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COMUNISMO
n. 36 - gennaio-agosto 1994
La “rivoluzione bianca” [RG57]
RIPRODUZIONE IN GRAFICI DEI PROSPETTI STATISTICI DEL “CORSO” (continua dal numero 34) [RG57] Parte seconda: la insuperabile crisi dell’agricoltura nell’economia capitalistica
INVOLUZIONE SECOLARE E CATASTROFE DELL’ECONOMIA CAPITALISTICA MONDIALE [RG58] - Decorso postbellico del capitalismo italico
SCHEMA PER UNA STORIA DEI SINDACATI IN GRAN BRETAGNA [RG57]: L’affermarsi del movimento sindacale - La prova della guerra per il Labour movement - Dalla depressione alla Secondo Guerra - Trade Unions, comunque e sempre collaborazione - Il riemergere della lotta di classe
Appunti per la storia della Sinistra:
     - Il decennio di preparazione della seconda guerra imperialista
Dall’archivio della Sinistra:
     - La reazione dorata (Prometeo, n. 55, 5 luglio 1931)
     - Guerra o rivoluzione (Da "Prometeo", n. 56 del 19 luglio 1931)

 

  

  


La “Rivoluzione bianca”

Stando a certi parametri sembra che in fondo al tunnel della crisi la borghesia intraveda la sua ripresa. Non staremo qui a discutere fino a che punto sia vero che un nuovo ciclo economico stia per aver inizio.

Il nostro partito segue da sempre i fenomeni ciclici della economia capitalistica, “con la precisione delle scienze naturali” né è aduso “drogare” i dati, come fanno opportunisti e democratici per mestiere e vocazione. Ma abbiamo da respingere nettamente la balla messa in giro dopo l’ultimo consulto dei G7 (i grandi della terra convenuti a Napoli “ripulita” per l’occasione…) secondo la quale il nuovo “ordine mondiale” è decollato per altro Progresso e Sviluppo dell’Umanità intera.

È opportuno tentare un breve e succinto bilancio dopo l’ultima grave crisi ancora in atto, definita anche dagli “esperti” del Capitale di varia caratura e corrente, “strutturale”, e non semplicemente “congiunturale”: prendiamo atto che si riconosce esplicitamente che il dato nuovo è che la ripresa non produce occupazione soddisfacente, e che dunque qualcosa non quadra.

Noi sappiamo qual è la ragione: essa consiste nella difficoltà, appunto “strutturale”, del Capitale, che più invecchia più si trova nella impossibilità di produrre tassi di plusvalore adeguati alle aspettative, a causa della sua composizione organica. Secondo le sue ferree leggi interne, più esso diventa “produttivo”, più si struttura in una composizione economico-sociale nella quale il capitale morto ha aggio su quello vivo. In parole povere, più il Capitale si sviluppa, più impedisce impiego di lavoro operaio, e cioè occupazione.

Nel quadro generale dell’economia mondiale ciò comporta che, mentre nelle periferie del mondo (non semplicemente Terzo e Quarto mondo, ma anche periferie metropolitane!) si massacrano popoli secondo le regole della “pulizia etnica”, che in realtà è massacro di proletari, in guerre nazionali e regolamenti di conti tra etnie, di fatto non c’è stata ancora una guerra generalizzata, capace di coinvolgere le metropoli.

Nessuno di noi si illude; il Capitale e le sue capitali politiche ed ideologiche si difendono come fortezze assediate nonostante i vari incontri GATT e le presunte aperture al commercio mondiale. Le guerre locali non sono sufficienti a determinare distruzioni in grado di garantire riprese cicliche di lungo periodo. La borghesia vive come una bestia ferita un’agonia lunga e penosa, trincerandosi dietro macerie e stragi. Questo è il punto cruciale.

Dalle considerazioni fondamentalmente economiche e strutturali, com’è nel nostro metodo, dobbiamo passare ad un tentativo di bilancio positivo. Dopo che a livello storico la Rivoluzione proletaria mondiale è stata battuta sul campo di battaglia negli anni ’20 e tradita nel cuore stesso del suo partito internazionale dagli staliniani, democratici ante litteram che trasferirono di forza nel modulo partitico la peste democratica, governando come “maggioranza” contro il programma comunista, si è finalmente consumata l’epoca della controrivoluzione, formalmente intesa, con l’esplicito kara-kiri degli ex partiti opportunisti, i quali hanno rigettato ogni riferimento al socialismo, tirandosi dietro, come avvenne col fascismo, anche i presunti vincitori morali alla Craxi e compari con il loro modello socialdemocratico, entrato in seria crisi sia in Francia, col declino di Mitterrand, sia con la crisi dello Stato sociale in tutti gli altri paesi.

Gli “zoccoli duri” residui non sono che un’accozzaglia anche peggiore e melmosa che, se ha mantenuto il nome di “comunista”, lo ha fatto per fungere da specchietto per le allodole, sempre meno disposte a cadere nella rete.

Ed allora possiamo azzardare a dire che un’epoca si è conclusa: a dichiararsi comunista rivoluzionario è rimasto giustamente solo il Partito storico e formale, che corrisponde al nostro, l’unico che dichiara esplicitamente in blocco le ragioni della Rivoluzione Comunista.

Non si fidi dunque il proletariato, in ginocchio come non mai, della “rivoluzione bianca” che tutti salutano nell’Italietta dei voltagabbana e dei trasformisti. Sempre, “rivoluzione bianca” ha significato per la classe operaia sangue rosso versato sull’altare della produzione nazionale o poi della Patria in armi.

Il proletariato non ha da sperare che sul sacrificio della “rivoluzione rossa” che tutti credono esorcizzata per sempre, e che invece scorre sotto gli occhi di chi sa vederla. È il sangue dei proletari di Bosnia e del Rwanda, di tutte quelle periferie del mondo che i maharajah dalle ville con maniglie d’oro non vedono perché non vogliono vederlo. Si tratta di dar corpo a questa realtà senza costrutto, di orientarla e farla convergere nell’abolizione del mercato e dello scandalo del Capitale. Senza di ciò continuerà a scorrere senza che le classi subalterne vedano sorgere la loro emancipazione definitiva e l’Uomo la sua degna storia.

 

 

 

 

  


Riproduzione in grafici dei prospetti statistici del “Corso”
(continua dal numero 34)

Parte seconda: la insuperabile crisi dell’agricoltura nella economia capitalistica


Grafico n. 1 – Da Paragrafo 82, “Terra e popolazione”, pag. 208

Questo grafico desunto dal testo del paragrafo 82 sulle condizioni delle aziende agricole americane evidenzia l’accresciuta produttività del lavoro umano negli USA.

Sull’orizzontale, asse dei tempi, si può ben vedere come per quasi un secolo (1820-1911) la produzione di un singolo agricoltore serviva a nutrire un numero relativamente basso di uomini. Si parte infatti da 4,6 per agricoltore nel 1820, ovvero consumo per il contadino più la sua famiglia che lo aiuta, ed una quota minore ma sempre in crescita per il mercato: ovvero una situazione tipica di una conduzione agricola arretrata.

Solo nel secondo dopoguerra la curva si impenna decisamente per giungere nel 1980 al rapporto di 61,4 uomini nutriti dalla produzione di un singolo agricoltore, tipico risultato di un’avvenuta industrializzazione dell’agricoltura.

Considerando che i contadini sono diminuiti sia in termini relativi sia in numero assoluto rispetto agli altri settori; che per effetto della concentrazione in 25 anni, dal 1955 al 1980, il numero delle aziende è sceso del 34% mentre l’estensione è salita del 24% fino alla media di 174 ha, si può vedere quanto sia avanzata la produzione capitalistica americana in agricoltura.

Essa però produce esclusivamente merci da portare sul mercato per essere scambiate con denaro, perché si rinnovi di continuo il ciclo capitalistico D-M-D. Anche negli States mai la merce sfamerà l’uomo e mal ne sopportano le conseguenze i milioni di proletari americani.


Grafico n. 2 – Produzione pro-capite negli USA, Prospetto XVI, pag. 209

Questo grafico è già stato stampato col n. 16 nella rivista n. 33. Qui lo riproduciamo con una leggera modifica nella scala della spezzata P. La linea A, rispetto a quella del grafico precedente, mette in luce che come massa di prodotto agricolo pro-capite vi è stato un aumento solo del 29% in 66 anni e tutti i vantaggi della vistosa industrializzazione delle campagne, facilmente realizzabili vista l’impennata della I, si sono fermati, come non poteva essere diversamente, a Wall Street.

Il numero dei trattori parte da un modesto 1.000 nel 1910; nel 1933 è già di 1 milione, per stagnare al livello di 4,8 negli anni ’80. La cifra assume un significato più marcato se si considera inoltre che gli attuali trattori, rispetto a quelli di inizio secolo, sviluppano una potenza e funzione notevolmente più elevate.


Grafico n. 3 –  Da Tabella 7/A, pag. 228. Ripartizione dei paesi per i vari scaglioni di reddito pro-capite riferito all’anno 1948 in base a 4 diversi tipi di economia. Dati dell’ultima e terzultima riga.

Sull’orizzontale è indicata la consistenza della Popolazione di ciascun Gruppo di Paesi in % sul totale; sulla verticale c’è l’indice (riga 4 = 3/2) del Reddito pro-capite.

La tabella è di fonte ONU/USA e, nonostante le ovvie riserve di merito sui criteri e i parametri adottati espressi nel testo al paragrafo 94 (pag. 222), evidenzia il profondo divario tra il Gruppo I, definito a “prevalente economia di sussistenza”, ed il Gruppo II, a “primaria economia agricola”, e gli altri due.

I primi due insieme rappresentano il 68% della popolazione mondiale e si devono accontentare del 23,6% del reddito totale. Se potessimo introdurre anche le divisioni di classe si evidenzierebbe ancor meglio la catastrofica situazione delle classi oppresse.

Il Gruppo II, cioè dei paesi ad “economia agricola industriale”, ed il Gruppo IV, a “primaria economia industriale”, rappresentano insieme il 32% del totale della popolazione terrestre e si spartiscono, pur anche qui con le divisioni di classe, il 76% della ricchezza.


Grafico n. 4 – Da Tabella 7/8, pag. 230. Suddivisione dei paesi secondo 5 fasce di Rata della popolazione attiva in agricoltura. Dati dell’ultima e terzultima riga in %.

I quattro Gruppi di Paesi della tabella 7/8 sono ricavati con criteri diversi da quelli della tabella precedente: qui si utilizza il parametro della Quota di popolazione attiva in agricoltura, rispetto la Quota di PNL pro-capite in dollari USA del 1983 del Grafico 3.

Sull’orizzontale del grafico sono riportate le quote % della popolazione mentre sulla verticale c’è l’indice del PNL pro-capite al 1983.

Il Gruppo A, quello dei Paesi con una quota di popolazione agricola attiva oltre il 50%, comprende il 60% della popolazione mondiale e deve campare, in media, con solo 320 dollari USA 1983 all’anno, cioè nemmeno uno al giorno e 35 volte di meno di quelli del Gruppo D, quello dei Paesi con una quota di attivi in agricoltura inferiore al 10%.

Il grafico mostra con chiarezza che i primi due gruppi (A+B), cioè con popolazione attiva in agricoltura superiore al 25%, rappresentano insieme il 75% della popolazione terrestre e si devono ripartire il 18% del PNL totale. Al contrario i due gruppi (C+D), quello dei Paesdi con una quota di attivi in agricoltura inferiore al 25%, sono il 26% dei terrestri e si prendono l’81% della torta.


Grafico n. 5 – Tabella 7/C, pag. 232. Divario schiacciante nel PNL totale e pro-capite, dei 7 principali paesi rispetto agli 89 agricoli nel 1983. Dati % della seconda e terza riga.

Sull’orizzontale è indicata la quota %, arrotondata, della popolazione del Paesi sul totale mondiale, mentre sulla verticale c’è un indice del PNL medio pro-capite.

Il grafico mostra il divario esistente tra la banda dei “7 Grandi” presi nel loro insieme e separatamente e 89 paesi agricoli.

Nel loro insieme i 7 paesi più industrializzati, con il 18% della popolazione, si accaparrano una quota 14 volte superiore a quella dei restanti 89 paesi, che però come popolazione sono 4 volte più abitati.

Il raffronto con gli USA evidenzia con chiarezza il ruolo ed il bottino del paese capobanda; il 5% della popolazione mondiale si trattiene una quota del PNL pro-capite 23 volte più grande della media dei paesi più poveri. Questa è la dovuta remunerazione per l’assunto neo ruolo di poliziotto unico del pianeta e per questo interverrà ovunque come e quando lo riterrà opportuno perché ovunque sono in gioco vitali interessi per gli USA.

Le prossime statistiche su archi di tempo significativi indicheranno le modifiche dei rapporti relativi fra i 7 grandi dovuti alla nuova consistenza economica ed umana della Germania unificata parimenti alla caduta della CSI, ex-URSS, dove il proletariato riscoprirà suo malgrado il reale rapporto tra fame vera e fasulla democrazia.

Un consistente ritocco alla suddivisione del PIL totale verrà effettuato con i recenti accordi sul GATT, cioè sulla liberalizzazione del commercio mondiale in merito a tariffe e barriere doganali, che produrranno secondo una stima OCSE ("Sole 24" del 10 dicembre 1993) un guadagno annuo di 213 miliardi di dollari nel prossimo decennio. Dalla tabella dell’OCSE ne ricaviamo una graduatoria, scontata in partenza: l’Unione Europea annualmente beneficerà di un guadagno di 80,7 miliardi, pari al +37,9% dell’intera torta; segue la Cina con 37 (+17,4%, un vero “Grande Balzo in avanti” del giovane e rampante capitalismo asiatico); al terzo posto vengono i Paesi asiatici ad alto reddito con 20,6 miliardi (+9,7%); seguono gli USA con 18,8 (+8,8%); l’EFTA con 12,8 (+6% per Austria, Inghilterra, Danimarca, Norvegia, Svizzera, Portogallo e Svezia). Seguono India (4,6 miliardi), resto dell’America Latina (4,4), Brasile (3,4), Regione del Golfo (3,1), Canada e Giappone (2,5), Europa dell’Est (1,4), Australia (1,1) ed ex URSS (0,8).

Ma se alcuni paesi incrementano il loro guadagno, altri lo riducono ed in particolare vi troviamo: Indonesia (-1,9 miliardi), Mediterraneo (-1,6), Paesi del Maghreb e resto dell’Africa (0,6) e Sud Africa (0,4). Questo è in cifre concrete il generoso contributo dei paesi più ricchi ai paesi in via di sviluppo.


Grafico n. 6 – Da prospetto XVII, pag. 246. Popolazione umana e bovini negli USA.

Sull’orizzontale la successione degli anni, colonna 1 del prospetto, sulla verticale la scala in milioni per gli uomini e per i bovini.

La linea P, della colonna 2, mostra l’aumento di 4,5 volte della popolazione americana mentre la popolazione agricola attiva, linea A da colonna 4, rappresenta il dimezzarsi dei farmers nell’arco di un secolo. Questa caduta è dovuta, oltre all’industrializzazione dell’agricoltura, alla scarsa remunerazione dei prodotti agricoli i cui prezzi sono tenuti bassi, da complessi meccanismi legislativi di calcolo e di compensazione, rispetto un periodo di riferimento 1910-14. Una conseguenza è che il salario medio agrario è 1/3 di quello medio nazionale; inoltre immigrati e chicanos, i clandestini messicani che nottetempo varcano il confine in cerca di lavori stagionali, forniscono la necessaria forza lavoro a prezzi stracciati, sotto il minimo sindacale, in vaste aree agricole.

Indubbiamente l’agricoltura americana potrebbe produrre molto di più ma questo determinerebbe per sovrapproduzione un crollo dei già bassi prezzi con il conseguente fallimento di molte aziende agricole; quindi: profitti da una parte, salari da fame dall’altra.

La spezzata B, da colonna 5, comprende tutti i bovini, da lavoro, da carne e da latte. All’inizio della rilevazione si ha una disponibilità pro-capite di bovini che parte da 0,89 per scendere a 0,49. In altre parole meno bistecche ed hamburger, anche se si considera che la quota parte degli animali da lavoro, che comunque vengono mangiati, è notevolmente caduta.

