge in vicoli ciechi opportunistici che non fanno altro che rafforzare e approfondire la miseria in cui i lavoratori si trovano.
L’unica forza rivoluzionaria in grado di reagire è il proletariato che diventa cosciente quando èunito al suo partito nella sua missione storica di rovesciare il capitale. Questa offensiva politica di lunga lena può funzionare solo quando il partito del comunismo trasmette il suo pensiero e le sue direttive tramite gli organi di lotta della classe proletaria, i sindacati combattivi e coordinati, che oggi i lavoratori stanno cercando di riportare in vita attraverso una battaglia all’interno e all’esterno dei sindacati compromessi di oggi.
Solo recidendo completamente tutti i legami con l’apparato politico borghese e
intensificando il livello di coordinamento e di organizzazione di classe,
portando a scioperi più estesi e generali e conquistando i lavoratori
dell’esercito e degli altri organi repressivi dello Stato alla causa del
proletariato, sarà possibile la presa del potere statale da parte della classe
operaia. Solo allora i cicli mortali del capitalismo, della società di classe e
della repressione potranno essere eliminati, sostituiti da un sistema di
produzione, di governo e di amministrazione razionale, senza classi e non basato
sullo sfruttamento dell’uomo.
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Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale |
Il movimento di massa contro il genocidio e le guerra a Gaza, da fine agosto a inizio ottobre, ha impresso un’accelerazione al processo che il nostro partito ha previsto e preconizzato sin dalla fine degli anni ‘70, di decadimento del sindacalismo collaborazionista e di regime e rinascita del movimento sindacale di classe fuori e contro d’esso.
La Cgil ha confermato la sua natura di sindacato di regime per non aver voluto portare sul piano sindacale la lotta contro la guerra, cosa che invece ha voluto e saputo fare il sindacalismo di base, in particolare l’Usb.
La dirigenza Cgil ha reagito scompostamente al successo riscosso dall’Usb nel veicolare il movimento interclassista contro la guerra nello strumento dello sciopero generale, elevandolo al piano di un’azione di lotta della classe lavoratrice.
Prima ha cercato di sabotare lo sciopero generale del sindacalismo di base di lunedì 22 settembre, proclamando quello in concorrenza per venerdì 19 settembre, un giorno lavorativo prima! A fronte della sconcerto e della rabbia di una parte rilevante dei suoi iscritti – con epicentro nei lavoratori della scuola, che in gran numero hanno scioperato il 22 settembre coi sindacati di base – la dirigenza nazionale Cgil è corsa ai ripari e, su proposta lanciata a Genova dalle dirigenze locali di Usb e Cgil, ha accettato di convocare uno sciopero generale unitario con tutto il sindacalismo di base per il 3 ottobre. Si è persino svolta una conferenza stampa alla Camera dei Deputati alla presenza dei capi di Usb e della Cgil.
Lo sciopero del 3 ottobre è riuscito, nel suo complesso, tenuto conto che si trattava di uno sciopero politico, contro la guerra, in un periodo storico di grave arretratezza politica e sindacale della classe lavoratrice. Ha avuto buone adesioni in alcuni settori, come la scuola e l’INPS, e nei porti; basse nella manifattura, nei settori più strettamente operai. Ai cortei hanno partecipato masse enormi, lavoratori non organizzati e anche non lavoratori, ma per lo più diretti dalle organizzazioni sindacali della classe lavoratrice.
È importante ripetere e fissare i dati salienti degli scioperi generali del 22
settembre e del 3 ottobre:
1) per la prima volta in tutto il secondo dopoguerra si sono svolti due scioperi
generali, entrambi riusciti, nell’arco di soli 11 giorni; con ciò si è
dimostrato che non è affatto impossibile condurre uno sciopero generale che duri
di più delle canoniche 24 ore, se vi sono le organizzazioni sindacali disposte a
chiamare i lavoratori a farlo;
2) per la prima volta il più grande sindacato di regime d’Italia si è trovato
nelle condizioni di dover inseguire l’iniziativa dei sindacati di base;
3) a sapere e voler interagire, sostenere, rafforzare, indirizzare con lo
sciopero il movimento contro la guerra è stato il sindacalismo di base, non
quello di regime, non la Cisl e la Uil, evidentemente, ma nemmeno la Cgil;
4) il 3 ottobre si è fatto per la prima volta uno sciopero generale fuori dalla
leggi anti-sciopero (146/19990 e 83/2000, volute da Cgil Cisl e Uil e votate da
Pci e Ds) dimostrando anche in questo caso che se vi è la disponibilità delle
organizzazioni sindacali quelle leggi possono essere spezzate dalla lotta;
5) la convergenza delle organizzazioni sindacali nello stesso sciopero, in modo
analogo a quanto avvenuto ad esempio in Francia negli ultimi anni, ha un effetto
moltiplicatore delle adesioni e quindi della forza dello sciopero; rafforzandosi
lo sciopero, la massa dei lavoratori tende a spostarsi verso metodi,
rivendicazioni e organizzazioni sindacali più combattive, cioè rafforza il
sindacalismo di classe e indebolisce quello collaborazionista e di regime.
Dopo il 3 ottobre:
Le spinte classiste per l’unità d’azione frenate da sindacati di regime e dall’opportunismo di dirigenze e correnti sindacali
Dopo l’apice nella mobilitazione delle giornate del 3 e del 4 ottobre, il movimento contro la guerra a Gaza è rifluito.
La dirigenza dell’Usb correttamente si è prefissata di portare, per quanto possibile, le energie che si erano espresse in quel movimento sul terreno della lotta più strettamente sindacale, continuando a evidenziare il loro legame con la questione della guerra, innanzitutto promuovendo un’azione contro la nuova legge di bilancio, improntata al riarmo, mantenendo lo slogan, ben centrato e agitato sin dall’inizio della guerra in Ucraina, “Abbassare le armi, alzare i salari!”.
Ma questa corretta condotta sindacale e ambizione viene a essere ostacolata dalla volontà della dirigenza di Usb, identica a quella della Cgil, di fare retromarcia rispetto al 3 ottobre, cercando di relegare lo sciopero unitario a caso eccezionale, da non ripetere.
Dopo che il 17 ottobre il governo ha presentato la legge di bilancio, il 21 la Cub – inizialmente da sola – ha comunicato alla Commissione di Garanzia la proclamazione dello sciopero generale per il 28 novembre. Ma due giorni dopo, il 23 ottobre, la Cub ha scritto una lettera, resa pubblica, a tutti i sindacati di base e anche alla Cgil chiarendo che aveva “fissato” quella data per non incorrere nelle limitazioni poste dalle leggi anti-sciopero e per mettere quella giornata di sciopero a disposizione di tutti i sindacati, invocando la più ampia convergenza sindacale in quella data, richiamando la necessità di una continuità con gli scioperi del 22 settembre e del 3 ottobre, nonché – più che mai appropriatamente – rilevando come una risposta unitaria fosse oltremodo necessaria anche a fronte dell’avvio delle procedure sanzionatorie da parte della Commissione di Garanzia contro i sindacati che avevano promosso lo sciopero del 3 ottobre fuori dai limiti delle leggi anti-sciopero.
Lo stesso giorno, il 23 ottobre, l’Esecutivo Nazionale dell’Usb prendeva la decisione di scioperare il 28 novembre, senza però rivolgere alcuna proposta d’azione unitaria alla Cgil. Questa decisione è stata poi convalidata nell’assemblea nazionale dei delegati Usb del primo novembre tenutasi a Roma al Teatro Italia, in cui diversi dirigenti di Usb si sono espressi contro l’ipotesi di un nuovo sciopero unitario con la Cgil.
Questo nonostante l’iniziativa non solo della Cub ma anche quella della Confederazione Cobas, che il 29 ottobre aveva pubblicato un comunicato dal titolo chiarissimo: “Facciamo come il 3 ottobre! Appello dei Cobas a Cgil e sindacati di base per uno sciopero unitario il 28 novembre contro la Finanziaria”.
Lo stesso giorno, il 29 ottobre, è stato pubblicato anche un appello interno all’Usb – “Per una tattica sindacale vincente” – che sosteneva l’importanza di proporre alla dirigenza della Cgil uno sciopero unitario, quale via per acquisire più influenza sulla parte combattiva della base Cgil – quella che aveva apprezzato lo sciopero unitario o che aveva scioperato con i sindacati di base il 22 settembre – mettendola in contrapposizione con la sua dirigenza, anche qualora essa, come prevedibile, rigettasse la proposta. Alla stesura dell’appello, che qui di seguito riproduciamo, hanno collaborato i nostri compagni e così pure alla sua diffusione all’assemblea al Teatro Italia.
La correttezza di questa tattica sindacale è stata confermata dalla pubblicazione di un appello analogo, il 31 ottobre, per iniziativa di militanti della Cgil, intitolato “Appello per uno sciopero unitario di tutti i sindacati”, che ha raccolto centinaia di adesioni da quel sindacato e decine anche dai sindacati di base.
Il 6 novembre, a sostegno di un nuovo sciopero come il 3 ottobre ha preso posizione il Collettivo di fabbrica GKN, di Firenze, di cui gran parte dei lavoratori sono iscritti alla Cgil, scrivendo: “Dichiarazione sul bisogno di un nuovo 3 ottobre e sul prossimo sciopero generale del 28 novembre”.
Ma lo stesso giorno, riunita proprio a Firenze, l’Assemblea Generale nazionale confederale della Cgil confermava la decisione – che circolava già da fine ottobre – di proclamare uno sciopero generale per il 12 dicembre. Nulla valeva l’ovvia constatazione che si trattava di uno sciopero tardivo, dato che il processo di approvazione della legge di bilancio a quella data sarà avviato verso la conclusione: l’importante era non scioperare coi sindacati di base!
È da notare, per altro, che l’anno scorso si verificò la situazioni a parti rovesciate: fu la dirigenza dell’Usb a convocare uno sciopero generale – da sola – per il 12 dicembre, pur di non scioperare con la Cgil il 29 novembre, nonché con tutti gli altri sindacati di base che precedentemente alla Cgil avevano fissato per quel giorno lo sciopero generale.
Da notare anche che l’anno scorso solo un gruppetto di sindacati di base – Confederazione Cobas, Adl Cobas e Sial Cobas – espressero esplicitamente la volontà di “fare come in Francia”, cioè di scioperare insieme anche con la Cgil, mentre la Cub si limitò a fissare una data in cui sapeva che molto probabilmente sarebbe confluita, per i limiti posti dalle leggi anti-sciopero, ma senza dichiarare esplicitamente di ambire a questo risultato. Quest’anno, invece, la dirigenza Cub ha assunto questo indirizzo in modo esplicito, altro effetto positivo degli scioperi del 22 settembre e del 3 ottobre.
All’assemblea generale Cgil del 6 novembre, 3 componenti dell’area di minoranza denominata “Le Radici del sindacato” hanno presentato un ordine del giorno alternativo che concludeva affermando: “L’Assemblea generale della CGIL ritiene fondamentale indire lo sciopero generale per il prossimo venerdì 28 novembre 2025”. Una presa di posizione chiara ma non condivisa nemmeno dentro quell’area di minoranza, dato che 6 suoi delegati hanno votato il documento della maggioranza, limitandosi a presentare un contributo intitolato “Unire le lotte per la pace, la democrazia e la giustizia sociale” che, a dispetto del titolo, si premurava di non affrontare la questione dello sciopero unitario: unire le lotte ma senza dire di scioperare insieme! Questa divisione interna all’area “Le Radici del Sindacato” rispecchia la linea della saldatura a freddo avvenuta in occasione del XIX congresso Cgil fra l’area di opposizione “Riconquistiamo tutto” e quella più moderata di “Democrazia e Lavoro”, che nel precedente congresso non aveva presentato un documento alternativo a quello della maggioranza.
L’altra area di minoranza, denominata “Le giornate di marzo”, col suo unico rappresentante alla Assemblea Generale ha gareggiato in opportunismo con gli ex di “Democrazia e Lavoro”, presentando una dichiarazione di voto in cui ha precisato di astenersi circa la questione dello sciopero generale, unitario o separato, perché «la questione… non è la data... Uno sciopero rituale che si somma ad un altro sciopero rituale indetto da altri soggetti sindacali non cambia la sostanza». Come se per dispiegare uno sciopero “non rituale” non fosse utile, anzi fondamentale, la convergenza delle organizzazioni sindacali, nonché farlo in tempo utile!
Sempre a proposito di ipocriti tributi “a parole” all’unità di lotta dei lavoratori, per meglio poterla negare nei fatti, “Sinistra Sindacale”, il periodico dell’area “di sinistra” in Cgil, denominata “Lavoro e Società”, quella che sostiene la maggioranza, nel suo numero del 27 ottobre si affrettava a chiarire nell’articolo di prima pagina intitolato “Lavoriamo per l’unità”: «Piazze spesso uniche [quelle del 3 ottobre; ndr], anche fra soggetti sindacali profondamente diversi tra loro, non hanno inaugurato una stagione di diversa unità sindacale tra Cgil e sindacalismo di base. Chi, anche al nostro interno, agita lo spettro di una convergenza tra storie sindacali così diverse non ha visto cosa è accaduto in quei giorni in parti importanti della società italiana (e non solo), attorno ad una vicenda tanto drammatica quanto tuttora non risolta».
Contro l’unità d’azione della Cgil con i sindacati di base si sono espressi anche, nell’Assemblea Generale della Filt Liguria del 3 novembre, la segretaria regionale della Filt Cgil Liguria, della corrente della segretaria del Pd, il segretario organizzativo nazionale della Filt Cgil, il segretario della Filt Cgil di La Spezia, del partito più “a sinistra” presente in parlamento, cioè Alleanza Verdi Sinistra (Avs). Il segretario organizzativo nazionale della Filt Cgil si è espresso contro non solo a nuove azioni unitarie coi sindacati di base ma anche alla scelta del 3 ottobre, con ciò muovendo una critica sia alla dirigenza della Camera del Lavoro Cgil di Genova, da cui era partita la proposta di quello sciopero generale unitario, insieme alla dirigenza locale di Usb, sia alla dirigenza confederale nazionale della Cgil.
Queste critiche segnano l’avvio delle manovre per il prossimo congresso della
Cgil, il ventesimo, che si terrà il prossimo anno. Critiche all’operato
dell’attuale segreteria confederale, capeggiata da Landini, sono state mosse
oltre che dalla dirigenza della Filt, da quella della Flai (Agroindustria),
della Slc (comunicazioni), dello Spi (pensionati) e dalla segreteria confederale
dell’Emilia Romagna.
L’errata impostazione degli scioperi separati
L’11 novembre, scritto dall’ex capo dell’Usb Pierpaolo Leonardi, è stato pubblicato da quel sindacato di base un articolo che spiega chiaramente l’errata impostazione di quella dirigenza. In esso si afferma che «Usb ha proclamato lo sciopero generale… sulla base di… una piattaforma di lotta chiara, dettagliata e radicale… La differenza [con la Cgil; ndr]… non risiede nella data ma nella piattaforma... Se le piattaforme sono tanto diverse da non consentire una convergenza sulla stessa giornata, è naturale che ciò non avvenga. La straordinaria unità del 3 ottobre è stata possibile solo perché la drammaticità del genocidio in corso contro il popolo palestinese aveva imposto uno sciopero politico, fuori dagli schemi e dalle regole consuete».
Veniva ribadito quanto già espresso dai dirigenti Cgil circa lo sciopero unitario del 3 ottobre: un caso eccezionale e soprattutto da non ripetere! La tesi – piattaforme diverse, scioperi separati – bene esprime l’impostazione idealistica, anti-materialista, dei dirigenti di Usb circa il movimento di lotta della classe salariata. La radicalizzazione dei lavoratori avverrebbe, secondo questa impostazione, attraverso un processo in cui prima vi è la “coscienza”: il lavoratore prima capisce, sceglie la piattaforma più radicale, e poi si organizza e sciopera col sindacato che la sostiene.
Il processo nella vita sociale reale avviene diversamente. Anche se i lavoratori considerano una piattaforma più giusta, non la abbracciano se sentono di non essere sufficientemente forti, e lo stesso vale per il sindacato con cui si organizzano: se non sentono esistere una forza adeguata, i più, pragmaticamente, si affidano ai sindacati collaborazionisti.
