Partito Comunista Internazionale Indice - Numero precedente - Numero successivo
 
"COMUNISMO"
 
n. 33 - agosto-dicembre 1992
I curdi: società tribale nella morsa dell’imperialismo (continua dal n.32 - 3/3) Conclusioni
– Partito e sindacato fra vecchio e nuovo secolo (1/11) Le lotte di classe in Italia tra il 1850 e il 1892 [RG54]
La rinascita dei sindacati nel dopoguerra (continua) [RG53]
Riproduzione in grafici dei prospetti statistici del "Corso" (continua dal n.32) [RG50] La "mineralizzazione" dell’economia
Lo sviluppo materialistico della scrittura (continua dal n.32)
Azione e teoria, classe e partito nella concezione marxista e nella rivoluzione (continua dal n.32) [RG54] La scienza possibile, anzi, necessaria
Appunti per la storia della Sinistra (continua dal n.32) [RG54] Spagna 1931: La repubblica contro la rivoluzione
Dall’archivio della Sinistra:
    - Gli avvenimenti di Spagna ("Prometeo", n.47, 1 marzo 1931)
    - L’esperienza spagnuola e la lotta del proletariato italiano ("Prometeo", n.29, 1 aprile 1930)
    - La repubblica in Ispagna ("Prometeo", n.52, 17 maggio 1931)
 

 

 

 

 


I curdi: società tribale nella morsa dell’imperialismo

(continua dal numero 32)
- Gli ultimi avvenimenti

 

È qui )

 

 

 

 


Partito e sindacato tra vecchio e nuovo secolo
Le lotte di classe in Italia tra il 1850 e il 1892

Capitolo esposto alla riunione di Firenze dell’ottobre 1992 (1/11)

Negli anni immediatamente precedenti e seguenti la nascita della Seconda Internazionale l’Italia viene sconvolta da una serie di lotte molto dure, condotte dai proletari ed appoggiate spesso da settori di piccola e media borghesia. Quando parliamo di proletariato per l’Italia di allora ci riferiamo al proletariato agricolo, agli edili, ai cavatori di marmo, agli zolfatari, agli operai delle manifatture. Non esisteva ancora un proletariato industriale di tipo moderno, che potremo vedere solo a partire dagli ultimi anni del secolo.

Molti storici, soprattutto in passato, hanno collocato negli anni ’80 del secolo scorso l’inizio del processo di industrializzazione in Italia. In realtà nel 1880 è appena concluso il processo di unificazione del mercato interno, merito indubbiamente della direzione borghese denominata Destra Storica, che, avendo assolto al suo compito, esce di scena.

Naturalmente il processo di unificazione del mercato viene a gravare sulle spalle delle classi subalterne e quindi in particolare dei contadini, costretti dal protezionismo verso la nascente industria a comprare manufatti a un prezzo più alto rispetto al mercato estero, il che, insieme alle tasse e alla estinzione inevitabile della piccola produzione artigianale familiare, ha portato molti a doversi liberare dalla terra e a divenire proletari.

Le industrie create con le sovvenzioni statali negli anni ’80 hanno in realtà un peso quasi nullo nell’insieme dell’economia nazionale. Si tratta inoltre di un’industria che presenta per lo più caratteri scarsamente moderni, di produzione manifatturiera. Si può dire che l’Italia nel ventennio tra il 1875 e il 1895 attraversa la fase della manifattura, caratterizzata dal lavoro a domicilio e dal fatto che gli operai, anche quando sono concentrati in grandi capannoni, svolgono il loro lavoro in maniera artigianale, senza divisione del lavoro e con macchinari piuttosto arretrati. Gli imprenditori, come in ogni fase di produzione manifatturiera, sono per lo più dei mercanti, dei procacciatori di lavoro, e gli operai sono anche contadini, che tentano così di uscire dalla miseria, talvolta riuscendoci, per cui i salari possono essere mantenuti molto bassi per gli uomini e ancor più per le donne e i bambini, dato che questi salari sono un’aggiunta al frutto del lavoro della terra.

Bisognerà arrivare al 1897 per calcolare che il 50% degli operai vive esclusivamente del proprio salario e ha tagliato i legami con la terra. Si è parlato giustamente di una via "prussiana" al capitalismo in quanto questo, come in Germania, è decollato grazie all’intervento massiccio dello Stato; ma per l’Italia è possibile distinguere anche una sottospecie di questa via: il capitalismo "straccione". Questo ha depresso ancor più l’agricoltura imponendogli i propri prodotti solo grazie alle tariffe protezionistiche, e se qualche prodotto agricolo o manifatturiero prendeva la via dell’estero non era certo per una saturazione del mercato interno.

L’agricoltura, che aveva aumentato la produzione complessiva tra il 1860 e il 1880, si trova ora davanti una crisi che non riguarda solo l’Italia, e che è dovuta all’arrivo sul mercato del grano proveniente dall’America ad un prezzo inferiore. C’è un ribasso del prezzo di tutti i cereali, il che favorisce l’industria permettendo di mantenere bassi i salari (anche allora i capitalisti si lamentavano del costo del lavoro), mentre per braccianti, mezzadri e piccoli proprietari la situazione peggiora. Unica misura presa dalla dirigenza borghese è il protezionismo sul grano. Questo porta da un lato alla riduzione della rendita agraria che, data la diminuzione dei prezzi agricoli, cerca di rifarsi sui braccianti e sui contadini, mentre dall’altro lato il dazio sul grano rende la situazione insostenibile. Questo vale soprattutto per la pianura padana mentre il Sud avverte meno la crisi dato il carattere più chiuso della sua economia, meno collegata all’economia europea.

La pianura padana esplode, e a partire dal 1882 vediamo scioperi e sommosse un po’ dappertutto. Sorgono "leghe di resistenza" e "cooperative di lavoro", anche tra i braccianti. Ricordiamo che il proletariato agricolo al censimento del 1881 superava i due milioni di unità nella valle padana, per cui, data la forza numerica e la sua condizione di paria delle campagne, non ci stupisce di vederlo alla testa degli scioperi, che furono per lo più spontanei e con scarsa organizzazione. Le varie leghe e organizzazioni sorte nella lotta erano inevitabilmente degli organismi embrionali, scarsamente differenziati per funzioni. Non erano cioè dei sindacati nel senso moderno del termine: erano allo stesso tempo società di mutuo soccorso, cooperative e organismi insurrezionali. Nonostante ciò hanno condotto delle lotte di classe durissime, terminate solo per l’intervento dell’esercito.

Nel 1882 sono in sommossa il cremonese e il parmense, nel 1883 il veronese. Nel 1884 il Polesine è ridotto alla carestia e alla fame, e dai mietitori parte la richiesta di una percentuale del 30% del raccolto, anziché il 15% concesso fino ad allora.

L’agitazione si estende al padovano, al veronese, al mantovano e al cremasco. Non c’è nessuna organizzazione e i capi saltano fuori improvvisamente, molti provenienti dalle società di mutuo soccorso. La parola d’ordine è «la boje», vale a dire «la pentola bolle».

Racconta il Preti: «torme di contadini laceri e denutriti si raccolgono nelle piazze, imprecando contro i padroni e scorrazzano, tumultuando e talora devastando, per le campagne». Le prime concessioni economiche fatte dai proprietari non servono a nulla: l’agitazione non è solo economica ma anche immediatamente politica, e vuole farla finita con la situazione esistente e con i proprietari delle campagne. Per riportare la pace sociale viene impiegato un reggimento di cavalleria, e nonostante ciò vi sono molti casi di resistenza alla forza pubblica, sparatorie e ferimenti. I proprietari concedono ora il 20% o anche il 24% del raccolto: alla sconfitta dei contadini da parte dello Stato si accompagna quindi una parziale vittoria sindacale.

Un’agitazione analoga si ha nel mantovano nel 1885, dove troviamo due organizzazioni: la Società di Mutuo Soccorso tra i contadini della provincia di Mantova, diretta da un repubblicano di sinistra, e la Associazione generale dei lavoratori italiani, collegata al partito operaio e diretta da un ex-capitano garibaldino. Il proletariato, agricolo e non, trova quindi i suoi dirigenti in partiti e uomini dell’estrema sinistra borghese, repubblicani e radicali, e tale ideologia di estrema sinistra borghese sarà poi a base del Partito Socialista Italiano fondato nel 1892. Nel mantovano del 1885 vediamo che i dirigenti, uomini in genere di assoluta buona fede e di grande dirittura morale, non riescono a superare i propri limiti di classe, mirando in definitiva ad uno Stato borghese più giusto e umano, e tentano quindi di contenere la tensione sociale quando questa arrivava ai livelli più alti. Dice il Valentini:

      «L’agitazione si fa sempre più calda nelle prime settimane dell’85. Ma né il Saliprandi né il Sartori eccitano a violenze, anche se polemizzano con gli sfruttatori del lavoro (....) Neppure dell’arma dello sciopero si fa l’apologia sui giornali dei promotori, che lo considerano anzi, talvolta, con certo scetticismo derivato dalle teorie economiche di Proudhon o di Lassalle, che contestano la possibilità di imporre rialzi generali durevoli dei salari in regime di libera concorrenza capitalistica. L’idea di uno sciopero ad oltranza per la tariffa si diffonde spontaneamente tra i contadini, ai primi di marzo».

Il Sartori afferma che la lotta servirà a creare «vincoli d’amore e di solidarietà che dovranno legare in un solo amplesso le classi sociali». Con l’intervento dell’esercito e dei carabinieri il 27 marzo si hanno 160 arresti tra i dirigenti, lo scioglimento delle associazioni e la perquisizione delle sedi. I contadini sostituiscono i capi-lega arrestati e il 2 aprile scendono in sciopero generale in molte località mentre l’agitazione si estende al di fuori del mantovano. Sarà la repressione a spezzare l’agitazione: secondo la Circolare 28 novembre 1886 del Ministro dell’Interno nel 1885 furono effettuati 51.720 arresti.

Un anno dopo i dirigenti venivano assolti e la propaganda sindacale dichiarata legittima. L’avvocato Ferri, futuro socialista, poi fascista, commuove i buoni borghesi parlando delle tristi condizioni dei contadini e dello Stato che deve essere giusto oltre che forte. L’avvocato Sacchi dice in Assise: «La storia ha provato che le associazioni di resistenza sono le valvole di sicurezza della società, perché tutto ciò che si organizza diventa fecondo».

Carlo Romussi, segretario della Lega delle Cooperative, al congresso di queste nel 1887 dice: «Non è ancora spento l’eco degli scioperi dei contadini del mantovano e del Polesine, che gli uomini dabbene paurosi di questi pericoli hanno affermato questa tavola di salvezza della cooperazione», e per finire riporta le parole di un cooperatore cristiano-sociale britannico: «Tutti sanno che le tempeste del mare possono essere calmate da qualche barile di olio sparso sui flutti: così le tempeste sociali possono essere calmate dall’olio sociale: quest’olio è la cooperazione». Ai dirigenti alla Sartori seguiranno poi gli evangelizzatori delle campagne alla Prampolini, che porteranno al partito socialista il grosso delle sue forze facendo vestire a De Amicis i panni del contadino.