Anche l’andamento di V, vacche da latte da colonna 7, dopo un periodo di crescita con un picco in corrispondenza della Seconda Guerra mondiale, cala di 1 milione di capi in un secolo. È evidente che anche qui, nonostante un miglioramento del rendimento zootecnico, risulta che vi è meno latte e derivati per una popolazione che è quadruplicata. Complessivamente si vede chiaramente la giustezza della tesi di Marx sulla regressione circa la dotazione di derrate e consumi di origine agraria nel modo di produzione capitalistico.

 
Grafico n. 7
– Da prospetto XVIII, col. 26, pag. 255. Produzione agricola per attivo negli USA.

Sulla verticale la scala degli indici e sull’orizzontale la successione temporale dal 1870 al 1979. Il grafico si interrompe dal 1901 al 1911 per la mancanza dei dati di alcune voci della produzione agricola e zootecnica. Nel prospetto sono assenti i dati relativi alla pesca ed agli allevamenti ittici.

Occorre ricordare che qui si tratta di produzione per attivo e non di consumo: questi vistosi ritmi di crescita, l’incremento dalla fine della seconda guerra mondiale è del +423%, non devono ingannarci, essi stanno ad indicare, come già prima accennato per il grafico 1, l’avvenuta industrializzazione dell’agricoltura e non in assoluto una maggiore disponibilità pro-capite di prodotti come ben si può vederne il sensibile calo dalle colonne delle patate (10), cotone (14), latte (18) e burro (20).

Mutate abitudini o mode alimentari o insopprimibili conseguenze della produzione capitalistica? In merito noi non abbiamo dubbi.


Grafico n. 8 – Da prospetto XIX, pag. 267. Consumi alimentari negli USA, in Kg. pro-capite all’anno.

Dopo esserci occupati della produzione ora vediamo il consumo medio pro-capite. Sull’orizzontale c’è la successione dagli anni 1907, in cui compaiono tutti i dati delle colonne, fino al 1980. Al solito le tabelle non riportano i consumi di pesce, frutta ed ortaggi. Il grafico mostra la sensibile diminuzione dei cereali per farine alimentari, nonostante una marcata ripresa dopo gli anni ’70, patate, latte e burro. La voce grassi animali controbilancia abbondantemente la caduta del consumo di burro. Nulla è detto sui grassi di origine vegetale (olio di oliva, di semi e margarina).

L’aumento è sensibile per il consumo di carne e formaggi. Nel complesso la disponibilità di calorie giornaliera (col. 10) di oltre 3.500 Cal. è elevata rispetto al fabbisogno di un lavoratore sedentario, appena sufficiente per un moderato lavoro manuale ma insufficiente per i lavori più pesanti. Solo per i fessi queste tabelle dicono che negli USA non si patisce la fame e che è notevolmente migliorato il “tenore e la qualità della vita”. Per noi è il mal combinato ed ipercolesterolico rancio dell’esercito capitalista più forte del mondo ed anche qui è confermata la combinazione: chi più fatica, meno ha da mangiare.


Grafico n. 9 – Da tabella 8, pag. 271. Divario tra i terreni destinati all’alimentazione e le bocche da sfamare (colonna Stati Uniti, 1850 = 100)

Da questa tabella per la maggior quantità ed uniformità di dati possiamo evidenziare la forbice tra la crescita della popolazione (P), che in un secolo come indice cresce di 7 volte, mentre le terre arabili (T) crescono con minore forza fino al 1933, «quando gli effetti della grande crisi erano stati di ributtare una parte della popolazione urbana verso la terra, da cui poi la bestiale organizzazione sociale industriale-mercantile si è adoperata a cacciarla via» (pag. 270).

Dopo il massimo 373 di quella data l’indice delle terre arabili si stabilizza ad una quota di poco inferiore pari a 367.


Grafico n. 10 – Da tabella 9, pag. 273. Ripartizione percentuale del territorio nel periodo 1956-1986.

La tabella presente prende in esame cinque principali paesi capitalistici: nell’ordine Inghilterra (UK); Francia (F); Germania (D); Stati Uniti (USA) e Italia (I).

Posto 100 il territorio di ciascun paese i dati indicano le quote percentuali dei Terreni Coltivati, ovvero i seminativi, gli alberati da frutto e quei prati temporanei che si alternano con le semine in date rotazioni, (T. C. primo settore a tratteggio orizzontale); dei Prati e Pascoli (P. P. secondo settore); della Foresta e boschi (F. B. terzo settore) e dei Terreni Incolti (T. I. quarto settore a tratteggio verticale). La riga superiore di ogni fascia di ciascun paese riguarda la ripartizione al 1966, mentre la riga inferiore riporta i dati del 1986.

Complessivamente in tutti i paesi nell’arco di 30 anni si sono ridotti i terreni coltivati e, tranne la Francia, sono aumentati i terreni incolti, contemporaneamente al sensibile aumento della popolazione. Nell’ordine l’incremento demografico percentuale (seconda riga in tabella): USA +43%, Francia +26,3: Germania +20,2; Italia +18,1 e Inghilterra +10,4. Il Nuovo Mondo rimane ancora paese per consistenti immigrazioni anche se “controllate”.

Dal punto di vista della quota percentuale delle terre coltivate al 1986 la sequenza diviene: Italia 48,6; Francia 34,8; Germania 30,0; Inghilterra 28,9 e USA 20,2. L’ordine è quello che va dalla maggiore alla minor miseria e per l’Europa dal minore al maggiore e più vecchio industrialismo borghese.

Il 54,1% del territorio USA è occupato da pascoli e boschi; considerando la sua favorevole escursione in latitudine ed il basso 20,2% dei terreni coltivati, il Nuovo Mondo si rivela tutt’ora un paese a scarso utilizzo delle proprie risorse agricole.

Conseguentemente il suo poco invidiabile primato sta nel fatto che è l’unico dei 5 paesi in questione in cui la percentuale dei terreni incolti è superiore a quello dei terreni coltivati (25,7 contro 20,2).

Nella vecchia Europa questo rapporto si inverte e ovunque le terre coltivate superano quelle incolte, Nell’ordine al 1986: Italia (TC/TI) = 3,82; Francia = 2,2; Inghilterra = 1,97; Germania = 1,35.


Grafici n. 11-12-13-14 – Da prospetto XX B, pag. 280. Produzione in Kg. pro-capite in Inghilterra (UK), Francia (F), Germania (D), Italia (I) di cereali, patate, carne e latte (1910-1984).

Nei grafici dei cereali e delle patate l’andamento di UK, F e D presenta il tratto 1913-1929 puntinato per l’assenza dei dati relativi. Il ruolo predominante della Francia nella produzione pro-capite dei cereali, latte e carne è in parte dovuto, nonostante una consistente conduzione agricola di tipo familiare, anche alla maggiore estensione territoriale e minor popolazione (Tab. 9 e Grafico n. 10).

Nella produzione dei cereali il vistoso crollo di F, D e I nel periodo bellico non è avvenuto in UK dove invece l’incremento è stato costante dal 1938 e più decisamente dal 1980. In tutti i settori esaminati l’Italia occupa complessivamente l’ultimo posto nonostante la maggior quota percentuale dei territori coltivati (Tab. 9, Grafico 10) in cui però vi sono estese colture specifiche di tipo mediterraneo: agrumi, olive, vino, ortaggi. Rispetto agli USA (prospetto XVII pag. 251) nel 1980 la produzione cerealicola fu di 1.080 Kg. pro-capite ben superiore a tutti i paesi europei.

La produzione di patate registra una sensibile caduta per F e D ed in minor misura anche per I, storicamente bassa; UK complessivamente cresce. Anche negli USA c’è stato il progressivo abbandono di questa coltura fino al valore di 60 Kg., superiore solo all’Italia. La produzione di carne in I e UK è della metà circa di F e D, simile a quella USA (78 Kg.). La produzione di latte presenta la supremazia di F e D, mentre I è su valori decisamente bassi. Quella americana (255 Kg.) è di poco inferiore a quella inglese cioè su valori medio-bassi.

Dal punto di vista dell’auto-approvvigionamento agricolo, utilizzando i dati del bollettino Eurostat 1992 sullo Spazio Economico Europeo (SEE), possiamo costruire la seguente tabella. Pur non conoscendo i parametri della sua formazione si vede con chiarezza, rispetto ai prodotti agricoli ad alto contenuto energetico (cereali, carni), la debolezza di I rispetto l’autosufficienza di F e D, seguita con un piccolo scarto da UK.

Grado di approvvigionamento % al 1989 UK F D I
Cereali 106 221 106 78
Carni 83 99 88 72
Patate 90 89 92 93
Frutta fresca. (agrumi esclusi) 19 86 68 116
Ortaggi 88 89 37 112
Vino (uva) 0 115 88 135

Anche rispetto le scorte alimentari, sia nazionali sia comunitarie, da utilizzarsi nei periodi di crisi ed emergenze, balza evidente una desolante globale debolezza che contrasta enormemente con l’apparente opulenza (N.B. l’argomento sarà esposto successivamente).


Grafici n. 15-16-17-18
– Da prospetto XXI, pag. 288. Consumi alimentari (Kg. pro-capite) di Inghilterra (UK), Francia (F), Germania (D) e Italia (I) nel periodo 1938-1986

I grafici del consumo pro-capite delle patate e della carne sono estese al 1989 utilizzando i dati forniti da una tabella del predetto bollettino Eurostat, che riportiamo più in basso. I dati relativi al consumo di grano, che comunque confermano i rapporti relativi tra i paesi, non possono essere utilizzati in quanto nel nostro prospetto la voce cereali comprende: Frumento + Granturco + Risone + Segale + Orzo.

Rispetto ai grafici si nota come i consumi di carne, dopo il crollo del periodo bellico hanno avuto incrementi vistosi per I (di 4 volte in 51 anni), che partiva però da un basso livello, e per F e D che partivano già da un livello più alto. F mantiene il primato mentre UK aumenta solo di poco e solo fino al 1979 dopo di che lentamente diminuisce. Dal 1986 diminuisce anche D.

Dal raffronto con gli altri si vede il consumo di latte diminuire insieme a patate e cereali. La crisi capitalistica con il suo progressivo immiserimento si fa vedere nei grafici e sentire negli stomaci. Gli USA (prospetto XIX-1980) con 82 Kg. di carne pro-capite si collocano tra UK e I.

Il consumo di latte è comunque alto in UK, nonostante la flessione del 1955, superiore anche agli USA (113 Kg.) e presenta un leggero calo in I che però raddoppia rispetto l’intero periodo allineandosi grosso modo alla media. L’incremento di F è modesto mentre D complessivamente diminuisce.

Le patate il cui consumo è sempre basso in I (1938 = 1986) crescono solo in UK; praticamente si dimezzano in F e D. Gli USA con 55 Kg. si collocano in basso tra I e D.

I cereali in I sono storicamente in diminuzione, anche se relativamente alti, mentre per gli altri paesi dal ’79 c’è un leggero recupero. Gli USA con 91 Kg. si collocano di poco sopra F e UK.

Gli altri consumi italiani, ora dimezzati, di cereali per pane e pasta, essendo in progressivo disuso la polenta, non indicano una scelta di “dieta mediterranea”, ma un ridimensionamento da una monoalimentazione fino alla prima parte del ‘900, con diffusione della pellagra, malattia sinonimo di miseria e scarsezza di varietà alimentare.

Consumi al 1989 (in Kg. pro-capite) UK F D I
Grano 66 69 53 105
Patate 109 71 11 38
Carne 74 110 100 88
Prodotti lattiero-caseari 128 102 92 75
Ortaggi 65 124 83 167
Vino (Uva) 13 72 26 63

I moderni salariati, condannati ai lavori forzati a vita, per poter essere proficuamente sfruttati senza detrimento per la riproduzione della specie devono essere minimamente alimentati. Questo spiega le mantenute condizioni generali di vita, costate comunque lotte durissime giacché al proletariato il capitale non regala nulla. Il salario non si eleva mai troppo dal limite della sopravvivenza, che comprende abitazioni, vestiario, alfabetizzazione e le micidiali “comodità moderne”. Tutto strapagato con un gigantesco sfruttamento del lavoro ed un maggior furto di tempo di lavoro non retribuito, essendo notevolmente diminuito il tempo di lavoro necessario a riprodurre il valore dei mezzi di sostentamento dei salariati.

 

Grafici 19-20 – Da prospetto XXIII, pag. 312, Inghilterra, Andamento storico dell’agricoltura.

Il primo grafico: Popolazione in Inghilterra (UK) e nell’Eire (IRL) è stato completato con i dati del 1990 presi dal bollettino Eurostat. Il Regno Unito (UK) fino al 1922, anno di indipendenza dell’Eire con il relativo distacco statistico, comprende i territori dell’Inghilterra + Galles + Scozia (colonne 4 = 2 + 3) più tutta l’Irlanda (col. 7 = 5 + 6), cioè l’Irlanda del Nord (col. 5) e l’Eire (col. 6). L’andamento di UK è praticamente costante nell’arco dei 144 anni della tabella e raddoppia abbondantemente; Inghilterra + Galles, la parte più popolosa ed industrializzata, cresce in umani del 314% mentre la Scozia (col. 3), anch’essa poco abitata, comunque raddoppia di numero. Tutto il contrario nell’Irlanda divenuta già da tempo, dice Marx nel 1867, un semplice distretto agricolo dell’Inghilterra. L’Irlanda del Nord, parte integrante del Regno Unito, a tutt’oggi supera di poco la cifra del 1851 cioè dopo la tremenda carestia del ’45. L’Eire si dimezza, anche per consistenti emigrazioni, fino al minimo del 1921 dopo di che riprende leggermente rimanendo comunque al livello 1881.

Secondo la teoria di Malthus, per cui l’equilibrio tra beni prodotti e consumi poteva essere assicurato soltanto tramite lo spopolamento, e si sa le moderne guerre mondiali si fanno anche per questo scopo, l’Irlanda doveva la sua secolare miseria alla sua popolazione troppo numerosa. Ma i veri destini dell’Irlanda così sono stati descritti da Marx (nel testo a pag. 203): «i grossi proprietari non mancheranno di avvedersi ben presto che con 3,5 milioni di abitanti l’Irlanda rimane sempre miserabile, e miserabile perché sovrappopolata! Bisognerà quindi spopolarla ancora, affinché essa compia il suo vero destino, che è formare un immenso pascolo, una prateria abbastanza vasta, per satollare la fame divoratrice dei suoi vampiri inglesi».

Tant’è che a tutt’oggi, con l’81,4% dell’intero territorio e una densità pari a 50 abitanti/Km2 rispetto la media europea di 145 ab./Km2, la verde Irlanda rimane un paese povero. Il bollettino Eurostat ci dice di quanto per il 1990: il PIL pro-capite in SPA, ovvero un valore espresso in potere d’acquisto costante basato sull’ECU del 1975 e aggiornato annualmente in conformità degli indici dei prezzi CE medi per il PIL, è di 12,819 cioè solo superiore alla Grecia (9,850) e Portogallo (10,364) e decisamente basso rispetto la media europea. L’Italia arriva a 19,187 e l’Inghilterra a 19,726. Il reddito disponibile netto (SPA/abitante) peggiora ulteriormente il quadro e con il valore di 9,441 supera solo la Grecia (8,882) e scende sotto il Portogallo (9,587), l’Italia (15,517) e l’Inghilterra (16,175).

Dal punto di vista alimentare ciò si traduce nel primato nel consumo di patate (IRL = 149 Kg. pro-capite; UK = 109 Kg. e I = 38 Kg.) di cui sono autosufficienti solo per il 77%. Nonostante siano grandi produttori di carni, con un grado di auto-approvvigionamento del 275%, ne consumano 89 Kg., come l’Italia, cioè sotto la media CEE di 92 Kg. Il resto è esportato.

Inutile interrogare i neo computerizzati pseudo-economisti adatti solo per i demenziali talk show televisivi sulla giustezza della teoria di Marx o di Malthus; tempo perso e troppo disgusto.