La convergenza nello sciopero dei sindacati di base con la Cgil non ha l’effetto di accreditare quel sindacato di regime fra i lavoratori, ma di moltiplicare le adesioni allo sciopero, e con ciò la sua forza. In uno sciopero forte – non di una esigua minoranza quali quelli che troppo spesso la dirigenza di Usb ha organizzato, ultimo il 12 dicembre dell’anno scorso – la massa dei lavoratori tende ad abbracciare le rivendicazioni più radicali e le organizzazioni sindacali più combattive.
L’impostazione anti-materialista della dirigenza Usb nuoce innanzitutto alla stessa Usb, e in generale a tutto il sindacalismo di classe, rallentando il suo sviluppo, nonostante il senso degli eventi prodotti dalla crisi economica mondiale del capitalismo vada in quella direzione.
A rendere ancora più evidente la correttezza dell’indirizzo dell’unità d’azione sindacale e dei lavoratori sono i rapporti fra i maggiori sindacati di regime – Cgil, Cisl e Uil – e quindi interni all’unità sindacale collaborazionista, nel quadro attuale dell’attacco alle condizioni dei lavoratori.
La Cgil non ha firmato i rinnovi contrattuali nel pubblico impiego delle funzioni centrali, delle funzioni locali, della sanità, della scuola e dei vigili del fuoco. In tutti questi casi si è trovata sola nel quadro del sindacalismo collaborazionista, cioè rispetto a Cisl e Uil, e in compagnia con l’Usb, che nei comparti delle funzioni centrali e nei vigili del fuoco è ammessa alle trattative in quanto supera la soglia minima stabilita per legge tale da essere considerata rappresentativa.
Anche per ciò che riguarda lo sciopero generale, dopo quattro anni in cui la Cgil lo proclamava senza la Cisl ma con la Uil, quest’anno si è vista abbandonata anche da quest’ultima. Per sempre più iscritti Cgil diventa quindi perfettamente logico cercare l’unità d’azione con l’Usb e il sindacalismo di base, sia per ragioni di categoria che per ragioni confederali, che riguardano cioè l’intera classe lavoratrice.
Ma questa ovvietà va a cozzare con la dirigenza e l’apparato della Cgil che sono definitivamente legati al regime del Capitale e non possono accettare una simile unità d’azione, che tanti dirigenti, giustamente, definiscono contro-natura. Landini, quando era ancora segretario generale della Fiom Cgil, definì “follia” la prospettiva di rompere l’unità sindacale con la Fim Cisl e la Uilm, all’epoca in cui quei due sindacati non si limitavano a non scioperare con la Cgil ma avevano firmato ben due contratti nazionali metalmeccanici separati, che infine Landini accettò firmando nel 2016 un nuovo contratto metalmeccanico unitario. Per quella resa e sconfitta Landini fu premiato con la segreteria generale confederale, che occupa dal 2019, attraverso due congressi, il XVIII e il XIX.
Ciò che è contro-natura per l’apparato e la dirigenza del più grande sindacato
di regime d’Italia, cioè l’unità d’azione col sindacalismo di base, non lo è
però affatto per i lavoratori combattivi inquadrati in esso. Per questo
l’indirizzo sostenuto nei sindacati di base dal nostro partito – quello di
sfidare la dirigenza Cgil proponendole azioni di scioperi unitarie, che, in
quanto risponde alle esigenze concrete del movimento di lotta della classe
lavoratrice, trova consenso ben oltre il perimetro organizzativo dei sindacati
di base – va a fare leva su questa insanabile contrapposizione, portando in
prospettiva alla rottura della parte combattiva della base della Cgil con quel
sindacato, e un balzo in avanti nel rafforzamento del sindacalismo di classe.
Organizzare la battaglia per l’unità d’azione nei sindacati
Una riprova di come la natura di sindacato di regime della Cgil sia a tal punto irreversibile da nuocere non solo al movimento operaio ma persino alle mobilitazioni da essa dispiegate è stata la firma del nuovo contratto collettivo nazionale metalmeccanico. Non entriamo qui nel merito del contratto, che ha sollevato molte reazioni negative fra i lavoratori e che al Comitato Centrale della Fiom è stato approvato con 6 astenuti (dell’area “Le Radici del sindacato”) e 8 contrari (dell’area “Le giornate di marzo”, della Fiom di Genova e del delegato Rsu della Elctrolux di Susegana che fa parte dell’area “Le Radici del Sindacato), con uno schieramento nelle aree di minoranza curiosamente ribaltato rispetto alle votazioni alla Assemblea Generale del 6 novembre.
Ma qui va sottolineato che la firma è arrivata il 22 novembre, dopo ben 17 mesi di trattative, 40 ore di sciopero – in media una giornata di sciopero ogni 3 mesi – a 6 giorni dallo sciopero generale dei sindacati di base del 28 novembre e a 20 da quello della Cgil del 12 dicembre. Considerato che 5 giorni di sciopero in 17 mesi non possono aver sfiancato la volontà di lotta degli operai che hanno scioperato e che questa, laddove vi era stata, era ancora disponibile, essa andava convogliata nello sciopero generale, rafforzandolo e traendo forza da esso, bloccando con ancora maggior forza le fabbriche metalmeccaniche, per poi riprendere la trattativa su un piano di rapporti di forza più favorevole.
Unire le lotte dei lavoratori per rafforzarle reciprocamente è nell’ABC del sindacalismo di classe ed è un’idea non del tutto estranea nemmeno dentro la Cgil tant’è che all’assemblea generale della Filt Cgil Liguria del 3 novembre due delegati degli autoferrotranvieri genovesi avevano raccomandato di veicolare nello sciopero generale la vertenza nazionale dei tranvieri, che vede messo in discussione il già misero aumento del rinnovo contrattuale di marzo scorso.
Ma questo piano di interessi generali della classe, il collegamento e l’unione delle lotte parziali e di categoria che esso implica, non è rientrato nelle preoccupazioni e nei calcoli della dirigenza Fiom, o, peggio, pur di non alimentare lo sciopero generale dei sindacati di base del 28 novembre, sulla base di una pretestuosa urgenza, essa ha accettato di indebolire lo stesso sciopero generale della Cgil e la stessa vertenza metalmeccanica.
Il martedì successivo, il 25 novembre, si è svolta on-line un’assemblea
autoconvocata organizzata dai militanti della Cgil che avevano promosso
l’appello per un nuovo sciopero unitario come il 3 ottobre. Vi hanno partecipato
una novantina di lavoratori e militanti sindacali, soprattutto della Cgil e poi
di Usb, Confederazione Cobas, Cub, Cisl e Uil. Il nostro compagno è intervenuto
ribadendo la necessità di una lotta dal basso di tutti i sindacati per spingere
le dirigenze sindacali a seguire l’indirizzo dell’unità d’azione sindacale,
attraverso una campagna trasversale che rafforzi reciprocamente i gruppi che in
ogni sindacato la portando avanti. L’assemblea è stata riconvocata
successivamente ai due scioperi, con l’impegno a un lavoro duraturo nella
direzione indicata, lanciando lo slogan: MAI PIÙ SCIOPERI SEPARATI!
La crisi economica del capitalismo continua la sua lunga marcia. In Italia la produzione industriale è in calo da oltre due anni. In tutti i paesi cosiddetti Occidentali – cioè di più vecchia industrializzazione – è dalla metà degli anni ‘70 che la crisi di sovrapproduzione ha iniziato a manifestarsi.
L’espansione e il parziale trasferimento della produzione industriale ai giovani capitalismi d’Asia, divenuti le “fabbriche del mondo”, ha rallentato per tre decenni – coi bassi salari della classe operaia di quei paesi – la caduta del saggio del profitto (la redditività degli investimenti) che, insieme alla sovrapproduzione, condanna l’economia capitalistica alla catastrofe. Ma la Cina ha seguito il percorso obbligato d’ogni capitalismo e anch’essa ormai affonda nella sovrapproduzione, costretta a inondare il mercato mondiale con sempre più merci esportate.
Sono questi giganteschi fattori economici, che nessuno domina, a spingere il capitalismo verso l’unica soluzione che esso ha alla sua crisi: la guerra. La distruzione della immensa quantità di merci che intasano il mercato – fra cui la merce forza-lavoro – è la folle unica via a disposizione del capitalismo per sopravvivere a sé stesso, necessaria a riavviare un nuovo antistorico e inumano ciclo di accumulazione, esattamente come fu solo la Seconda Guerra mondiale a far superare al capitalismo la crisi in cui si avvitava da inizio ‘900 e a permettere il cosiddetto boom economico dei tre decenni successivi.
Verso la barbarie di una nuova guerra mondiale il capitalismo marcia sia per via del tutto spontanea sia per l’azione cosciente dei regimi borghesi nazionali, siano essi in veste democratica o apertamente autoritari.
In modo spontaneo, perché la sovrapproduzione inasprisce la concorrenza economica internazionale facendola assurgere a guerra commerciale – ad esempio coi dazi – e a scontro militare, con guerre locali sempre più dure, durature, frequenti, che misurano il maturare del nuovo conflitto mondiale fra gli imperialismi.
In modo consapevole perché tutti i regimi borghesi fomentano il nazionalismo e si buttano nell’industria bellica, per prepararsi alla guerra sul piano militare, per irretire i lavoratori e portarli domani al fronte al massacro fratricida coi proletari degli altri paesi, e infine come palliativo alla sovrapproduzione: se non si vendono più automobili, che lo Stato venda e compri armi, indebitandosi fino al collo; sarà il proletariato – nelle intenzioni del regime del Capitale – a pagare il conto col massimo sfruttamento e con la vita!
Questo quadro – previsto solo dal marxismo rivoluzionario e che lo conferma contro ogni teoria riformista o conservatrice del capitalismo – mette a nudo l’impotenza della sinistra borghese, moderata o radicale, che in ogni paese balbetta la litania del “diverso modelli di sviluppo”. Come se il capitalismo potesse essere amministrato in modo diverso da come impongono le sue leggi economiche!
In questo scenario, ogni nuova manovra finanziaria sarà tendenzialmente peggiore delle precedenti perché si tratta di una crisi strutturale, a cui nessuna nuova politica economica può porre rimedio. Così, fra altri provvedimenti anti-operai, questa legge di bilancio innalza di altri 3 mesi la già altissima pensione di vecchiaia a 67 anni, prevedendo per tal via un risparmio annuo di 3 miliardi per lo Stato borghese, mentre si appresta a spenderne 3,5 in più per il riarmo nel 2026!
I lavoratori non devono essere chiamati a lottare per impossibili riforme – deviando e disperdendo la forza della loro lotta, nell’elettoralismo e nelle false alternative parlamentari – ma a difesa dei loro interessi immediati, elementari, economici, nella consapevolezza che il loro soddisfacimento diviene sempre più incompatibile con il capitalismo, nella misura in cui avanza la sua crisi, e che perciò questa lotta implica lo scontro con l’intero regime politico capitalistico, e naturalmente col padronato.
Oggi la Cgil chiama a una manifestazione nazionale contro la nuova legge di bilancio, in difesa di salari, pensioni, sanità e scuola, contro la precarietà e contro il riarmo. Tutti obiettivi corretti, a cui va aggiunta la rivendicazione della riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario.
Ma per ottenere queste rivendicazioni occorre una lotta molto dura, cioè un forte movimento di scioperi che confluiscano in uno sciopero generale di più giornate, senza un termine prestabilito. Per far questo occorre naturalmente la disponibilità alla lotta dei lavoratori. Questa – nella misura in cui non è stata annacquata dall’effimero benessere capitalistico che però va estinguendosi – va ricostruita riguadagnando la fiducia dei lavoratori combattivi dopo decenni di sindacalismo collaborazionista di Cisl, Uil e anche della Cgil, dalla “politica dei sacrifici” di Lama nel 1978, a quella “dei redditi” di Trentin del 1992, all’accettazione della riforma Dini delle pensioni (1995) alle incredibili 3 ore di sciopero contro l’attacco alle pensioni del governo Monti nel 2012 (legge “Fornero”).
Un passaggio decisivo in questa direzione sarebbe la rottura dell’unità sindacale collaborazionista con Cisl e Uil e la sua sostituzione con l’unità d’azione, di lotta, con il sindacalismo di base. Uno storico esempio di come ciò sia possibile e portatore di un’azione di sciopero forte e di successo è stato lo sciopero generale unitario di tutti i sindacati di base, e di questi con la Cgil, dello scorso 3 ottobre contro la guerra a Gaza.
Questo esempio non deve rimanere isolato, dimenticato, limitato alla gravissima questione della guerra, bensì deve divenire la condotta permanente anche nelle lotte di carattere più strettamente sindacale. I lavoratori combattivi iscritti nella Cgil, le correnti di minoranza conflittuali che sono ancora al suo interno, debbono battersi affinché questa condotta si imponga entro il sindacato. Ciò rafforzerà anche chi, entro i sindacati di base, si batte contro l’opportunismo delle dirigenze che sempre sono state ostili all’unità d’azione nello sciopero con la Cgil.
Lo sciopero generale del 3 ottobre – oltre che per l’unità d’azione di sindacati di base e Cgil – è stato di grande insegnamento anche per altri due importanti ragioni:
- ha avuto successo, soprattutto in alcuni settori del pubblico impiego, al pari di quello del 22 settembre, promosso dai sindacati di base, mostrando che è possibile dispiegare scioperi generali di più giornate, cosa che non era mai avvenuta in Italia in tutto il secondo dopoguerra!
- Si è svolto nonostante la Commissione di Garanzia lo abbia dichiarato illegittimo, dimostrando che se i sindacati lo vogliono si possono spezzare le leggi anti-sciopero (146/1990 e 83/2000) volute da Cgil-Cisl-Uil proprio contro gli scioperi dei sindacati di base e che impediscono a tantissimi lavoratori di scioperare efficacemente! Le sanzioni con le quali la Commissione di Garanzia vuole colpire l’Usb e la Cgil sono una ragione un più per rispondere a esse con uno sciopero unitario!
I
drammatici eventi di guerra di questi ultimi anni sono il preludio di
un prossimo e altrettanto drammatico precipitare e avvitarsi della
crisi economica mondiale del capitalismo morente. Anche sul piano
sindacale, cruciale per la classe operaia, si sta arrivando all’ora
di prove decisive. L’unità d’azione della Cgil con il
sindacalismo di base è uno dei banchi di prova da cui potrà nascere
– attraverso una rottura con l’apparato irreversibilmente votato
all’unità sindacale collaborazionista con Cisl e Uil – il futuro
sindacato di classe,
necessario a organizzare le vere lotte che attendono la classe
operaia.
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La crescita capitalistica degli ultimi decenni ha fatto sì che le condizioni dei lavoratori siano, in media, migliorate. Vi sono diseguaglianze tra paesi e al loro interno, ma qualche briciola la classe padronale è stata costretta a farla cadere dal suo succulento banchetto e, a livello generale, ha permesso delle piccole migliorie. Negli ultimi anni questo sta venendo meno, sia nei paesi di maturo capitalismo sia in quelli che hanno trainato l’economia mondiale, Cina per prima.
Nei momenti di crisi l’attacco padronale alla classe operaia diventa evidente. Ma i lavoratori vi arrivano disarmati per colpa del tradimento dei sindacati di regime e, in alcuni paesi, perché hanno ancora qualcosa da perdere oltre alle proprie catene.
Il sindacato è lo strumento fondamentale nel quale i lavoratori si possono organizzare per difendere i propri interessi di classe, che sono opposti a quelli dei loro sfruttatori. Purtroppo, tra molti lavoratori aleggia un sentimento di repulsione del sindacato, associato alla condotta traditrice dei sindacati di regime. Ma questo può cambiare in modo repentino, quando le condizioni materiali costringeranno i lavoratori alla lotta.
Lo sa anche la borghesia che cerca di non trovarsi spiazzata. Prepara, e in certi casi già attua, la più brutale repressione. In Italia ad esempio è legge il “Decreto sicurezza” in cui si inaspriscono le pene per chi lotta.
Sulla questione è stata pubblicata la dodicesima edizione dell’Indice dei Diritti Globali della Confederazione Sindacale Internazionale (ITUC), uno studio annuale sulle violazioni dei diritti dei lavoratori a livello mondiale.