Il positivismo evoluzionistico (volgarizzazione delle teorie di Darwin), che penetrava nella Seconda Internazionale, è stato per il marxismo l’ostacolo ideologico più grande, che gli ha impedito di sostanziare realmente e non solo formalmente i vari partiti socialisti di fine ‘800 e inizio ‘900. Nonostante ciò dobbiamo riconoscere agli evoluzionisti alcuni meriti. Il giornale «La Plebe» di Bignami e Gnocchi-Viani, tra gli anni ’70 e ’80 ha sostenuto una forte polemica con l’indirizzo anarchico dominante tra i seguaci italiani della Ia Internazionale, giungendo a dar vita a una Federazione dell’Alta Italia dell’Internazionale che si considerava «parte dell’Internazionale, quantunque indipendente dalle altre Federazioni d’Italia», e quindi in pratica scindendosi dagli anarchici. Si cercava quindi di fare della Federazione dell’Alta Italia l’embrione di un partito socialista distinto dagli anarchici come dai mazziniani e dai radicali, e su questa strada gli evoluzionisti de "La Plebe" furono caldamente incoraggiati da Engels, con cui erano in corrispondenza. Lo stesso Turati nel 1892 ebbe il merito di separarsi dagli anarchici, mentre la separazione della sinistra borghese fu molto meno netta e in realtà non è mai avvenuta.

Su "La Plebe" fu pubblicata nel 1879 la lettera aperta "Ai miei amici di Romagna" di Andrea Costa, con la quale quest’ultimo, già anarchico, sosteneva la necessità di abbandonare la tattica esclusivamente insurrezionale e la necessità di organizzarsi in partito, un partito socialista rivoluzionario che raccogliesse l’eredità dell’Internazionale. Il Costa, a differenza degli evoluzionisti, sosteneva la necessità della rivoluzione, ma pensava che nel nuovo partito potessero trovar posto anche gli anarchici. Il Partito Socialista Rivoluzionario di Romagna, da lui fondato nel 1881, è caratterizzato da un verbalismo giacobino, di estrema sinistra borghese, al quale si unisce un elettoralismo e un parlamentarismo sempre più fine a se stessi, e un cooperativismo sempre più inserito nello Stato borghese: l’attività principale del Costa parlamentare fu infatti quella di chiedere e ottenere finanziamenti dallo Stato per le cooperative.

Negli ambienti radicali milanesi venne favorita la costituzione di una Confederazione Operaia Lombarda con scopi essenzialmente mutualistici, previdenziali e cooperativistici: i radicali sostenevano una forma di riformismo non dissimile da quella dei mazziniani e anche di parte dei moderati. Ma in questa Confederazione maturò la tendenza di parte dei delegati operai a diffidare dei dirigenti borghesi e a porre in primo piano le rivendicazioni di classe. I socialisti evoluzionisti come Gnocchi-Viani stimolarono questa tendenza, che portò nel 1882 alla fondazione del Partito Operaio Italiano. Il programma di tale partito non era molto differente da quello dei radicali, ma appoggiava decisamente gli scioperi e le leghe di resistenza. Tentava inoltre, in maniera ingenua, di separarsi dai borghesi accettando nelle sue file solo operai.

Il Partito Socialista romagnolo e il Partito Operaio avevano in comune la partecipazione alle elezioni e alle lotte degli operai ma, mentre il primo metteva l’accento sulla necessità della conquista del potere politico, il secondo insisteva sulla necessità di dare impulso all’organizzazione sindacale e alle lotte economiche del proletariato. Astensionisti rimanevano invece gli anarchici e i mazziniani.

Il Partito Operaio è quindi espressione di un mondo manifatturiero di operai mezzo artigiani e mezzo contadini, e da Milano si diffonde anche in Piemonte e in Liguria. Il "partito delle mani callose" come fu chiamato, con il primo congresso tenuto a Milano tra l’aprile e il maggio 1885, si caratterizzò come un’organizzazione economico-sindacale e non politica, che lottava per il salario e per il pane. Il Secondo Congresso del Partito Operaio si tenne nel dicembre 1885 a Mantova, che pochi mesi prima era stata al centro dei moti rivendicativi e insurrezionali dei contadini. Qui questo partito di stampo laburista, ma istintivamente classista, diventò il punto di unione degli operai e dei braccianti della valle padana, fornendo ad essi una direzione, e trasformandosi da appendice della borghesia in partito rivoluzionario. Nei pochi mesi che durò il tentativo il partito si rafforzò in tutto il Nord, con punte fino a Livorno e a Napoli, arrivando a contare circa 30.000 membri.

La crisi agricola dell’inizio degli anni ’80 si ripercuote sull’industria: l’aumento dei prezzi agricoli ed agricolo-industriali porta nel luglio del 1885 a scioperi duri e duraturi (in alcuni casi fino a sessanta giorni), le cui rivendicazioni sono la diminuzione degli affitti e l’aumento delle paghe operaie e contadine. Questo nel milanese; nell’86 è in lotta il vercellese e nell’87 il pavese, nell’88 e ’89 il comasco, centro della seta, e ancora il milanese. Nell’87 e nell’89 scioperano le mondine della Romagna, nell’88 e nell’89 i tessili del biellese e del varesotto.

In prima fila troviamo sempre i dirigenti del Partito Operaio, molti dei quali sono arrestati e condannati a molti mesi di reclusione, mentre altri riescono a fuggire in Svizzera, in Francia e in America. Non c’era però un vero centro dirigente rivoluzionario: c’erano dei dirigenti che appartenevano al Partito Operaio o all’Internazionale anarchica che intervenivano nella lotta a titolo personale, seguendo il proprio istinto rivoluzionario.

Non siamo di fronte a scioperi puramente economici ma anche a sommosse, con invasione delle case dei fattori ed incendi dei registri padronali che riportavano i debiti colonici; ancora una volta è l’esercito che riporta la pace sociale.

All’inizio del 1886 si tentò di arrivare ad un’unità di azione tra Partito Operaio e Partito Socialista Rivoluzionario, che nell’aprile di quell’anno aveva tenuto anch’esso a Mantova il suo Secondo Congresso, ma gli operaisti dubitarono, non a torto, delle intenzioni del Costa.

La repressione, con arresti e condanne, segnò poi la fine del partito, che non riuscì a crearsi una organizzazione clandestina e ripiegò sull’operaismo tradunionista delle origini. Quando nell’91-92 riprenderà il colloquio tra operaisti e costiani, questo avverrà all’ombra del socialismo evoluzionistico turatiano: si incontreranno quindi il tradunionismo degli operaisti e il trasformismo parlamentare dei costiani.

Lo Stato borghese aveva ben individuato il pericolo: il Depretis a metà dell’86 sciolse il Partito operaio iniziando verso di esso una durissima repressione, con l’arresto di tutti i membri del Comitato Centrale. Il Questore di Milano, dopo il Congresso di Mantova, chiese al Prefetto lo scioglimento, dato che il Partito «esiste per preparare in un tempo più o meno vicino la guerra civile». La borghesia milanese, che costituiva la sinistra illuminata della borghesia, davanti al moto dei proletari industriali ed agricoli, mise da parte i suoi lumi e concordò con i provvedimenti di polizia presi dal Depretis.

Altri dirigenti di primo piano delle lotte proletarie dell’ultimo quarto di secolo sono gli anarchici o "internazionalisti", dato che la Ia Internazionale in Italia è nettamente sotto l’influsso dei cosiddetti "anti-autoritari".

Nel 1887 e nel 1888, con l’estendersi della crisi all’edilizia, a Milano e a Roma scendono in sciopero i muratori; in varie parti d’Italia i forni vengono saccheggiati al grido di "pane e lavoro". Nel febbraio del 1889 c’è a Roma una imponente manifestazione degli edili, guidati dagli anarchici.

Questi al Congresso di Capolago, in Svizzera, fondano il Partito Socialista Anarchico Rivoluzionario, segno che l’esigenza della forma-partito è sentita anche da coloro che ne sono stati sempre i più strenui avversari.

In occasione del I° maggio 1891, a Roma c’è una grande sommossa da parte degli edili, dei tipografi e dei disoccupati, che costituivano il grosso del proletariato romano. Ci furono barricate, scontri con la cavalleria e la fanteria; molti anarchici, che avevano diretto le manifestazioni e le sommosse, furono arrestati e condannati alla galera o spediti al confino. Si può dire che il proletariato italiano degli anni ’80 e anche oltre, nelle sue lotte classiste ha trovato i propri dirigenti in buona parte tra gli anarchici.

Lo Stato borghese di fronte ai tentativi insurrezionali alla Pisacane degli anni ’70 che non costituivano nessun pericolo per l’isolamento totale dei promotori, si era comportato con molta clemenza verso gli anarchici che non facevano nessuna paura e che erano figli, spesso non solo in senso storico e ideologico, di quei mazziniani e garibaldini che ora facevano parte della nuova classe dirigente borghese. Quando invece gli anarchici si sono trovati alla testa di moti proletari, che costituivano un pericolo reale per l’ordine sociale, hanno subìto una repressione durissima che li ha portati alla galera, al confino o all’espatrio. Possiamo dire che gli anarchici sono rimasti fedeli alla propria classe in una lotta intransigente ma senza prospettive, mentre i riformisti non hanno mai creduto alla necessità di distruggere lo Stato borghese, al di là del verbalismo e del massimalismo parolaio di cui pure hanno fatto largo uso nei momenti in cui la pressione esercitata dai proletari era maggiore.

Scrive lo storico Santarelli: «Turati, come tutti i socialdemocratici, si faceva schermo della polemica anti-anarchica per rigettare una parte del marxismo e prima di tutto la dottrina della lotta di classe, della rivoluzione e della dittatura del proletariato, della distruzione delle classi e dello Stato». A parte l’impossibilità di distinguere delle parti del marxismo, che non si può fare a fette a piacimento, per il resto condividiamo appieno il giudizio.

Le lotte di classe dei proletari italiani degli anni ’80 e ’90 del secolo scorso ci mostrano per l’ennesima volta che le lotte di classe, che si mettono in moto per il peggioramento delle condizioni di vita dei proletari, sono inevitabilmente frammiste a spinte settoriali e categoriali e sullo sfondo dell’orizzonte ideologico borghese. Tale orizzonte tenderà a sfaldarsi, e le spinte settoriali a perdere intensità, quando le lotte si intensificheranno e il proletariato avvertirà più o meno istintivamente che condizioni della vittoria, anche nel solo campo della rivendicazione sindacale, è l’unità al suo interno. Compito del partito, allora come oggi, è quello di favorire l’abbandono delle scorie categoriali da parte del proletariato, e quindi la sua unità nella lotta di classe, che inevitabilmente arriva a porsi il problema della presa del potere. Tale compito è molto difficile nei momenti in cui il proletariato è prigioniero dell’ideologia nemica, ma la borghesia ci darà una mano: il sindacalismo borghese infatti, con l’intensificarsi della lotta, non potrà che mostrare ai proletari la sua vera funzione di cane da guardia del capitale.

(continua al n. 35)

 

 

 

 

 

 

 

 


La rinascita dei sindacati nel dopoguerra 

Esposto alla riunione di Genova nel maggio 1992

- Le tesi del partito
- Precedente corso storico
- Le Tesi di Roma
- Il primo dopoguerra
- Il sindacato sotto il fascismo
- Rinascita della CGL a Napoli 


(continua)

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Riproduzioni in grafici dei prospetti statistici del “Corso”

(continua dal numero 32)


La "mineralizzazione" dell’economia

Continuiamo dal numero scorso la traduzione grafica dei quadri statistici del "Corso" recentemente ripubblicato. Qui trattiamo del rapporto quantitativo fra produzioni di "materia di origine vegetale" e "di origine minerale": la definizione delle due categorie è assai insicura, se ne veda la critica al paragrafo 25, pagina 113, ma ricercando noi qui tendenze macroscopiche e generali di lunghi periodi l’approssimazione è sufficiente. Nei due insiemi di prodotti ravvisiamo sia una indicazione delle proporzioni fra mondo agricolo e mondo industriale, sia fra consumo degli uomini e consumo delle macchine, sia fra lavoro e capitale costante.

Grafico n. 13, da Prospetto VIII, pagine 113-117, colonne due e ultima in basso a destra, Produzione mondiale di materie prime fondamentali di origine vegetale e minerale, in milioni di dollari e loro rapporto.