Il Grafico 20 (col. 10-11-12) riporta l’andamento della percentuale (%) degli occupati nell’agricoltura che fa «risaltare il mai inficiato primato inglese con il più basso numero percentuale di occupati (D.A.) e salariati (S) nel settore agricolo, rispetto a qualsiasi altro Paese del mondo, che qualitativamente lo qualifica come il più avanzato capitalisticamente; e quindi il più maturo per il passaggio ad un superiore modo di produzione. Disgraziatamente a questa fase economica non corrisponde tuttora l’adeguata e corrispondente fase politica e sociale. In 144 anni gli occupati agricoli sono passati dal 28,1% del 1841 al 2,5% del 1985, con poco più di 600.000 unità di cui la metà di puri salariati» (pag. 314).

 (continua)

 

 

 

 

 

 


Involuzione secolare e catastrofe dell’economia capitalistica mondiale

Fedeli al nostro metodo, diamo una scorsa ai dati relativi alla produzione industriale degli ultimi anni per i 7 principali Paesi e per il Mondo. Lo facciamo inserendo questi dati in alcuni nostri ormai classici Prospetti, al fine di avere la conferma della validità dottrinale per cui a suo tempo vennero elaborati. La loro materiale stesura è da ricondurre al quasi mezzo secolo fa ma che affonda negli anni in cui la scienza del succedersi rivoluzionario dei modi di produzione fu partorita dalla storia della lotta delle classi; all’incirca da un secolo e mezzo.

Il perdurare della terza ondata storica controrivoluzionaria di degenerazione opportunista, delineatasi a partire dal 1926, anno in cui la Sinistra Comunista soprattutto italiana vide fallire l’ultimo suo tentativo di impedire alla Internazionale Comunista di snaturarsi deviando dalla linea rivoluzionaria classista, solo agli inizi degli anni ’50 consentì ai pochi gruppi superstiti di ricostituire il Partito, la cui attività principale non poteva che essere il ristabilimento della teoria del comunismo marxista e la riaffermazione della piena validità delle sue tesi fondamentali.

Gli apparati economico-statistici, di cui è ampiamente dotato il mondo capitalistico, ci forniscono un’ampia gamma di serie di dati, permettendoci, per mezzo di numeri e di linee, di mettere sotto forma di Prospetti e di Grafici gli enunciati delle leggi della scienza economica marxista che evidenziano, tutti, il crollo e la morte del sistema produttivo basato sul capitale.

Tabella 1
PROSPETTO AL MODO
DEGLI ECONOMISTI BORGHESI
Graduatoria dei 7 principali Paesi
in base all’incremento annuo medio
della produzione Industriale
  1980-1991 1980-1985 1985-1991
1  J 3.8% URSS 3.5% J 4.1%
2  USA 2.2%  J 3.4% D 3.2%
3  D 2.1%  USA 2.3% I 2.4%
4  URSS 2.0%  UK 1.6% USA 2.1%
5  UK 1.3%  D 0.8% F 2.0%
6  RF 1.2%  F 0.2% UK 1.1%
7  I 1.0%  I -0.6% URSS 0.7%
Mondo 2.1% 1.3% 2.8%

Passiamo ai dati. Nella Tabella 1abbiamo operato, nella scelta dei periodi come gli economisti borghesi, prendendo anni a caso di inizio e di fine del periodo, uguali per tutti i Paesi e per il Mondo; mentre quegli anni hanno un peso diverso per ognuno dei singoli Paesi e per il Mondo. L’analisi perciò si mantiene alla superficie dei fenomeni. Infatti regna il disordine degli incrementi, le graduatorie dei Paesi cambiano a caso, non emerge una regola comune. È esclusa la scienza dei fenomeni economici, hanno validità solo considerazioni nell’immediato (l’immediatismo della borghesia).

Dal 1980 al 1991, in 11 anni, la graduatoria dei 7 principali Paesi e del Mondo, per quanto riguarda lo sviluppo della produzione industriale, sotto la forma di incremento annuo medio, mostra il Giappone primeggiare con un ritmo più veloce del 50% sul terzetto di Stati Uniti, Germania e Unione Sovietica e triplo sul terzetto di Inghilterra, Francia e Italia. Il dato del Mondo, che si situa nelle prime posizioni, ci dice che il resto del Mondo ha marciato più spedito dei principali Paesi.

L’utile confronto tra i primi 5 anni, dal 1980 al 1985, e gli ultimi 6, dal 1985 al 1991, evidenzia che l’Unione Sovietica passa dal 1° all’ultimo posto con una perdita dell’80%, il prezzo pagato per la caduta dell’impero. L’Inghilterra e gli Stati Uniti, il vecchio e il nuovo padrone del mondo, scendono di una e di due posizioni. Il Giappone, la Germania, la Francia e l’Italia migliorano. L’Italia procede meglio di tutti perché parte da un dato negativo. Il mondo raddoppia risalendo dalla 5ª alla 3ª posizione; a riprova che la causa della crisi va sempre ricercata nell’ambito dei principali Paesi.

Ma a noi interessa non solo mostrare le diverse velocità di crescita, che vanno tenute presenti nell’analisi dei fenomeni economici, quanto far emergere il connotato fondamentale che li accomuna tutti, cioè che, quale che sia il percorso, più o meno accidentato, di salite e di discese, si tratta di una corsa in cui più i nostri 7 assi col seguito di gregari si avvicinano al traguardo, più precipitano verso il crollo e la morte.

Per dimostrare questo inseriamo questi dati nel nostro Prospetto I (v. “Il Corso”, da pag. 26), evidenziamo i vertici dei massimi crescenti e, sulla loro base, aggiorniamo i Prospetti III (v. “Il Corso”, da pag. 46), uno per ognuno dei principali Paesi, poi ne estraiamo le serie che ne risultano dal 1913 al 1991 e stendiamo il Prospetto III bis che, in forma dinamica e vitale, nell’arco di un periodo all’incirca di 80 anni, fa risaltare la decrescenza storica inesorabile degli incrementi della produzione industriale.

Saltano agli occhi gli anni qualitativamente uguali per tutti i 7 Paesi e per il Mondo: il 1913, il 1929 (solo per la Francia il 1930; ed inclusa la Unione Sovietica in corsa verso il pieno sbocco capitalistico), il 1973/1974, il 1979 (solo per l’Italia il 1980; per Giappone ed Unione Sovietica i massimi di quegli anni non accusavano soste) e il 1989/1990/1991. In questi 5 anni di massimo si misura dei 7 principali Paesi e del Mondo la storia economica e di riflesso la loro politica, fino agli eventi bellici più o meno generalizzati. Ebbene, preso il periodo quasi ottantennale tra il comune a tutti i vertici massimo crescente del 1913 e l’ultimo, sempre crescente, venuto a scadenza per tutti i Paesi tra il 1989 e il 1991, mettiamo a confronto il periodo dei primi 60 anni con quello del restante ventennio, grosso modo. Premessa la scaletta per l’intero periodo, seguono le due parziali in Tabella 2.

Tabella 2
PROSPETTO AL MODO DELLA
SCIENZA ECONOMICA MARXISTA
Graduatoria dei 7 principali Paesi
in base all’incremento annuo medio
della produzione industriale nei
periodi delimitati da massimi crescenti

  PAESI 1913-1991 1° Periodo 2° Periodo
Anni % Anni % Anni %
1 UK  76 1.7 60 1.9 16 1.1
2 RF 77 2.1 61 2.3 16 1.3
3 D 78 2.5 60 2.7 18 1.8
4 USA 77 3.7 60 4.0 17 2.4
5 I 76 3.8 61 4.2 15 2.0
6 J 78 6.5 60 7.4 18 3.2
7 URSS 76 7.4 61 8.2 15 4.1
  Mondo 78 4.1 61 4.4 16 2.9

Risultano la causalità e l’ordine degli incrementi dei periodi tra massimi crescenti. Le graduatorie dei Paesi e gli incrementi rispettano la norma dell’anzianità. Emerge una regola comune. Si impone la scienza dei fenomeni economici e la previsione di eventi futuri.

È d’obbligo il confronto tra queste 3 serie, derivate dalla importazione scientifica, meglio, rivoluzionaria, del nostro lavoro nel maneggiare dati statistici, con le altre 3 serie relative al periodo 1980-1991. Mentre per il periodo 1980-1991, preso così a caso, abbiamo per ognuna delle 3 serie dovuto trascrivere ogni volta i nomi dei Paesi per il caotico andamento dei rispettivi incrementi annui medi, per il periodo 1913-1991, selezionate le 3 serie sull’unica base valida dei vertici massimi crescenti, la trascrizione del nome dei Paesi, secondo l’ordine di anzianità del loro assetto capitalistico, è stata effettuata una sola volta. Riportati per ogni Paese gli incrementi annui medi, risulta in ogni colonna la loro crescita man mano che diminuisce l’età dei Paesi. In orizzontale si mette in evidenza la caduta degli stessi man mano che i singoli Paesi invecchiano. Al caso che domina nelle analisi economiche borghesi, opponiamo la causalità, ossia le leggi dell’unica scienza delle società umane, la dottrina del comunismo.

Passiamo al commento della Tabella 2. L’Inghilterra contrae ulteriormente il suo incremento annuo medio del 42%, la Francia del 43%, la Germania del 33%, gli Stati Uniti del 40%, il Giappone del 57%, l’Unione Sovietica del 50%, l’Italia del 52% e il Mondo del 34%. Notate come nelle 3 serie è rispettata la correlazione inversa tra l’età capitalistica e l’incremento corrispondente: più un Paese è capitalisticamente vecchio, più è basso il suo incremento annuo medio. Questa rigorosa legge l’avevamo molto bene messa in evidenza ne “Il Corso” con le Tabelle 1 e 2 alle pagine 60 e 61.

Il lavoro all’epoca ebbe a disposizione un apparato statistico che non andava al di là del 1985. Ma il 1985 non sarebbe stato per nessun Paese un anno di massimo crescente. Nel nostro attuale Prospetto infatti il 1985 non compare.

Con il succedersi dei periodi diminuiscono le distanze. Più i principali Paesi invecchiano, più la gravità delle malattie che li affliggono tende ad assumere per tutti gli stessi valori. In relazione al periodo di 13 anni (solo per la Francia 14) che va dal 1913 al 1929 il rapporto tra il migliore e il peggiore incremento annuo medio è di 42 volte, mentre nel periodo di 15/18 anni che parte dal 1973 per concludersi nel 1991 è solo di 3,9 volte.

Anche se si volesse tener conto del fatto che il peggiore incremento del 1913-1929 di 0,18 della Germania è talmente basso per le condizioni eccezionali che lo determinarono, per cui sarebbe il caso di escluderlo, prendendo al suo posto quello considerato normale di 0,77, comune sia all’Inghilterra sia alla Francia, il rapporto si porterebbe comunque a ben 9,9 volte, in relazione alle 3,9 dell’ultimo periodo.

Abbiamo messo sotto forma di grafico le serie annuali degli indici della produzione industriale dei 7 principali Paesi e del Mondo del Prospetto I, limitatamente al periodo di cui al Prospetto III bis; e cioè dal 1913 così come si presentavano nelle riunioni di Partito dagli anni ’50 in poi.

Risaltano le crisi scoppiate nel 1929 e nel 1973; dopo quest’ultima non si notano riprese sostenute generalizzate. Il dolce declivio in salita non è quello che si ha all’uscita, e superamento, di una crisi. Quella crisi sembra un salasso necessario, ma non compiuto, si procede poi lentamente, con sforzo, viste le condizioni tutt’altro che buone di organismi in età avanzata. Anche un santone dell’economia borghese, il Galbraith, riconosce che «l’avvio della ripresa è lento», memore che in tempi passati, quando lui era giovane, oggi ha 85 anni, dopo una crisi, l’economia esplodeva di vitalità.

 

Decrescenza storica degli incrementi medi % della produzione industriale (% *)
Serie degli indici (1913 = 100) dei vertici massimi crescenti
Periodo 1913 -1991
Prospetto III bis. (TAB.1)
  UK RF D USA J Urss I Mondo
ANNI In-
dici
An-
ni
%
*
In-
dici
An-
ni
%
*
In-
dici
An-
ni
%
*
In-
dici
An-
ni
%
*
In-
dici
An-
ni
%
*
In-
dici
An-
ni
%
*
In-
dici
An-
ni
%
*
In-
dici
An-
ni
%
*
1913 100     100     100     100     100     100     100     100    
16 0,8   17 0,8   16 0,2   16 4,6   16 7,6   16 2,9   16 2,7   16 2,4
1929 113     103     205     324     158     154     146    
1930   44 2,3 114       44 3,6   44 3,8   44 7,3   45 10,1   45 4,8   45 5,2
      44 2,9
1973 305     497     1075     7337    
1974   6 1,2  399       6 1,4   6 2,6   6 2,1 12192     1257     1413    
  5 1,6   5 5,2   6 2,9   5 4,7
1979 328     433     541     1256     8321     15732     1782    
1980 10 1,0   11 1,2   12 1,9   11 2,2   12 3,8 10 3,5 1488   11 2,0
  9 1,5
1989 364     22165     1696    
1990       494     1602                 2223    
1991             682           13002                      

  

  

Decrescenza storica degli incrementi medi % della produzione industriale (% *)
Cicli lunghi
Periodo 1913 -1991
UK RF D USA J Urss I Mondo
Ciclo An-
ni
%
*
Ciclo An-
ni
%
*
Ciclo An-
ni
%
*
Ciclo An-
ni
%
*
Ciclo An-
ni
%
*
Ciclo An-
ni
%
*
Ciclo An-
ni
%
*
Ciclo An-
ni
%
*
1913-
1989
76 1,7 1913-
1989
77 2,1 1913-
1989
78 2,5 1913-
1989
77 3,7 1913-
1989
78 6,5 1913-
1989
76 7,4 1913-
1989
76 3,8 1913-
1989
78 4,1
1913-
1973
60 1,9 1913-
1973
61 2,3 1913-
1973
60 2,7 1913-
1973
60 4,0 1913-
1973
60 7,4 1913-
1973
61 8,2 1913-
1973
61 4,2 1913-
1973
61 4,4
1973-
1989
19 1,1 1973-
1989
16 1,3 1973-
1989
18 1,8 1973-
1989
17 2,4 1973-
1989
18 3,2 1973-
1989
15 4,1 1973-
1989
15 2,0 1973-
1989
16 2,9

 

Ribadiamo ancora una volta uno dei tanti nostri chiodi. È solo quando è nato, quando è stato giovane, che il capitalismo è cresciuto rapidamente, dando l’opportunità al proletariato, in questa positiva fase tumultuosa e per le difficoltà crescenti in cui si è dovuto dibattere, di partorire una dottrina e un partito quali armi di lotta, per la difesa nelle fasi di crescita del capitalismo, e per l’offesa nelle fasi in cui esso va in crisi. Solo quando avrà distrutto la società capitalistica, il proletariato sarà in grado di poter migliorare le proprie condizioni. Sotto il capitalismo la condizione relativa dei proletari non ha avuto mai sosta nel peggiorare; anche se i salari non hanno fatto che aumentare, in assoluto. Se le cose stanno così, vuol dire che il semplice aumento quantitativo dei salari, non si è mai tradotto nel miglioramento qualitativo delle condizioni di vita del proletariato. Ossia i salari sono aumentati sì, senza però mai attestarsi al livello corrispondente all’accresciuto sviluppo delle forze produttive.


Decorso Post-bellico del capitalismo italico

Limitatamente all’Italia, ma la cosa è possibile per qualsiasi altro paese, siamo in grado di fornire in materia una panoramica illuminante.

Tra il 1982 e il 1983 il capitalismo italiano ritiene maturi e non ulteriormente procrastinabili i tempi perché il suo Stato, a tutela degli interessi di quella parte del capitale mondiale che opera nel nostro paese, emani una serie di decreti contro gli scioperi, per l’autoregolamentazione e il controllo per legge dei conflitti di lavoro.

Nel 1992 l’opera viene completata con la richiesta, subito accolta e sanzionata da parte dello Stato, di abolizione definitiva della scala mobile, strumento ipocrita che voleva far credere che col suo tramite i salari si adeguassero (in realtà in misura molto parziale) all’aumento del costo della vita. Vuol dire che nel 1992 la crisi mondiale non poteva permettere al capitale italiano di adeguare i salari italiani all’aumento dei prezzi.