L’ITUC è una congrega di bonzi controrivoluzionari al soldo del capitale. Fu costituita a Vienna il 1° novembre 2006 dalla fusione fra la Confederazione Internazionale dei Sindacati Liberi (ICFTU) e della Confederazione Mondiale del Lavoro (WCL). Ha tre principali organizzazioni regionali: per Asia-Pacifico, per le Americhe e per l’Africa; collabora con la Confederazione Europea dei Sindacati (CES), anche attraverso il Consiglio Regionale Paneuropeo. Sostiene di rappresentare circa 207 milioni di lavoratori attraverso le sue 331 organizzazioni affiliate in 163 paesi.
Da notare che tra gli affiliati risulta il sudafricano COSATU, che ha avuto responsabilità nella strage di 34 lavoratori della miniera di Marikana nell’agosto del 2012: pur affiliatosi al FSM nel 2012 ha mantenuto l‘adesione alla ITUC. Dall’Italia vi aderiscono CGIL,CISL,e UIL, il che dice tutto.
Si legge nel rapporto:
«Nel 45% dei paesi sono state segnalate violazioni dei diritti alla libertà di espressione e di riunione, in aumento rispetto al 43% del 2024. In Benin alcuni lavoratori sono stati arrestati durante le celebrazioni del Primo Maggio. Nella Federazione Russa restano in vigore draconiane restrizioni Covid che conferiscono alle autorità il potere di vietare le riunioni sindacali. Il diritto di sciopero è stato violato nell’87% dei paesi. In Camerun uno stagionale è stato ucciso dalla polizia durante una manifestazione dei lavoratori dello zucchero per ottenere migliori salari e condizioni di sicurezza. In Iraq la polizia ha attaccato e ferito lavoratori petroliferi in sciopero durante una protesta per il loro status. Il diritto alla registrazione legale dei sindacati è stato ostacolato nel 74% dei paesi, il livello peggiore dall’inizio dell’Indice. In Pakistan un tribunale ha dichiarato illegali 62 sindacati, violando i diritti di milioni di lavoratori del settore pubblico. Il diritto alla contrattazione collettiva è stato limitato nell’80% dei paesi. In Francia quasi quattro contratti collettivi su dieci sono stati imposti unilateralmente dai datori di lavoro. In Svezia la Tesla ha aggirato completamente le trattative, sostituendo i lavoratori in sciopero con crumiri. Le autorità di 71 paesi (47%) hanno arrestato o incarcerato lavoratori. Un presidente di sindacato in Cambogia è stato condannato per aver denunciato online l’arresto di un lavoratore di un casinò. Attivisti di Hong Kong, tra cui due leader sindacali, sono stati condannati per aver partecipato a un processo elettorale democratico per il consiglio comunale. Ai lavoratori di tre paesi su quattro è stato negato il diritto alla libertà di associazione e di organizzazione. In Malesia, l’azienda globale di imballaggi Amcor ha licenziato ingiustamente un segretario sindacale nell’ambito della sua campagna di repressione sindacale. Amazon ha risposto alla creazione del suo primo sindacato in Canada chiudendo i suoi magazzini in Quebec, con la perdita di 2.000 posti di lavoro. I lavoratori hanno subito violenze nel 26% dei paesi. Banditi armati hanno attaccato la casa di un leader sindacale ad Haiti, costringendolo a fuggire con la sua famiglia. Teppisti hanno costretto con la forza cinque sindacalisti a lasciare un evento del Primo Maggio in una miniera di litio in Zimbabwe. Sindacalisti hanno pagato con la vita il loro attivismo in Camerun, Colombia, Guatemala, Perù e Sudafrica, uccisi per aver difeso i diritti dei lavoratori. I 10 paesi peggiori per i lavoratori nel 2025 sono stati: Bangladesh, Bielorussia, Ecuador, Egitto, eSwatini, Myanmar, Nigeria, Filippine, Tunisia e Turchia. La polizia turca durante una manifestazione del Primo Maggio 2024 a Istanbul ha arrestato decine di persone. La Turchia rimane tra i 10 paesi peggiori per i lavoratori».
Sempre secondo il rapporto nel 2025, sebbene l’Europa rimanga, in media, la regione meno repressiva per i lavoratori, negli ultimi quattro anni si è registrato un costante peggioramento. Quasi tre quarti dei Paesi europei hanno violato il diritto di sciopero e quasi un terzo di essi ha arrestato o trattenuto lavoratori. La posizione della Georgia è peggiorata da 3 a 4, e quello dell’Italia da 1 a 2 a causa delle azioni draconiane dei rispettivi governi volte a minare i diritti dei lavoratori e delle proteste. Le autorità di Belgio, Finlandia e Francia hanno continuato a reprimere i lavoratori in sciopero, mentre i governi di Albania, Ungheria, Moldavia, Montenegro e Regno Unito hanno abusato dei poteri legali ampliando eccessivamente la definizione di “servizi essenziali” per limitare il diritto di sciopero. In Grecia, Ungheria, Serbia, Svizzera e Turchia, le aziende hanno attivamente minato l’attività sindacale a scapito dei dipendenti. Questo clima anti-lavoratori ha visto anche l’emergere di “sindacati gialli” dominati dai datori di lavoro in Armenia, Grecia, Paesi Bassi, Moldavia e Macedonia del Nord.
Per la CGIL, «il nuovo Global Rights Index 2025 della Confederazione Sindacale Internazionale (ITUC) lancia un allarme chiaro e preoccupante: i diritti dei lavoratori sono in caduta libera in tutto il mondo. L’Italia è un caso emblematico di deriva autoritaria, risultato diretto delle politiche neoliberiste e autoritarie adottate dal governo guidato da Giorgia Meloni, che ha intrapreso un percorso di sistematica repressione delle libertà sindacali e dei diritti collettivi. L’attacco ai sindacati, con una criminalizzazione crescente delle mobilitazioni e una retorica delegittimante verso le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative».
La CGIL, che ha abbandonato da tempo l’arma dello sciopero e il contatto con la classe operaia, deve apprendere da un rapporto stilato da altri che i cosiddetti diritti svaniscono, e ne addossa la colpa al governo “di destra”.
Nel capitalismo non esistono diritti reali e duraturi per la classe dei proletari, che per mantenerli deve continuamente lottare. Anche imputare la repressione antisindacale solo al governo di turno è opportunismo: il responsabile è il capitale, qualsiasi sia il suo governo.
Questo rapporto di anti-proletari di professione, tra l’altro decisamente parziale, conferma che la repressione aumenta con l’aumentare delle lotte, così come, al contrario, vi può non essere repressione solo quando le lotte languono.
Oggi, anche se vi è stato un risveglio di combattività operaia, il suo movimento
internazionale è ancora debole, quindi la repressione vera solo si prepara. Urge
quindi che i lavoratori si organizzino per ricostruire sindacati di classe
affinché arrivino preparati: prima per difendere le proprie condizioni
nonostante la inevitabile repressione, quindi per contrattaccare con la presa
del potere, guidati dal partito comunista internazionale.
In questo periodo di crescente crisi economica e sfruttamento in Turchia, l’intervento del capitale sul diritto alla vita si è manifestato questa volta attraverso la questione abitativa.
Nel quartiere Topağacı del distretto Ümraniye ad Istanbul, la popolazione continua da oltre un mese a presidiare il quartiere. Nell’ambito della trasformazione urbana, alcune aree sono state dichiarate di nuovo insediamento. Da novembre 2023 includono anche alcuni insediamenti esistenti, come quello di Topağacı.
La trasformazione urbana nel quartiere è iniziata nel 2018. Con il pretesto del terremoto e del miglioramento della qualità degli alloggi è stato elaborato un piano per la zona. Tuttavia, per una serie di irregolarità e per i cambiamenti di amministrazione e gestione, i lavori sono rimasti incompiuti o non sono mai stati avviati. Alla fine, nel marzo 2024 il quartiere è stato dichiarato area di nuovo insediamento e le demolizioni hanno subito un’accelerazione. Gli abitanti del quartiere hanno iniziato una resistenza contro il progetto di “riqualificazione urbana”.
Il Comune, il 24 luglio e il 21 agosto, è entrato nel quartiere per procedere alla demolizione, ma ha dovuto affrontare le reazioni organizzate dalla popolazione. Di conseguenza il Comune, sotto la protezione della polizia, è entrato nelle case e ha tagliato l’acqua, l’elettricità e il gas.
Ad agosto gli abitanti del quartiere hanno fondato un collettivo di resistenza.
In Turchia la trasformazione urbana è uno dei settori più vasti e redditizi per il capitale. Con la scusa della riqualificazione urbana si costruiscono quartieri invivibili, come Fikirtepe, con edifici malamente progettati e non resistenti. Nel capitalismo il profitto e la rendita vengono prima della sicurezza degli abitanti. Ci ricordiamo il cedimento dei pilastri dal terremoto del 6 febbraio all’hotel ISIAS, al complesso Manolya, al condominio Eser...
Le case che alcuni operai sono riusciti ad acquistare con mille sforzi rimangono oggetti per il profitto del capitale, che le può confiscate con una sola firma. Sempre aumenta l’insicurezza nella vita dei lavoratori. Permanendo il sistema capitalista il problema attuale non farà che aggravarsi. Anche la disponibilità degli alloggi è in balia delle mani “invisibili” del mercato capitalista.
Il vecchio Engels scrisse: «L’espansione delle grandi città moderne conferisce un valore artificiale e spesso straordinariamente crescente al terreno in determinate zone, soprattutto quelle situate nei loro centri; gli edifici che già sorgono su di esse, invece di aumentare questo valore, lo diminuiscono, perché non corrispondono più alle condizioni del mercato; tali edifici sono demoliti e sostituiti da altri. Questo accade in particolare agli alloggi dei lavoratori situati in posizione centrale; anche se sovraffollati, i loro affitti non possono mai superare un certo limite o solo molto lentamente. Questi vengono demoliti e al loro posto vengono costruiti negozi, grandi magazzini ed edifici pubblici».
La borghesia si orienta verso la produzione di alloggi costosi, più redditizia. Di conseguenza la disponibilità di alloggi popolari diminuisce, fino ad esaurirsi. Il mostro del capitale caccia via gli operai anche dalle loro case e vende loro case piccole a prezzi elevati.
Noi, a differenza dei socialisti borghesi, non proponiamo riforme. La carenza di alloggi è inevitabile nel capitalismo. Le misure parlamentari che cercano di risolvere il problema sono solo inganni per la classe operaia. Si avrà una soluzione permanente solo con l’abolizione dell’ordine capitalista. La strada per raggiungere questo obiettivo passa attraverso l’organizzazione, nei quartieri proletari come nei luoghi di lavoro, in sindacati di classe e sotto la guida del Partito Comunista Internazionale.
Nella società comunista, eliminato il mostro del capitale, nessuno avrà problemi
di alloggio!
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Il giornale Compagna appare all’inizio del 1922, quando è ormai sconfitta l’onda rivoluzionaria del biennio rosso in Italia e man mano si affievolisce quell’assalto rivoluzionario del proletariato in tutta Europa che si era dispiegato sullo slancio della rivoluzione in Russia di Ottobre. Il 1922 è l’anno della chiamata del fascismo al governo in Italia, nel rispetto di tutti i crismi della democrazia: è del 28 ottobre la scenografica “Marcia su Roma” delle camicie nere. I fatti sono subito ripostati sul giornale e chiaramente interpretati come dimostra il trafiletto “Come avvenne la scalata al potere” già sul numero 18 del 12 novembre.
Fin dai primi numeri sul giornale è espressa la consapevolezza del momento storico che si sta vivendo. Si legge su Compagna numero 2 in “Evviva il Secondo Congresso del PCd’I”: «Le difficoltà che si frappongono alla nostra opera sono moltissime e formidabili, il nostro lavoro è la somma di una paziente e dura lotta e di una ostinata perseverante volontà, i giorni futuri metteranno a prova di fuoco la nostra milizia e la nostra struttura organizzativa».
C’è la consapevolezza che solo rimanendo ancorate al partito e al suo giornale è possibile non essere travolti dagli avvenimenti e continuare la lotta per l’emacipazione del proletariato femminile. Si legge nello stesso numero in “La ‘Compagna’ e ‘La difesa delle lavoratrici’” questo appello: «Donne lavoratrici! ‘Compagna” che sorge in un momento tormentoso e pieno di oscure minacce, deve avere il vostro entusiastico consenso, perché è il solo giornale di classe, del proletariato femminile d’Italia, e sarà arma sicura e potente di propaganda per l’azione rivoluzionaria».
Nel partito e nelle compagne della redazione è lucida l’analisi degli avvenimenti e del fascismo, un fenomeno allora relativamente nuovo, la loro interpretazione e le coerenti direttive comuniste. La trasformazione della forma del governo dello Stato spazzava via tutte le illusioni sulla convivenza civile che la borghesia si era data nel XIX secolo, sostenute dai partiti liberali e dal riformismo socialdemocratico, venendo smentita ogni menzogna sulla sacralità della legalità, degli ordinamenti e delle libertà costituzionali.
Notevole rilevare che, almeno in questa prima annata 1922 del giornale alla quale qui ci riferiamo, non si fa il minimo cenno alla possibilità di una convergenza di forze antifasciste al di fuori di quelle del comunismo anticapitalista, e alla ipotesi di una terza via intermedia fra la dittatura della borghesia e la dittatura del proletariato. La democrazia non è mai prospettata come una possibile alternativa storica e il suo ripristino come un obiettivo tattico del movimento operaio.
La conquista del potere
Nel numero 12, del 18 agosto, in “La conquista del potere” si dà la rigorosa lettura marxista del fenomeno fascismo, collocato all’interno della storica lotta fra le classi, e del suo rapportarsi con le necessità difensive della classe dominante e con le sue istituzioni: «Fra due classi che si battono in una guerra che deve decidere della loro vita è inevitabile l’impiego della violenza».
* * *
La società attuale è divisa in due classi irreconciliabilmente avverse l’una all’altra, fra di loro in continuo conflitto e delle quali l’una domina e opprime l’altra. La borghesia ha conseguito e mantiene il suo dominio sul proletariato in quanto si è impadronita e dispone di una forza armata organizzata in suo servizio, dello Stato, che è appunto «una particolare forza repressiva con cui una classe tiene soggetta un’altra». Con questo apparato di dominio, costituito di potenti organi, quali l’esercito, la polizia, la magistratura, la burocrazia, la classe dominante tiene a freno la classe asservita, dando però allo Stato una ben diversa definizione e attribuendogli ben altri uffici.
* * *
Nello Stato – affermano la borghesia e i suoi sostenitori – è espressa e posta in esecuzione la volontà della maggioranza dei cittadini; lo Stato, nell’interesse dell’intiera società, provvede al mantenimento dell’ordine e alla tutela della legge. La classe dominante, rivestito, anzi mascherato di tali menzognere apparenze il suo Stato, si sforza di farlo oggetto da parte della popolazione di un sacro e generale rispetto: tutta l’opera di educazione dell’infanzia, della gioventù, del popolo tende a radicare nello spirito di ciascuno il rispetto, l’ossequio, la sottomissione all’autorità, all’ordine costituito, allo Stato, proclamato espressione e volontà dell’intiera società, mentre, anche quando rivesta la forma più democratica, per le masse sfruttate non può essere che una forza posta al di fuori e al di sopra delle moltitudini, da cui ciascuno è dominato senza che un proprio reale interesse, una qualsiasi forma di compartecipazione o di consenso la giustifichi..
Lo Stato è la condizione e lo strumento di dominio della classe che è al potere, anche quando, rivestendo l’apparenza più democratica chiama «una volta ogni tanti anni la classe asservita a decidere quali esponenti della classe dominante debbano in parlamento rappresentare gli asserviti e calpestati»: la struttura dello Stato, il suo funzionamento creano naturalmente mille restrizioni e ostacoli che impediscono ai lavoratori la partecipazione attiva alla democrazia, la quale, bugiarda e simulatrice, alla chetichella mette in disparte i poveri e proclama la sovranità del popolo.