Entrambe le produzioni, scavalcate le crisi, sono nel capitalismo crescenti, e anche con velocità di crescita crescente, come indica la pendenza delle spezzate che è sempre maggiore. La curva dei prodotti minerali è al di sotto di quella dei vegetali ma a questa si avvicina sempre di più.

Nel testo si assume al capitalismo la funzione storica, che fu progressiva, di alimentare le bocche delle caldaie e dei motori relativamente togliendolo dalle bocche degli uomini. Ciclo che demmo simmetricamente chiuso quando quelle ingoiassero quanto queste, cioè quando la produzione vegetale eguagliasse la minerale (il tutto in termini di valore di scambio, miliardi di dollari).

Purtroppo i calcoli per aggiornare il quadro oltre al 1956 sarebbero oltremodo laboriosi e siamo quindi costretti, per sondare il futuro, a partire da lì; considerando che il 26% al 1956 deriva da un nostro calcolo eccessivamente prudenziale e che è certo basso, varie possibilità di estrapolare la curva tratteggiata portano l’incrocio con la orizzontale del 100% ad un anno dell’ultimo quinto del secolo.

Oggi il capitalismo, che allora speravamo d’avere già morto, vive ancora ma, adempiuto da tempo il dono prometeico del ferro e del fuoco, è ora che si faccia da parte.

 

Grafici n. 14 e 15, da Prospetto XI, pagine 129-134, colonne seconda, quinta, undicesima e rispettivamente quinta, settima, nona, penultima, Indici della Popolazione e delle Disponibilità pro-capite in Italia di Acciaio, Calorie alimentari, Frumento, Carne, Reddito.

La tesi centrale è che il capitalismo, di fronte alla amplificazione grandeggiante della produzione e del consumo sociale di minerali e macchine, non intacca la generale insicurezza anche alimentare delle classi lavoratrici: per definizione il modo di produzione basato sul lavoro salariato deve impedire alla generalità dei lavoratori la possibilità del "risparmio" e non può non mantenerli incatenati vicini al limite della sopravvivenza fisica.

Nel quadro 14 si evidenzia il lento sebbene non regolarissimo aumento della popolazione, P, leggibile nella seconda scala verticale a sinistra. Come notato più volte il tasso di incremento della popolazione anche in Italia tende a decrescere.

Le altre due spezzate sono quelle "fondamentali" del totale di calorie alimentari e di acciaio disponibili pro-capite. È evidente che trattasi di medie nel senso solo di rapporto fra due grandezze, il consumo totale nazionale e la sua popolazione in quell’anno. Sicuramente nessun cittadino individuo ha consumato quelle calorie e tantomeno quell’acciaio; la media indica un punto vuoto. Più significativo sarebbe poter distinguere il consumo alimentare delle diverse classi, trovando più medie, ovvero, per l’acciaio, dividere la produzione totale per il numero dei lavoratori alla produzione, per esempio. Quello che abbiamo è però sufficiente allo sbozzo delle nostre conclusioni.

Le calorie, indicate con K e misurate dalla prima scala a sinistra, sono praticamente costanti passando da 98 a 117 nell’arco di ben 84 anni, confermando la tesi che il "consumismo" è in massima parte di merci inutili se non dannose mentre languisce la base dell’esistenza. I bisogni reali dei lavoratori, quelli fisici ma anche i più elevati, non sono meglio soddisfatti dal capitalismo, e per il caso alimentare nemmeno in assoluto. Per le variabili qualitative, di fondo, notiamo ancora una volta che il secolo è trascorso senza nulla cambiare.

Opposta, "dinamica" la curva dell’acciaio (indicata con A e riferita alla scala a destra). Rispetto alle calorie è più sensibile alle crisi industriali, come prevedibile, ma nella stessa misura alle guerre. Svetta nel 1980 al massimo che, corrispondente poco meno di una mezza tonnellata a cranio, risulta quasi un limite massimo tendenziale per questa società e per la sua tecnica di produzione in tutti i paesi. La contraddizione dopo il 1980 è il risultato della crisi economica e non certo di una inversione "demineralizzante".

Come sviluppato ampiamente nel capitolo sull’acciaio, poiché il calante ritmo di accrescimento della sua produzione viene sempre più ad adagiarsi su quello di accrescimento della popolazione, tende ad un limite massimo la quota prodotta pro-capite. Lo stesso è da prevedersi per tutte le altre produzioni, elettricità, petrolio, ecc. e di tutta la produzione capitalistica nel suo complesso. Se potessimo estendere il quadro dal futuro, quindi, vedremmo deflettere anche il vigore della curva A per divenire sempre più parallela ad una orizzontale, alla quale ci si avvicina ma non si supera. Questo punto di "flesso" del capitalismo è stato superato nelle fondamentali produzioni e nel suo complesso, tanto che anche i nuovi rami industriali nel giro di pochissimi anni lo doppiano. Tipico l’esempio degli elaboratori. Le curve A e K ritornano, in posizione relativa invertita, di nuovo parallele: altro modo di dire che il capitalismo è alla frutta…

Nel riquadro 15, oltre all’acciaio, sempre pro-capite, riportiamo il consumo di frumento F e carne C, e la quota del reddito nazionale R. Il frumento mantiene andamento assai orizzontale. È aumentata invece la media del consumo di carne divenuto negli 84 anni quasi 5 volte tanto. Ma l’acciaio nello stesso periodo va a 124 volte! Tale da uscire di molto dai confini del quadro verso l’altro. Come nel testo c’è da chiedersi quale classe ha aumentato di tanto il proprio consumo di carne. Per la parte di miglior vitto dei proletari – che tali ovviamente restano erbivori o carnivori che siano – attendiamo per concludere sul ciclo storico le statistiche dei prossimi anni di crisi…

Si noti come già piega nettamente a minor crescita la spezzata C dal 1980 in poi.

Il reddito nazionale riguarda, per definizione, tutte le classi: che il dopoguerra abbia registrato un aumento dei profitti e delle rendite in misura enormemente maggiore e costante dei salari lo ammettono gli stessi borghesi. Inoltre per una stima del valore dei consumi del reddito sarebbe da togliere i suoi reinvestimenti in capitale, che non sono costanti né in assoluto né come quota nei diversi anni.


Grafico n. 16, da Prospetto XVI, pagine 205-211 colonne seconda, quarta, sesta, Confronto tra indici della popolazione, della produzione agricola e della produzione industriale in U.S.A.

Per seguire l’argomento qui interrompiamo l’ordine dei capitoli del Corso e ci portiamo nella parte Seconda, nei capitoli che trattano della crisi dell’agricoltura americana. Per questo paese si ripete il rapporto produzione vegetali/minerali utilizzando stavolta gli indici delle produzioni agricole e industriali: la cosa non coincide ma il senso è il medesimo.

Notiamo la stazionarietà della produzione agricola pro-capite A a confronto con la spezzata della industria I che, al di sopra della crisi del 1929-30, della crisi del ’39 e del fervore bellico, presenta il solito andamento visto nel grafico 14 per il solo acciaio italiano. La curva I incrocia la curva A e si impenna, ma la sua gagliardia, raggiunta una certa altezza – qui diciamo il 1973 – tende a ridursi. Rappresentiamo degli indici, confrontabili fra loro non anno per anno ma nel loro divenire: passano entrambe le curve dal 100 nel 1913 per nostra scelta. Ma, mentre la curva A non si alza significativamente da quel 100, la I va da 86 a 541, dato che noi comunisti leggiamo in questi termini: il lavoratore americano di oggi, che riceve la stessa razione alimentare che i suoi compagni di classe ricevevano all’inizio del secolo, è schiacciato da una mole di macchinario e di materie prime da mettere in moto nella produzione 5 o 6 volte maggiore. L’aumento della sua produttività tecnica e di valore si è tradotto in un corrispondente aumento del grado del suo sfruttamento e oppressione sociale, cui non ha corrisposto alcun significativo né duraturo progresso nelle sue condizioni di schiavo.

(continua)

 

 

 

 

 

 




Lo sviluppo materialistico della scrittura

(continua dal numero 32)

Nelle tipologie più semplici degli ideogrammi, per dare una comprensione più chiara del significato, è utilizzata ancora la forma pittografica: l’animale totemico indica la tribù o la regione geografica – ancora in un recente passato stemmi di città e blasoni nobiliari l’hanno usato. Un’azione è rappresentata dal pittogramma intuitivamente corrispondente: ad esempio il concetto di «andare verso un luogo» è espresso dalle impronte dei piedi delle figure umane, ed il luogo di destinazione dal simbolo associato.

Meccanismo quindi di rappresentazione statico, come abbiamo detto; ma per spiegare il modo in cui la scrittura si sia evoluta nella rappresentazione dei suoni, ci riferiamo ad alcune strutture fonetiche e grafiche dell’antico Egitto. Prendiamo in considerazione due segni: il rombo ed il rettangolo con il lato di base aperto . Il primo indica, mediante una forma stilizzata, una bocca, che oltre ad una parte ben precisa del viso vuol anche indicare l’uso che se ne può fare: il parlare. Analogamente l’altro segno ricorda, un riparo, un recinto, una casa, sia fisicamente come manufatto sia in senso lato dimora, protezione.

Riprendendo la schematizzazione di Engels già riportata, possiamo collegare il passaggio della forma mista del pittogramma a quella dell’ideogramma, con una certa sicurezza, con il passaggio dalla Stadio Superiore dello Stato Selvaggio a quello Inferiore della Barbarie, che introdusse come determinante l’uso di un processo logico di astrazione per ricostruire il messaggio.

Siamo in presenza di uno sviluppo quantitativamente limitato: ad ogni oggetto o parte di esso corrisponde un segno più o meno stilizzato e si formano quindi insiemi di ideogrammi direttamente legati alla quantità di cose, persone, azioni note all’interno della comunità. In questo caso un maggior sviluppo quantitativo di un simile vocabolario illustrato indica direttamente lo sviluppo quantitativo della conoscenza collettiva. Nel caso preso in questione degli Egizi abbiamo un insieme, tra pittogrammi e ideogrammi, di 300 segni.

Ma questo sistema, pur essendo molto semplice in apparenza, aveva dei limiti nella sua vastità che imponeva di ricordare il segno, le parti determinanti di esso e le eventuali varianti.

Inoltre, dilatando sempre più il significato dei segni era facile provocare confusioni nella comprensione del messaggio nel suo insieme e quindi si rese necessario alla fine introdurre dei segni che servivano esclusivamente a inquadrare il discorso in termini generali, ponendo così le basi per la costituzione di segni "determinativi" che dovevano facilitare la comprensione dell’ideogramma nel suo insieme.

Diamo un esempio: la Libia era per gli Egizi di quel periodo una terra straniera abitata da cacciatori armati di boomerang, quindi trovarono naturale usare un simbolo a forma di ovale che appunto indica un’isola o una terra straniera associato ad un altro che indica il bastone da lancio. Ma per specificare che si trattava del paese Tehenu, come loro indicavano la Libia, misero anche il segno che rappresentava un piccolo vaso, che indicato col suono NU doveva per assonanza richiamare il nome Tehenu.

Col passar del tempo e l’evolversi verso la civiltà si imponeva un sistema più semplificato e soprattutto più veloce. Inoltre l’espandersi delle relazioni umane sulla terra, specialmente attraverso i commerci e i viaggi delle carovane in terre lontane, le spedizioni militari a scopo di rapina di ricchezze, cibo e schiavi, posero le basi per la costituzione di un sistema più adeguato per fissare la parola nel tempo. Naturalmente la parola era quella del più forte, del vincitore che divenne vincolante per i sottomessi: si dovette anche inventare la parola Legge, con relativo simbolo, chiaro anche al più sprovveduto dei sudditi.