Questo può lasciare intendere che per buona parte del secondo dopoguerra i salari sarebbero andati sempre crescendo (da cui il crescente benessere e i risolini sarcastici per l’arcaica “miseria crescente” teorizzata dal marxismo), e solo una crisi venuta (sempre) di fuori avrebbe costretto borghesi e proletari italiani a fare quadrato sacrificandosi fraternamente gli uni per gli altri per superare il momento difficile; interpretazione questa che vuol far credere che ad un peggioramento dei salariati ne corrisponde uno altrettanto grave dei capitalisti; quando si sa che i due fenomeni si muovono in direzione opposta. Va sanzionato il fatto che se c’è ed è fatto reale, crisi del salariato, si crea così una situazione favorevole al benessere per il capitale.

In quest’ultima bordata del 1992, centrata contro il proletariato italiano, il segretario generale della CGIL giustificò l’avallo all’abolizione della scala mobile come misura “responsabile” atta ad evitare una crisi di governo. Solo un sindacato operaio diretta emanazione degli interessi del capitale poteva fregarsene della volontà di lotta dei proletari contro una politica tendente a peggiorare ulteriormente la loro condizione economica.

Prima di continuare, spostiamoci sul piano internazionale. Nel 1929 la produzione industriale USA si attestava a quota 205 rispetto a 100 nel 1913, registrando il nuovo massimo storico. Nei tre anni successivi, in un crescendo di incrementi negativi (-12,7%, -17,3% e -21,6%), l’indice scendeva a 116, con un crollo del 43%. Si consumava così la grande crisi che aveva investito il mondo intero. Nel 1937 l’indice risaliva stentatamente a 220. Nel periodo di 8 anni dal 1929 al 1937 la produzione industriale USA si è mossa di un più che modesto 0,9% annuo. Nel 1938 l’indice crollava a 161, accusando un decremento del 26,4%, pari a più del doppio di quello avutosi nel 1° anno della grande crisi iniziata nel 1929. Se il parallelismo negli anni a seguire si fosse rispettato, sarebbe stata la fine per il capitalismo negli USA e nel mondo. Bisognava correre ai ripari e l’unica soluzione fu quella di incanalare la crisi nel grande massacro del 2° conflitto mondiale.

Ancora una volta il capitalismo riuscì a salvarsi. La sconfitta per eventi bellici dei fascismi nazionali di Italia, Germania e Giappone sfociò in rapida successione nella vittoria di un fascismo internazionale, ammantato del formalismo democratico, considerato il migliore assetto difensivo ed offensivo a tutela del capitale e del suo modo di produzione, vuoi per fasi tranquille, vuoi soprattutto in caso di crisi economiche o politiche. Il centro politico del nuovo ordine postbellico mondiale non poteva non collocarsi che nel paese dell’apparato produttivo e di capitali predominante rispetto a qualsiasi altro al termine del conflitto e per decenni a venire: gli Stati Uniti d’America. L’immane distruzione di lavoro vivo e di lavoro morto consentì la ripresa dell’accumulazione mondiale sulla base della nuova divisione imperialistica dei mercati e dei capitali scaturita dall’instaurazione dei nuovi rapporti di forza.

La fase di “sviluppo qualitativo”, giusta un’espressione di Marx, contraddistingue il primo quinquennio postbellico, in tutto il mondo come in Italia.

In questo paese la necessaria ristrutturazione dell’apparato produttivo inizialmente riguardò i tradizionali settori tessile ed alimentare; come pure il comparto dell’energia elettrica che andava adeguata alle nuove esigenze. Per il capitale fisso, che aveva subìto notevoli distruzioni, i tempi richiesti per la ristrutturazione risultavano molto più ampi. I settori siderurgico e meccanico, distrutti per oltre il 20%, e così quello chimico, dovettero attendere una fase ulteriore.

Nello stesso tempo il capitale variabile disponibile italiano risultava distrutto per una quota pari al 25% della forza-lavoro disponibile con 2 milioni di disoccupati e 3 milioni di sottoccupati; una situazione di fatto che rappresenta la necessaria base sociale produttiva per il rilancio dei profitti e dell’accumulazione del plusvalore.

Quale la situazione dei proletari italiani in questo frangente. I salari, in caduta libera da anni, vennero bloccati ad un livello notevolmente basso; come vennero bloccati anche i prezzi ad un livello, s’intende, notevolmente alto, gonfiati da un’inflazione galoppante di ben 25 volte dal 1939 al 1945. In definitiva i salari, destinati per intero ai consumi essenziali, vennero bloccati nel momento in cui erano arrivati alla metà del livello di prima della guerra.

In quegli anni il capitale internazionale sotto l’etichetta di Piano Marshall richiese, meglio intimò, la stabilizzazione della lira. L’allora governatore della Banca d’Italia ubbidì, svalutando la lira del 300%. Come premio fu nominato Presidente della Repubblica. Da chi? Dal capitale italiano in ossequio al capitale internazionale.

Terminato il quinquennio di ricostruzione, fissate saldamente le nuove basi materiali e sociali, si passò dalla fase di sviluppo qualitativo alla successiva di sviluppo quantitativo del decennio 1950-1960.

La produzione industriale che nel 1950 era attestata a 224, rispetto a 100 nel 1913, nel 1960 si porta a 535, registrando il notevole incremento annuo medio per i 10 anni del 9,1%. Parallelamente il reddito, e dunque i salari, si incrementa mediamente all’anno del 6%, di un buon terzo inferiore al tasso della produzione industriale.

Il settore auto fu privilegiato. Aumentò in media all’anno del 17,6% a un ritmo doppio rispetto a quello della produzione industriale, passando da 127.800 unità nel 1950 a 644.600 nel 1960. Giusto gli accordi tra branche del capitale, lo Stato provvide alla costruzione di strade. Anche gli elettrodomestici e la chimica marcarono uno sviluppo superiore a quello della produzione industriale nel suo complesso. I prezzi dei relativi prodotti subirono una diminuzione relativa nei confronti dell’inflazione che mediamente oscillava intorno al 2%, per cui i profitti ricavati aumentarono del 35%.

Andarono invece notevolmente sotto la media i salari e i consumi; al tasso del 5% i primi e del 4% i secondi. Nel 1960 il reddito medio annuo di un lavoratore dipendente risultava ancora inferiore al milione di lire. Da questi dati emerge che la via della ripresa italiana continuava a essere caratterizzata da velleità imperialistiche.

L’occupazione aumentava in media del 3%. La produttività, ricavata dal rapporto tra incremento produttivo e incremento occupazionale, risultava triplicata. Nel 1960 i dati ufficiali della disoccupazione la davano al 3%; ma i tassi di attività soprattutto femminile risultavano molto più bassi della media europea, e con larghe fasce di lavoro precario e sottopagato.

L’Italia è già un imperialismo forte, anche se di complemento. Le si assegna un ruolo, duraturo e specifico, in settori tradizionali e meccanici, di consumo e utensili di precisione, con una composizione industriale e commerciale mista, a media tecnologia e non a larga scala di produzione, sufficientemente elastica e adattabile alle esigenze del grande capitale multinazionale. In conformità alle diverse fasi del ciclo del capitale mondiale, si tratta di una funzione di cuscinetto sia per il sostegno alla produzione imperialistica mondiale, sia per le sue esigenze più o meno torbide della circolazione.

I primi anni ’60 vedono le condizioni di lavoro del proletariato peggiorare a vista d’occhio. Le lotte operaie suscitatene portarono ai primi contratti collettivi di qualche significato dalla fine della guerra.

La recessione del 1964 riceve il sostegno di Carli, governatore della Banca centrale, con la linea di stretta creditizia. L’inflazione, che aveva raggiunto il 6%, scende al 3%. Le conquiste parziali sancite nei contratti, nella sostanza furono vanificate. Il salario sociale reale – ossia la grandezza oggettivamente significativa delle condizioni di vita dell’intera classe proletaria, commisurate a occupati e non, giovani e anziani a carico dei lavoratori attivi, relativamente all’aumento dei carichi di lavoro per intensità e durata e all’andamento del reddito nazionale – continuava a diminuire. Alla fine degli anni ’60 il reddito nazionale e la “forbice” tra salario e “produttività” raggiungeva un massimo storico, riportando le condizioni relative delle famiglie dei salariati al livello pari all’80% del 1952.

Il successivo blocco dell’occupazione, l’inizio della selezione della forza-lavoro, la crescita delle forme di lavoro irregolare, furono la risposta del padronato ai relativi aumenti salariali individuali (sulla base del 9% annuo) e alle pretese “conquiste” sull’organizzazione del lavoro; un primo passo per la futura ristrutturazione tecnologica del nuovo macchinismo.

Proprio per la non coincidenza delle esigenze di nuova accumulazione mondiale con le condizioni sociali della produzione di plusvalore fu allora che, anche in Italia, soprattutto per l’influenza finanziaria internazionale, iniziò l’aumento delle quote di profitto non industriali, rendite e altre forme di speculazione, soprattutto monetaria, sintomi di una lunga fase di crisi che bussava alle porte. Fu subito evidente che il costo del lavoro, la parte variabile del capitale, rappresentava l’anello debole del ciclo di metamorfosi del capitale stesso. La crisi del capitale andava risolta in crisi del lavoro.

All’inizio degli anni ’70 c’è la fine del sistema di Bretton Woods (con l’inconvertibilità e la svalutazione del dollaro), il rallentamento del commercio mondiale, l’inizio di forme sempre più marcate di protezionismo e di conflitto economico tra CEE, Stati Uniti e Giappone. Si andava ad un nuovo profondo riassetto qualitativo se il capitale mondiale voleva creare le condizioni per la ripresa della produzione e dell’accumulazione di plusvalore.

L’unico obiettivo consolidato raggiunto dalla grande borghesia multinazionale fu quello di riprendere il pieno comando sulla forza-lavoro. L’iperinflazione portò in tutto il mondo il tasso annuo di aumento dei prezzi a due cifre; per non parlare dei paesi strangolati dal credito internazionale, con tassi di 3 o 4 cifre, protrattisi nel tempo. L’inflazione, così gestita dal capitale, vede crescere in Italia i prezzi di ben 5 volte tra il 1970 e il 1974, mentre il reddito reale aumentava solo del 3% annuo. Strumento di questa prima fase della strategia padronale fu l’aumento dei prezzi internazionali delle materie prime nel 1972. Il prezzo del petrolio aumentò solo nel 1973; a riprova che l’inflazione mondiale non era attribuibile agli sceicchi; come quella nazionale non era dovuta ai lavoratori salariati per i loro eccessivi salari.

Nel 1975 Kissinger, segretario di Stato USA, formulò quel progetto di rilancio imperialistico, noto come Nuovo Ordine economico internazionale.

Con il blocco dell’accumulazione, la distruzione di capitale, la caduta del tasso di profitto aveva raggiunto il suo acme nel 1974. In tali condizioni si completò ancora una volta la distruzione anche del capitale variabile con la riproduzione dell’esercito industriale di riserva (non solo con la disoccupazione, ma via via con forme di lavoro precario e parziale, sottopagato e stagnante).

Da allora il tasso di disoccupazione, quello ufficiale, non è più sceso in Italia al di sotto delle due cifre.

Con la fiscalizzazione degli oneri sociali (decine di migliaia di miliardi dei contribuenti a reddito fisso con cui lo Stato sostenne la crisi e la ristrutturazione delle imprese), l’accettazione dell’aumento, per il momento estensivo, dei carichi di lavoro (festività soppresse, turni straordinari) in controtendenza con quanto stabilito nei contratti precedenti, il peggioramento normativo, segnò l’avvio di una fase di parallela istituzionalizzazione, integrazione e omologazione delle confederazioni sindacali.

Incredibile: ormai era il padronato che avanzava “rivendicazioni” al sindacato (rispetto ai compiti del governo)!

Nel 1926, a palazzo Vidoni era stato definito un “accordo” sindacale del medesimo tenore: l’organizzazione sindacale era “libera”, ma solo i sindacati (fascisti) istituzionalmente riconosciuti potevano trattare; a essi solo (e non ai lavoratori) era conferita titolarità per i diritti sindacali (a cominciare dallo sciopero); l’accordo nazionale predeterminava tutte le questioni di interesse generale e politico, svuotando di ogni autonomia le rivendicazioni e le lotte del proletariato. Quali sono le novità, oggi?

L’inizio degli anni ’80 vede i lavoratori ormai in balia della Grande Corporazione, nazionale e internazionale; con i licenziamenti in massa alla FIAT. La quota salariale sul reddito nazionale che aveva superato il 70% nel 1975 (soprattutto a causa del crollo dei profitti nella fase acuta della recessione) scende bruscamente di nuovo al 65% nel 1989. La produttività del lavoro poteva riprendere quota per la competitività internazionale. L’eredità della precedente fase di riassetto qualitativo veniva tradotta in un aumento dei salari reali minore che nel resto dei paesi imperialistici, tranne gli USA, e in un aumento della produttività oraria ormai seconda solo al Giappone (ma da noi in danno dell’occupazione e quindi delle ore lavorate complessive, non di quelle dei residui occupati, regolari e soprattutto irregolari). Il risultato globale di queste due tendenze fu un incremento del costo del lavoro per unità di prodotto (il cosiddetto Clup), in termini reali minore che in ogni altro concorrente imperialistico.

Con gli anni ’80, su quelle basi, si poteva allora rilanciare la “produttività” anche dal lato intensivo (ritmi, tempi morti, riorganizzazione del processo di lavoro, in attesa di una compiuta automazione del controllo).

L’intera configurazione produttiva determinatasi costituiva una fase di preparazione per cercare di restituire “efficienza” capitalistica (cioè, plusvalore e profitto) all’economia italiana, in termini di quella flessibilità della forza-lavoro prima, e del sistema automatico di macchine, poi, ancora insufficienti.

Sul falso mito del “ritorno al mercato”, basta ribadire: alla parola d’ordine “più mercato” non ha corrisposto e in nessun paese l’altro motto “meno Stato”, ma piuttosto “più Stato” per sostenere l’impresa e la speculazione privata; a danno della funzione sociale. Lo stesso “più mercato” ha sempre rappresentato una falsa metafora per garantire libertà d’azione al grande capitale monopolistico finanziario transnazionale, contro tutti gli altri strati e classi sociali sul mercato mondiale.

Dal 1982 al 1983 la riduzione del punto di contingenza fece scendere la copertura automatica dall’80% al 47%. Fu in quel contesto che spuntarono, ammantate di scientificità, le proposte più infami per attaccare il potere d’acquisto dei salari: i vari espedienti di predeterminazione, desensibilizzazione, congelamento e via sterilizzando.

La situazione sociale era ormai tale per cui le prospettive di consolidamento neo-corporativo implicavano necessariamente prevedibili novità nel sistema politico, una delle cui opzioni era l’autoscioglimento del PCI. Altro che svolta: qui è il capitale internazionale che ha dato gli ordini e ha ricevuto lo storico: Obbedisco!

Gli imperialisti italiani hanno finalmente coronato il loro sforzo ventennale di azzerare la cosiddetta “anomalia italiana”, che mostrava i rapporti di forza fra le classi presentare, rispetto alla media europea, un andamento meno sfavorevole al proletariato italiano; ai cui salari, con la riforma voluta dal capitale, si toglie il pavimento, concedendogli generosamente un tetto.

La strategia offensiva del capitale è stata fondata sull’ampia ricostituzione dell’esercito industriale di riserva, e in conseguenza sulla conquista della più ampia flessibilità e fluidità della forza-lavoro.

La sovrapproduzione mondiale fra il 1974 e il 1975 vide in Italia la caduta del fatturato industriale in termini reali di oltre il 5%, l’aumento delle scorte, la discesa di più di 6 punti percentuali del grado di utilizzazione degli impianti e il crollo del 10% della produzione industriale.

Di riflesso il tasso del profitto lordo medio nell’industria cade dal 21% al 17%, riprovocando il blocco degli investimenti da parte dei capitalisti con una diminuzione del 12% nel biennio.

La ricostruzione di un ampio esercito industriale di riserva tendeva a ricondurre sia il prezzo che la quantità della forza-lavoro nei limiti imposti dall’evoluzione della valorizzazione del capitale.