L’avanguardia proletaria, costituita degli operai più coscienti, si rende conto della menzogna contenuta nella democrazia, dell’ipocrita travestimento con cui lo Stato borghese cerca di rendersi accetto alle moltitudini asservite; e tende a costruirsi una propria organizzazione armata, colla quale abbattere e sostituire lo Stato borghese. Di fronte all’audacia di questa avanguardia cosciente e combattiva lo Stato democratico getta la maschera e si mostra in tutta la sua violenza repressiva. Allo sforzo compiuto dai rivoluzionari per concentrare tutte le forze di distruzione contro il potere dello Stato, i partiti borghesi, anche i più democratici, contrappongono l’intensificazione delle misure repressive contro il proletariato rivoluzionario, il rafforzamento della macchina statale. E quando i metodi e le forme “legali” di repressione si mostrano insufficienti la borghesia e i suoi sostenitori ricorrono ad altri metodi e ad altre forme; quali l’armamento delle bande fasciste che apparentemente agiscono al di fuori dello Stato ma effettivamente non sono dissimili nell’origine, nelle funzioni e negli scopi, né si possono disgiungere da tutte le altre forme di repressione consacrate dalla legge borghese. I fascisti possono armati e incolonnati assaltare e occupare paesi e città, uffici pubblici e case private in quanto lo Stato borghese permette loro, quando direttamente non ne fornisce mezzi, quell’armamento, quelle invasioni e quelle gesta che pure la legge borghese nella sua enunciazione apparentemente universale vieta; in quanto lo Stato assicura loro l’impunità, pone, sebbene alla chetichella, le loro gesta fra gli atti leciti, consentiti dall’autorità statale.
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Ogni atto compiuto dagli operai che minano lo Stato borghese è impedito e punito; ogni rivolta operaia fu sempre ed è spietatamente domata; contro i proletari che si armassero, che inquadrati tentassero di percorrere le vie di una città, di forzare le porte di un edificio pubblico e privato lo Stato farebbe e fa uso della sua forza armata, del fucile e della mitragliatrice; anche nei giorni in cui la classe operaia celebra le sue pacifiche manifestazioni proletarie (Primo Maggio, 7 novembre, ecc.) le autoblindate corrono per le vie delle città operaie, nelle quali agli operai è vietato adunarsi.
I fascisti, armati di rivoltella, di fucili, di bombe, rivestendo una divisa, fanno le loro evoluzioni militari per le vie delle stesse città; a migliaia, così armati e incolonnati, si trasportano dall’una all’altra località, occupano i paesi coi metodi usati dagli eserciti regolari nelle guerre di conquista; e hanno libertà di azione.
Il fascismo agisce in quanto lo Stato glielo consente; esso è anzi una delle tante forme repressive di cui lo Stato si serve; forma eccezionale sorta in un momento in cui lo Stato era eccezionalmente minacciato dall’ondata rivoluzionaria proletaria che seguì la guerra e che avrebbe potuto e parve schiantare lo apparato statale borghese. In questi anni di lotta più intensa e quasi decisiva fra le due classi avverse il vero ufficio, la vera natura della macchina statale sono apparsi con maggiore evidenza, e conseguentemente più imperiosa si è mostrata la necessità per il proletariato rivoluzionario di spezzare questa macchina e di sostituirla con una sua propria e in suo servizio. Spezzarla e sostituirla, non già soltanto conquistarla impadronendosi dello Stato quale oggi è, attraverso a un ministero costituito di uomini suoi; perché la macchina statale borghese nella sua attuale struttura non può essere dominata da pochi uomini che se ne assumano il “governo”: l’esercito, la burocrazia, la polizia, la magistratura borghesi non possono servire che alla borghesia da cui emanano, con cui si identificano; la pretesa di governarli quali essi sono oggi è assurda e non può produrre che la guerra civile e il caos.
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La dura realtà, di oggi mostra anche chiaramente con quanta ipocrisia si rimproveri l’impiego della violenza al proletariato rivoluzionario. L’esclusiva attribuzione dei metodi violenti ai rivoluzionari è uno degli argomenti con cui i sostenitori a parole dell’ordine e del vivere civile cercano di denigrare, e specialmente fra le donne, i rivoluzionari i quali vengono dipinti con le tinte più fosche e presentati come degli assassini, degli incendiari, dei saccheggiatori, degli assetati di sangue e di strage. Quando come oggi la lotta è impegnata, la verità emerge dai fatti stessi: fra due classi che si battono in una guerra che deve decidere della loro vita è inevitabile l’impiego della violenza; che in chi domina è forza repressiva, organizzata, violenza sistematica, permanente, legalizzata; e quando occorre sbocca in sistemi e in forme eccezionali e brutalmente sanguinarie; in chi è dominato, è violenza repressa, sovversiva, eroica perché esposta a tutti i pericoli, soggetta a tutte le sanzioni; nel caso nostro illuminata dall’idealità rivoluzionaria proletaria, che mira sì a conquistare violentemente il potere, ma non per sostituire ad uno un altro violento dominio: per giungere (come vedremo meglio in un altro articolo) mediante la temporanea creazione dello Stato proletario alla dittatura del proletariato, all’abolizione delle classi, alla cessazione della guerra di classe, e conseguentemente all’abolizione di ogni potere dominante e repressivo, all’abolizione dello Stato.
Camilla Ravera
Il Movimento Femminile Comunista in Italia
Appello alle donne
Esistono “solo due vie”, quella borghese e quella comunista, questo si torna ad affermare su Compagna n.14, del 10 settembre, nella rubrica “Il movimento femminile comunista in Italia”, alla voce “Dalla Toscana, Appello alle donne”: «Non imprecare e chiamare i fascisti gente crudele. No. I fascisti hanno ragione. Essi difendono con ogni mezzo la loro vita [dei borghesi] contro di voi, che ancora non siete giunti al grado di saper difendere la vostra»!
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A tutte le donne lavoratrici noi ci rivolgiamo. Voi avrete certamente osservato gli ultimi fatti avvenuti in Romagna e in Toscana. Avrete certamente osservato quanti figli del popolo e anche qualche donna sia stata ferita e uccisa. Voi pensate certamente, e siete nel vero, che pure domani, forse dopodomani anche vostro figlio, anche il vostro marito, o il vostro fratello, o il vostro padre, o voi stesse potrete cader vittime della rivoltella fascista. E imprecate, e chiamate i fascisti gente crudele e senza cuore.
No. I fascisti hanno ragione. Essi difendono con ogni mezzo la loro vita contro di voi che ancora non siete giunti al grado di saper difendere la vostra. Essi difendono i loro palazzi, le loro automobili, i gioielli delle loro donne, la loro dolce possibilità di viaggiare, di frequentare i teatri, le feste, di studiare, di divertirsi in tutti i modi, contro di voi che col vostro lavoro dovete procurare loro tutte queste comodità, senza protestare mai per la vostra miseria.
Noi vogliamo convincervi di questa verità; che i vostri uomini e voi stesse avrete sempre il pericolo della morte violenta sul vostro capo, finché non vi metterete risolutamente in una delle due vie che sole possono ricondurci a una vita tranquilla.
Una di queste vie ve la indicano i fascisti e i grandi signori, padroni vostri, che li spingono e li sorreggono con la forza. È quella che vi riconduce alla vita di trenta anni fa, quando ciascuno di noi faceva il proprio dovere, cioè lavorava per sedici ore al giorno, con una paga minima, non si occupava di politica, e non azzardava mai di ribellarsi al proprio padrone, che era quasi un Dio, dinanzi al quale si tremava. Questa via conduce veramente alla pace. Voi non avrete più le bastonate e le revolverate fasciste, ma morirete insieme ai vostri uomini di fame e di miseria, condurrete una vita più stentata ancora di quella che adesso conducete, vedrete i vostri figli morire di privazioni e di tutte le malattie che la miseria e l’ignoranza, sua figlia primogenita, portano. In compenso, è vero, pochi proprietari di officine e di terre avranno una vita bella piena di ogni comodità e di ogni cosa superflua. Ed è veramente una gran gioia sapere che c’è chi gode tutto il possibile per opera nostra perché noi lavoriamo da morirne e non ci lamentiamo mai di non aver nulla dopo tanto faticare.
L’altra ve la indichiamo noi: è la via della ribellione risoluta, disperata, a tutto questo cumulo di nefandezze e di orrori, della difesa, attuata con ogni mezzo, del vostro diritto alla vita completa, della volontà indomabile di rovesciare l’attuale stato di cose e ricostruire la società su un‘unica base: quella del lavoro, con un’unica legge: «colui, uomo o donna, che senza impedimenti fisici non lavora ad un lavoro socialmente utile non ha diritto a nulla, neanche al pane».
In questa nuova società i vostri figli non moriranno né per mano dei fascisti né per causa della miseria e delle sue privazioni.
In questa nuova società i vostri figli saranno educati e istruiti come ora lo sono soltanto i figli di chi ha soldi da spendere. In questa nuova società voi donne sarete libere dalla schiavitù della casa, lavorerete a un lavoro che vi verrà remunerato, guadagnerete da voi la vostra vita, non dipenderete più economicamente dai vostri uomini, o mariti o figli che siano.
La via è faticosa ma la meta è piena di luce.
Coraggio sorelle. Venite con noi risolutamente con tutta la vostra disperazione nell’animo, con la volontà ferma di riuscire, usando ogni mezzo, a costo di qualunque sacrificio, e la via diverrà subito più breve, il numero dei martiri che la copriranno subito minore, la mèta subito più fulgida e più vicina.
Le donne comuniste della Toscana
La compagna Faraggiana aggredita dai fascisti
Le violenze dei fascisti non risparmiano le proletarie, e le collaboratrici del giornale in particolare. Nel numero 18, del 12 novembre, uno scarno trafiletto di 13 righi riferisce dell’aggressione a una di loro.
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Il giorno 30 ottobre alla stazione con le sue bimbe la compagna Faraggiana di Forlì attendeva il treno delle 16,30 per Bologna. A un tratto i fascisti mobilitati la circondarono e la obbligarono a bere un bicchiere di olio di ricino. Non valsero le grida delle bimbe spaventate, la nostra compagna dovette berlo perché gli energumeni furono senza pietà.
Sugli angoli di strada i manifesti fascisti dicono: Siamo generosi con gli avversari inermi.
La paura
Non si nasconde l’asprezza della situazione per la classe operaia. Questo, fra l’altro, si scrive nel numero 14 del 10 settembre. Ciò che in realtà solo distingue il fascismo dai metodi del “politicamente corretto” democratico è la truce ostentazione della sua vera intrinseca natura di dominio. Quando la borghesia è costretta a mostrare i muscoli significa che è in difficoltà e sente il pericolo.
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Non è raro il caso che alcune leghe rosse passino al fascio. È la convinzione che le fa agire? No: è la paura! La paura dell’esercito extra legale che s’è ammantato di una divisa coreografica composta di tutti gli elementi atti a spargere il terrore: camicia nera, ciuffi sugli occhi, teste di morto, pugnali, bastoni e via, dell’esercito extra-legale che è diventato sempre più forte e feroce per l’appoggio diretto dello Stato da un lato, e per quello indiretto della paura che incute dall’altro (...)
È nostro dovere e nostra gioia il rallegrarci con quella parte di proletariato cosciente che durante questi due anni di tribolazioni, e in ispecial modo nell’ultimo sciopero, ha dato esempi mirabili di resistenza invitta e di eroismo in tante città e paesi d’Italia (...)
Non disarmare, non rallentare, vigilare e prepararsi
Tutte le compagne della redazione subiranno minacce, arresti, carcere, e confino negli anni successivi. La regolare cadenza delle pubblicazioni di qui in avanti non potrà essere più mantenuta. Continuano infatti sotto il governo Mussolini le vessazioni contro il giornale, dei fascisti come delle istituzioni borghesi.
Nel numero 18 del 12 novembre si avvisano i lettori che, a causa della occupazione della tipografia da parte della forza pubblica, il giornale uscirà con un numero ridotto di pagine.
Tuttavia, di seguito all’avviso, subito sotto si torna a stampare, in ”Non vi è differenza”, «fra la tirannide militaresca e la blandizia democratica».
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La Tipografia dell’”ORDINE NUOVO” dove veniva pubblicato “COMPAGNA” è stata
occupata dalla forza pubblica. Il nostro giornale che era già pronto per
andare in macchina non ha potuto essere stampato.
“COMPAGNA” uscirà però ugualmente, ma per ora in formato molto ridotto.
Speriamo col prossimo numero di riprendere la normale pubblicazione.
NON VI È DIFFERENZA
Non vi è differenza per gli operai e per i contadini, per i lavoratori del braccio e della mente, fra la tirannide militaresca e la blandizia democratica, che ora si veste della camicia nera dello squadrista. Quello che si vuole sopprimere è
la lotta di classe, è la lotta dei lavoratori per la difesa della loro vita, per la conquista di una loro
libertà e di una loro giustificazione [affermazione ?]. Soppressa la lotta di classe, imprigionata la classe nel quadro
dello Stato nazionale, non vi è per i lavoratori altro che la schiavitù. «Per la lotta di classe!» è grido che il Partito Comunista lancia oggi ai lavoratori.
Può darsi, anzi è quasi certo che, superata la crisi attuale, la reazione infierirà in modo più aspro contro tutti coloro che intorno a questa bandiera, che noi leviamo con fierezza, avranno il coraggio di raccogliersi. I comunisti, che
sono orgogliosi di avere già per due anni, sotto i colpi più aspri della tempesta, mantenuto integro
e saldo il Partito della classe operaia, sanno qual’è il loro posto.
RESISTENZA
(...) I comunisti che, con occhio vigile, freddo e sereno misurano la portata degli avvenimenti, ne risalgono alle cause, ne valutano gli effetti, sanno affrontare il momento grave con la massima resistenza. È l’ora grave e terribile in cui bisogna attingere dalla nostra fede la forza alla resistenza. Nell’ora dello sgomento e del terrore colui che ha la calma domina la situazione. I comunisti devono possedere questa calma onde attingere da essa la forza alla lotta e alla resistenza.
Dal manganello fascista usciranno nuove correnti rivouzionarie. Le donne porletarie, che tanto duramente subiscono i contaccolpi della reazione, si stringano attorno alle nostre organizzazioni, sappiano che ogni coscienza classista, ogni sentimento di ribellione isolato, non ha valore, poiché esso acquista forza solo nell’unione e nella disciplina delle forze proletarie.
F.F.
PAGINA 6
La classe operaia si trova oggi minacciata dai preparativi di guerra dei centri mondiali del capitale, un nuovo massacro voluto e pianificato allo scopo di scongiurare la sollevazione internazionale dei proletari, suscitata per la difesa della loro vita dagli effetti del precipitare nella crisi del presente regime economico immolato al profitto.
Non sappiamo se la classe lavoratrice, dopo un secolo di contro-rivoluzione, avrà tempo per ricostruire i suoi organi economici e collegarsi al suo partito rivoluzionario marxista, e aver così la forza per impedire il deflagrare della guerra mondiale. Anche se non vi riuscisse griderà la sua opposizione al riarmo, al militarismo, al nazionalismo, che per essa la guerra è dei borghesi, dei capitalisti, e che i salariati solo vi sono costretti dal potere degli Stati. A questa condizione sarà possibile, nel corso della guerra, trasformarla in fraternizzazione proletaria internazionale e in guerra civile rivoluzionaria per il comunismo.
A tale grande, cruciale risultato dedichiamo le nostre oggi quantitativamente minuscole forze di partito.
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Come da precedenti accordi e su convocazione del centro abbiamo tenuto la periodica riunione generale, in tele-conferenza, nei giorni 27 e 28 settembre, con ampia rappresentanza di tutte le nostre sezioni.
Rassicuriamo chi non ci conosce che il partito non tiene più raduni di tipo congressuale, ove individui o gruppi si diano a dibattere opposte interpretazioni della dottrina o disvelare sue correzioni o aggiornamenti.
Il partito comunista è un conduttore elettrico, necessariamente isolato dall’ambiente borghese ad evitare dispersioni, ma in contatto con la vivente classe operaia, la cui funzione è trasmettere l’alto potenziale di passione comunista e di scienza da un grande passato a disposizione del futuro spontaneo e immancabile assalto rivoluzionario internazionale, che libererà il mondo dalla montagna di sterco che la morente classe borghese va orribilmente accumulando.
Abbiamo dapprima ascoltato i resoconti della vita delle sezioni e dei risultati delle varie nostre attività. È stato esposto un aggiornamento sulle pubblicazioni a stampa che si sono venute ad aggiungere alla nostra biblioteca, e sull’accrescersi e sempre meglio strutturare del sito internet. I compagni che vi si occupano hanno esaurientemente riferito del lavoro di propaganda e di proselitismo, nei vari ambiti e sui diversi canali, e sui suoi risultati. Presentata la situazione finanziaria. Abbiamo dato lo spazio necessario a riferire degli studi i corso nuovi o di approfondimento e dell’attività sindacale che svolgiamo nei paesi dove siamo presenti.