Durante questi tentativi ci si accorse che oggetti tra loro molto diversi avevano però in comune parti dello stesso suono o che addirittura lo stesso suono poteva indicare cose differenti.

Ad esempio, nell’egiziano antico il segno che prima indicava una Casa diviene adesso il segno per indicare non un riparo, ma il suono che lo identifica; nel caso della fonetica italiana Casa è molto simile al suono Cose e Caso, avendo in comune i suoni C-S. Da questo momento diviene un Fonogramma cioè un suono ben preciso, elementare e facilmente componibile con altri suoni, disegnato con l’ideogramma più noto e più facile. Il cambiamento è qualitativamente enorme e segna un effettivo avanzamento verso la formazione dei futuri alfabeti fonetici, che rappresentano soltanto i suoni duri delle consonanti come l’antico fenicio, l’arabo e l’ebraico.

L’ideogramma egiziano adesso è diventato il fonogramma del suono e il segno che indica solo la bocca letto come pittogramma, se è ideogramma assume un significato più vasto, come sorriso o parlare, mentre come fonogramma rappresenta esclusivamente il suono R.

In questo modo, combinando dei suoni elementari, si possono diminuire le possibilità di confusione ma soprattutto si possono combinare serie infinite di suoni per indicare serie infinite di parole.

Si arrivò così, sempre nell’esempio dell’Egitto, a selezionare una trentina di segni indicanti una sola consonante e una dozzina per indicare i gruppi di due o tre suoni, ma soprattutto furono introdotti alcuni segni determinativi i quali non venivano letti ma servivano esclusivamente ad inquadrare o rafforzare il contesto del messaggio.

Il segno di Casa è l’indicatore del suono P-R; il segno di Parlare indica il suono R. Invece questo segno non si riferisce a nessun suono in quanto è un "determinativo" che inequivocabilmente si riferisce ad una situazione di movimento, andare o camminare.

Tutto ciò ci dice che gli Egizi del tempo avevano raggiunto un livello superiore nell’organizzazione produttiva e sociale, al pari delle altre civiltà che, sebbene con una grafica diversa, raggiunsero lo stesso obiettivo un po’ più ad Est verso il Tigri e l’Eufrate.

Oramai la strada per l’adozione dell’alfabeto del tipo da noi usato è tracciato ma per arrivarci occorreva una condizione ben particolare: l’incontro di popoli molto diversi tra loro come fonetica e grafica spinti dalle esigenze del commercio e della conquista.

Ciascuna civiltà che si è evoluta a livelli superiori ha compiuto questo passaggio in modo autonomo ed originale giungendo allo stesso risultato del fonogramma, però con sistemi e segni grafici molto differenti, come ad esempio il sistema cuneiforme, così come lingue diverse hanno indicato gli stessi oggetti con suoni diversi.

Il definitivo abbandono della rappresentazione della forma grafica di un oggetto per l’introduzione di un rapido tratto per indicare un suono elementare e componibile avvenne infatti nella naturale e intermedia zona d’incontro per gli scambi, non sempre pacifici, tra le grandi civiltà del tempo: Egizi, Hittiti, Assiri e Babilonesi, verso la metà del Secondo millennio a. C. all’incirca in quella zona oggi chiamata Libano.

La necessità di ben regolare gli scambi obbligò questi popoli ad escogitare un metodo di contabilizzazione rapido e preciso. Naturalmente tali scambi erano prevalentemente di natura economica e dovevano stabilire i passaggi di ricchezze piuttosto che favorire la diffusione del "pensiero". Arricchimento sì, ma non culturale, è in sintesi l’espressione di questo bisogno.

Poiché nessuna civiltà del tempo riuscì stabilmente a dominare le altre e ad imporre il proprio sistema di scrittura, si determinò la condizione per la formazione di un sistema ex-novo ma che conteneva in forma ragionata tutti gli accorgimenti introdotti dalle scritture d’origine. Furono proprio i Fenici, mercanti e commessi del tempo, che sintetizzarono con 22 segni, elaborati da quelli esistenti dai vari alfabeti, un efficacissimo metodo di scrittura per rappresentare altrettanti suoni elementari e componibili della loro lingua. Questo sistema, anche se rappresentava solo suoni consonantici, si espanse con i viaggi marittimi dei Fenici e tutte le civiltà toccate da questi navigatori mercanti si dotarono di un alfabeto da questo derivato, introducendo le debite trasformazioni dovute alla presenza o meno dei suoni diversi dalla lingua semitica dei Fenici. Abbiamo quindi alfabeti fonetici diversi fra loro dal punto di vista grafico pur essendo derivati dallo stesso ceppo.

A questo punto però il messaggio non rappresenta più un qualche cosa attinente a realtà tangibili ma particelle di suoni elementari e componibili, segno questo anche delle aumentate facoltà cerebrali del genere umano nel suo insieme.

I differenti suoni della lingua greca, tra l’altro con molte diversità tra regione e regione, spinsero i Greci ad introdurre segni diversi ed in particolar modo per rappresentare le vocali, indispensabili per evitare ulteriori confusioni. Inoltre si trovò più pratico, tutti prima o poi d’accordo, scrivere da sinistra verso destra e dall’alto verso il basso, per cui molti segni vennero semplicemente ribaltati, continuando però a rappresentare lo stesso suono.

I Greci nella loro espansione portarono il loro alfabeto anche in Italia dove si adattò con quelli derivati dal fenicio usati dalle popolazioni italiche e formò un sistema più rispondente alla fonetica locale. Spettò poi ai discendenti di Romolo e Remo, nel vasto impero, di uniformare tutti gli alfabeti presenti in un unico codice, giunto sino a noi attraverso minime modifiche.

Come sempre la soluzione migliore è la parola del più forte, così oggi l’inglese, lingua degli attuali padroni del mondo, è la più parlata fuori dai confini nazionali e naturalmente viene considerata la più funzionale.

A conferma di quanto esposto, quasi come una curiosità, seguiamo lo sviluppo della rappresentazione del suono R. Il pittogramma egizio a forma di labbra rappresentava la bocca, che veniva pronunciato Ra. Esso diede vita ad un ideogramma più stilizzato, a forma di rombo con un significato più vasto. Il segno grafico è molto semplice e veloce da eseguirsi, quindi fu adottato come fonogramma per rappresentare il suono R. In seguito per evitare equivoci fra i vari suoni R ottenibili con diverse impostazioni dell’apparato vocale, ma specialmente per identificare un determinato suono R, si aggiunse al segno una stanghetta verso il basso. I fenici variarono di poco la rappresentazione del simbolo spostando la stanghetta a destra. Greci ed etruschi non trovarono di meglio di questa P rovesciata, mentre gli osci, che abitavano l’attuale Campania, per indicare i particolari suoni della loro lingua vi aggiunsero una stanghetta obliqua, disegnando così una R rovesciata. I Latini poi, scrivendo definitivamente da sinistra verso destra, ci consegnano l’attuale rappresentazione del suono R.

In questa successione si condensa un processo di perfezionamento durato non pochi secoli, che parte dalla rappresentazione dell’oggetto per giungere a quella del suono. Nonostante siano passati quasi 30 secoli da quando si consolidò come forma predominante l’alfabeto fonetico, le altre espressioni, pittogrammi e ideogrammi non sono state soppresse del tutto e fanno parte del complesso sistema di relazioni fra gli uomini ancor oggi esistente, in particolare in Cina e in Giappone.

Del resto non furono mai abbandonate del tutto nemmeno in occidente: anche oggi la comunicazione di un pensiero attraverso la sua rappresentazione pittorica è alla base di tutta quanta l’odierna pubblicità. Vediamo ideogrammi, neologismi, pittogrammi sapientemente dosati per affermare il sublime messaggio per il capitalismo: Comprami!


 

  

 

 

 

 

 


Azione e teoria, classe e partito nella concezione marxista e nella rivoluzione

Esposto a Firenze nell’ottobre 1992 [RG54]

 

(continua dal numero 32)
    
- La scienza possibile; anzi, necessaria
(continua)

[ È qui ]


 

 

 

 

 

 


Appunti per la Storia della Sinistra

Esposto alla riunione di ottobre 1992 [RG54]

(continua dal numero 32)

Spagna 1931: La repubblica contro la rivoluzione

     «A differenza degli altri paesi la Spagna non conosce la rivoluzione borghese. L’organizzazione feudale della società spagnola si annette importantissimi territori d’oltre mare fornendo così la possibilità al clero ed alla nobiltà di accumulare ricchezze enormi. Il modo capitalista di produzione che si stabilisce nei centri minerari ed industriali del paese non determina la caduta delle caste feudali dominanti ma – contrariamente alla Russia dove lo Stato zarista e la borghesia non si confondono e restano distinti anche se non in opposizione – nella Spagna tali caste e lo Stato si adattano alle esigenze dell’economia industrializzata, localizzata solamente in alcuni centri. Quando poi, alla fine del secolo scorso, scocca l’ora dell’avviamento verso l’industrializzazione delle vecchie colonie spagnuole, i legami si spezzano e l’impero si sfascia.

     «D’altra parte, a differenza dell’Inghilterra, la Spagna non procede ad un intensa industrializzazione del paese in connessione con le possibilità offerte dal possesso delle colonie, sicché, quando in Europa abbiamo la formazione dei possenti Stati capitalisti, la borghesia spagnuola è privata di ogni possibilità di affermazione nel campo delle competizioni internazionali. Nobiltà e clero non solo restano i detentori delle proprietà terriere, ma diventano anche i proprietari di compagnie minerarie, di banche e di imprese industriali e commerciali, mentre i settori a più alto sviluppo industriale, la Catalogna e le Asturie, passano in gran parte sotto il controllo del capitale estero prevalentemente inglese.

     «Questi precedenti storici determinano un congegno particolare della società borghese spagnuola in cui lo sviluppo dell’industrializzazione è arrestato dalla persistenza dei legami feudali. Il movimento operaio, in cui tanto all’epoca della Prima Internazionale, quanto ai nostri giorni, predominano gli anarchici, ne risente al punto che sino ad oggi non si sono presentate le condizioni per la costituzione di un partito fondato sulle concezioni marxiste. I sussulti sociali che vi si sono verificati trovano nelle dette condizioni obiettive la premessa per attingere un alto clima di lotta, ma l’impossibilità di una radicale modificazione dell’arcaica struttura sociale della borghesia condanna il proletariato a rimanere al di qua di una affermazione specifica della sua classe.

     «Marx già nel 1845, notava che una rivoluzione che richiedesse tre giorni in un altro paese d’Europa, domanderebbe nove anni in Ispagna. Trotski dal canto suo spiegava l’intervento dell’esercito nel campo sociale come risultante dal fatto che esso – a pari del clero e della nobiltà – tendeva a conquistare, senza mai, d’altronde, potervi giungere, una posizione di predomino sociale a lato delle altre due caste esistenti.

     «In una parola dunque l’inesistenza delle condizioni storiche per la lotta borghesia-feudalesimo determina l’inesistenza storica delle condizioni per la lotta autonoma e specifica della classe proletaria ed esclude l’ipotesi che la Spagna possa giocare il ruolo di epicentro degli sconvolgimenti rivoluzionari internazionali». ("Prometeo", n. 8, 1947).

Ma vediamo ora di fare il punto della situazione spagnola alla data del 1930/31 cioè all’epoca dell’avvento del regime repubblicano. Il 50% circa della popolazione attiva era impiegata in agricoltura; nell’industria solo il 25% e l’altro 25% circa nei servizi.