Si servirono al riguardo della spinta dei prezzi internazionali, che si amplificarono, per cui tra il 1974 e il 1980 quelli alla produzione dell’industria manifatturiera aumentarono di oltre il 17% medio annuo, portandoli da 100 a 256; mentre nello stesso periodo il livello dei prezzi al consumo passò da 100 a 300. Parallelamente la moneta fu svalutata del 60%, consentendo alla competitività di prezzo delle esportazioni di guadagnare il 6% fino al 1978, salvaguardando i profitti industriali e commerciali.

Le retribuzioni lorde degli occupati dal 1976 al 1980 rispetto all’inflazione passano da 100 a 75, ma il salario sociale reale della classe proletaria si riduce molto di più per la contrazione della sua frazione occupata.

Il tasso di disoccupazione corretto con la Cassa integrazione guadagni passa dal 5,6% nel 1974 all’8,2% nel 1980.

Gli effetti della multiforme strategia del capitale in Italia fecero risalire il tasso di profitto nel 1978 allo stesso livello del 1974 con il massimo del 24,3% toccato nel 1980.

Per tutto il decennio degli anni ’80 si assiste ad un ampio processo internazionale di ampliamento del “capitale fittizio”: è la finanziarizzazione, che comporta la netta inversione dei tassi di interesse reali a livello internazionale, che passano a positivi in rapida crescita.

Parte in questo decennio la seconda fase della ricostruzione dell’esercito industriale di riserva, debilita così ulteriormente la classe lavoratrice, l’ondata dei licenziamenti mostra un salto quantitativo. L’occupazione operaia, nel 1960 al 70% nel totale della forza-lavoro occupata, nel 1975 era scesa a meno del 50%.

E così i profitti industriali netti hanno registrato il massimo aumento di più di 3 volte nelle grandi imprese: grazie anche al peso degli oneri finanziari sui profitti lordi (plusvalore) che nelle grandi imprese vantano il record di caduta, portandosi sotto il 10%.

Nel periodo 1981-1990 cala il peso relativo delle imprese minori in Italia, riflesso dell’aumento della centralizzazione del capitale operato dall’imperialismo mondiale.

Le vicende drammatiche che nel periodo esaminato (molto velocemente, ma il nostro è lavoro rivoluzionario di Partito, non culturalismo accademico) hanno coinvolto il capitale e la forza-lavoro in rapporti contraddittori sempre più tesi, ci portano ad una conclusione netta e precisa. La miriade di capitali, che operano ormai da tempo in qualsiasi punto del pianeta, siano essi di natura personale o di società, abbiano un carattere nazionale o internazionale, esplichino la loro azione nel campo dell’industria, del commercio, dei servizi o della speculazione, combattono con una sempre più accresciuta ferocia per appropriarsi del plusvalore realizzato grazie all’acquisto ed all’uso della forza-lavoro dei proletari. Questo accade perché la realizzazione del plusvalore sul mercato è diventata sempre più difficile. Al mercato affluisce un quantitativo di merci talmente elevato che non si riesce a smaltirlo.

Ma, se le merci non si vendono, la produzione risulta inutile. Il capitale vive solo fino a quando realizza il plusvalore sul mercato. Altrimenti va in crisi, rischia la paralisi.

Una soluzione consiste nell’appropriarsi di più plusvalore costringendo i proletari a lavorare di più, in minor numero e con salari più bassi. Ma più produzione con una massa salariale contratta acuisce il problema della realizzazione del plusvalore sul mercato; in parole povere acuisce la crisi del capitale.

C’è un’altra soluzione: la guerra, la distruzione massiccia di merci, compresa la più importante di esse, la forza-lavoro, opera positivamente su un mercato troppo ingolfato. Con un mercato meno intasato di merci, non è che il capitale può ricominciare a realizzare il plusvalore, che rappresenta ossigeno per i suoi polmoni.

Ma una soluzione, nell’ambito del modo di produzione capitalistico, non c’è più, al punto di sviluppo a cui è pervenuto.

Il dilemma resta sempre lo stesso: o rivoluzione o guerra. O il proletariato in un momento di crisi acuta riuscirà ad uccidere il mostro capitalistico, o il capitalismo con un terzo colossale bagno di sangue proletario riuscirà a rinviare ancora una volta il suo crollo definitivo e la sua morte.

 

 

 

 

 


Schema per una storia dei sindacati in Gran Bretagna

1. Tre sono le principali caratteristiche del movimento sindacale in Gran Bretagna. La prima è che i sindacati sorsero nello stesso tempo degli iniziali tentativi del movimento politico proletario organizzato: in Gran Bretagna i sindacati vengono per primi, prima del formarsi di un movimento politico proletario. Privi di ogni modello ed esperienza da seguire, i primi sindacati dovettero farsi insegnare dalla pratica, nella lotta contro un sistema capitalistico in ascesa.

Per la loro fase di formazione occorre risalire almeno alla fine del Settecento, nelle manifestazioni ingenue ma di generoso e robusto piglio di classe del luddismo e dei club operai, che non esitarono ad affrontare clandestinità e lotta violenta. Rimandiamo per la indispensabile trattazione di questa prima risoluta scesa in campo del fiero proletariato inglese allo studio che abbiamo pubblicato in Comunismo n. 25, del gennaio 1988, nei capitoli: Ammutinamenti - Luddismo - I primi sindacati - I sindacati nell’industria.

2. La seconda caratteristica fondamentale del movimento sindacale in Gran Bretagna è la sua continuità storica. Nonostante molto e perversi tentativi di spezzarli, questi sindacati furono capaci di resistere dalla prima metà del diciannovesimo secolo, con il movimento sindacale sopravvissuto intatto, nel senso organizzativo, non distrutto né dalla guerra né dal fascismo.

3. La terza caratteristica fondamentale dei sindacati in Gran Bretagna è che i suoi dirigenti sono stati i primi ad essere corrotti dalla borghesia. Da quando i sindacati furono legalizzati nel 1820, non essendosi estinti com’era nelle speranze degli economisti del libero mercato, furono esercitati dichiarati tentativi sulla direzione sindacale per circuirla, neutralizzarla o comprarla. Ma la necessità dello sfrenato sfruttamento della forza lavoro non permetteva di corrompere la massa degli operai e così una ininterrotta lotta di classe si combatté tutto attraverso il secolo diciannovesimo.


L’affermarsi del movimento sindacale

4. I sindacati che sopravvissero dalla prima metà del secolo scorso furono esclusivamente organizzazioni di mestiere. Le specializzazioni di questi lavoratori li facevano indispensabili ai padroni, tanto che questi evitavano di rischiare lo scontro. I lavoratori qualificati formavano i loro club, associazioni per favorire i loro propri interessi di categoria. Si può affermare in generale, che questi club di specializzati, o Unions, si tennero fuori dal Movimento Cartista, specialmente durante l’anno di fuoco del 1848.

La seconda parte del diciannovesimo secolo vide le Trade Unions imboccare la strada della legalità e dei compromessi, come suggerito dal “nuovo modello” di Union della Amalgamated Society of Engineers (di tecnici), formatasi nel 1850-51 inglobando associazioni minori. Il “nuovo modello” di Union fornì la matrice per ogni sviluppo successivo, con la centralizzazione dei fondi e delle risorse in un organo centrale. Questa necessaria centralizzazione sarà in seguito utilizzata a scopo invertito, per progressivamente reprimere ogni iniziativa dei singoli iscritti e delle istanze locali concentrando il potere di bloccare ogni decisione di lotta nelle mani di coloro che saranno apertamente corrotti dalla borghesia, e che ancor oggi ci troviamo contro.

Questo processo è da riferire all’enorme arricchimento della borghesia inglese proveniente dallo sfruttamento coloniale prima, imperialistico poi del mondo intero, ciclo di potenza allora in piena ascesa. Il plusvalore tratto dalle colonie consentiva una oppressione in qualche modo attenuata sulla classe operaia metropolitana, che si lasciava così spostare su atteggiamenti meno combattivi, più inclini al compromesso; non costringendo, per il bisogno della miseria, a porsi problemi solubili solo su di un piano generale di classe, sembrava possibile una vittoriosa resistenza, ed anche un certo “progresso”, esclusivamente dall’interno delle singole partizioni categoriali, industriali e di mestiere.

5. Il Trade Unions Congress quando fu istituito da parte delle Trade Unions di mestiere era già infiltrato da portavoce del nemico di classe, corrotti ed ostili alla classe operaia come un tutto. Bastano a sottolinearlo i riferimenti nei confronti dei sindacati inglesi espressi al congresso de L’Aia da Marx, che si faceva un onore di non essere un simile dirigente sindacale. Questo TUC, un insieme di Unions di mestiere, fu presto preso a rimorchio dal Partito Liberale. Ma i dirigenti sindacali avevano già gli occhi puntati sulle poltrone parlamentari, almeno coloro che potevano vantare buoni appoggi politici.

6. Il nome corrente che fu dato alle organizzazioni economiche dei lavoratori nelle isole inglesi è di Trade Unions. A rigore abbiamo avuto tre tipi di tali unioni:
     Trade Unions – sindacati di mestiere di lavoratori specializzati per la difesa dei loro interessi specifici: idraulici, falegnami, tipografi, ecc.
     Industrial Unions – poterono sopravvivere solo episodicamente nell’Ottocento, raggruppavano tutti coloro che lavoravano in date industrie, come fornai, ferrovieri, ecc., ma esclusi gli specializzati che rimasero membri delle loro Unions poiché potevano essere spostati da una industria ad un’altra.
     General Unions – poche in numero (due nominalmente sopravvivono oggi), generalmente inquadravano i non o poco specializzati nelle industrie non altrimenti organizzate. Ebbero da combattere fiere battaglie anche solo per esistere. La Gasworkers Union, aiutata da Eleanor Marx, fu una di queste.

7. Le Industrial Unions raggruppavano quegli operai che lavoravano con continuità nella stessa industria e quindi acquisivano una certa specializzazione: si usa indicarli come “semi-specializzati”. Questa loro natura rendeva difficile ai padroni la loro sostituzione. Sono presenti nelle ferrovie e nelle miniere.

8. Le General Unions, che erano chiamate in origine New Unions, si formarono e si estesero nei decenni 1880-1890. Furono il prodotto di vaste lotte, come quelle dei lavoratori del gas e dei portuali, e dovettero battersi per poter sopravvivere. Caratteristico di queste industrie era il lavoro temporaneo.

Il 1888 vide lo sciopero delle fiammiferaie della ditta Bryant e May, seguito l’anno successivo dal memorabile sciopero del gas e dei portuali. I portuali di Londra resistevano per sei penny l’ora, «the full round orb of the docker’s tanner», contro la importazione di lavoratori crumiri. La minaccia di uno sciopero generale, e più che altro i generosi contributi provenienti dai compagni di lavoro dell’Australia, ribaltarono la bilancia a favore dei dockers. Nel 1890 il movimento di sciopero si estese verso nord, incoraggiando coloro che fino ad allora non erano stati in grado di organizzarsi. In alcuni casi queste Unions sopravvissero, in altri scomparvero, come quella dei lavoratori del gas e quella dell’agricoltura.

9. Nel 1890 i dirigenti delle New Unions fecero confluire le loro organizzazioni nel TUC, sul quale però i capi dei vecchi sindacati cercavano di mantenere il controllo. Grosso modo la discriminante fra le due tendenze, le “vecchie” Unions di mestiere e le “nuove”, può essere individuata nel fatto che le prime erano alleate al Partito Liberale, le seconde influenzate dal movimento socialista. Lo scontro fra le due tendenze si rifletté sulla formazione di ciò che si usò chiamare il Labour Movement, portando alla centralizzazione dell’autorità nei dirigenti sindacali che controllavano il TUC. Le istanze locali, i Trade Councils, videro contrarsi il loro potere, furono private di ogni autonomia nelle trattative salariali con i padroni e persero il diritto di indire scioperi “ufficiali”, cioè approvati dagli organi superiori del TUC.

10. Al 1900 tutte le classi dominanti, tranne pochi eccentrici, avevano riconosciuto che i sindacati c’erano per restarci e che bisognava conviverci. La maggior parte degli iscritti non aveva ancora diritto di voto per il parlamento né per le elezioni locali, ma già attiravano l’attenzione dei partiti borghesi. I liberali avevano già raccolto assai, ma i Tory fecero tentativi per conquistarsi i rappresentanti del “lavoro” con i loro stessi metodi, fornendo i fondi per la Federazione Socialdemocratica di Hyndman allo scopo di affrontare i liberali e portar loro via dei voti. Ma questa convivenza con i sindacati non significa che non si facessero tentativi per ridimensionare le organizzazioni e per influenzarli sui posti di lavoro.

 Questo stesso anno, il 1900, vide lo sciopero nel Galles del sud a seguito di provvedimenti persecutori contro un segnalatore delle ferrovie che aveva precedentemente diretto un movimento per l’aumento delle paghe. La Compagnia delle ferrovie citò davanti al tribunale la Amalgamated Society of Railways Servant chiedendo danni e spese. Il tribunale in prima istanza riconobbe il diritto dei padroni, la Corte di appello invece lo negò, la Camera dei Lord si espresse infine per il padronato. L’esito di questo Taff Vale Judgement diffuse un senso di sgomento a tutti i livelli del sindacato: da allora le casse delle Unions erano minacciate a seguito di qualsiasi sciopero.

I dirigenti sindacali allora espressero la necessità di procurare uno status legale alle loro organizzazioni: non era più in discussione la sopravvivenza ma la loro efficacia.

Si cercarono alleanze elettorali e l’antico sodalizio con i liberali fu messo alla prova. Quando apparì chiaro che la protezione legale dei sindacati contro la citazione per danni non sarebbe venuta dal Partito Liberale, iniziarono a sperimentarsi nuove alleanze politiche. La costituzione di un Comitato di Rappresentanza del Lavoro era finalizzata al solo e preciso scopo di far approvare alcune leggi: questa la base di formazione del Labour Party. Questo Labour Party MAI quindi ha avuto alcuna idea socialista né di cambiamento sociale, ma solo fu espressione parlamentare dei sindacati, matrice di classe dalla quale presto si emancipa.

11. L’alternarsi delle alleanze elettorali non risolse il problema che le Unions avevano con i tribunali. Le liti giudiziarie fra sindacati e padroni circa il diritto di sciopero, in particolare riguardo il Taff Vale Judgement, furono oggetto di frizione fra capi sindacali e politicanti, ma questo non impedì la cooperazione fra capi sindacali e Stato. Lo dimostra il National Insurance Act del 1911 nel quale furono costituiti congiuntamente da governo, datori di lavoro e lavoratori i capitali per le casse di assistenza, disoccupazione e pensioni. Ne potevano usufruire solo coloro che se ne potevano accollare la spesa e disponevano di un impiego stabile.

12. La crescente collaborazione dei capi sindacali nelle Commissioni, negli uffici governativi, ecc. non impediva alla lotta di classe di assurgere a livelli mai raggiunti. Il periodo 1910-1913 vide massicci scioperi, sia in Gran Bretagna sia in Irlanda, iniziati per lo più come movimenti non ufficiali finché i dirigenti sindacali non si attivavano al fine di contenerli. Alcuni scioperi furono violenti, almeno dalla parte del padronato e dello Stato: polizia ed esercito furono impiegati a Dublino, a Liverpool ed in altre città per combattere gli scioperi e mantenere l’ordine.

13. I dirigenti sindacali più coinvolti in queste azioni non ufficiali, come Tom Mann e James Larkin, erano influenzati dal sindacalismo. Questo è un misto delle idee di Sorel in Francia e di De Leon negli Stati Uniti, reazioni entrambe alla aperta collaborazione di classe dei capi sindacali e dei deplorevoli figuri parlamentari prodotti dallo svilupparsi del Labour Party. Il fine di questo tipo di sindacalismo, escludendo l’intervento del partito politico di classe, si risolveva nel voler sostituire i vecchi dirigenti con dei nuovi, migliori e meno corrotti.


La prova della guerra per il Labour movement

14. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale ciò che si cominciava a chiamare in Gran Bretagna Labour Movement, cioè il TUC più i suoi rappresentanti politici nei Comitati di Rappresentanza del Lavoro, si dimostrò un’ancora di salvezza borghese, socialsciovinista fino nell’anima. Il suo difensismo dello Stato e delle classi dominanti mai si incrinò, né durante la Seconda delle Guerre Mondiali né nelle altre crisi che colpirono “il nostro Paese”.