Quindi siamo passati all’ascolto dei rapporti sui diversi argomenti di studio.
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Di questi abbiamo già dato pubblicazione in lingua italiana: - Indonesia, in altra pagina di questo stesso giornale; - Razze classi e questione agraria negli Stati Uniti, parte 3, di imminente pubblicazione in “Comunismo”. Abbiamo sul numero scorso di questo giornale: - A Gaza non si combatte una guerra nazionale ma imperialista di classe; - Un massacro infinito per spartirsi le ricchezze dell’Ucraina; - “Compagna”, Gli scopi di un giornale comunista;
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Dei seguenti iniziamo a presentare qui in primo riassunto: - La questione Agraria: dal feudalesimo al capitalismo; - Gli organi della reazione dall’Okhrana zarista allo spionaggio elettronico borghese; - La Internazionale dei Sindacati Rossi; - Il capitalismo tedesco, Forza e fragilità; - L’Iran nello studio del partito; - Relazione delle redazioni dei periodici del partito; - Struttura degli Indici del lavoro del partito; - La situazione sociale in Venezuela; - Attività sindacale negli Stati Uniti; - Ultime vicende della borghesia turca.
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A questa riunione è proseguita l’esposizione del capitolo Capitalismo e Agricoltura. Abbiamo esaminato un aspetto importante del passaggio dall’economia domestica del modo di produzione feudale e del comunismo primitivo, alla forma capitalistica. Kautsky in La Questione Agraria sottolinea quanto rapidamente avviene questo passaggio,: «L’industria capitalistica ha una tale superiorità che elimina rapidamente l’industria domestica contadina destinata al consumo personale, e soltanto il sistema di comunicazioni capitalistico, con le sue ferrovie, la posta, i giornali, porta le idee e i prodotti della città fin nel più remoto angolo della campagna e sottopone tutta la popolazione rurale, non soltanto quella che vive nelle vicinanze delle città, a questo percorso».
Il contadino, all’inesorabile avanzare del modo di produzione capitalistico, vede dissolversi rapidamente e violentemente il vecchio modo di produzione: il bisogno di denaro, che prima gli serviva per il “superfluo”, ora diviene di vitale importanza. Non può portare avanti la sua azienda, non può più vivere senza denaro.
Incombe l’altrettanto aumentare di bisogno di denaro dei Signori feudali e dei Principi e del potere statale. Ciò porta alla trasformazione delle prestazioni in natura del contadino in prestazioni in denaro. Ne consegue la trasformazione dei prodotti della terra in merci da portare al mercato. Non si tratta più dei prodotti della sua industria arretrata, per i quali trovava presto un compratore, ma dell’industria urbana. Il contadino diviene un puro e semplice coltivatore. Sparisce quella indipendenza, sicurezza e agiatezza dell’esistenza contadina fin allora conosciuta.
Kautsky: «Il contadino dipende ora dal mercato, che trovava ancora più capriccioso e incerto del tempo atmosferico. Contro le malizie di quest’ultimo si poteva fino ad un certo punto difendere (...) Ma non ha alcun mezzo per impedire la caduta dei prezzi e per vendere il grano invenduto. Ciò che prima di allora era stato per lui una benedizione, cioè un buon raccolto, diventava ora una calamità! (...) Quanto più lontani divengono i mercati per i quali il contadino produce, tanto più diviene impossibile per lui vendere direttamente al consumatore, tanto più ha bisogno di un intermediario. Tra consumatore e produttore si interpone il mercante, che conosce il mercato… lo domina… e lo utilizza per sfruttare il contadino.
«Al mercante di grano e di bestiame si associa presto l’usuraio, quando non si identifica con quello. Nelle annate cattive le entrate del contadino non sono sufficienti; non gli resta che ricorrere al credito, ipotecare la terra (...) Quel che prima non potevano fare i cattivi raccolti, il ferro e il fuoco, riescono ora a farlo le crisi del mercato del grano e del bestiame. Queste crisi non comportano soltanto un disagio passeggero per il contadino, ma gli alienano le fonti di vita – la terra – lo separano per sempre da esse, ne fanno un proletario».
Quanto più il contadino diviene dipendente dal mercato tanto maggiore è l’eccedenza di mezzi di sussistenza che deve produrre e vendere, tanto maggiore è l’estensione di terra che gli occorre in proporzione alla grandezza della sua famiglia. Ma non potendo estendere a piacimento i terreni da coltivare è costretto a diminuire la famiglia troppo numerosa, non avendo di che sfamarla; allontana quindi dalla casa paterna le forze eccedenti, inviandole a servizio di altri come braccianti, soldati o proletari urbani, o a crearsi un nuovo focolare. La famiglia contadina si riduce così il più possibile.
Richiedendo l’agricoltura forza-lavoro maggiore in determinati periodi dell’anno, due tre volte superiore che in inverno, dove prima compensavano i componenti il nucleo familiare, che nei periodi di riposo delle colture lavoravano in casa, ora non sono sufficienti e si ricorre a manodopera esterna di salariati, occupati per determinati periodi. Costano meno di un familiare per tutto l’anno. Col tempo anche i componenti del nucleo familiare divengono salariati del capo-famiglia, e la proprietà contadina, l’eredità familiare diventa proprietà del capo-famiglia.
L’antica comunità famiglia contadina è così sostituita dalle grandi aziende agricole con la loro schiera di operai salariati che agli ordini del proprietario lavorano i campi, governano il bestiame e mettono il suo raccolto nei granai.
L’antagonismo di classe esistente fra sfruttati e sfruttatori penetra rapidamente nella campagna e nella famiglia contadina stessa, e distrugge l’antica armonia e la comunanza di interessi.
Tutto questo processo si è sviluppato fin dal Medioevo, ma solo con il modo di produzione capitalistico ha subito un’accelerazione straordinaria al punto da regolare le condizioni della popolazione rurale.
L’economia capitalistica trae nel vortice mercantile la piccola azienda contadina, e: «quanto più l’agricoltura diventa capitalistica, tanto più essa sviluppa la differenza qualitativa fra la tecnica della piccola produzione e quella della grande produzione».
«Tale differenza qualitativa – Lenin ribadisce – non esisteva nell’agricoltura precapitalistica».
Proseguendo abbiamo esposto la parte che riguarda il modo di produzione capitalistico in agricoltura. Abbiamo dato lettura di passaggi da La condizione della classe operaia in Inghilterra, del giovane Engels, che delinea il divenire del modo capitalistico di produzione nell’agricoltura e l’imposizione della sua legge inesorabile dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo e della terra sull’altare del profitto.
Così Federico introduce il capitolo “Il proletariato agricolo”: «I campi abbandonati vennero aggregati in grandi affittanze con i piccoli contadini sopraffatti dalla concorrenza soverchiante delle grandi aziende agricole. Anziché rimanere proprietari di terra o affittuari, furono costretti a cedere le loro aziende e a entrare al servizio di grandi proprietari terrieri come lavoranti agricoli. Per un certo periodo questo stato, anche se segnava un peggioramento delle loro condizioni, fu sopportabile. Il diffondersi dell’industria controbilanciava l’aumento della popolazione. Ma quando il progresso industriale cominciò a rallentare, e i continui perfezionamenti apportati ai macchinari misero l’industria nell’impossibilità di assorbire tutta l’eccedenza di popolazione lavoratrice dei distretti agricoli, da quel momento la miseria, che si era manifestata fino allora soltanto nei distretti industriali, e anche là di tempo in tempo, comparve anche nei distretti rurali».
Prosegue Engels questo importante capitolo: «I lavoratori sono quasi tutti a giornata e vengono occupati dagli affittavoli quando questi ne hanno bisogno e quindi spesso durante delle settimane, specie in inverno, non hanno lavoro. Allo stato patriarcale, in cui i contadini e i famigliari abitavano nella masseria e i loro figli in essa crescevano, in cui adunque i giornalieri erano l’eccezione e non la regola, si trovava su ogni proprietà un numero di operai più grande di quello che era strettamente necessario. Quindi era nell’interesse dell’affittavolo dissolvere questo stato di cose, di cacciare dalla masseria il contadino e di mutarlo in giornaliero. Ciò avvenne pressappoco generalmente alla fine del ventesimo anno di questo secolo [l’Ottocento] e per conseguenza si dissolse la latente eccedenza di popolazione e si abbassò il salario. Da tale momento i distretti agricoli divennero la sede principale del pauperismo permanente, come quelli delle fabbriche lo erano dell’altro, e le leggi sui poveri fu la prima misura che il pubblico potere seppe concepire contro l’immiserimento crescente dei comuni agricoli.
«L’allargarsi continuo della conduzione in grande, l’introduzione delle macchine trebbiatrici e altre nell’agricoltura e il molteplice lavoro delle donne e dei fanciulli nei campi, il quale è così generale che le sue conseguenze furono esaminate di recente da una particolare commissione ufficiale, resero disoccupati un gran numero di operai. Il sistema dell’industria si è creato per mezzo della grande economia, col dissolversi dello stato patriarcale e con l’introduzione delle macchine, del vapore e del lavoro delle donne e dei fanciulli, e ha spinto la parte estrema e più stabile dell’umanità lavoratrice nel movimento rivoluzionario. Quanto più a lungo l’agricoltura aveva provata la sua stabilità, tanto più grave peso cadde sull’operaio, tanto più violenta si manifestò la disorganizzazione dell’antico nesso sociale».
Il rapporto è proseguito esponendo come, con l’avanzare inesorabile del modo di
produzione capitalistico, divennero miserabili, affamati e indigenti i proletari
agricoli in Inghilterra, e ancor di più in Irlanda, e come si sono sviluppate le
lotte dei contadini contro i proprietari terrieri, con spesso l’utilizzo degli
incendi e degli omicidi.
La Internazionale dei Sindacati Rossi
Il 20 aprile 1922 iniziò a Roma il Congresso dell’Internazionale sindacale gialla di Amsterdam, accolto con calore dalla CGL e dal Partito Socialista, e con disprezzo dal PCd’I.
Il 21 novembre iniziarono invece i lavori del II Congresso del Profintern. Se i delegati furono di meno rispetto al I Congresso, non significa che l’influenza del Profintern fosse diminuita. Disse Lozovskij, segretario del Profintern, che i proletari aderenti o influenzati dall’ISR erano tra i 12 e i 15 milioni; una cifra analoga a quella di Amsterdam, con la differenza che un terzo dei membri di questa simpatizzava per Mosca, mentre nel Profintern nessuno simpatizzava per Amsterdam.
Il principale problema da affrontare fu quello del rapporto organico tra Cominform e Profintern, rifiutato dalla componente anarco-sindacalista. Per evitare ulteriori scissioni il Profintern abolì l’articolo dello Statuto che subordinava l’Internazionale sindacale a quella politica. La Sinistra italiana si era opposta a tale posizione, scaturita nel contemporaneo IV Congresso dell’IC: in questo, accanto a validissime posizioni su molte questioni, e dopo aver definito traditori i socialdemocratici e l’Internazionale di Amsterdam, si cercavano comunque accordi con essa. La Sinistra italiana fu subito in disaccordo, sostenendo, giustamente, che l’Internazionale di Amsterdam non fosse un’organizzazione sindacale, ma politica, al servizio della borghesia.
Ai tentativi di accordo con Amsterdam seguirono poi i fronti unici con i partiti presunti operai, fino ai governi operai, e poi operai e contadini.
Il tentativo di portare le masse operaie dalla propria parte con qualsiasi mezzo ed espediente era più dovuto a disperazione che ad altro, ma era purtroppo prevedibile, e da noi previsto, che, soprattutto con la fine del momento ascendente della rivoluzione, il fronte unico innaturale con i dirigenti sindacali e politici riformisti non poteva che portare all’abbandono delle posizioni classiste e comuniste.
Tali ambiguità, e peggio, sono presenti anche nelle “Tesi del IV Congresso sulla tattica del Comintern”, in data 5 dicembre 1922: «I comunisti sono persino disposti a trattare con i capi traditori dei socialdemocratici e con quelli di Amsterdam (…) Il vero successo del Fronte Unico scaturisce “dal basso” (…) Tuttavia i comunisti non possono rinunciare a trattare (…) anche con i vertici dei partiti avversari».
All’apertura del V Congresso dell’Internazionale Comunista, nel giugno 1924, i delegati, in nome del Fronte Unico e dell’unità proletaria, si trovarono di fronte inaspettatamente la proposta di scioglimento del Profintern e di adesione ad Amsterdam. Si continuava a parlare di tradimento dei capi di Amsterdam, ma dando contemporaneamente rilievo alla nascita al suo interno di una corrente di sinistra. Si affermò che l’unità internazionale del movimento sindacale «sarebbe stata ristabilita mediante la convocazione di un Congresso mondiale a cui tutti i sindacati affiliati o all’Internazionale di Amsterdam o all’Internazionale Rossa dei Sindacati sarebbero stati rappresentati su base proporzionale».
La nuova impostazione sindacale espressa nel V Congresso dell’IC fu riproposta al III Congresso del Profintern, che si aprì l’8 luglio 1924, con il manifesto disaccordo della Sinistra italiana, che nelle Tesi presentate a Lione nel 1926, al punto 8, scrive: «L’ufficio dell’Internazionale di Amsterdam andava considerato e trattato non come un organismo delle masse proletarie ma come un organo politico controrivoluzionario della Società delle Nazioni (…) Non è però da escludersi la utilità di una tattica di fronte unico su base mondiale con tutti gli organismi sindacali anche aderenti ad Amsterdam».
La fusione tra le due Internazionali fu rifiutata da Amsterdam. Ma nell’aprile 1925 si riunirono a Londra i rappresentanti dei sindacati russi con quelli britannici, dando vita ad un “Comitato anglo-russo”. La sua realizzazione fu presentata da Zinoviev come la dimostrazione della correttezza della tattica del Fronte Unico.
Stalin nel luglio 1926 dichiarò: «Se i sindacati reazionari sono disposti a formare con i sindacati rivoluzionari del nostro paese una coalizione contro gli imperialisti controrivoluzionari del loro paese, perché non si dovrebbe approvare questo blocco?». Per Trotzki fu facile replicare che «se i sindacati reazionari fossero capaci di lottare contro i loro imperialisti non sarebbero reazionari».
Nel 1926 il Consiglio Generale dei sindacati inglesi fu costretto dalla pressione proletaria, in conseguenza della serrata delle miniere di carbone, a indire uno sciopero generale. Lo sciopero fu presto sabotato dai bonzi sindacali, ma ciò nonostante l’Internazionale e il Profintern vollero continuare a partecipare al Comitato. Ancora nell’aprile 1927 i delegati russi di tale comitato, che già avevano riconosciuto nel Consiglio Generale dei sindacati inglesi «l’unico rappresentante e portavoce del movimento sindacale d’Inghilterra», si impegnarono a «non diminuire l’autorità» dei capi tradeunionisti e a «non occuparsi degli affari interni dei sindacati inglesi».
L’“Appello dei Comitati esecutivi dell’IC e dell’ISR a tutte le sezioni e a tutti i lavoratori”, del 9 maggio 1926, ribadisce questo atteggiamento, da noi condannato, sulla lotta dei lavoratori britannici: «L’Esecutivo dell’IC e quello dell’ISR esortano tutte le sezioni a compiere ogni sforzo per assicurare l’unità d’azione. A tale scopo si raccomandano riunioni con i rappresentanti degli altri partiti e delle altre organizzazioni».
Nelle “Tesi del VII Plenum sulla trustificazione, sulla razionalizzazione e sui compiti dei comunisti nei sindacati“, del 16 dicembre 1926, ai punti 10, 12 e 13 leggiamo:
«10. (…) Il fallimento dello sciopero generale e il fronte unico dell’Internazionale di Amsterdam col Consiglio Generale per il sabotaggio dello sciopero dei minatori ha avuto come conseguenza il consolidamento dell’organizzazione di vertice dell’Internazionale di Amsterdam (…) Il Consiglio Generale promuove attualmente la stessa identica politica dell’Internazionale di Amsterdam, e in questo senso si può tranquillamente affermare che il fallimento dello sciopero generale è stato vantaggioso per l’Internazionale di Amsterdam nella stessa misura in cui la svolta a destra dell’apparato sindacale in qualunque paese è vantaggiosa per coloro che difendono gli interessi della burocrazia e della borghesia europea reazionaria (…)
«12. La crisi del Comitato anglo-russo ha offerto il pretesto ai nostri avversari per parlare di fallimento dell’unità e della tattica del fronte unico (…)
«13. Prendendo le mosse dall’applicazione conseguente della tattica del fronte unico il CC del VKP(b) e il Presidium dell’Internazionale Comunista si sono pronunciati contro la tattica dello scioglimento del Comitato anglo-russo (…)».