Le retribuzioni operaie erano le seguenti: operaio qualificato 7,35 pst (pesetas) giornaliere, operai non qualificati e giornalieri 4,72, operaie qualificate 3,44, apprendisti 2,40. Questi sono dati puramente indicativi poiché all’interno della stessa categoria esistevano delle forti differenziazioni tra una località e l’altra del paese. A Barcellona, per esempio, l’operaio qualificato poteva arrivare a 9,65 pst, mentre a Càceres (in Estremadura) raggiungeva appena le 5,50. A Madrid ed a Barcellona esistevano dei settori di proletari privilegiati come i muratori, i tipografi ed i metallurgici che potevano arrivare a guadagnare dalle 12 alle 14 pst giornaliere, ma in queste grandi città il salario medio giornaliero era di 5/7 pst. Il salario delle commesse variava da 1.75 a 2,25 pst. Per quanto riguarda Valencia lo stesso governatore civile aveva ammesso che nella sua provincia il salario medio degli operai era di 5 pst, quello delle operaie 3 pst, per 10 ore di lavoro al giorno.

PAESESalario
giorna-
liero
medio
Indice
costo
della
vita
Rap
por-
to
Stati Uniti 84.00 13164
Canada 64,60 13249
Australia 56,25 11745
Svezia 39,35 10737
Inghilterra 31,85 10032
Olanda 28,15 9829
Germania 26,44 8133
Cecoslov. 20,62 8824
Francia 21,03 9722
Polonia 15,53 7820
Austria 17,25 10217
Italia 15,85 11614
Spagna 14,06 10214

Se passiamo ad esaminare le retribuzioni dei braccianti agricoli, ci troviamo di fronte a salari medi inferiori alle 3 pst per 14 ore di lavoro al giorno e, nel corso dell’anno, a causa delle normali interruzioni stagionali, non arrivava alle 500 pst.

Nel 1931 l’Ufficio Internazionale del Lavoro di Ginevra forniva i dati sui salari percepiti nelle grandi città nei diversi paesi del mondo; convertendo i valori da dollari a pesetas si poteva ricavare il seguente specchietto:

C’era inoltre da tenere presente che in quasi tutti gli altri paesi esistevano previdenze sul tipo di sussidi di disoccupazione, malattie, vecchiaia, ecc., mentre in Spagna qualunque forma di previdenza sociale era pressoché inesistente.

La popolazione attiva impiegata in agricoltura rappresentava alla data del 1930 circa il 50%, anche se negli ultimi 30 anni era diminuita di circa il 15%. Raffrontando la Spagna con gli altri paesi europei troviamo: Gran Bretagna 10%, Belgio 15%, Olanda 18%, Germania 22%, Francia 27%, Italia 44%, Spagna 50,2%.

In merito alla proprietà della terra, quello che balza immediatamente agli occhi è la quasi inesistenza di aziende agricole di media dimensione. Accanto ai mini-fondi di 0,42 ettari esistevano oltre 12.000 latifondisti con estensione media superiore ai 600 ettari. Il fatto che esistessero cotanti latifondisti non significava però che i latifondi fossero altrettanto numerosi: infatti ognuno di loro, di norma, ne possedeva più di uno. Per fare un esempio riportiamo di seguito la proprietà di alcuni "Grandi" di Spagna (gli  "altri 89 nobili" posseggono in media 2.797 ettari ciascuno):

PROPRIETÀETTARI
duca di Medinaceli 79.146 
duca di Peñaranda51.015
duca di Vistaermosa47.203
duca di Alba34.455
marchese della Romana29.096
marchese dei Comillas23.719
duca di Fernan Nuñez17.732
duca di Arion17.666
duca di Infantado17.171
conte di Romanones15.171
altri 89 nobili248.987
TOTALE577.359

Ma, accanto alle proprietà delle grandi famiglie nobiliari, accusate di assenteismo, e di inefficienza nella gestione delle terre, esisteva la proprietà della nuova classe borghese, acquistata durante il periodo della vendita dei beni ecclesiastici oppure tra la fine del 1800 e la Prima Guerra mondiale.

La repubblica spagnola non avrebbe, quindi, nemmeno preso in considerazione una riforma agraria che si ponesse l’obiettivo della ridistribuzione delle terre, poiché questa riforma sarebbe avvenuta a danno della classe sociale che costituiva il nucleo dei partiti politici e del regime demo-repubblicano. Infatti di riforma agraria si parlò molto, ma non fu presa mai in nessuna seria considerazione.

La Chiesa. Secondo fonti del Ministero della Giustizia del 1931, in Spagna c’erano 35.000 preti, 36.500 frati, 8.000 monache. Gli ultimi due ordini (frati e monache) possedevano 2.919 conventi e 763 monasteri. Questi dati erano però errati per difetto poiché 7 delle 35 diocesi esistenti si rifiutarono di collaborare all’inchiesta governativa e non fornirono dati. Nel censimento dell’anno precedente, infatti, il numero delle persone definite come “addette al culto e clero” ammontava a 136.181.

L’unica inchiesta effettuata nel 1931 sulla sola provincia di Madrid accertò un valore delle proprietà delle congregazioni religiose di 54 milioni su proprietà urbane e 112 milioni su proprietà rurali. Nella sola città di Madrid le scuole religiose accoglievano 600.000 scolari. La chiesa spagnola privilegiava infine delle seguenti entrate: 52 milioni tratti dal bilancio per il culto e clero; titoli di rendita al 3% concessi come compensazione dell’abolizione della manomorta; patronati dipendenti della Corona il cui interesse al 3% rappresentava un capitale di 667 milioni. In tutto veniva calcolato un introito di circa 140 milioni che, con le questue e le indulgenze, toccava il mezzo miliardo.

Il solo vescovo di Toledo godeva di una mensa annua di 600mila pesetas.

* * *

La struttura sociale arcaica della Spagna era stata profondamente scossa dalla Prima Guerra mondiale, che provocò una intensificazione accentuata dell’industrializzazione, soprattutto in Catalogna. Questo sviluppo industriale avvenne però per isole: a Barcellona, a Madrid, al Nord, nel resto del paese tutto restava nelle condizioni precedenti. Il capitale spagnolo sentì tuttavia la pressante necessità di dare una soluzione dittatoriale al problema sociale. L’occasione venne nel 1923 quando, a seguito dei disastri della campagna marocchina, il generale Primo de Rivera assunse il potere dando origine ad un regime dittatoriale, regime che era stato particolarmente caldeggiato dai circoli industriali di Barcellona diretti da Cambo, contro lo stesso parere del re Alfonso XIII che era propenso alla continuazione della guerra del Marocco malgrado le cocenti sconfitte.

Il governo De Rivera non poteva essere definito fascista, nel vero senso del termine, innanzi tutto perché nessuna minaccia rivoluzionaria ne giustificava l’instaurazione e, in secondo luogo, perché si avvalse della collaborazione attiva anche del Partito Socialista. La linea maggioritaria del Partito Socialista fu quella di accettare il fatto compiuto e di agirei nel solco della legalità. Largo Caballero (che nel 1936 sarà addirittura definito il Lenin spagnolo!!!), segretario dell’Unione Generale dei Lavoratori, fu Consigliere di Stato. Sotto De Rivera le organizzazioni socialiste poterono sussistere e lo stesso sindacato anarchico (CNT) vivacchiò. Se non fu fascista, la dittatura di De Rivera nasceva comunque dalla necessità di impedire l’intervento autonomo del proletariato nelle lotte sociali; sotto questo regime si conobbe infatti la creazione e lo sviluppo delle istituzioni di arbitraggio dei conflitti di lavoro.

In definitiva possiamo considerare questa dittatura come il tentativo della borghesia spagnola di procedere ad una riorganizzazione dello Stato su basi centralizzate del tipo degli altri paesi capitalistici.

     «Questo tentativo fallisce e, nel folto della grande crisi economica mondiale scoppiata nel 1929, il capitalismo si trova a dover fronteggiare una situazione sociale difficile e complessa. Lo Stato del tipo De Rivera non conviene più giacché la situazione non consente la soluzione arbitrale dei conflitti del lavoro, e possenti movimenti di massa sono inevitabili. La conversione che allora si opera e che risponde agli interessi di dominio del capitalismo, è giudicata da tutte le formazioni politiche, ad eccezione della nostra, come l’avvento di un nuovo regime imposto dalla maturazione rivoluzionaria delle masse» ("Prometeo", n. 8, 1947).

Nel gennaio 1930 quanto il potere di De Rivera fosse logoro lo sapeva il re, che consigliò al dittatore di ritirarsi; lo sapevano la Chiesa e le classi dominanti che scoprirono immediatamente la loro vocazione democratica e realista; lo sapeva l’esercito, che lasciò il dittatore al suo destino; lo sapeva lo stesso Primo de Rivera, che pensò bene di rassegnare le dimissioni da dittatore per... motivi di salute.

Nella sua ultima nota, redatta il 28 gennaio 1930, si legge:

     «Ebbi un piccolo malessere che mi ha allarmato e mi obbliga a fare tutto il possibile per prevenire il ripetersi di quanto è avvenuto, sottomettendomi ad un trattamento e ad una dieta che rinforzi i miei nervi e dia alla mia natura dominio assoluto su di essi».

A Primo de Rivera successe un altro governo dittatoriale, quello del generale Berenguer, che ebbe la funzione, secondo le intenzioni della oligarchia, di salvare la Corona mediante un prudente e graduale ritorno alla prassi costituzionale; secondo i repubblicani, invece, Berenguer avrebbe dovuto permettere il trapasso indolore, e cioè senza sussulti rivoluzionari, dalla monarchia alla repubblica.

Tutti quanti erano concordi sulla sua funzione dittatoriale di classe. “Prometeo” del 1 febbraio 1930 commentava, con un trafiletto dal titolo “Cambio ministeriale in Ispagna”:

     «Al posto di Primo de Rivera un altro generale. Per meglio facilitare la manovra si sarebbe scelto un nemico personale di De Rivera, un generale che avrebbe la funzione di richiamare le simpatie del proletariato e dei lavoratori. Il movimento che avrebbe determinato la caduta di De Rivera avrebbe le sue basi nei pronunciamenti degli stati maggiori dell’esercito e nella irrequietezza della piccola borghesia. Tali essendo le basi del movimento, lo sbocco di questo non può essere diverso da quello che si prepara nella sostituzione di un generale all’altro, sia pure con il piano di “restituire il sacrosanto regime della democrazia” che in Italia ci ha preparato il fascismo (...) Se il proletariato spagnolo riuscisse ad intervenire in queste situazioni con un movimento organizzato, allora non basteranno più le sostituzioni ministeriali, ed il regime sarà in pericolo. Ma per questo occorre una organizzazione comunista, ed invece in Ispagna non solo questa manca giacché le forze dell’opposizione non hanno grandi probabilità di dominare gli eventi; mentre il pasticcio dell’anarco-sindacalismo si accompagnerà di pari passo con l’inganno socialdemocratico per spezzare ogni ripercussione rivoluzionaria dei prevedibili movimenti proletari».

Vedremo in seguito quanto saranno vere queste ultime affermazioni.

Il 1° aprile “Prometeo” si interessava ancora al cambio ministeriale avvenuto in Spagna spiegandone le ragioni in modo più approfondito:

     «De Rivera ha governato convogliando al suo seguito forze importanti dell’esercito, scartando le personalità che avevano agito nel campo parlamentare e senza fare ricorso al sistema della violenza contro questi partiti. Lo stesso Partito Socialista aveva la sua porzione di libertà e legalità durante il periodo di dittatura di De Rivera. Questi fu chiamato al potere quando per la necessità della manovra ideologica fra le masse era necessario personalizzare nel generale Berenguer le responsabilità dei disastri nel Marocco al fine di impedire che il proletariato afferrasse chiaramente le responsabilità del regime stesso, e ne ricavasse insegnamenti per la sua lotta».

La dittatura di De Rivera ebbe la funzione di:

     «impedire che una organizzazione del proletariato rivoluzionario avesse la possibilità di svilupparsi quando ne esistevano le condizioni per i contraccolpi della guerra marocchina».