15. Coloro che combatterono contro la guerra quasi dall’inizio furono coloro che fin da prima che la guerra scoppiasse si ponevano dalla parte della difesa degli interessi dei lavoratori. Coloro che vacillavano prima del 4 agosto 1914 generalmente a guerra scoppiata si precipitarono nel suo appoggio e nel patriottismo.

16. Si ebbero altre espressioni di lotta di classe nella forma degli Shop Stewards e dei Comitati Operai (diretti delegati dei lavoratori su base di officina, opposti ai rappresentanti sindacali esterni) in confronti fra capitale e lavoro nelle fabbriche. Anche se alcune rivendicazioni erano chiaramente controproducenti, come la opposizione agli “annacquamenti” (contro l’ingaggio di lavoratori comuni per incarichi da specializzati) in generale riflettevano moti di scontento fra gli operai. Gli Shop Stewards avevano fatto la loro apparizione nell’anteguerra, ma i padroni li sradicarono prima che potessero rafforzarsi. Nel corso della guerra gli Shop Stewards condussero l’agitazione per aumenti salariali, poiché l’inflazione stava riducendo le paghe, arrivando a fermate del lavoro della durata spesso di due settimane. I padroni li avrebbero liquidati volentieri ma la produzione di guerra frenava il loro zelo nel serrare e punire. Benché non fossero in sé un movimento rivoluzionario, questi Shop Stewards e Comitati Operai rappresentarono la volontà di continuare la battaglia economica nonostante la guerra.

Le lotte per le paghe e le condizioni di lavoro continuarono dopo la guerra per tutto il periodo 1918-1922. Gli iscritti totali alle Unions raggiunsero il massimo nel 1921 con otto milioni e il numero dei giorni di sciopero non scese mai nel periodo sotto i venti milioni. Per lo più erano scioperi non ufficiali per la preponderanza del movimento degli Shop Stewards, ma molti dei grandi scioperi divennero ufficiali perché i capi sindacali li dovettero far propri.

17. Sarebbe stato logico aspettare che coloro che espressero la più coerente opposizione alla guerra e più combatterono la lotta di classe costituissero la naturale ossatura del Partito Comunista in Gran Bretagna. Così non fu, la componente principale nella formazione, nel 1920, del Communist Party of Great Britain divenne il British Socialist Party, una organizzazione che era lungi dalla prima linea della lotta di classe.

Il BSP alla sua fondazione aveva preso una posizione ostile nei confronti delle lotte operaie del 1910-13. L’opposizione dello “industriale” al “politico” (politico che si limitava a poco più di assumere incarichi nei piani bassi dell’amministrazione statale) si accompagnò poi alla più virulenta ostilità nei confronti dello “espansionismo germanico” e al difesismo patriottico. Il BSP tentò una tardiva conversione antibellica, iniziò ad espellere i seguaci di Hyndman nel 1916, ma evitò di impegnarsi nelle lotte sindacali in corso, specialmente alla fine della guerra. Ma anche più grave era il fatto che il BSP, che costituiva un corpo affiliato al Labour Party con posto di diritto  nel suo Comitato Esecutivo, voleva rimanere nel Labour Party.

Questa questione di fatto fece rovinare le trattative per unire tutte le forze potenzialmente rivoluzionarie in un unico Partito Comunista: anche coloro che accettarono l’adesione al partito per disciplina all’Internazione nonostante la questione della affiliazione al Labour Party, si trovarono espulsi nel giro di meno di un anno.

18. Nel 1920, anno di fondazione del CPGB, fu fondata a Mosca la Internazionale Sindacale Rossa (conosciuta come Profintern). La sua influenza si limitò su alcuni Shop Stewards e Comitati Operai e su alcune sezioni sindacali di minatori. Questa incapacità di far ingresso a grande scala nelle Unions esistenti dimostra le carenze della linea politica nelle organizzazioni economiche in Gran Bretagna. Organismi come gli Shop Stewards e i Comitati Operai erano ostili ai sindacati esistenti centralizzati; per parte loro i capi sindacali vedevano la organizzazione sui luoghi di lavoro come una minaccia alla loro autorità. Poiché il Labour Party era il “rappresentante politico” dei sindacati, queste organizzazioni di fabbrica tesero ad essere ostili anche al Labour Party.

19. Verso la fine del 1921 vennero da Mosca dei cambiamenti di linea politica. Il Terzo Congresso aveva lasciato la parola d’ordine del Fronte Unito, non ciò che si auspicava in Italia come Fronte Unico dei Lavoratori, fronte unico dal basso (tramite le organizzazioni economiche, i sindacati), ma come alleanza di partiti politici. Di nuovo il CPGB si orientò nel tentativo di penetrare il Labour Party, ma una clandestina trattativa delle vacche si risolse in un nulla di fatto. Se le minute segrete fossero pubblicate dimostrerebbero che il CPGB era pronto a disfarsi di tutti i principi e politiche moscovite per la contropartita della nomina di un deputato o due. Già il CPGB mostrava di disprezzare il Comintern quando affermava di poter trasformare il Labour Party in un Partito Comunista.

20. Nel 1923 l’Ufficio inglese del Profintern intraprese un brusca svolta: non si dovevano tollerare opposizioni organizzate nelle esistenti Unions e la prospettiva del Sindacato Rosso fu abbandonata senza una parola di spiegazione. Nessuna preoccupazione fu data a considerazioni tattiche né alla situazione dei lavoratori coinvolti, che dovevano rimanere comunque disciplinati ai loro dirigenti anche quando questi impedivano l’organizzazione degli scioperi. La strategia che si proponeva si riduceva a cercar di influenzare la dirigenza sindacale con i metodi della diplomazia ai vertici, privi i lavoratori di qualsiasi organizzazione di classe.

21. Di seguito, il 1924 vide il varo del Minority Movement, macchina elettorale all’interno delle Unions, ancora un cambiamento di rotta di Mosca, che aveva riconosciuto che la affiliazione al Labour Party era fallita: la strada per i lavoratori inglesi sarebbe passata, diceva Zinoviev, «sotto l’ampio portale delle Trade Unions». Il CPGB si gettò in questa tattica con cecità animale, cercando di far affiliare al Minority Movement qualsiasi organismo, sezione categoriale e locale, ma allo stesso tempo si schiudevano aperture con i dirigenti sindacali “di sinistra” e anche con il Consiglio Generale del TUC nel suo insieme. I dirigenti sindacali d’ogni tendenza erano oggetto di lusinghe e corruzione, portati in Russia venivano festeggiati e glorificati, come fu tristemente sperimentato con il Comitato Sindacale Anglo-Russo.

Nel 1925 le classi dominanti inglesi, non pronte per il confronto, riuscirono a differire di nove mesi l’urto con la mobilitazione montante dei minatori. L’apparente “ritirata” del governo, che nominò una Reale Commissione, fu salutata come una vittoria, detta del Venerdì Rosso, che i minatori ebbero a pagare a caro prezzo, con un aspro sciopero di nove mesi l’anno successivo.

22. La conclusione corrente è che il CPGB pensasse che il movimento sindacale potesse sostituire i Soviet nella rivoluzione. Ma questa strategia doveva essere smentita nello sciopero generale del 1926. Inoltre, avendo mescolato i ruoli dei sindacati e dei soviet, come se fossero intercambiabili, il CPGB non capì che preparare i lavoratori per un combattimento significa rafforzare gli organi attraverso i quali si intende condurre la lotta. Far questo avrebbe prodotto una spaccata fra le strutture sindacali periferiche e la loro dirigenza, così come fra i Trade Councils e il TUC. Il CPGB invitava i Trade Councils a trasformarsi in Councils of Action, centri organizzativi dello sciopero generale, ma questo mentre dovevano ritenersi ancora subordinati al Consiglio Generale del TUC. Chiunque sensato sapeva che il TUC avrebbe ordinato la ritirata alle prime mosse di scontro reale chiedendo a tutti di tornare al lavoro!

Dalla Depressione alla Seconda Guerra

23. Il fallimento dello sciopero generale fece arretrare i lavoratori inglesi per molti anni. Ma non erano vinti e ripetutamente scoppiavano scioperi. La questione principale che si poneva al movimento dei lavoratori era quale ruolo avrebbe potuto svolgere un governo a maggioranza laburista. L’esperienza del secondo governo laburista, dal 1929 al 1931, dimostrò all’evidenza che l’emancipazione del lavoro non sarebbe uscita dall’urna elettorale.

24. Dopo lo sciopero generale il TUC iniziò la sua riorganizzazione. Durante il 1928-29 si tennero trattative dirette fra i rappresentanti del padronato (Mond, presidente della Imperial Chemical Industries) e del TUC (Turner, suo presidente) i quali si scoprirono in totale intesa: nulla ne uscì direttamente tranne che Sir Alfred Mond chiarì il punto che i datori di lavoro vedevano nell’interesse di tutte le industrie che ai lavoratori fosse consentito di iscriversi alle Unions. Il CPGB intanto si stava preparando ad un altro dietro-front provenente da Mosca: era questo il periodo del “social-fascismo” e i dirigenti in carica del laburismo dovevano essere denunciati nemici come fascisti, se non peggio. Questa politica durò fino alla vittoria di Hitler in Germania nel 1933. A seguito di una successiva svolta, verso il Fronte Unito contro il fascismo, di nuovo si tornò a fare la corte ai capi laburisti.

Nel 1934 fu diramata la infame “Circolare Nera” che bandiva i membri del Partito Comunista dai posti dirigenti nelle Trade Unions e nei Trade Councils, sebbene i partecipanti al Minority Movement e agli organismi associati fossero già stati allontanati. Diveniva inoltre obbligatoria per quei sindacati che volevano mantenere l’affiliazione formale con il TUC l’esclusione dei delegati comunisti o in qualche modo associati ai comunisti. La Circolare fu approvata con un margine relativamente ristretto, 1.869.000 voti contro 1.427.000, e contro l’espressa volontà dei sindacati dei meccanici, degli impiegati, dei ferrovieri e dei minatori. Poiché il TUC non aveva il potere di costringere i sindacati membri ad attenersi a questa direttiva essa fu ignorata o rigettata in numerosi casi. Minatori, meccanici, edili, ferrovieri e molti altri continuarono ad eleggere rappresentanti comunisti. Anche alla Transport and General Workers Union, pur avendo votato a favore, non modificò i suoi regolamenti in conformità. Il bando fu applicato nella General and Municipal Workers Union e nei sindacati dell’acciaio. Altri sindacati dovettero adottarlo dietro la minaccia del TUC di creare, in caso si rifiutassero, altri sindacati concorrenti.

Questa politica, anche se apparentemente diretta contro lo stalinismo, in realtà colpiva il comunismo in generale e il movimento operaio in particolare. Fino a che punto siano mantenute oggi queste esclusioni varia da sindacato a sindacato ma esse sono state, semmai, estese e perfezionate.

25. Singole Trade Unions iniziarono la loro riorganizzazione, avendo spesso esaurito i fondi di resistenza a seguito dello sciopero generale. Nel caso della Trasport Workers Union si ebbe una riorganizzazione che dava vita al Transport and General Union, allora la terza in grandezza. Il dirigente di questa organizzazione, Ernest Bevin (difensore dell’idillio Mond-Turner), sarà uno dei bastioni più determinati dell’apparato sindacale, difendendo i suoi interessi contro tutti, vero prototipo del bonzo sindacale. Centralizzò gli affari sindacali nel palazzo appositamente costruito del Transport House, quartier generale anche del Labour Party. Bevin fu non solo il signore del Labour Movement ma anche suo agente stampa dopo che riuscì ad imporre nazionalmente il Daily Herald, giornale portavoce delle Unions.

Quando il governo laburista di Ramsey MacDonald reagì alla crisi finanziaria che minacciava l’economia nazionale tagliando i sussidi ai disoccupati, fu Bevin di fatto che scisse il Labour Party. Il TGWU aveva a libro paga i propri deputati in parlamento con il che li teneva in riga e, con il dieci per cento dei voti alla Conferenza del Labour Party, per mezzo del suo “voto in blocco”, Bevin era una potenza che non poteva essere ignorata. Ma, oltre a questo, Bevin fu influenzato dall’economia di Keynes ed era più cosciente di altri su quel che necessitava al capitalismo in Gran Bretagna. Questa visione preparò Bevin ad assicurare la collaborazone dei capi sindacali attraverso tutti gli anni trenta, la guerra e il successivo governo laburista.

Bevin si dimostrò inoltre abile nell’impedire al PC di stabilire agganci nella industria e nei trasporti. I militanti del PC avevano incoraggiato un Comitato di Base fra gli autisti degli autobus londinesi dal 1933 in avanti, Bevin lasciò fare per un po’ mentre preparava le sue contromisure. Questo Comitato di Base (Rank-and-File dicono i lavoratori inglesi, cioè, militarmente, di inquadrati, meno vago del nostro “di base“), sfortunatamente confinato agli autisti dei bus a Londra, fu spezzato nel 1937 quando i suoi organizzatori furono espulsi dal sindacato. Come al solito le organizzazioni Rank-and-File erano del tutto impreparate per simili azioni, trincerato nelle sezioni sindacali di fabbrica.

26. I capi del TUC ci tenevano a mostrare che la collaborazione non era limitata solo al governo laburista. Nei due anni precedenti lo scoppio della guerra liberarono il Labour Party dei pacifisti e si infervorarono per l’unità nazionale contro il comune nemico. Mentre il governo Chamberlain continuava con la sua politica di conciliazione, funzionari ministeriali consultavano i bonzi del TUC nel 1938 e 1939 circa i piani di preparazione bellica e per le precauzioni anti-aeree. Su questo tono prosegue la collaborazione nel gabinetto di guerra e di unità nazionale, esattamente come nel post-bellico governo laburista e oltre.

I colloqui Mond-Turner del 1928 avevano preparato la scena per questi sviluppi e la borghesia conosceva bene i propri uomini nei sindacati. La comune opposizione al fascismo non significò il celeste cielo della democrazia: per questo la borghesia inglese non ebbe bisogno del fascismo per mantenersi al potere.

27. Il congresso del TUC del primo settembre 1939 si dichiarò in tutto per la mobilitazione e giunse a sospendere la sua sessione per permettere ai congressisti di correre alle armi. L’occasione sarebbe divenuta simbolica: la località marina di Bridlington darà il nome ad un accordo deciso dal congresso, il Bridlington Agreement che proibì trasferimenti di iscritti da una Union ad un’altra – chiamato in gergo sindacale poaching, cioè caccia di frodo. Questo tendeva a prevenire che, dopo che una Union aveva firmato un accordo con i padroni in rappresentanza dei lavoratori, un altro sindacato approfittasse della delusione degli iscritti per ingrossare le proprie file. Simili competizioni dovevano essere rigorosamente proibite e un Comitato Speciale del TUC avrebbe agito come un tribunale per risolvere i conflitti. Come chiaro segnale fu imposto a tutte le Unions membri che la loro crescita poteva effettuarsi solo per assorbimento di Unions minori, non con la loro eliminazione.

 

Trade Unions - Comunque e sempre aperta collaborazione

28. Le tendenze fino e compresa la Seconda Guerra mondiale sono proseguite con continuità fino al giorno d’oggi. Il solo cambiamento significativo è che il legame esistente fra le Trade Unions e il Labour Party oggi è in corso di revisione a causa della “modernizzazione” del Labour Party. Si discute del “voto in blocco” delle Unions alle Conferenze del Labour Party, che però, nel precedente cinquantennio, non ha nociuto né a loro né al capitalismo in generale.

29. Il governo di guerra di Churchill trovò la collaborazione del TUC indispensabile. Le tensioni e i gravami sulla società erano tali che le classi dominanti erano consce della necessità di promettere che il dopo-guerra sarebbe stato differente, migliore della miseria degli anni Venti e Trenta. Si faceva intravedere la promessa del Welfare State, con la assistenza statale “dalla culla alla tomba”, abitazioni eccetera. Il che fu debitamente mantenuto dal governo laburista di Attlee, basandosi su progetti predisposti dai liberali. Era questo il minimo assolutamente necessario non solo per far combattere la guerra ma anche per predisporre la ricostruzione nel dopo-guerra.