Viene quindi ribadita l’alleanza con l’Internazionale di Amsterdam, e la
conseguente difesa dell’indifendibile Comitato anglo-russo.
L’Iran nello studio del partito
Negli anni ‘50 l’economia e la politica ruotano intorno alla nazionalizzazione della Anglo Iranian Oil Company (AIOC), attraverso la quale la borghesia nascente iraniana, in una società ancora semi feudale e in prevalenza agricola, cerca l’autonomia dal capitalismo inglese e statunitense, con l’appoggio o il benestare dell’altro imperialismo uscito vincitore dal secondo macello mondiale: l’URSS.
Già in quegli anni e in quelle condizioni economiche arretrate, benché lo sviluppo di un capitalismo autonomo avrebbe potuto rappresentare un fattore progressivo e di sviluppo anche per la classe lavoratrice, la borghesia locale e i suoi partiti politici erano subordinati all’appoggio e alle decisioni di questa o quella potenza.
Da un lato la monarchia temeva una reazione britannica e le conseguenze economiche della nazionalizzazione della AIOC, dall’altro gran parte della società iraniana, piccola borghesia terriera, industriale e commerciale, sperava di ricevere una parte della rendita del petrolio. Si diffuse il nazionalismo anche fra le classi povere che identificarono il nemico nello “straniero”. Protestarono contro la monarchia in appoggio del partito nazionalista di Mohammad Mossadeq che, insieme al clero sciita dell’ayatollah Kashani, erano favorevoli alla nazionalizzazione e più vicini agli interessi della nascente borghesia locale.
Mossadeq, con l’appoggio del clero di Kashani e forte anche del sostegno del Tudeh, il partito stalinista iraniano, verrà eletto Primo ministro nel 1951, anno in cui la nazionalizzazione della Compagnia fu approvata dal parlamento quasi all’unanimità.
Gli entusiasmi furono presto smentiti: sia perché il capitalismo iraniano non disponeva di capitali, mezzi di trasporto e conoscenze tecniche adeguate, sia per la dura reazione non solo del Regno Unito ma anche degli Usa, che temevano l’espansione dell’Urss in medio oriente.
Si aprì la “crisi di Abadan (1951-1954)”, un’azione di logoramento economico in cui i britannici fermarono la produzione di petrolio iraniano, spostata in paesi come l’Arabia, abbassarono i prezzi, vietarono l’esportazione di beni di consumo essenziali (tra cui zucchero e ferro) verso l’Iran e congelarono i conti correnti dell’Iran nelle banche britanniche.
L’ayatollah Kashani voltò le spalle a Mossadeq, col pretesto della riluttanza del governo di trasformare l’Iran in uno Stato islamico. Gli USA intervennero al fianco della Gran Bretagna, al prezzo che l’AIOC sarebbe stata affiancata dalle maggiori compagnie petrolifere statunitensi.
Nel 1953 un sanguinoso colpo di Stato, organizzato dagli Usa e sostenuto dalle forze monarchiche e dal clero riportò lo Scià in patria, marionetta degli interessi del capitalismo occidentale.
Nonostante la caduta di Mossadeq, l’Iran mantenne comunque la nazionalizzazione, e nel 1954 l’esportazione riprese ma da parte del cosiddetto "Consorzio per l’Iran" guidato da British Petroleum, Gulf Oil, Shell, Esso, Mobil, Texaco e Chevron. Enrico Mattei negli anni successivi cercherà anch’egli con l’AGIP di partecipare al banchetto, ma ne fu escluso.
Di fatto vinse l’imperialismo americano che otterrà il 40% del prodotto.
Alcuni dati sulla società del periodo sono forniti da un piccolo articolo tratto da Programma Comunista del 1958: «Dei 300 mila presenti nelle industrie l’operaio iraniano che guadagna di più (3 mila reali al mese, 24 mila lire italiane) spende fino al 75% per il vitto, il 20% per l’alloggio, e il resto per vestiti, igiene, istruzione e diversi... Una élite di proprietari, che ha sostenuto il ritorno al trono dello Scià, rappresenta lo 0,1% della popolazione e detiene il 56% delle terre coltivabili. Il 2% della popolazione rurale detiene da 6 a 20 ettari di terra, il 13,6% da 1 a 6 ettari, il 22% meno di un ettaro. Poi vi sono i braccianti agricoli, i quali costituiscono il 60% della popolazione rurale, massa di diseredati che guadagnano tanto da nutrirsi con una tazza di tè, una focaccia e un bicchiere di latte cagliato. E, dulcis in fundo: 100 mila funzionari e impiegati, su 18 milioni circa di anime, sparse su un territorio vasto quanto 5 Italie e mezzo».
Un nostro articolo del settembre del 1953, scritto poche settimane dopo il Colpo di Stato, descrive la situazione.
«Su una massa di popolazione di poco più di 19 milioni di persone, quasi 15 milioni sono dediti all’agricoltura, ancora mummificata negli stampi feudali. La grande estensione del territorio stepposo fa sì che vi sia diffusa la pastorizia, e molta parte della popolazione è ancora nomade. Per trovare nella storia dell’Europa una fase storica dello stesso livello bisogna retrocedere di millenni...»
«Tutti i Paesi “semicoloniali” del mondo sono oggi travagliati dalle spinte parallele e contraddittorie di un confuso moto di emancipazione della borghesia indigena e dell’impossibilità per quest’ultima di tenere il passo con le sole forze proprie col livello tecnico e le esigenze economiche dell’apparato industriale ereditato dalla borghesia colonizzatrice o ad essa violentemente strappato...».
«Era stata la realizzazione del sogno della borghesia nazionale di eliminare ogni ingerenza e partecipazione straniera nella direzione e nei profitti dell’unico, modernissimo e potentissimo complesso industriale dell’Iran, a saldare al vecchio ministro le forze disparate e contraddittorie della società persiana attuale. Gli agrari si attendevano dalle maggiori entrate dello Stato l’abbandono dei progetti di riforma terriera; i ceti commerciali e industriali contavano di godere i frutti indivisi dell’industria petrolifera e di quelle comunque legate ad essa; il proletariato sfogava nella lotta contro “lo straniero”, l’inquietudine, il malessere e l’istinto di rivolta di una classe atrocemente sfruttata...».
«Il blocco intorno a Mossadeq si sfasciò non appena superata la fase immediata della nazionalizzazione... Risorgevano gli antagonismi d’interesse fra agrari e commercianti-industriali...»
«Il successo politico non fu seguito da un miglioramento economico, non intendiamo dire delle popolazioni povere della Persia, ma neppure delle classi privilegiate e della burocrazia statale...»
«Una rivoluzione borghese che non produca denaro non ha ragione di esistere. La rivoluzione di Mossadeq si rivelò un cattivo affare fin da principio. Presto o tardi, la coalizione antibritannica, che al tempo della cacciata degli inglesi da Abadan, andava dalla Corte al Tudeh imperniandosi sul partito di Mossadeq, doveva sciogliersi malamente, così come avviene per le società commerciali sfortunate...»
«Chi veramente ha sentito la sconfitta, nelle carni e nelle illusioni, è stato il proletariato locale e internazionale che, sotto l’influenza nefasta dello stalinismo, veramente ha creduto, e ancora crede che il dispositivo di forza mondiale dell’imperialismo si possa intaccare alla periferia, con azioni che se pure adombrano i metodi rivoluzionari di lotta, si svolgono nella assenza di una concomitante battaglia contro i centri europei e americani dell’imperialismo...»
«Indubbiamente, non siamo all’ultimo atto del dramma: l’Occidente, e in particolare l’Inghilterra, possono segnare un punto a loro vantaggio nel colpo di Stato dello Scià, ma la crisi della Persia non è per questo risolta, come non è risolta anzi, è ai suoi primi inizi, la crisi di tutti i Paesi semicoloniali e coloniali. Bruschi ritorni indietro, situazioni sempre più caotiche, antagonismi e controreazioni rimangono sempre possibili lasciando la porta aperta a nuove crisi, nuovi colpi di scena e nuove soluzioni di emergenza, dominati tuttavia dallo stesso problema, dalla stessa sproporzione tra le forze della borghesia nativa e i giganteschi investimenti di capitale, l’altissimo grado di specializzazione tecnica e la capacità di competere sul mercato mondiale, che i grandi complessi industriali fondati sullo sfruttamento delle materie prime autoctone presuppongono.
«La borghesia nazionale di questi Paesi non può, alla lunga, evitar di ributtarsi nelle braccia del capitale straniero: non essa, ma la classe lavoratrice indigena, è la vittima delle convulsioni che l’industrializzazione dei Paesi semicoloniali determina. Ben difficile è quindi il compito del partita marxista. Noi combattiamo apertamente le menzogne umanitarie dei colonizzatori capitalisti, ma appunto perché ci proponiamo di denunciare l’oppressione e lo sfruttamento delle popolazioni di colore, non possiamo simpatizzare con le borghesie nascenti indigene che mirano a ereditare il ruolo dell’oppressore bianco.
«Le lotte e le rivolte nazionali nelle colonie ci interessano soprattutto perché, in condizioni di dissesto dei centri mondiali imperialistici e di ripresa rivoluzionaria, i moti nazional-popolari nei paesi arretrati confluiranno, seppure in vista di obiettivi particolari, nell’operazione di strangolamento delle centrali imperialistiche bianche condotta dal proletariato metropolitano...».
«Ma le masse oppresse di Persia hanno pur sempre un compito rivoluzionario da
svolgere. Il momento verrà».
L’attività sindacale della Sezione Nordamericana
Il gruppo di lavoro sull’attività sindacale continua a tenere riunioni mensili ogni terzo venerdì del mese.
I nostri compagni della sezione nordamericana accusano il peggioramento della situazione, con la sistematica espansione dell’esercito industriale di riserva a seguito di licenziamenti in massa (che già a luglio sono stati 800.000 nell’anno, il livello più alto dall’inizio della pandemia di COVID, con un aumento del 75% rispetto all’anno scorso), con l’intensificata estrazione di plusvalore, con l’impennata dei prezzi al consumo, del 24,6% dall’agosto 2020, che ha lasciato il 67% dei lavoratori senza alcuna riserva, con le misure di austerità e l’ostentata violenza di Stato.
Travolto dalla sua violenta crisi, il capitalismo propina dei palliativi che offrono solo un apparente sollievo mentre distolgono l’energia operaia dalla lotta di classe, fornendo un sostegno ai più illusori programmi riformisti dei partiti opportunisti.
In queste condizioni si sono verificate le rivolte spontanee contro le retate dell’Immigrazione.
Il “Labor Day”, festività decretata dalla borghesia ogni primo lunedì di settembre per far credere ai lavoratori di essere celebrati, fu reso ufficiale a livello federale dopo la violenta rivolta del 1894 a Chicago a seguito dello sciopero della Compagnia Pullman. Era già utilizzato in singoli Stati per irreggimentare il massiccio malcontento che aveva portato allo sciopero del Primo Maggio del 1886. Oggi è una giornata dedicata a picnic e parate organizzati in gran parte dall’AFL-CIO e dal Partito Democratico, con i pochi lavoratori che hanno effettivamente il giorno libero. I compagni vi sono ugualmente intervenuti in 7 manifestazioni in 4 città e 2 Stati.
A Vancouver, nello Stato di Washington, e a Portland, nell’Oregon, siamo intervenuti alla marcia “Workers over billionaires” (I lavoratori vengono prima dei miliardari), sostenuta dall’AFL locale e dai sindacati. Siamo entrati in contatto con lavoratori in sciopero da 17 giorni, guidato dagli opportunisti. Vi abbiamo distribuito il nostro volantino “Workers beware!” (Lavoratori attenti!), che mette in guardia i lavoratori dal pericolo che gli attuali dirigenti li allontanino dalla vera lotta di classe. Abbiamo venduto alcuni giornali del partito in inglese e in spagnolo.
A Kalama, nello Stato di Washington, oltre ai giornali del partito abbiamo distribuito, in rappresentanza del Coordinamento per Azioni Solidali di Classe, volantini sulla difesa dei lavoratori immigrati.
Siamo intervenuti al Labor Day con il nostro giornale anche a Kittanning, in Pennsylvania, a un raduno di lavoratori.
A Portland fuori dal centro di detenzione locale dell’Immigrazione è in atto un prolungato presidio organizzato principalmente da giovani proletari, dove si sono verificati scontri con la polizia e le forze della guardia nazionale. Recentemente il governo federale ha chiesto la mobilitazione dell’esercito in varie città con il pretesto della criminalità.
Dopo l’approvazione che hanno ricevuto diverse risoluzioni a difesa degli immigrati, proposte dal Class Struggle Action Network (CSAN) all’interno della sua rete di influenza, il Comitato Sindacale per la Difesa degli Immigrati (LCDI) del Pacifico Nord-Occidentale gli ha esteso un invito di collaborazione. L’LCDI è composto principalmente da lavoratori militanti sindacali. C’è stato un consenso generale sull’organizzarsi secondo linee di classe e una sana diffidenza nei confronti dei partiti della democrazia borghese e dell’illusione che possa difendere i nostri diritti nel capitalismo.
Durante una veglia per Gaza abbiamo potuto pronunciare un intervento improvvisato sul disfattismo rivoluzionario, sulla necessità che la classe operaia israeliana e palestinese si unisca in una lotta comune; e intanto concentrarsi nel lavoro nei sindacati per ricostituire organi di classe, unica sede per ricostituire l’esercito del lavoro che possa frenare la macchina da guerra del capitale. È stata sottolineata la necessità di un unico partito comunista internazionale e del rovesciamento rivoluzionario del regime capitalista.
Nei distretti scolastici sono segnalati tagli al bilancio anche del 50%. Nello Stato di Washington è illegale scioperare nel pubblico impiego. Ma l’agitazione fra i lavoratori è tale che neanche i rappresentanti sindacali ufficiali escludono di scioperare. I compagni stanno preparando un volantino a favore dello sciopero.
Avendo due dei nostri compagni nel settore dell’istruzione recentemente abbiamo proposto, in collaborazione con il CSAN, un comitato per la lotta di classe, al di fuori dei sindacati, poiché nel settore è presente una molteplicità di sindacati o molti lavoratori non sono organizzati. Il comitato sta unendo tutti i lavoratori e i sindacati che operano nel settore, compreso il personale ausiliario nelle scuole.
Nonostante sia illegale, gli ausiliari della scuola hanno ugualmente scioperato ritardando l’apertura dell’anno scolastico. Infatti in 38 scuole i relativamente meglio pagati insegnanti si sono rifiutati di attraversare i picchetti. Questi ultimi, nonostante guadagnino 67.000-87.000 dollari l’anno, non riescono comunque a tenere il passo con l’aumento del costo della vita. Anche i lavoratori della mensa, organizzati dal sindacato dei camionisti, hanno attivamente partecipato allo sciopero.
La nostra sezione di partito è intervenuta distribuendo un nostro volantino,
oltre che in appoggio allo sciopero e per il comitato, anche quello per la
campagna di difesa dei lavoratori immigrati del CSAN.
La situazione sociale in Venezuela
I sindacati del regime mantengono i lavoratori in uno stato di paralisi. Il governo e i partiti che lo sostengono mobilitano i lavoratori, ma per sottometterli alle loro campagne mediatiche e ai loro slogan democratico-borghesi e patriottici. In generale gli attuali sindacati in Venezuela non offrono spazi in cui penetrare, organismi molto limitati dalla osservanza della legge e dal controllo politico opportunistico.
Tra luglio 2024 e luglio 2025 lo Stato borghese venezuelano ha indetto successive consultazioni elettorali, per allontanare i lavoratori dalla lotta rivendicativa e dalla sua possibile maturazione in crisi politica. Questo processo è stato accompagnato dalla repressione e, nonostante sia evidente il malcontento dei lavoratori (attivi e disoccupati), non sono sorte lotte significative, in assenza di sindacati combattivi e sotto l’influenza di una variegata gamma di partiti di sinistra e di destra, che entrambi diffondono discorsi democratici legalitari, nazionalisti, patriottici ed elettorali. Non sorprenderebbe se la pressione sui lavoratori e sugli strati sociali oppressi sfociasse in una vana rivolta anarcoide.