Ma non appena la borghesia si accorse che il governo di De Rivera avrebbe sortito l’effetto contrario, i partiti e gli uomini politici messi da parte dalla dittatura furono rimessi in linea dalla stessa classe che aveva precedentemente chiamato De Rivera. Così l’avversario personale, all’interno degli ambienti militari, fu incaricato di preparare il periodo di transizione, dal governo della dittatura a quello della democrazia.

Il 17 agosto 1930, a S. Sebastiano, si riunirono tutti i gruppi di tendenza repubblicana per stabilire la futura linea di condotta in vista della ormai inevitabile caduta della monarchia. Secondo il "Patto di S. Sebastiano" le organizzazioni operaie avrebbero dovuto dare il loro appoggio alla futura repubblica fermo restando, però, che lo sciopero generale (se ci fosse stato) avrebbe dovuto seguire e non precedere il sollevamento della truppa. Si chiedeva che gli operai assecondassero i militari e non scendessero in piazza prima di loro. Il 20 ottobre il Partito Socialista diede la sua adesione al Patto. Il 15 novembre fu la volta della CNT, l’organizzazione anarco-sindacalista.

Proprio il giorno precedente era avvenuto un massacro proletario a Madrid. La polizia aveva vietato la partecipazione dei proletari ai funerali di quattro muratori caduti sul fronte del lavoro. Il divieto fu respinto dalla volontà delle masse. La polizia sparò facendo altri quattro morti, 60 feriti, oltre 50 arresti. Queste, commentava “Prometeo” del 15 novembre 1930:

     «sono le cifre eloquenti di un bilancio che la borghesia della Spagna, dalla nera storia inquisitoriale ha voluto stabilire per misurare il rapporto della sua forza con la forza proletaria (...) Lo sciopero generale di protesta (...) ha trovato fra il proletariato di tutte le categorie una magnifica e sintomatica rispondenza dello spirito rivoluzionario classista (...) L’allargarsi quasi simultaneo dello sciopero a tutti i centri industriali, malgrado la resistenza dei capi riformisti, attesta lo spirito della coscienza proletaria che si matura impulsivamente sotto le ripercussioni nefaste della crisi economica che sconvolge l’equilibrio capitalista. A Barcellona, gli operai, la massa in generale ha compreso l’importanza del movimento ed è scesa sulle piazze per manifestare la sua volontà di lotta contro il regime borghese. Ed ancora una volta la Guardia Civil ha mitragliato gli operai. Ancora delle vittime proletarie che cadono contro l’infame regime borghese».

Il 15 dicembre, tornando sull’argomento “Prometeo” scriveva:

     «Il partito comunista in Spagna è completamente assente dallo svolgersi di tutti questi avvenimenti. Non una sola parola d’ordine che spiegasse ed orientasse le agitazioni proletarie che pur si manifestano in una certa maturazione degli elementi di movimento e di sviluppo di una situazione rivoluzionaria. Non sono i fattori oggettivi che mancano, ma la condizione indispensabile per il successo: l’obiettivo e la guida. L’asse regolatore del rapporto di forze non potrà mai spostarsi verso la giusta direzione se alla leva del suo movimento non vi è capacità di manovra. Il gruppo di opposizione, alquanto ridotto è privo dei più qualificati compagni imprigionati».

Nuovamente il 1° gennaio 1931 “Prometeo”, con estrema lucidità afferma che

«la soluzione della profonda crisi del regime in Spagna non sta, come non è stata e non sarà, nella politica concentrazionistica demo-repubblicana». La nostra Frazione constatava però che il proletariato spagnolo era privo di qualsiasi guida rivoluzionaria.

Gli anarco-sindacalisti non avevano nessuna strategia rivoluzionaria e costituivano un evidente ostacolo allo sviluppo del movimento. E non erano neppure nuovi al tradimento, come quando, nel 1923, avevano sciolto la Confederazione Generale del Lavoro subito dopo l’avvento del regime dittatoriale di Primo De Rivera. La debolezza numerica del Partito Comunista non giustificava la sua completa assenza dalle lotte del proletariato. Il PCE, secondo la nuova tattica cominternista, passava con la massima tranquillità dalla considerazione che gli avvenimenti di Spagna avessero l’importanza di un conflitto economico locale alla parola d’ordine del "governo operaio e contadino". Nell’un caso e nell’altro guardandosi bene dallo sporcarsi le mani nella lotta di classe.

Per quanto riguarda l’Opposizione di sinistra, il Segretariato Internazionale non aveva trovato niente di meglio che lanciare la parola d’ordine del rafforzamento del partito comunista senza nemmeno richiedere la riammissione al suo interno dei compagni di sinistra espulsi. L’Opposizione di sinistra sosteneva anche la necessità di prendere posto in prima fila in difesa della repubblica spagnola perché da questa posizione si sarebbe poi potuti passare alla successiva fase della dittatura proletaria.

La nostra Frazione, mettendo in evidenza la debolezza e la pericolosità di una simile posizione dichiarava che:

     «Il partito non può avere che una sola soluzione per quello che concerne il problema del potere e cioè la posizione che tende a convogliare tutte le esperienze della lotta proletaria verso la soluzione della dittatura proletaria. Quello non significa che ad ogni istante debbasi sollevare il problema della realizzazione di questa dittatura attraverso l’insurrezione armata. Per questa sono necessarie le condizioni che Lenin ha indicato nella “Malattia Infantile”. Solamente è sulla base centrale di questa posizione che sarà possibile un’organizzazione capace di rispondere agli interessi del proletariato spagnolo che si confondono con gli interessi del proletariato internazionale che guarda alle lotte del proletariato spagnolo come all’elemento più favorevole per la lotta generale per l’abbattimento del capitalismo» ("Prometeo", n. 53, giugno 1931).

Una risoluzione votata dal gruppo di Bruxelles della nostra Frazione dichiarava che:

     «Il dovere impellente (dell’Opposizione di Sinistra - n.d.r.) è quello di ristabilire le premesse perché la lotta possa svilupparsi con successo sul suo vero ed unico terreno: quello classista. Ma occorre innanzi tutto risolvere due questioni principali strettamente legate alla crisi comunista ed in diretta correlazione con l’analisi della situazione: il partito e le masse; sono le due questioni dalle quali dipende il compito che il gruppo deve assolvere nello sviluppo degli avvenimenti che si delineano (...) Considerato che, nella teoria marxista, non si tratta di quantità numerica ma di capacità ideologica e strategica, crede che il gruppo di opposizione, spoglio di ogni sorta di insensato sentimentalismo, può e deve assumere una posizione indipendente ed autonoma tendente (...) a spostare i militanti sulla giusta via marxista e a conquistare la fiducia del proletariato. In conseguenza di che è contro la parola d’ordine del Segretariato perché, rafforzando la burocrazia centrista, e non il vero partito, non si risolve affatto né la crisi né il problema della rivoluzione comunista, ciò che in sostanza vorrebbe dire rimanere coscientemente su di una posizione passiva in attesa della critica, che poi non escluderebbe dalle gravissime responsabilità per gli eventuali errori di una falsa politica» ("Prometeo", n. 46, febbraio 1931)

Riguardo alle imminenti elezioni amministrative per mezzo delle quali il capitalismo spagnolo avrebbe rafforzato il suo potere attraverso un nuovo personaggio politico e attraverso l’ubriacatura democratica che avrebbe dovuto distrarre il proletariato dalla lotta di classe, la citata risoluzione dava le seguenti indicazioni:

     «Contro la politica borghese e contro l’astensionismo piccolo- borghese, i comunisti in una situazione prettamente pre-rivoluzionaria non devono porsi l’astensionismo da un punto di vista avulso, passivo come quello di una protesta morale-sentimentale, ma bensì da quello attivo per lo sviluppo della lotta rivoluzionaria di classe. Questo concetto dev’essere diffuso ampiamente, e validamente sostenuto e sviluppato in mezzo alla massa e in tutte le riunioni sindacali e politiche. In tal caso la parola d’ordine può essere quella dell’astensionismo per lo sciopero generale validamente basato sulle comuni rivendicazioni di carattere attuale ed immediato (...) Oggi la parola d’ordine della lotta contro il parlamentarismo borghese e per la costituzione dei soviet; moltiplicando gli sforzi per sviluppare questa e per preparare l’altro che, nel prossimo avvenire, sarà quello dell’abbattimento del dominio capitalistico, e, non per la Costituente, ma per il potere Soviettista» ("Prometeo", 15 febbraio 1931).

* * *

Così come la dittatura di Primo de Rivera era caduta come un frutto marcio, allo stesso modo si dissolse la monarchia. Il 12 aprile si sarebbero svolte le elezioni amministrative. Il 10 marzo, un mese prima, il ministro dell’interno aveva inviato ai governatori civili il seguente telegramma:

     «Prossime elezioni municipali interessa sapere se capoluogo e principali città di codesta provincia contano su elementi che assicurino maggioranza monarchica entro rispettosa applicazione legge. Dovrà V.E. procurare, con contatti privati, concordia forze politiche tale genere, perché vittoria monarchica dia impressione vera opinione pubblica».

Ma così non avvenne, la vittoria arrise ai repubblicani, anche se non si trattò di una vittoria tale da cacciare un re. Innanzi tutto non si era trattato di un plebiscito a carattere istituzionale, non si era trattato nemmeno di una consultazione politica, ma solo amministrativa. Se alla monarchia fosse restato un qualche potere (non schedaiolo, quello vero), quest’ultima avrebbe anche potuto, «entro rispettosa applicazione legge», pretendere di aver vinto la battaglia elettorale e di rappresentare «vera opinione pubblica». Infatti i repubblicani non stravinsero per niente e, probabilmente, furono proprio loro a gestire la consultazione elettorale «entro rispettosa applicazione legge».

Secondo l’art. 29 della legge elettorale allora in vigore, nei collegi ove si fosse presentato un solo candidato, gli elettori non sarebbero andati alle urne perché il candidato veniva automaticamente eletto. L’applicazione di questo articolo permise, in piccoli paesi di provincia, di far eleggere 1.167 consiglieri monarchici contro 194 non monarchici. In virtù dell’art. 29 il 20% dell’elettorato non votò. Vi fu, inoltre, una astensione del 26,2%. A votare andò quindi poco più del 50% degli aventi diritto. Questi ultimi, effettivamente, elessero a grande maggioranza dei candidati repubblicani.

Non fu quindi una sconfitta elettorale monarchica a dare vita alla repubblica di Spagna, ma il timore, da parte della borghesia, di non poter contenere le agitazioni operaie e contadine.

Lo Stato Maggiore della Corona si assunse l’iniziativa ed il compito di organizzare la partenza di Alfonso XIII.

Il governo provvisorio repubblicano, riunito presso l’abitazione del monarchico reazionario Miguel Maura, si apprestava intanto ad trapasso dei poteri.

Il corpo della Guardia Civil era stato l’incarnazione pratica della violenza, l’agente di esecuzione di tutti i crimini borbonici. La famigerata Guardia Civil, creata per combattere i leggendari briganti della Sierra Morena che taglieggiavano la Capitale, si era specializzata nella repressione in particolar modo antiproletaria. Ma non solo, poiché sotto De Rivera e Berenguer aveva perpetrato le più brutali repressioni delle agitazioni studentesche culminate nell’eccidio nella facoltà di medicina della capitale nel 1930, tutti i partiti antimonarchici avevano incluso nel loro programma immediato lo scioglimento della Guardia Civil. Ma, poiché il suo illustre capo si dichiarò disposto ad appoggiare la repubblica, la Repubblica si servirà di questo corpo di polizia che rese al nuovo regime gli stessi servigi che aveva reso, precedentemente, alla monarchia.