È del tutto gratuita l’affermazione, proveniente dagli ambienti di sinistra, che tutto questo sia stata una conquista della classe operaia e che il governo laburista l’abbia intrapreso di sua iniziativa. Del resto il governo laburista fu altrettanto pronto ad utilizzare le sopravvissute leggi di guerra contro lo sciopero dei porti.

Con la introduzione del Welfare State furono revocate le offensive prove di povertà richieste dalla precedente Legge sui poveri, sostituite dal principio che la assistenza era un diritto generale. Le pensioni furono disponibili a tutti indipendentemente dai precedenti lavorativi, degni sussidi di disoccupazione erano forniti ai senza lavoro, assegni di malattia a chi non poteva lavorare, ecc. Tutto questo fu possibile e finanziabile solo perché la maggioranza della popolazione era al lavoro. Gli anni Cinquanta appaiono essere un periodo tranquillo per quanto riguarda la lotta di classe, eccetto per la esperienza dei portuali che cercarono di raddrizzare le loro Unions.

30. La Blue Union of the Dockers, soprannominata così per il colore della tessera, era un vecchio sindacato, la Associazione Nazionale degli Stivatori e Scaricatori, con sede a Londra. Dei portuali combattivi avevano formato un Comitato non riconosciuto nei porti del nord del paese, centri organizzati per la lotta di classe. Trovandosi in conflitto con la Union cui erano iscritti, il Transport and General, chiamato il Sindacato Bianco dal colore della tessera, si pose la questione di come procedere: restare un Comitato non ufficiale o cercare di riconquistare il sindacato. Decisero non per la esistenza autonoma ma di aderire in massa alla Blue Union al fine di scindere questa organizzazione. L’azione, che i portuali vantavano come “la più grande evasione della storia”, fece della Blue Union una organizzazione nazionale. Avendo accettato il trasferimento di iscritti provenienti dal TGWU fu espulsa dal TUC. L’entrata della Blue Union nei porti del nord trovò i peggiori avversari non nelle autorità portuali, Enti governativi che gestiscono il lavoro sulle banchine, ma nel TGWU che aveva perso il suo Closed Shop nei porti e la posizione dominante nella categoria. La fine del Closed Shop del TGWU, privo della collaborazione della Blue Union, implicava che i portuali erano sfuggiti al suo controllo.

La situazione si modificò con la introduzione del metodo di stivaggio e trasporto con container, che portò alla marginalizzazione della Blue Union sostituita dagli Shop Stewards emanazione del TGWU, avendo l’ammodernamento tecnico significato la drastica riduzione del numero degli occupati nei porti. Benché l’esistenza della Blue Union avesse fornito una copertura per la lotta di classe indipendente nei porti e per una certa fase, non riuscì ad unire i lavoratori contro la introduzione dei container, né effettivamente con i lavoratori di categorie diverse per lottare contro le conseguenze delle nuove tecniche e metodi di lavoro.

 

Il riemergere della lotta di classe

31. Gli anni Sessanta iniziano come un periodo tranquillo, ma presto si videro scioperi e dissesti a seguito delle crisi finanziarie nell’economia, e più importanti crisi politiche nel governo conservatore di MacMillan. Mentre l’inflazione si impennava iniziarono anche le richieste salariali al fine di rincorrerla e presto le minacce di scioperi salariali divennero la norma invece che l’eccezione. Animate assemblee di fabbrica, agitazioni, scioperi cominciarono allora ad esser chiamate “la malattia inglese”, come se fosse nata dal nulla. Qualcuno o qualcosa doveva essere il capro espiatorio e a questo si deputarono in generale gli Shop Stewards. Qualsiasi sciopero o minaccia di sciopero era colpa di singoli agitatori, identificati e marchiati sulla stampa. Dove gli Shop Stewards erano sfuggiti al controllo delle Unions l’alleanza fra i padroni e le Unions era sufficiente per ristabilire l’ordine, come il licenziamento di 17 “casinisti” dalla Ford di Dagenham, a Londra, nel 1962.

Ma gli Shop Stewards per lo più svolsero una funzione di collaborazione, come ci assicura il Rapporto Donovan della fine degli anni Sessanta: «Per la maggior parte gli Stewards sono visti dagli altri e vedono se stessi come una influenza realistica, ragionevole e perfino moderatrice; più un lubrificante che un irritante».

32. Ma gli anni Sessanta sembreranno un periodo depresso rispetto al decennio successivo. Il suo anno iniziale, il 1970, vide uno sciopero breve ma deciso nella vetreria Pilkingtons, di tradizioni pacifiche. Lo sciopero, provocato da un errore di calcolo delle paghe, nel giro di 48 ore si trasformò in lotta di resistenza più che in sciopero ad oltranza. La lotta non era solo contro i padroni perché i lavoratori ebbero a battersi con i sindacati per poter continuare lo sciopero. La GMWU, presente negli stabilimenti della Pilkingtons, vantava un accordo con la direzione per il quale solo i suoi iscritti potevano lavorare nell’azienda: il consueto accordo di Closed Shop prevedeva che i lavoratori dovessero mostrare la tessera del sindacato allo Shop Stewards prima di avere il posto. Questo accordo era però diverso: condizione dell’impiego era che ogni lavoratore aderisse al GMWU firmando, prima di entrare in fabbrica, una delega al padrone per le trattenute delle quote sindacali dalla busta paga. Gli scioperanti si trovarono per lo più contro gli Shop Stewards e le istanze sindacali locali cui appartenevano. Qui passò una risoluzione di appoggio allo sciopero ma non fu riconosciuta dalla direzione nazionale.

Da allora in poi lo sciopero continuò non ufficiale e sempre più in conflitto con la GMWU, marchiata da alcuni come “Sindacato crumiro”. Lo sciopero durò sette settimane in tutto, da aprile a maggio, infine gli scioperanti misero su un Comitato di Sciopero Rank-and-File per dirigere la lotta, del tutto separato dalle Unions esistenti. Si chiese agli scioperanti di compilare un modulo per revocare a Pilkingtons il diritto di trattenere le quote sindacali per la GMWU e circa la metà dei lavoratori pare che l’abbiano fatto. I funzionari della GMWU e gli Shop Stewards avvicinarono quindi individualmente tutti i firmatari della revoca per cercare di recuperarli.

Il Comitato di Sciopero iniziò come un gruppo di attivisti, nella tradizione del movimento Rank-and-File, al fine di cercare di cambiare, o meglio, migliorare la dirigenza sindacale. Sperimentandola del tutto inamovibile tentarono allora la tattica che fu dei portuali, cioè di scindere la Union. Trattative iniziarono nell’intento di aderire in massa al TGWU (ironia della situazione, da non ignorare, è che si tratta della stessa Union che i dockers abbandonarono), e i primi approcci sembravano favorevoli. Ma poi il Comitato Speciale del TUC si espresse contro tale trasferimento. Visto che la possibilità di scissione era stata proibita i lavoratori fondarono un loro nuovo sindacato, la Glass and General Workers Union e iniziarono le trattative per entrare nel TUC. Il Comitato di Sciopero non vedeva in questa Union che stava creando niente di strutturalmente diverso da quella che abbandonava, tranne che si dava per scontata la sua maggiore sensibilità per i bisogni operai. La Glass and General non fu riconosciuta dalla Pilkingtons, benché alcune trattative informali si tenessero sui problemi contingenti.

All’inizio di agosto ci fu uno scontro di saggio, e fu in questo che il sindacato scissionista fu spazzato via: si disse a tutti coloro che avevano scioperato che erano stati licenziati, ma che potevano essere riassunti alle condizioni del padrone, come nuovi dipendenti, perdendo la continuità dell’impiego, i diritti alla pensione, ecc. Benché vi fossero richieste da parte di altri lavoratori di aderire, la Glass and General si dovette piegare e gli organizzatori tornare alla dimensione di Comitato di Sciopero, mentre furono fatti appelli pubblici per il reintegro degli operai licenziati. Il ritorno al vecchio nome indica implicitamente che era stata persa la battaglia per sfuggire all’influenza del GMWU.

33. Il governo Heath produsse nuove leggi tendenti a reprimere i conflitti, scopo che si sforzò di raggiungere. Comprendevano una National Industrial Relations Court, molto simile alla legislazione che il precedente governo laburista intendeva approvare. Ma presto il governo Heath fu alle prese con dure battaglie che scoppiavano in ogni direzione e quasi allo stesso tempo. Nei porti l’uso di container stava di nuovo sollevando problemi. Stavolta la legge fu usata per prevenire i picchetti dei dockers fuori delle aree portuali, a cinque portuali furono consegnate intimidazioni del tribunale di interrompere simili picchetti: questi rifiutarono e furono regolarmente tratti in arresto. La questione dei “Cinque di Pentonville”, dal nome della prigione nella quale furono rinchiusi, dette l’occasione per l’inizio di uno sciopero nazionale dei dockers, che minacciava di trasformarsi in sciopero generale non ufficiale e che il TUC appena riusciva a mantenere nei limiti di sicurezza. Il governo rapidamente batté in ritirata, adendo un quasi mai sentito Official Solicitor e chiedendo alle Corti di rilasciare i cinque, cosa che le Corti furono ben felici di concedere liberandosi dalla trappola: o questo o riempire le prigioni da scoppiare di scioperanti, ufficiali, non ufficiali, simpatizzanti, o come li si voglia chiamare.

34. Il decennio 1970-79 fu di fiera lotta di classe, di scioperi in parte riconosciuti, in parte no; per lo più iniziati come non ufficiali. I più significativi scioperi ufficiali furono quelli per i salari della Miners Union che regolarmente sconfisse il governo Tory di Heath nel 1972 e nel 1974. Era che i minatori desideravano ripagare il governo Tory per la spaventosa tragedia del 1926, e ci si buttarono con spirito di vendetta. Ma questa rivincita portò alla preparazione della ancor più decisiva sconfitta del 1984-85 sotto la Thatcher. Sotto la direzione di un non riconosciuto Comitato di Sciopero in Barnsley, nella quale Scargill era il più attivo, picchetti volanti furono inviati a bloccare altri depositi di carbone, trasporti, ecc.

La lotta decisiva per chiudere il deposito di coke di Saltley, componente della centrale elettrica di Birmingham, riuscì non solo per le irremovibili azioni dei picchetti volanti, incessanti giorno dopo giorno: fu la polizia a chiuderlo, mentre decine di migliaia di operai stavano uscendo inquadrati dalle fabbriche dell’area di Birmingham determinati a raggiungere Saltley. Questo fece pendere la bilancia delle forze decisamente dalla parte degli scioperanti. Per riuscire a mantenere aperto il deposito del coke la polizia avrebbe dovuto trasformare la zona di Birmingham in un campo di battaglia, solo questo è ciò che indusse i funzionari di polizia ad ordinare la chiusura del deposito. Lo Stato apprese bene la lezione, le battaglie combattute un decennio dopo sarebbero state nelle tranquille strade di campagna dello Yorkshire, o almeno in posti ben lontani dalle aree urbane.

35. Fare l’elenco degli scioperi negli anni Settanta sarebbe un compito assai gravoso, basti dire che non solo crearono gran nocumento al governo Heath ma anche ai successivi governi laburisti di Wilson e di Callaghan. Questi governi erano stretti fra crisi finanziaria e crisi economica da una parte (la crisi del petrolio fu solo una di quelle che dovettero affrontare, uno dei fattori dell’accelerazione dell’inflazione), e una classe operaia sempre più spavalda, che premeva per battersi su rivendicazioni economiche appunto per il montare dell’inflazione, dall’altra. Fu nell’ultima parte degli anni Settanta che la classe dominante si risolse a metter da parte il principio keynesiano di mantenere il galleggiamento dell’economia finché possibile, e si sperimentarono alternative tecniche monetariste. È un fatto che ciò fu introdotto dal governo laburista di Callaghan, in un infame discorso nel quale affermava che da allora il paese doveva vivere in proporzione ai suoi mezzi. Callaghan, e specialmente i suoi consiglieri economici, prepararono la scena per il thatcherismo.

36. Il significato degli eventi degli anni Settanta era che le lotte stavano cominciando a sfuggire al controllo delle Unions. Il fatto che nella maggior parte delle industrie la stragrande maggioranza degli operai sono iscritti alle Trade Unions esistenti è fattore della loro stabilità, la loro “forza”, come dicono. Ciò rende importante il ruolo dei dirigenti sindacali agli occhi della classe dominante ed è negli interessi generali della classe dominante che questo si mantenga: non è ben vista dai capitalisti la scissione dei sindacati.

Tutti i lavoratori in un particolare settore o categoria possono essere membri di una Union, non essendovi alcuna preclusione politica alla adesione, finché uno paga le sue quote e non crea troppi problemi può tenersi le idee che preferisce. Ciononostante le risoluzioni delle categorie non contano molto: poiché le riunioni nelle sezioni e le assemblee sono impotenti ad influenzare la linea politica delle Unions, poiché gli iscritti non possono dichiarare scioperi ufficiali, i lavoratori non sono in grado di prendere nelle loro mani le questioni sindacali. Questo spiega perché per lo più gli scioperi e le altre azioni iniziano come non-ufficiali e solo dopo i funzionari sindacali intervengono allo scopo di mantenere il movimento in un minimo di ordine.

Gli operai in sciopero urtano contro due sbarramenti sindacali: gli Shop Stewards e l’apparato dei funzionari, dipendenti a tempo pieno dalle Unions. Gli Shop Stewards sono eletti dagli iscritti che lavorano in un certo posto. Aiutandosi fra loro gli Shop Stewards e i sindacalisti cercano di riportare gli operai al lavoro indipendentemente dal soddisfacimento delle richieste e da quanto appassionata possa essere la volontà di mobilitazione. Gli operai, se determinati a continuare la lotta, seguitano a votare nelle assemblee plenarie contro il ritorno al lavoro; di solito propongono il loro ordine del giorno, le loro piattaforme da discutere e le richieste minime irrinunciabili per tornare al lavoro. Non è solo questione di rimuovere gli esistenti Shop Stewards: restando la lotta isolata nella singola fabbrica, una amara esperienza ha insegnato che anche i nuovi Shop Stewards, privi di organizzazione generale di classe, nel negoziare con i padroni, seppure di fronte alla massa ostile di scioperanti, presto sono costretti alle stese manipolazioni e doppiezze nelle quali i precedenti Shop Stewards erano affondati.

37. La reazione a questo tipo di movimento non ufficiale ma che minacciava di cominciare ad espandersi oltre i limiti di categoria, fu un mutamento dei rapporti delle forze contro i lavoratori a livello sociale generale. Questo fu detto il thatcherismo. Lo stesso governo Thatcher si trovò di fronte ad una fiera lotta di classe e solo una batteria di leggi cominciò a respingere i lavoratori. Le nuove leggi mantennero in riga le strutture inferiori dei sindacati, ma ci volle del tempo per riportare nei ranghi le masse dei lavoratori, e ancora più tempo occorse e misure assai più drastiche per colpire quei lavoratori così inquadrati.

38. Una delle parti principali della strategia del governo Thatcher fu di preparare il terreno prima di attaccare un reparto significativo di lavoratori: ci si occupa solo di una industria, se ne fa un esempio e quindi si muove alla prossima. L’isolamento industria per industria fu la chiave del successo della Thatcher, attaccarono l’industria siderurgica, riducendo la richiesta di carbone, prima di affrontare i minatori. E anche prima dell’inizio dello sciopero dei minatori si assicurarono due risorse chiave: grandi riserve di carbone e la capacità di convertire le centrali elettruche alla combustione del petrolio. I minatori dovevano restare di esempio per il resto della classe.

39. Ma oltre alla sconfitta dei minatori era necessario sottomettere tutta la massa dei lavoratori poiché si preparava il macello in grande dell’industria. La chiave della teoria monetarista era che il sostegno dello Stato alle industrie è di per sé iniquo e quelle industrie che non erano più redditizie, chiamate “anatre zoppe”, dovevano essere soppresse. In realtà è per effetto della crisi capitalistica che le industrie debbono fermarsi e la disoccupazione salire. Quando vi sono milioni di disoccupati i lavoratori debbono essere contenti solo di averlo un impiego, e il lavoro, per coloro che l’hanno, deve essere il più temporaneo possibile, in unità di produzione di scala minima, nel settore dei servizi piuttosto che nella produzione materiale. È una illusione della quale la borghesia è infetta senza speranza che i lavoratori sono fondamentalmente leali e solo una malattia sconosciuta provoca disaffezione, forse il prodotto di una manciata di scontenti che provocano confusione. Non possono vedere che la fonte della “confusione” sta nei rapporti economici stessi, e nei conflitti per il prezzo del lavoro che ne derivano. La borghesia non può eliminare la lotta di classe senza eliminare anche lo sfruttamento del lavoro salariale, il che è impossibile, poiché senza lo sfruttamento del lavoro salariato da dove verrebbero i loro venerati profitti?