Il partito di governo cerca di mantenere l’iniziativa politica. Il chavismo ha conquistato il controllo di tutti i poteri pubblici, del parlamento e dei governi regionali e locali, e cerca di mantenere l’iniziativa politica nelle strade. L’opposizione di destra, sia quella che si dichiara apertamente favorevole all’intervento statunitense, sia quella che si è unita al governo nell’appello alla difesa della sovranità e della patria, non riesce a farsi spazio come alternativa di governo, mentre promuove iniziative di propaganda per ingannare le masse come sta facendo il chavismo.
Il dispiegamento militare degli Stati Uniti nei Caraibi è diventato un’occasione per alimentare il patriottismo, chiamando i lavoratori ad arruolarsi nelle milizie. Questa propaganda non riesce a penetrare nelle grandi masse (il che non significa che queste, come sostengono alcuni opportunisti, abbiano una “coscienza rivoluzionaria”), ma questa cinica e demagogica invocazione della “lotta armata” apre alla militarizzazione della società, volta non a contenere l’invasione straniera, ma l’emergere della lotta di classe, che sarebbe davvero una minaccia per il sistema capitalista in generale, e in particolare per i piani di acquisizioni e investimenti redditizi per il capitale transnazionale.
Con lo slogan “Viva la lotta armata!” il partito di governo (PSUV) invita a formare milizie e a preparare un movimento guerrigliero sulla base dei comuni. Fa addirittura riferimento all’esperienza vietnamita. In questo modo sta mobilitando la sua base sociale, invitata ad assumere il ruolo di “avanguardia”, che significa mantenere la pace interna, che per i borghesi è la negazione della lotta di classe. Si paventa il nemico esterno quando i veri nemici di classe sono all’interno, ovvero la borghesia, i proprietari fondiari e i loro partiti. Il risultato atteso sarà il rafforzamento dell’apparato militare-poliziesco (e delle milizie) contro la classe operaia.
L’opposizione a questa tattica borghese in Venezuela spetta solo al partito rivoluzionario, che non elude i suoi compiti nonostante le condizioni sfavorevoli.
Il chavismo prende l’iniziativa anche promuovendo dall’alto e imponendo una “Costituente Sindacale” e un “Congresso Contadino” per la subordinazione politica e organizzativa dei sindacati e delle organizzazioni contadine ai dettami del governo. Fra i contadini, attraverso il Ministero dell’Agricoltura, ha promosso la costituzione dell’“Unione Nazionale Contadina Ezequiel Zamora”, alla quale ha imposto l’obiettivo “produzione e difesa della sovranità”, ovvero allontanarli dall’affrontare i proprietari terrieri e integrarli nelle milizie, sottomessi alle linee guida del governo. Nel caso del movimento operaio la “Costituente Sindacale” va nella stessa direzione, assicurando la sottomissione dei lavoratori all’economia nazionale, garantendo la continuità operativa delle imprese, ponendo le parole di “difesa della patria e della sovranità” al di sopra delle rivendicazioni elementari di classe.
Resta da vedere fino a che punto questa tattica riuscirà a raggiungere i suoi obiettivi, sia nel caso che si verifichi un’invasione militare degli Stati Uniti, sia il contrario.
Nel frattempo in America Latina alcuni governi cercano di approfittare di questa situazione per tornare a proporre il loro ipocrita “anti-imperialismo”, come Colombia, Messico, Cuba, Nicaragua e Brasile, sempre con l’obiettivo di esporre la loro immagine “di sinistra” e alimentare il loro sostegno elettorale.
In tutta l’America Latina i sindacati del regime e i partiti opportunisti di destra e di sinistra affondano nella palude del parlamentarismo, del legalitarismo, della difesa della Costituzione, della patria e dell’economia nazionale.
In Brasile il movimento sindacale e i partiti che lo influenzano si sono integrati nel governo di Lula “per frenare l’avanzata della destra” (come se il governo di Lula favorisse la classe operaia). In Argentina il movimento sindacale mobilita i lavoratori, ma perché costretto dalla pressione del malcontento e cerca di deviarlo verso soluzioni democratiche borghesi, in azioni isolate e senza offrire spazi per il dibattito nelle assemblee di base. In Colombia, Cile e Bolivia le centrali sindacali, con piccole differenze, si allineano con il governo in carica e con le sue iniziative politiche. E così in tutto il continente.
Naturalmente il deterioramento delle condizioni materiali di vita della classe
operaia, derivante dalle politiche anti-crisi della borghesia, spinge nella
regione i salariati a lottare contro i padroni, per l’occupazione e migliori
condizioni di lavoro. Ciascuna delle misure adottate dai governi per frenare la
lotta di classe ha una durata e un impatto sempre minori. In questo contesto
assume rilevanza il ruolo del partito comunista internazionale nel dotare il
movimento operaio di una direzione rivoluzionaria, che gli consenta di rompere
con i fattori che oggi lo paralizzano e lo disorientano.
Recenti vicende della borghesia turca
Il Partito Giustizia e Sviluppo (AKP) al potere è in guerra contro il principale partito di opposizione socialdemocratico kemalista, il Partito Popolare Repubblicano (CHP). Decine di sindaci di città e di distretti membri del CHP sono stati incarcerati con accuse di corruzione. La magistratura ha ordinato la sostituzione dell’attuale direzione del CHP, sia di Istanbul sia quella centrale, da quella del popolarissimo presidente del partito Özgür Özel, con la precedente di Kemal Kılıçdaroğlu, che non ha sollevato obiezioni alle mosse giudiziarie.
Il CHP ha facilmente mobilitato i suoi quadri e la sua base in periodiche manifestazioni di massa in tutto il Paese e in vari distretti di Istanbul contro l’incarcerazione dei suoi sindaci. Pertanto l’esito della manovra per ridisegnare la leadership del CHP è incerto. Inoltre, ad ogni mossa giudiziaria contro il CHP, l’economia turca sprofonda sempre più nell’abisso.
Anche il comune di Ankara è stato oggetto di un’indagine anticorruzione. Con il sindaco di Istanbul e candidato presidenziale del CHP Ekrem İmamoğlu in prigione, il sindaco di Ankara del CHP Mansur Yavaş, che ha origini fasciste, era diventato il favorito per la candidatura presidenziale dell’opposizione. Anche se l’indagine non ha ancora raggiunto Yavaş, l’AKP accoglierebbe certamente con favore il suo arresto, poiché i candidati dell’opposizione più popolari non potrebbero candidarsi contro Erdoğan in tali condizioni. Detto questo, il possibile arresto di Yavaş potrebbe provocare una reazione ancora più forte di quella suscitata dall’arresto di Imamoğlu, mobilitando non solo la base del CHP, ma anche quella dei partiti dissidenti fascisti Good Party (İYİP) e Victory Party (ZP).
Nel frattempo continua il cosiddetto “processo di pace” con i curdi. Una “Commissione nazionale per la solidarietà, la fratellanza e la democrazia” è stata costituita dai parlamentari della Grande Assemblea Nazionale Turca e il leader del PKK Abdullah Öcalan, attualmente in carcere, continua a svolgere un ruolo attivo. Dopo anni di collaborazione con il CHP e la sinistra turca, il partito nazionalista curdo DEM si trova in una posizione difficile: da un lato è spinto dalla sua base a esprimere solidarietà al CHP, dall’altro è costretto da Öcalan, che starebbe lavorando alla riorganizzazione del partito DEM, cambiandone la leadership e il nome per includervi la parola “Turchia”, a conformarsi il più possibile al governo e alla coalizione di governo. Öcalan, la cui principale preoccupazione sembra essere quella di ottenere il rilascio dal carcere, è arrivato al punto di consigliare al CHP di ritirarsi dalle strade.
Infine, ma non meno importante, c’è discordia nella coalizione di governo, l’Alleanza Popolare. Proprio mentre il capo dell’AKP e presidente Erdoğan cerca di allentare la pressione che subisce dalla società turca in generale sul genocidio in Palestina, avvicinandosi a Trump, il suo partner di coalizione Devlet Bahçeli, presidente del tradizionale partito fascista Movimento Nazionalista (MHP, che ora è più esplicito nel suo sostegno al “processo di pace” rispetto allo stesso AKP, dato il ruolo di Bahçeli in esso) ha chiesto un’alleanza improbabile tra Turchia, Russia e Cina. A sua volta, il dirigente del CHP Özgür Özel non esita a colpire Erdoğan sulla questione palestinese e sui suoi rapporti amichevoli con Donald Trump, e sta organizzando una manifestazione a favore della Palestina.
Lo sciopero municipale di Izmir, che ha visto la partecipazione di 23.000
lavoratori, organizzato da Genel-İş, membro della confederazione sindacale di
base DİSK, è stato l’ultimo grande sciopero che ha avuto luogo in Turchia.
Volgarmente attaccato dall’opposizione borghese guidata dal CHP che controlla il
comune di Izmir, lo sciopero è stato sconfitto e seguito da licenziamenti di
massa. Le lotte di classe sono continuate con minore intensità dopo questa
sconfitta.
Questo scrivemmo nel 1929 nelle conclusioni di “Elementi di economia marxista”, dieci anni prima della Seconda Guerra mondiale, e che leggiamo oggi mentre si prepara la Terza.
«L’accumulazione capitalistica in America, a partire dalla guerra civile del
1861, che produsse un enorme debito pubblico, tasse e la nascita della più vile
aristocrazia finanziaria, raggiunse vette vertiginose attraverso la guerra
mondiale e il periodo che seguì. Gli Stati Uniti, saturi di proletari e
minacciati da una disoccupazione massiccia, cominciarono a respingere gli
immigrati asiatici ed europei. Inevitabilmente costretti a scaricare enormi
masse di prodotti all’estero, e forse domani, per ragioni di politica interna,
parte dell’esercito industriale di riserva pletorico che si sta formando lì,
essendo arrivati troppo tardi nella divisione del dominio coloniale,
tenteranno certamente di colonizzare l’Europa stessa, abbattendo il suo apparato
produttivo e provocando così un nuovo e più grande conflitto».
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Entrambe le opposte lezioni borghesi, democratica e autoritaria, mettono in risalto la loro antitesi, tra fascismo e antifascismo. Noi comunisti di sinistra invece abbiamo sempre sostenuto che l’antifascismo costituisce una finta opposizione al fascismo, e di fatto una collaborazione interna ai partiti della classe borghese nella comune guerra contro il proletariato.
Se i borghesi nella propaganda quotidiana negano la continuità tra fascismo e democrazia, alcuni di loro, negli studi più specialistici, dedicati a un pubblico ristretto, ammettono tale continuità. È il caso del testo “Lo Stato fascista”, del 2010, di Sabino Cassese, ex ministro del governo italiano ed ex giudice della Corte costituzionale. In questo testo troviamo molte conferme alle nostre posizioni, anche se questo non corrisponde certo all’intenzione del borghese e democratico giurista.
Leggiamo:
«Il fascismo volle caratterizzarsi per l’opposizione ad altri regimi. Si proclamò antiliberale, antiparlamentare, anticlericale, antiborghese, anticapitalistico, oltre che anticomunista. Ma accettò di venire a patti con due istituzioni dell’Italia liberale, il re e il Senato, con la Chiesa, con il capitalismo e la borghesia. Dell’edificio liberale provvide anche alla manutenzione e alla razionalizzazione: ridisegnò il sistema finanziario pubblico e la disciplina del pubblico impiego, completò l’edificio del sistema scolastico, riordinò le professioni, adottò i nuovi codici (...) L’organizzazione corporativa completò questo tentativo di inclusione della società nello Stato. Nonostante il suo insuccesso operativo, ebbe un notevole successo funzionale nell’aprire un canale di irreggimentazione (...) Lo Stato fascista accettava i conflitti nelle corporazioni, costituiva amministrazioni parallele, introduceva pianificazioni di settore, sdoppiava istituzioni e organi, così pluralizzando e frammentando la macchina statale e costituendo nuove burocrazie (quella statale, quella degli enti, quella sindacale, quella del partito) (...)
«Lo Stato fascista si proclamò antiliberale e totalitario. Sottolineò la cesura tra regime liberale e fascismo. Enfatizzò la cosiddetta rivoluzione fascista. Tuttavia governò in larga misura utilizzando istituzioni prefasciste. Lo Statuto albertino rimase in vigore, sia pur modificato in molte parti. La Corona e il Senato regio rimasero in vita, anche se depotenziati. Il regio editto del 1848 sulla stampa fu conservato, anche se subendo profonde modificazioni (...) Nel presentare alla Camera dei deputati e al Senato del Regno, nel 1925-1928, le Leggi di Difesa dello Stato, Alfredo Rocco poteva sempre mostrare il loro legame con la legislazione prefascista e illustrare l’elemento della continuità statutaria (...) A questa continuità delle istituzioni si affianca la continuità del personale tecnico-politico».
È interessante ciò che disse Mussolini a Ottavio Dinale, riportato da quest’ultimo, pochi giorni prima del 25 luglio 1943: «Se tu potessi immaginare lo sforzo che mi è costata la ricerca di un possibile equilibrio nel quale si potessero evitare collisioni fra gli antagonistici poteri che si toccano fianco a fianco, gelosi, diffidenti l’uno dell’altro: Governo, Partito, Monarchia, Vaticano, Esercito, Milizia, prefetti, federali, ministri, i ras delle Confederazioni e dei grossissimi interessi monopolistici, ecc. ecc. Tu comprendi benissimo, sono le indigestioni del totalitarismo, nel quale non è riuscito a fondersi quell’asse ereditario che ho dovuto accettare nel ’22 senza beneficio di inventario».
Nel capitalismo qualsiasi tipo di governo è comunque un comitato di affari della borghesia, ed è quindi caratterizzato da una continua mediazione tra gli interessi dei suoi vari settori: anche quando nei suoi confronti è convinto di essere il generale, non è che il sergente.
Il termine “totalitarismo”, usato dallo stesso Mussolini e poi da molti storici, è in realtà privo di significato. Altri, come Cassese, non lo attribuiscono al fascismo italiano ma solo al nazismo. Tale termine esprime il desiderio della borghesia di ingabbiare la lotta di classe, e tutto ciò che riguarda la produzione e l’economia nel suo Stato e nel suo partito unico. È la riproposizione del sogno dei giacobini e di Napoleone, che allora era il sogno di una borghesia rivoluzionaria.
Neanche nella Germania nazista ha senso parlare di totalitarismo, anche se in questo caso si sono avvicinati più di altri a realizzare questa utopia borghese. I sindacati hanno continuato ad esistere anche nella Germania nazista: evidentemente la lotta di classe poteva essere controllata rigidamente ma non abolita, e i sindacati, a tale scopo, erano uno strumento di cui anche la borghesia tedesca del tempo non poteva fare a meno.
Cassese parla poi di «provvedimenti per fronteggiare la crisi economica. Qui è massima la corrispondenza con scelte fatte fuori d’Italia, specialmente nel settore bancario e delle imprese pubbliche. La legge bancaria italiana del 1936 ha molti tratti simili al Glass Steagall Act americano. L’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI) non è caratteristico solo dell’Italia, perché gruppi industriali pubblici simili si trovano anche in altri Paesi, come la Spagna».
Ancora: «Come c’è continuità tra lo Stato liberale-autoritario del prefascismo, c’è continuità tra lo Stato del periodo fascista e lo Stato democratico postfascista. Due terzi delle norme raccolte nel 1954 in un codice delle leggi amministrative sono state adottate nel periodo fascista (...) Alcuni di questi complessi normativi raccolgono addirittura norme prefasciste, per cui la loro codificazione nel periodo fascista fa da ponte tra prefascismo e postfascismo (...) La continuità non è assicurata solo dalla permanenza delle norme, ma anche del personale: una grande maggioranza del personale pubblico di vertice dell’età democratica proviene dai ranghi della burocrazia formatasi nel periodo fascista (...) L’idea del fascismo come parentesi, di una cesura netta tra periodo fascista e Italia repubblicana, dunque, è errata. O, meglio, corrisponde più a un bisogno dei contemporanei di stabilire una distanza tra il fascismo e sé stessi, che alla realtà dei fatti».