Il generale Sanjurio, capo della Guardia Civil, al quale il 28 marzo il re aveva concesso la Gran Croce di Carlo III, questo generale scopre di avere in petto un cuore repubblicano e dichiara di non essere disposto a sostenere la Corona.

Venne così comunicato al re l’ordine di abdicare immediatamente, prima che gli operai uscissero dalle fabbriche. Era infatti inevitabile che si dovesse aprire un periodo di intensissimi conflitti proletari. Questi conflitti erano inevitabili a causa della estrema debolezza della borghesia spagnola di fronte alla tremenda crisi economica in cui sprofondava tutto il mondo capitalista. Ma la borghesia, incapace di evitare questi conflitti, dimostrò una immensa astuzia impedendo che assumessero un carattere rivoluzionario. La sera del 14 aprile 1931, verso le nove, da una porta posteriore del palazzo reale, Alfonso XIII usciva in automobile accompagnato dal duca di Miranda. Si imbarcherà poi sull’incrociatore Principe de Asturias che lo porterà in esilio. La famiglia reale resta a Palazzo, ne uscirà il giorno dopo, sempre in automobile, per poi salire sul treno reale a Galapagar. Tutta l’aristocrazia si reca a dare il saluto ai reali. L’Infante Don Juan, accompagnato dal suo istruttore, si imbarca presso Cadice alla volta di Gibilterra. I reali di Spagna se ne vanno, non scappano. La popolazione resta indifferente alla loro uscita di scena, come è indifferente nei confronti dei componenti del nuovo governo provvisorio repubblicano.

Il 18 aprile “Prometeo” commentava:

     «La repubblica è stata proclamata senza colpo ferire, mentre Alfonso XIII rinuncia al potere e si ritira con gli onori dovuti al suo gesto. Questo dai laconici comunicati dell’ultima ora: così si chiude un’altra fase del movimento spagnolo ove attraverso il paravento della sovranità popolare la borghesia ha manovrato con successo nel gioco delle forze a favore della sua politica di classe. La vittoria elettorale non doveva avere che questo significato; il piano della tattica concentrazionista non poteva rappresentare che il canale per una soluzione legale alla forma costituzionale del regime sociale in Spagna. Il proletariato è così ancora una volta giocato; come lo sarà sempre fino a quando non avrà acquistato coscienza della sua funzione e del suo ruolo decisivo. Ma per acquistare questa coscienza occorre il fattore che chiarifichi, orienti e guidi: il partito politico di classe, il partito comunista, che nulla ha fatto per preparare e per essere all’altezza dei suoi compiti. La completa assenza del partito si aggiunge alle gravi responsabilità che già pesano sulle spalle della burocrazia centrista».

A completare il quadro della vittoria controrivoluzionaria borghese giungeva il tradimento degli anarchici e degli stalinisti. I funzionari del PCE si affrettarono a chiedere ai ministri repubblicani libertà di stampa, parola ed organizzazione, facendo, come contropartita, dichiarazioni del tutto simili a quelle degli anarchici catalani circa il loro rispetto dell’ordine repubblicano.

Se non proprio per "decreto reale", certamente per "condiscendenza" reale, la repubblica spagnola esisteva. Il duca di Toledo (Alfonso XIII) riposava negli ozi di Fontainebleau dopo essersi coraggiosamente dato alla fuga per timore di dover rispondere delle sue responsabilità nei disastri del Marocco e nella dittatura di Primo De Rivera. Libero da preoccupazioni economiche (non per niente risultava uno dei maggiori contribuenti del fisco inglese) attendeva l’evolversi degli avvenimenti.

Si formò il governo provvisorio repubblicano: alla presidenza fu messo il monarchico Alcalà Zamora, massone ed allo stesso tempo uomo pio che, al momento di venire arrestato, durante il periodo Berenguer, aveva richiesto un supplemento di libertà di un’ora per assistere alla Santa Messa. Il ministro degli Interni fu dato a Miguel Maura, anch’egli monarchico. Il ministero del Lavoro fu affidato a Francisco Largo Caballero, socialista e... collaborazionista al tempo di Primo de Rivera. Gli altri ministeri furono distribuiti ai rappresentanti dei vari partiti; tutti quanti di pari fede repubblicana.

A proposito non è solo per pura curiosità che riportiamo un significativo trafiletto apparso su “Prometeo” del 21 giugno:

     «Don Alfonso di Borbone, fu tredicesimo, alcuni giorni fa ha fatto sapere al governo provvisorio, per il tramite di un suo messaggero, che sarebbe lieto di rientrare in Ispagna e mettersi a disposizione della nuova Repubblica. Alcalà Zamora si è commosso ed ha premurosamente risposto, significando, dolente, di non poter consigliare un immediato ritorno data l’incerta situazione interna, ma che in ogni modo il governo provvisorio spera nel suo aiuto all’estero che può molto agevolare gli amichevoli rapporti fra la Spagna e le altre nazioni. E così l’ex-re sarà un diplomatico onorario al servizio della Repubblica».

Non c’è niente da scandalizzarsi in tutto questo perché il governo provvisorio repubblicano non aveva affatto modificato i tradizionali metodi tipici di ogni regime borghese (monarchico o repubblicano): stato d’assedio e piombo per gli operai e i contadini che reclamavano miglioramenti, connivenza con gli intrighi dei latifondisti e del clero.

L’avvento della repubblica che aveva alimentato non poche speranze fra i lavoratori non fu però sufficiente ad evitare la ripresa della lotta di classe. Scioperi scoppiarono in Andalusia, a Barcellona, a Valencia. Siviglia fu messa sotto stato di assedio in risposta alle agitazioni di operai e contadini. Il 1° maggio a Barcellona si registrarono scontri tra manifestanti e forze dell’ordine. Lo stesso giorno la polizia sparava a Bilbao causando 25 feriti. Nel mese di maggio il ministro degli Interni (monarchico) convocava i comandanti della Guardia Civil ed annunciava loro «che erano finite le perplessità delle autorità». E per dimostrare quanto chiare fossero le idee del nuovo governo venne creato il corpo delle «Guardias de Asalto».

Il governo diramava un comunicato in cui venivano annunciate le misure repressive che sarebbero state adottate nei confronti dell’estrema sinistra:

     «Il governo ha esaminato la situazione, rendendosi conto che (...) degli elementi reazionari, desiderosi di restaurare la monarchia, e degli elementi di estrema sinistra che vogliono creare il disordine, hanno provocato, ciascuno dalla sua parte, degli incidenti. La forza pubblica è stata obbligata a proteggere (?) gli immobili di certi giornali che, abusando della fiducia generosa del governo, avevano l’intenzione di avvelenare l’anima nazionale attraverso notizie tendenziose, nello stesso tempo in cui gli estremisti di sinistra facevano mostra del loro tradizionale spirito di agitazione e di disordine (...) Il governo è deciso a non tollerare alcuna manovra da parte di gente di estrema sinistra che sono anche loro nemici della repubblica (...) Il governo considera nemici della repubblica chiunque tenterà di provocare disordini contro il regime stabilito. Degli arresti saranno operati ogni volta che saranno necessari. Per evitare di essere obbligati a prendere delle misure più gravi, il governo ha deciso di proclamare lo stato di guerra momentaneo a Madrid».

A questo faceva eco un proclama del Partito Socialista in cui, tra le altre cose, si diceva:

     «Il governo che ha adottato queste misure realizza il programma che si era prefisso. Esso ha il diritto di sperare che il Partito Socialista, le organizzazioni operaie e il popolo in generale lo assisteranno nella sua missione in difesa della repubblica. Noi faremo il nostro dovere per aiutare il governo nel compito che si è imposto».

Alla fine di maggio, a S. Sebastiano, un corteo di operai fu attaccato dalla Guardia Civil: furono ammazzati otto operai. Il governo emanò un comunicato:

     «Gli scioperanti hanno organizzato una manifestazione che la forza pubblica ha cercato di disperdere. Ma gli scioperanti hanno insistito insultando la Guardia Civil, ed arrivando perfino ad attaccarla. Questa allora ha sparato (...) Lo stato di guerra che è stato dichiarato ha fatto rinascere la tranquillità».

Un comunicato successivo del governo dichiarava:

     «Il governo comprende nel suo seno dei rappresentanti dei partiti che propongono le riforme più radicali tanto nell’ordine sociale quanto politico. Esso desidera esaminare tutte le giuste rivendicazioni e le domande di miglioramento dei salari. Il governo dichiara che esso appoggerà con tutto il suo prestigio i delegati del lavoro»

e via di questo passo.

La repressione di Saragozza sarà la traduzione in termini pratici delle buone intenzioni governative. Macia, capo del governo catalano, ordinava l’occupazione della sede del Partito Comunista. Si noti che era lo stesso Macia, separatista catalano, che nel 1927 aveva ricevuto la solidarietà e l’appoggio degli stalinisti perché, dicevano, il separatismo catalano aveva un carattere rivoluzionario ed anticapitalista.

Il 1° giugno scioperarono i minatori delle Asturie. Il 17 fu proclamato lo sciopero generale a Gerona per protestare contro la repressione. Il 28, a Malaga, la Guardia Civil uccideva ancora. In risposta scoppiò lo sciopero generale, esteso anche a Granada, che durò fino al 13 luglio. Il 6 luglio scioperarono i telefonici, si ebbero arresti e licenziamenti da parte della compagnia. Di lì a poco si sarebbe tenuta la consultazione per la Costituente e perfino l’Opposizione di sinistra dava l’impressione di attendere favorevolmente le elezioni che avrebbero legalizzato il nuovo regime.

L’ubriacatura schedaiola non era subìta soltanto dalla sinistra comunista di Spagna, neanche gli anarchici volevano mancare allo storico appuntamento. La CNT, il sindacato diretto dagli anarco- sindacalisti, nel suo congresso di giugno aveva dichiarato che l’Assemblea Costituente «era il prodotto di un fatto rivoluzionario al quale, direttamente ed indirettamente, abbiano dato il nostro contributo». Qualche riga più in basso gli anarchici smentivano l’affermazione precedente per dire che «non c’era nulla da sperare dalla Assemblea costituente, generata nel ventre stesso della società capitalista».

Intanto il 3 giugno erano state indette le elezioni dei deputati alla Costituente, elezioni che si sarebbero tenute il giorno 28. Venne democratizzata la legge elettorale del 1907 ispirandosi a quella... fascista del 1923. Ma mentre in Italia, con la legge Acerbo la lista che avesse raggiunto il 25% dei voti otteneva i 2/3 dei rappresentanti, i democratici spagnoli stabilirono che sarebbe bastato il 20% per mettere le mani (si fa per dire) sul’80% dei seggi.

Era il 14 luglio, la repubblica spagnola aveva il suo primo parlamento. Alcalà Zamora pronunciava un discorso dove affermava che il governo provvisorio si era presentato davanti all’assemblea con le mani nette di sangue e di fango malgrado i tentativi degli estremisti che avevano fatto di tutto per abbattere la repubblica. A presidente della Camera venne eletto il socialista Julian Besteiro.

A luglio a Siviglia si susseguono scioperi e scontri armati con la Guardia Civil. Alcuni operai vennero uccisi il 18 e 20. Il 22 fu proclamato lo stato d’assedio. I contadini assaltarono alcune caserme, le forze governative uccisero una trentina di manifestanti, la città venne cannoneggiata e sorvolata da aerei da guerra. Il generale Trillo proclamò la legge marziale. Ecco due passaggi caratteristici di questa legge:

     «È vietata la formazione di gruppi di più di 4 persone nella pubblica via e se questi non si sciolgono alla prima intimazione, sarà fatto uso immediato della forza (...) Perché i cittadini pacifici di Siviglia non si trovino nei guai si avverte che la forza pubblica ha ricevuto ordine di fare fuoco, senza preavviso alcuno contro gruppi di 4 o 5 persone nel caso che questi destino sospetti alla forza pubblica».