Poi, nel 2° capitolo: «Definire lo “Stato fascista” è difficile perché, al di là della sua proclamata natura totalitaria, le sue radici affondano nell’Italia liberale e le sue istituzioni sopravvivono alla caduta del fascismo; perché una parte delle sue istituzioni non è diversa da quelle create negli stessi anni in altre parti del mondo (...) Il fascismo (...) aspirò a essere totalitario, perché proclamò “tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato”; ma tollerò, e talora creò corpi intermedi. Lo “Stato fascista” fu dunque capace di combinare una grande varietà di retaggi ideologici e di collegarsi alla dottrina sociale cattolica conservatrice. Sfruttò tutti gli elementi di autoritarismo dello Stato esistente, introducendovi nuovi elementi, di tipo cesaristico e totalitario».
Mussolini, nella voce “fascismo” dell’Enciclopedia Treccani del 1932, scrive: «Chi può risolvere le drammatiche contraddizioni del capitalismo è lo Stato. Quella che si chiama crisi non si può risolvere se non dallo Stato, entro lo Stato (...) Se chi dice liberalismo dice individuo, chi dice fascismo dice Stato». La prima frase è sicuramente condivisa da socialdemocratici e generici progressisti.
Veniamo al 3° capitolo: «La legislazione su libertà e stato delle persone venne completata nel 1926 con il nuovo testo unico delle leggi di pubblica sicurezza. Questo conservava la stessa struttura del testo unico crispino del 1889, con l’aggiunta del titolo primo, sui provvedimenti di polizia. Da un lato, ampliava la sfera di azione della pubblica sicurezza, dall’altro conteneva una disciplina più limitativa del diritto di riunione, degli spettacoli, delle tipografie, degli stranieri e aggiornava la disciplina del domicilio coatto, divenuto confino di polizia, ampliandone la portata».
Per cui, il fascismo «moltiplicò le organizzazioni statali-sociali (corporative, giovanili, paramilitari, culturali, dopolavoristiche ecc.) (...) Mirò a dominare l’economia con una tecnica simile a quella seguita nel campo politico: riducendo i conflitti e trasportandoli nell’ambito statale, dove potevano essere tenuti sotto controllo (...) Il dominio statale della politica, della società e dell’economia non fu mai pieno: burocrazia, scuola, religione sfuggirono, in modi diversi, al controllo fascista».
Il fascismo non aveva una propria ideologia, era caratterizzato da un pragmatismo e da un eclettismo privi di principi e basi teoriche. Mussolini su “Il Popolo d’Italia” del 22 novembre 1921 scriveva: «La nostra ripugnanza a costringerci a un programma (...) l’aver tolto dagli altri partiti ciò che ci piace e ci giova e l’aver respinto quello che non ci garba e ci nuoce (...) costituiscono altrettante documentazioni della nostra mentalità relativistica».
Il fascismo prendeva brandelli di ideologie che riteneva utili dove li trovava, saccheggiando Sorel, il liberalismo, il socialismo, e la dottrina sociale della Chiesa. I due principali tentativi di fornire una base ideologica al fascismo sono stati quelli di Giovanni Gentile e Alfredo Rocco. Quest’ultimo ebbe una incidenza maggiore per la sua concezione di continuità statale e una maggiore dose di pragmatismo, pur rivendicando la novità della “rivoluzione fascista”.
“Rivoluzione” tragica ma farsesca, che nella farsa si accomuna a odierne opere di giornalisti improvvisatisi storici, che parlano di “colpo di Stato mussoliniano”. Un colpo di Stato più che singolare, dato che non ci fu nessun assalto e conquista dello Stato, ma fu lo Stato a farsi conquistare amichevolmente, stendendo un tappeto rosso davanti ai fascisti. Quanto alla filosofia di Gentile, questa per il fascismo fu l’abito buono della domenica e delle occasioni importanti, che non si indossa nella vita di tutti i giorni.
Rocco, nella Legge sulle società segrete, scrive: «Lo Stato nazionale, cioè lo Stato fascista, ha intrapreso una lotta contro tutte le forze di disorganizzazione che si erano annidate nel seno dello Stato e andavano giorno per giorno erodendo e distruggendo la sua sovranità (...) Lo Stato deve dominare (...) tutte le forze esistenti nel Paese, e non si può ammettere, come si è, purtroppo, ammesso lungamente, l’esistenza di organizzazioni potenti, come la Confederazione del Lavoro, come le Associazioni di impiegati delle ferrovie, delle poste e dei telegrafi, di marittimi e di tranvieri, o infine, come la Massoneria, che siano padrone effettive della vita della nazione».
Ma già il regio decreto Pelloux del 1899 permetteva al ministro dell’Interno di sciogliere le associazioni «dirette a sovvertire per vie di fatto gli ordinamenti sociali o la costituzione dello Stato». Scrive Cassese nel 4° capitolo: «Su questa base si innestano le norme fasciste sulle associazioni, del 1924, 1925, 1926 e 1930». Afferma poi giustamente che «le norme fasciste sulla pubblica sicurezza usano strumenti propri dell’Italia liberale, ma dilatandoli», e che «il punto di partenza dell’analisi deve essere il testo unico delle leggi di pubblica sicurezza del 1889 (preceduto e preparato dalle norme del 1859, del 1865 e del 1871), la cui struttura di fondo sarà rispettata dai testi unici paralleli del periodo fascista, quelli del 1926 e del 1931».
Sono menzionate, giustamente, anche le leggi eccezionali del periodo prefascista, come la legge Pica del 1863 contro il brigantaggio e altre successive. Continuiamo: «Gli interventi maggiori del fascismo in materia di polizia furono quelli del 1923 e del 1926. Nel 1923 fu istituita la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, per concorrere alla pubblica sicurezza e al mantenimento dell’ordine pubblico. Essa fu posta agli ordini del capo del governo. Svolse normali funzioni di polizia e divenne ben presto un’appendice dell’esercito (...) Nel 1926 vennero adottati due importanti provvedimenti, il testo unico delle leggi di pubblica sicurezza e la legge sulla difesa dello Stato. Il testo unico aveva la propria base in quello del 1889. Ma all’autorità di pubblica sicurezza venivano dati maggiori poteri(...) Il codice penale Rocco del 1930, pur d’impronta autoritaria e con pene più aspre, codificò norme fasciste e prefasciste, consolidando orientamenti che erano maturati anche nell’Italia liberale, mentre il testo unico delle leggi di pubblica sicurezza del 1931 costituì, in sostanza, solo un perfezionamento del precedente testo del 1926».
Il giurista borghese cita poi Rocco e la sua “Legge sulla facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche”: «La legge “non vuole tanto innovare quanto sistemare”, secondo il presentatore. Il quale giungeva ad affermare: “siamo noi le vestali del diritto costituzionale, siamo noi i custodi dello Stato e gli assertori dei principi fondamentali del nostro diritto pubblico”; “noi vogliamo governare con la legge, nella legge”; “il disegno di legge intende (...) non diminuire, ma aumentare i compiti e l’autorità del Parlamento”».
Il corporativismo
Nel 1930 Mussolini disse «lo Stato fascista o è corporativo o non è fascista». Bottai, in un intervento del 15 marzo 1928 alla Camera, aveva dichiarato: «”Il rapporto tra Stato fascista e Stato corporativo è un rapporto di identità”. Lo Stato corporativo introduce nella sua compagine i gruppi professionali (già embrionalmente coordinati attraverso l’azione dei vari movimenti sindacali) perfezionando il rapporto rudimentale individuo-Stato attraverso una subordinazione successiva dell’interesse economico individuale (cittadino produttore) a quello della categoria economica (associazione professionale) e infine a quello dell’economia nazionale (Stato)».
Al Consiglio Nazionale delle Corporazioni, il 14 novembre 1933, Mussolini disse: «Il corporativismo è l’economia disciplinata, e quindi anche controllata (...) Il corporativismo supera il socialismo e supera il liberalismo, crea una nuova sintesi».
Cassese commenta:
«Il tratto che appare maggiormente caratteristico del regime fascista, e che pare distinguerlo nettamente dallo Stato prefascista, è quello che riguarda l’ordine corporativo. Tuttavia, anch’esso ha precedenti nell’Italia liberale-autoritaria (...) Il corporativismo, d’altra parte, non faceva parte del retaggio culturale del fascismo, quanto della tradizione sociale cristiana (...)
«Il primo organo veramente corporativo, il Consiglio Nazionale delle Corporazioni, istituito nel 1930, nacque con difficoltà, perché visto con sospetto dagli industriali, che temevano che si volesse soffocare l’iniziativa privata (...) Dal 1930 al 1934 esso o fu aggirato o operò da organo di mera registrazione di decisioni prese altrove. Nel 1934 fu di fatto soppiantato dal Comitato Corporativo Centrale. Nel 1939 fu riformato, in funzione della costituzione della Camera dei Fasci e delle Corporazioni (...) Alle Corporazioni vennero demandati il regolamento collettivo delle rappresentanze economiche, la disciplina unitaria della produzione, la determinazione delle tariffe per le prestazioni e i servizi economici, la determinazione dei prezzi dei beni di consumo offerti al pubblico in condizioni di privilegio, l’esperimento del tentativo di conciliazione delle controversie collettive di lavoro (...)
«Questa macchina complessa canalizzò e irreggimentò, ma produsse ben poco: dal 1933 al 1940 furono stipulati solo 30 accordi economici collettivi e fino al 1940 furono emanate solo 14 norme corporative economiche (...)
«L’ordine corporativo scomparirà nel secondo dopoguerra, ma la rappresentanza di interessi rimane nel Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, così come gli Enti che furono chiamati di privilegio, le pianificazioni di settore, le partecipazioni statali rimarranno e si rafforzeranno (...)
Nel 6° capitolo Cassese afferma che il corporativismo «trovava uno sviluppo nella componente nazionalistica per cui la forma economica perfetta era assicurata da cartelli interaziendali nazionali, monopolistici nei loro settori. Questi potevano consentire lo spostamento del regime concorrenziale dall’interno all’esterno della nazione. A questi sviluppi concorrevano forze politiche opposte, come quelle cattoliche e quelle socialiste, le prime a causa della loro matrice interclassista, le seconde perché favorevoli al “capitalismo organizzato”».
Ovviamente il socialismo a cui si riferisce qui è quello riformista, a sua volta interclassista, indipendentemente da ciò che sostiene l’autore.
«Si può dire che la maggiore variante è quella confessionale, sviluppatasi nell’ambito delle dottrine sociali del cattolicesimo, con una netta impronta solidaristica»
«Il concorso di altre idee, di tipo produttivistico, fordistico, autarchico, assicurarono un’ulteriore spinta al corporativismo (...) trasformandosi volta a volta in grimaldello sindacale per aprire le porte dell’industria agli operai, in strumento dell’impresa per evitare gli scioperi operai, in mezzo dello Stato per pianificare l’economia, in accorgimento per assicurare all’impresa la protezione statale (...)
«Il corporativismo è fenomeno mondiale, che non si è affermato necessariamente in Stati fascisti (si pensi (...) alle “comunità di lavoratori e di utenti” menzionate nell’art.43 della Costituzione italiana). Poi, progetti di rappresentanza organica o degli interessi e proposte corporative sono presenti in Italia anche in epoca prefascista e – come notato – in epoca postfascista. Il fascismo, per molti aspetti, non fece altro che sviluppare compiutamente idee precedenti».
Lo stesso Bottai nel suo scritto del 1942 “L’ordine corporativo: principi, attuazione, riforme” riconosce che «le corporazioni, sorte per disciplinare direttamente la produzione, hanno svolto in tal senso una scarsa attività, la quale, in ogni modo, non è stata quasi mai deliberativa o normativa, ma per lo più consultiva».
Tornando a Cassese: «Si alternarono nel corso del ventennio le diverse interpretazioni del corporativismo, da quella statalistica alla Rocco a quella partecipativa alla Bottai, a quella difensiva e radicale dei sindacalisti, a quella utopistica alla Spirito».
Come già detto, le parole di Cassese non sono le nostre, ma è significativo che il borghese, democratico e liberale giurista dia sostanzialmente ragione alle nostre analisi.
Sindacati e Corporazioni
Cassese nel 3° capitolo scrive:
«Alfredo Rocco già nel 1920 aveva sostenuto che i sindacati andavano considerati organi dello Stato e strumenti di collaborazione. Essi dovevano collegarsi in organi misti (le future corporazioni) per svolgere, oltre che funzioni arbitrali, anche alcune funzioni pubbliche. Preparata dalla legge del 1925 che consentiva la disdetta dei contratti collettivi di lavoro, nel 1926 fu approvata la legge che prevedeva il riconoscimento giuridico dei sindacati che rappresentassero un decimo dei lavoratori. Solo un sindacato, però, poteva essere riconosciuto, ed esso acquisiva la personalità giuridica, stipulava accordi vincolanti per l’intera categoria, era sottoposto a controlli pubblici (...) L’anno successivo la Carta del lavoro proclamò l’organizzazione sindacale libera, ma con un solo sindacato riconosciuto, con diritto di rappresentare e tutelare i lavoratori.
«L’edificio corporativo fu completato con molta lentezza. Nel 1926 fu istituito il ministero delle Corporazioni (ma si osservò subito che esso era un organo burocratico, acorporativo). Nel 1930 fu istituito il Comitato Corporativo Centrale, ma senza corporazioni, che vennero istituite nel 1934. Queste furono in numero di 22 (...) Erano composte di persone designate dalle associazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro, per ognuna delle categorie, con approvazione del capo del governo, oltre che di esperti e delegati del Partito Fascista. I loro compiti erano il regolamento collettivo dei rapporti di lavoro e la “disciplina unitaria della produzione”. Nel 1939 seguirà la Camera dei Fasci e delle Corporazioni, che prese il posto della Camera dei Deputati, composta ex officio dei membri del Consiglio Nazionale del Partito Nazionale Fascista e del Consiglio Nazionale delle Corporazioni (...)
«Dal 1928 si riconobbe che il Partito Nazionale Fascista era istituzione pubblica ausiliaria dello Stato. Nello stesso anno il Gran Consiglio del fascismo per assicurare la “identificazione dello Stato con il regime”, venne organizzato come organo, allo stesso tempo, del partito e dello Stato».
Giovanni Gentile, su “Educazione fascista”, scrisse: «Con la legge del Gran Consiglio la Rivoluzione compie la sua trasformazione, e si risolve pienamente nello Stato. Il Partito cessa definitivamente di essere un partito, e manda perciò il suo Segretario nel Consiglio dei ministri. Come organizzazione della grande maggioranza nazionale o delle masse politicamente significative del popolo italiano, esso diventa la Nazione».
Nella riunione del Gran Consiglio del Fascismo del 15 marzo 1923, Michele Bianchi, “quadrumviro” della marcia su Roma ed ex sindacalista rivoluzionario, aveva detto che «il fascismo non poteva disinteressarsi del sindacalismo (...) abbandonare il movimento sindacale avrebbe significato consegnarlo ineluttabilmente a mani estranee o peggio agli avversari». Nella riunione del Gran Consiglio dell’ottobre 1925, il fenomeno sindacale era stato definito «aspetto necessario ed insopprimibile della vita moderna».
Dal 4° capitolo del testo di Cassese: «Alfredo Rocco, nel presentare alla Camera dei deputati la proposta della legge del 1926 sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi di lavoro, affermava: “Il sindacato deve necessariamente essere sottoposto al controllo dello Stato. Il sindacato è un organo dello Stato, partecipa a funzioni dello Stato ed esercita perfino diritti inerenti alla sovranità, come quello di stabilire e percepire coattivamente imposte”. E aggiungeva che, quando, in tempo di guerra, lo Stato aveva dovuto assumere funzioni di carattere economico, l’esperimento era stato disastroso, perché affidato a burocrati inesperti. “Orbene, può venire il giorno in cui la Nazione sia di nuovo chiamata a organizzarsi unitariamente per un grande sforzo. Quel giorno i sindacati ci daranno gli uomini tecnicamente preparati. Ecco un altro grande compito dei sindacati”. In quest’ottica, la legge del 1926 richiedeva che i dirigenti sindacali dessero “garanzia di capacità, di moralità e di sicura fede nazionale” e che i soci possedessero il requisito della “buona condotta politica, dal punto di vista nazionale”».
Alfredo Rocco sarebbe fiero degli odierni sindacati CGIL, CISL, UIL ed altri, di “sicura fede nazionale”, e pronti a fornire la carne da macello, nonché i macellai, per le guerre patriottiche e imperialiste a venire.