Il 22, quattro operai che venivano trasferiti da un carcere all’altro vennero assassinati mentre «tentavano si scappare». La repubblica aveva istituito la ley de fugas. Il 24 continua la lotta in tutta la provincia con morti, feriti e centinaia di arresti.

Il ministro degli interni si congratula con i socialisti per il loro contegno assunto in difesa dell’ordine repubblicano.

Agosto: lo sciopero dei metallurgici di Barcellona dura tutto il mese. Nella zona di Cordova i contadini occupano le terre, la Guardia Civil fa 5 morti. A settembre nuova occupazione delle terre, nuovo intervento dell’esercito, nuovi morti.

Settembre: sciopero generale a Saragozza, Granada, Santander, Salamanca, Cadice. Sciopero di ferrovieri andalusi. Il 4 settembre a Barcellona la polizia prese d’assalto la sede del sindacato edili uccidendo 8 operai. Un altro centinaio di operai furono arrestati.

Il 13 settembre “Prometeo” scriveva: «Lo stesso regime di Primo de Rivera comincia già ad avere rappresentato una “paterna dittatura” di fronte all’attuale governo repubblicano che ha sparso largamente il sangue proletario a Siviglia, a Malaga, a Huelva, a Cordova e che va saturando le 827 carceri modello». Quattro mesi di repubblica avevano infatti provocato più vittime proletarie di quanto non ne avesse perpetrate la monarchia in 50 anni, dittatura compresa. I diritti di riunione e di sciopero erano stati di fatto aboliti. Il problema agrario era stato affrontato in modo del tutto inadeguato, con limitate espropriazioni con indennizzo delle terre meno fertili.

La nostra Frazione, già in agosto aveva dovuto ancora una volta evidenziare la politica disastrosa degli anarco-sindacalisti specializzati nell’abbandonare a se stessi gli operai in rivolta. Bastava leggere di sfuggita “Solidaridad”, l’organo della CNT, per rendersi conto di quanto fossero vittime dell’illusione democratica. Un dirigente anarco-sindacalista, all’indomani degli avvenimenti di Siviglia e mentre il governo minacciava lo scioglimento della CNT, affermava: «A che scopo la CNT dovrebbe senza motivo alcuno voler l’abbattimento della Repubblica?». Un altro dirigente affermava: «La Repubblica è ciò che la nazione vuole e la CNT non si opporrà mai alla volontà popolare» [In corsivo]. E continuava: «Non c’è nessun sindacalista rivoluzionario, né alcun anarchico cosciente e responsabile delle sue azioni che affermi di essere in grado di stabilire qualcosa di superiore alla repubblica spagnola, perciò tanto meno può parlare di distruggerla. E noi dobbiamo onestamente dichiarare che né la CNT, né gli anarchici sono in grado di sostituire alla Repubblica alcunché che le sia superiore».

L’Opposizione di sinistra spagnola, da parte sua, non si faceva migliore onore poiché era del tutto priva di una tattica e di un programma. Essa si limitava a ripetere le direttive di Trotski. Di un Trotski che innanzi tutto consigliava prudenza:

     «La tribuna delle Cortes – scriveva – è necessaria ai comunisti per il collegamento delle masse. Nelle circostanze attuali non è la lotta per il potere che deve rappresentare lo scopo immediato dei comunisti spagnoli, bensì quella per la conquista delle masse (...) sulle basi della repubblica borghese e, in larga misura, con la parola d’ordine della democrazia.

«Alle Cortes non democratiche ed elette attraverso imbrogli» il proletariato, secondo Trotski avrebbe dovuto  «contrapporre delle Cortes veramente democratiche ed onestamente elette». Non bisognava dunque parlare né di rivoluzione né di dittatura del proletariato, ma «sviluppare una agitazione violenta sotto la parola d’ordine della democrazia la più decisa, la più estrema».

Questi erano i concetti che Trotski aveva diffusamente trattato nel suo libro: "La Rivoluzione spagnola e i pericoli che la minacciano", libro che era stato scritto per «chiarire con la recente esperienza l’atteggiamento marxista verso le parole d’ordine democratiche». Leggiamo alcuni passaggi del testo di Trotski:

     «La parola d’ordine della repubblica, naturalmente, è anche una parola d’ordine del proletariato. Ma per esso non si tratta solo di cambiare un re con un presidente, ma di una radicale epurazione di tutta la società dalle immondizie del feudalesimo (...) Le tendenze separatiste pongono alla rivoluzione il compito democratico della autodecisione nazionale (...) Il separatismo degli operai e dei contadini è l’involucro della loro indignazione sociale. (...) Si può sperare che la rivoluzione spagnola salti la fase del parlamentarismo? Teoricamente ciò non è escluso. Si può supporre che il movimento rivoluzionario raggiungerà a scadenza relativamente breve una tale forza da non lasciare alle classi dominanti né il tempo né il posto per il parlamentarismo. Tuttavia una prospettiva simile è poco probabile. Il proletariato spagnolo, nonostante la sua eccellente combattività, non ha ancora un partito rivoluzionario da esso riconosciuto, né l’esperienza di una organizzazione sovietica. Per di più le schiere comuniste, poco numerose, sono divise. Non c’è un programma d’azione chiaro e accettato da tutti. Nel frattempo la questione delle Cortes è già posta all’ordine del giorno. In queste condizioni si deve supporre che la rivoluzione sia costretta a passare attraverso una fase di parlamentarismo (...) Più la lotta dell’avanguardia proletaria per le parole d’ordine democratiche sarà audace, risoluta e spietata, più rapidamente conquisterà le masse e minerà le basi dei borghesi repubblicani e dei socialisti riformisti, e più sicuramente gli elementi migliori si schiereranno al nostro fianco, più rapidamente la repubblica democratica si identificherà nella coscienza delle masse con la repubblica operaia».

In Spagna, non esisteva un partito rivoluzionario, i comunisti (di tutte le tinte) erano pochissimi, erano divisi, non avevano un programma. Questo Trotski lo sa, ma non sembra preoccuparsene eccessivamente perché quello che non c’è oggi potrà esserci domani. Tutto sta nell’individuare la strada che porterà alla creazione del partito, al suo rafforzamento numerico, alla sua influenza sulla classe operaia e, soprattutto, alla elaborazione di un programma ed alla pratica di una tattica rivoluzionaria. Nemmeno questo preoccupa molto Trotski perché tutto sarebbe avvenuto durante il radicalizzarsi della lotta per le parole d’ordine... democratiche. Il mito democratico non soltanto sarebbe servito a scatenare la lotta di classe, ma perfino a far maturare la coscienza rivoluzionaria del partito.

Trotski accusava gli stalinisti di avere costruito il «mito della rivoluzione popolare neutra, al di sopra delle classi; e della dittatura democratica senza classi, senza sesso», mito che avrebbe preparato alla rivoluzione spagnola la sorte della rivoluzione cinese. Ma la tattica preconizzata da Trotski non poteva sortire effetti differenti solo perché ad una rivoluzione popolare neutra si contrapponeva la parola d’ordine della democrazia rivoluzionaria, mentre veniva messa al bando la lotta per la dittatura del proletariato.

     «Sarebbe dottrinarismo del tutto sterile e pietoso – continuava Trotski – contrapporre la parola d’ordine della dittatura del proletariato alla parola d’ordine e agli obiettivi della democrazia rivoluzionaria (repubblica, rivoluzione agraria, separazione della chiesa dallo Stato, confisca dei beni ecclesiastici, indipendenza nazionale, assemblea costituente rivoluzionaria). Prima di conquistare il potere le masse popolari debbono riunirsi attorno ad un partito rivoluzionario dirigente. Contemporaneamente bisogna avanzare fin d’ora rivendicazioni di carattere transitorio».

Parlare di dittatura del proletariato equivaleva quindi ad assumere posizioni "dottrinarie" e "settarie" e, di conseguenza, «l’Opposizione di sinistra internazionale (doveva) respingere ogni parvenza di responsabilità con questo infantile estremismo di sinistra», perché «entrare nella rivoluzione spagnola con il programma di Prometeo, è lo stesso che lanciarsi a nuotare mani legate dietro la schiena».

Il 9 dicembre fu approvata la nuova costituzione spagnola con 368 voti ai quali si aggiunsero le adesioni di 17 assenti. La maggioranza era di 236. La nuova costituzione, di larga apertura democratica e sociale, sanciva che la Spagna era, ora, una "Repubblica democratica dei lavoratori di tutte le classi". L’articolo 44 prevedeva espropriazioni per la pubblica utilità; la nazionalizzazione e la socializzazione della proprietà privata. L’articolo 46 prevedeva «la partecipazione degli operai nella direzione, amministrazione e profitti dell’impresa». L’articolo 47 parlava di «cooperative di produzione e consumo». Venne inoltre introdotto il divorzio, fu sancita la separazione tra Stato e Chiesa, furono espulsi i gesuiti. Che altro avrebbero potuto chiedere i lavoratori, operai e contadini?

La Repubblica spagnola si era dunque consolidata. Alla presidenza era stato innalzato Alcalà Zamora di professione avvocato, grande latifondista, cattolico militante e monarchico.

     «Alcalà Zamora che rappresentò gli interessi del clero, della banca, delle caste militari e delle camarille politiche sotto la monarchia, seguiterà a difenderle come Presidente della Repubblica e tutti i generali, i magistrati, i banchieri, tutti i latifondisti di Andalusia e di Castiglia, tutta la classe borghese in una parola, non si rammaricherà certo di questa scelta rievocando, tra l’altro, le sue non remote dimissioni per un voto della Costituente che riteneva lesivo ai privilegi secolari del clero» ("Prometeo" n. 66, 27 dicembre 1931).

Proprio nel momento in cui Zamora veniva innalzato sul campidoglio della Real-Repubblica spagnola, a Huesca, Gijòn ed in altre località del paese il piombo dei moschetti repubblicani faceva scorrere altro sangue proletario. Si chiudeva il 1931, anno 1° della repubblica spagnola. Il 31 dicembre nella provincia di Badajoz, in Estremadura, si ebbe un ulteriore scontro tra contadini e Guardia Civil. Nella battaglia morirono 4 miliziani. Appena un settimana dopo, il 6 gennaio, la Guardia Civil sparava a bruciapelo sui manifestanti di Logroño: 6 morti.

Scoppia l’insurrezione nella zona mineraria della Catalogna. I minatori si impadroniscono dei municipi, proclamano il comunismo liberatorio. Il ministro dell’interno ordina all’esercito di «schiacciare l’insurrezione». In base alla «Ley di defensa de la Repubblica» più di 100 anarco-sindacalisti vennero deportati in Guinea. Questa legge, votata nell’ottobre 1931, nel capitolo dedicato all’arbitraggio obbligatorio, stabiliva la messa fuori legge di quei sindacati che non dessero due giorni di preavviso sulla proclamazione degli scioperi (facciamo il raffronto con la nostra "autoregolamentazione"). La UGT prese posizione aperta contro gli scioperi "anti-repubblicani". La CNT riusciva a mantenere tutti gli scioperi sotto il proprio controllo limitandosi a non assumere la paternità di quelli che uscivano dai quadri della legalità.

Il 1° maggio tutte le manifestazioni furono vietate. La UGT invitò gli operai ad andare con le famiglie a fare merenda in campagna...

(continua)

 

 

 

 

 

 


Dall’Archivio della Sinistra


- Gli avvenimenti di Spagna  ("Prometeo", n. 47, 1 marzo 1931)

- L’esperienza spagnola e la lotta del proletariato italiano ("Prometeo", n. 29, 1 aprile 1930)

- La repubblica in Spagna ("Prometeo", n. 52, 17 maggio 1931)