40. Oltre ad avere le industrie trasformate in una massa di relitti e ridotte le dimensioni della classe operaia, si approssima un incubo ancora peggiore: la bancarotta generale dell’economia. Secondo i fantasiosi princìpi monetaristi, l’economia dovrebbe sistemarsi da sola, in realtà la distruzione dell’industria ha minato la solvibilità delle tante decantate industrie di servizi; la contrazione della capacità di acquisto della classe operaia sta innescando una spirale calante dell’economia stessa. I Tory hanno solo accumulato problemi per il futuro e sarà questo che provocherà la prossima sollevazione della lotta di classe. L’inettitudine di chi ha sostituito la Thatcher, Major, non risiede nell’individuo ma nella situazione economica che ha ereditato. Un governo Tory costretto a cavalcare la crisi è il prodotto solo della situazione economica che si ritrova.

41. Le esistenti Unions di solito abbracciano la totalità dei lavoratori di una data industria, e solo saltuariamente lavoratori con spirito combattivo abbandonano le Unions, talvolta per gruppi Rank-and-File o non ufficiali per lottare per particolari rivendicazioni. Tendono ad essere temporanei, per l’ottenimento di un singolo scopo e scompaiono; chi è coinvolto in questi gruppi non ufficiali è difficile che lasci il sindacato della categoria, anche per la loro natura settoriale e limitata. Poiché le rivendicazioni di una singola categoria o mestiere riguardano spesso problemi reali ma settoriali, questo tipo di organizzazione non ha in sé la capacità di debordare e costituire la base di rinnovate espressioni proletarie. Come lavoratori anche questi oppositori tornano ad essere degli individui nell’ambito dei loro sindacati, benché alcuni possano esser perseguitati dai capitalisti o puniti nei sindacati.

Per questo i comunisti incoraggiano ogni forma di lotta che si apra la strada attraverso gli angusti interessi settoriali: non solo di contributi monetari di solidarietà abbisognano i proletari ma di organizzarsi in espressioni economiche ad estensione di classe.

42. Ripetutamente si cerca di organizzare opposizioni nelle Unions o nei posti di lavoro al fine di condurre la lotta di classe. Al presente queste non possono che essere minoritarie, espressione della coscienza attuale di settori operai fra i più determinati e combattivi. Inoltre o vedono se stessi come movimenti politici compiuti in sé, o tendono a ridursi al livello del Rank-and-Filism, pretendendo di essere i migliori rappresentanti di una dubbia democrazia, più vicini ai sentimenti dei lavoratori (e più influenzabili, nel bene o nel male). Non hanno altra prospettiva, infine, che essere i galoppini elettorali per la prossima generazione di dirigenti sindacali, i quali, sempre con loro grande sorpresa e disgusto, si trasformano in traditori dei sindacalizzati. Questo per il ruolo che si danno di leale opposizione all’interno delle Unions, per cui cessano di attrarre qualsiasi interesse da parte della maggioranza dei lavoratori e scivolano nella routine e nel disimpegno.

I movimenti Rank-and-File, i gruppi di base e simili tendono a disintegrarsi e a sparire. Dicono che è così che deve essere, coloro che vedono con estremo sospetto la stessa organizzazione dei lavoratori in questa fase del capitalismo.

Sfortunatamente non è solo che questi gruppi scompaiono, ma sono i lavoratori coinvolti che rimangono politicamente disorientati, demoralizzati e in maggioranza abbandonano la politica in tutti i sensi. Questo non significa che noi dovremmo tenerci da parte, aspettando che si disfacciano da soli: ovunque possibile ingaggiamo la battaglia in questi movimenti per saggiare se possono essere rivolti verso l’esterno, abbracciando le lotte di altri operai.

43. Il partito tende alla formazione di una Frazione Comunista fra i lavoratori che assuma una parte dirigente nella lotta di classe. Questa Frazione Comunista non è limitata solo ai membri del Partito ma anche a coloro che, non aderenti ad altri partiti, ne condividono gli scopi e gli obiettivi e che accettano la disciplina comunista e l’importanza del lavoro comunista.

Non solo affermiamo che c’è una necessità fondamentale di organizzazioni economiche proletarie per condurre la lotta di classe, c’è anche la necessità che si costituisca una Frazione Comunista all’interno di quelle organizzazioni economiche, al fine di far progredire l’organizzazione e il processo di comprensione di ciò che è necessario. Tale Frazione Comunista deve darsi per compito di partecipare ad ogni tipo di lotta nella quale i lavoratori sono coinvolti, rafforzando ed estendendo la lotta. È attraverso questo processo, nel quale i comunisti rappresentano la linea di marcia lungo la quale i proletari devono avanzare, che porta in ultima istanza alla presa del potere proletario, e finisce lo sfruttamento salariale per sempre.

 

 

 

 

 


Appunti per la Storia della Sinistra

(continua dal numero 35)

Il decennio di preparazione della seconda guerra imperialistica

«Il 1914 è una data segnata con caratteri di fuoco nella storia della lotta di classe. Dopo avere raggiunto il suo apogeo (Lenin lo stabilisce intorno al 1870) il capitalismo, entrato nella sua ultima fase, nella fase dei trust e dei cartelli, marciava inesorabilmente verso l’ora in cui lo stesso sviluppo delle forze economiche da esso generate apriva la tomba al suo regime e, per dirla come Marx, il becchino, il proletariato, trovava nel grado raggiunto dal progresso delle forze di produzione, le condizioni di maturità per instaurare la sua dittatura volta alla trasformazione dell’economia verso il socialismo» (Prometeo, n. 5, settembre 1928).

Finita l’epoca in cui il capitalismo rappresentava un elemento storico progressivo, era subentrata quella che da Lenin fu definita l’ultima fase, la fase parassitaria del capitalismo, in cui comincia il declino del capitalismo mentre erano mature le premesse per la nuova economia proletaria.

Questo non significava, né per Lenin né per la Sinistra, che nella sua fase imperialista e decadente il capitalismo non fosse in grado di effettuare progressi industriali e tecnici, perfezionare la divisione del lavoro; in una parola non significa che il capitalismo sarebbe morto di morte naturale. Il capitalismo resta in vita malgrado che il regime sia divenuto un ostacolo al progresso ed alla stessa esistenza della collettività umana; tutto questo a meno che non intervenga la classe rivoluzionaria per portare a compimento la sua funzione storica.

La lotta, a volte palese a volte sotterranea, ma sempre accanita, tra un modo di produzione condannato dalla storia e le forze da esso generate, il moderno proletario, questa lotta perenne poteva concludersi con una sola delle due possibilità: 1) «O la classe condannata riusciva a mantenere il suo potere, ed allora la lotta per i mercati, che prima si svolgeva attraverso il “pacifico” schiacciamento degli industriali meno forti, prendeva le nuove forme ove milioni di uomini armati fino ai denti in nome del barbaro imperatore di Germania, o del civile democratico e repubblicano re d’Inghilterra o presidente francese, si scannavano per difendere gli interessi dei loro rispettivi oppressori, ed in definitiva per incendiare moli enormi di ricchezze che la produzione aveva ammassato e che una società basata sull’oppressione dell’enorme maggioranza dei consumatori, non riusciva più a smaltire (...)». 2) «O la classe rivoluzionaria riusciva a conquistare il potere politico, a spezzare la macchina statale del capitalismo che, per resistere alla condanna che pronunciava contro di essa lo sviluppo assunto dalle forze produttive, si apprestava a spalancare di fronte alla classe lavoratrice la catastrofe della guerra».

L’alternativa che allora si pose fu: guerra o rivoluzione. Passò la guerra che fu la prima guerra intraimperialista, risultato inevitabile degli antagonismi tra gruppi imperialisti quando la crisi economica paralizzava la produzione ed il mercato. La guerra, che fu dunque la manifestazione della crisi del capitalismo, e non la causa, giunse quando l’organizzazione mondiale dei lavoratori, ossia la Seconda Internazionale, consegnò il proletariato rivoluzionario alla discrezione del nemico di classe.

Accanto ed assieme alla socialdemocrazia svolsero il loro ruolo sanguinario i pacifisti, usati, dall’uno e dall’altro gruppo belligerante, per dare vigore e giustificazione teorica al loro cannibalismo.

«Si – scriveva Prometeo – il capitalismo genera mille antagonismi, esso genera anche la guerra, ma spetta ai pacifisti di tutte le risme di gridare alla pace contro la guerra. Spetta invece al proletariato comunista, sulla base dell’interpretazione marxista, di dichiarare che la guerra scoppia quando anche la rivoluzione è possibile e che il nostro dovere è, in conseguenza, di denunciare sin d’ora i possenti preparativi di guerra del capitalismo, non perché vogliamo sollevare il proletariato a combattere in nome della pace contro la guerra, ma perché vogliamo sollevare il proletariato a combattere per la guerra civile contro la guerra imperialista, per la rivoluzione comunista contro la pace impossibile».

Era la stessa parola d’ordine lanciata da Lenin, dalla Sinistra e da altre esigue minoranze di sinistra; la parola d’ordine che aveva permesso la vittoria rivoluzionaria in Russia e che permise (alla faccia di tutti i pacifisti), la precoce fine della guerra a causa del contagio rivoluzionario che si era propagato nei vari fronti del conflitto tra proletari armati. Troppi e troppo insinceri erano stati i sentimenti dei pacifisti per non denunciare le loro intenzioni militariste ed i loro frenetici preparativi bellici. Di pace si era abbondantemente parlato già prima dello scoppio della guerra e la guerra stessa fu fatta per impedire il ripetersi, in futuro, di qualsiasi guerra.

Il campione del pacifismo mondiale, il presidente americano Wilson, non aveva aspettato la fine della carneficina imperialistica per lanciare il suo messaggio di pace, infatti fin dal 20 dicembre 1916, a poco più di un mese dalla sua elezione, aveva rivolto un appello ai governi belligeranti perché definissero pubblicamente i rispettivi scopi della guerra. Tale definizione avrebbe permesso agli Stati Uniti di avviare una mediazione tra le potenze al fine di ristabilire l’armonia tra i popoli e le nazioni.

La sincerità del presidente americano fu provata il 6 aprile dell’anno successivo, il 1917, quando gli USA entrarono in guerra contro la Germania stremata «a causa delle violazioni del diritto che ci riguardano direttamente e rendono impossibile la vita del nostro popolo a meno che non siano riparate e il mondo sia assicurato che non si ripeteranno» (Messaggio al Congresso degli Stati Uniti dell’8 gennaio 1918). In questo messaggio Wilson enunciò il suo programma di pace basato sui famosi 14 punti. Cardine principale del programma wilsoniano era il rispetto delle nazionalità ed il diritto di tutti i popoli alla autodecisione. Un programma “nobilissimo” che suscitò gli entusiasmi dei democratici di tutto il mondo. Passata l’euforia del momento venne poi notato come questo programma corrispondesse perfettamente agli interessi degli Stati Uniti ed alla necessità di penetrare senza ostacoli, con l’alto grado di sviluppo raggiunto dalla sua produzione industriale e con suoi capitali, nel mercato internazionale, a tutto svantaggio degli alleati Francia ed Inghilterra.

Era stato sempre Wilson che l’11 marzo aveva inviato al governo dei Soviet un messaggio nel quale, tra l’altro, si diceva: «Il popolo degli Stati Uniti sta con tutto il cuore con il popolo di Russia nel suo tentativo di liberarsi per sempre dal governo autocratico e divenire padrone dei suoi destini».

Ma questa dichiarazione di amore non impedì di inviare a Vladivostok una spedizione di 8.500 soldati «per dare ai russi ogni assistenza loro gradita nell’organizzare la propria autodifesa». Gli americani si unirono così agli oltre 70.000 soldati giapponesi impegnati «semplicemente alla protezione della vita e delle proprietà giapponesi», i quali, a loro volta, si erano trovati a fianco a fianco con una forza di intervento britannica sbarcata per contrastare l’avanzata tedesca che, secondo fonti occidentali, era in procinto di marciare direttamente attraverso la Russia, oltrepassare gli Urali ed investire la Siberia, fino a Vladivostok. Quando venivano raccontate baggianate di questo tipo era l’anno 1918 e le armate austro-tedesche erano praticamente annientate. In un secondo tempo si disse che dei prigionieri di guerra tedeschi, inviati in Siberia nei campi di concentramento, si erano armati ed avevano preso il potere in nome del Kaiser: da qui la necessità dell’intervento britannico.

Con la vittoria delle democrazie sull’assolutismo degli Imperi Centrali si sarebbe voluto dimostrare che non si era combattuto invano. Così a coronamento della giustizia trionfante sorse, il 28 aprile 1919, la Società delle Nazioni «allo scopo di promuovere la cooperazione internazionale, realizzare la pace e la sicurezza degli Stati, mercé: l’impegno di non ricorrere in dati casi alle armi, lo stabilimento dei rapporti palesi, giusti e onorevoli fra le nazioni; il fermo riconoscimento delle regole del diritto internazionale come norme effettive di condotta fra i governi; l’osservanza della giustizia e il rispetto scrupoloso di ogni trattato nelle relazioni reciproche dei popoli civili». Riguardo alle colonie veniva garantito quanto segue: «Alle colonie e ai territori che in seguito all’ultima guerra hanno cessato di trovarsi sotto la sovranità degli Stati che prima li governavano, e che sono abitati da popoli non ancora in grado di reggersi da soli, nelle difficili condizioni del mondo moderno, si applicherà il principio che il benessere e lo sviluppo di tali popoli è missione sacra di civiltà (...) Il metodo migliore per dare effetto pratico a questo principio è di affidare la tutela di questi popoli a nazioni progredite che, grazie ai loro mezzi, alla loro esperienza (...) possano meglio assumere questa responsabilità e siano dispose ad accettare tale incarico» (Punto 22 del Patto della S.d.N.).

Vi era certo una bella differenza tra questa ipocrisia da sinedriti e le chiare proposte avanzate dai bolscevichi l’8 novembre 1917 (il giorno successivo alla presa del potere): «Il governo degli operai e dei contadini (...) propone a tutti i paesi belligeranti ed ai loro governi di iniziare immediatamente negoziati per una pace equa e democratica. Per pace equa e democratica il governo intende una pace immediata senza annessioni (vale a dire senza impossessarsi di territori stranieri e senza l’annessione forzata di nazionalità straniere) e senza pagamento di indennità».

Nel Nuovo Ordine mondiale, affermava Wilson, non si sarebbe dato sfogo a «procedimenti punitivi in quanto l’obiettivo della guerra è che il mondo sia reso sicuro e sia possibile vivervi: e in particolare sia reso sicuro per ogni nazione amante della pace»".

Il Covenant (patto) della S.d.N. costituì la parte iniziale di tutti i trattati di pace e quando il primo di questi, il trattato di Versailles, entrò in vigore la S.d.N. iniziò la sua esistenza. L’inclusione del Covenant nei trattati era stato un punto sul quale il presidente americano aveva insistito in maniera particolare durante la Conferenza di Pace.

La S.d.N., che si prefiggeva di «fornire garanzie reciproche di indipendenza politica e territoriale a tutti gli Stati» e di «promuovere la cooperazione fra i suoi membri per una più ampia soddisfazione degli interessi comuni», essendo così strettamente connessa ai trattati di pace iugulatori imposti dagli imperialisti vincitori ai vinti, appariva subito, anche da un punto di vista puramente borghese, come uno strumento creato dalle potenze vincitrici alla scopo di inchiodare gli avversari alle condizioni imposte con la forza delle armi e per impedire ogni rivalsa futura da parte degli sconfitti. Lo stesso Francesco Saverio Nitti, a proposito di Versailles, dichiarava: «È stato non solo il più ingiusto e più immorale trattato dei nostri tempi, ma una vera onta delle Democrazie e in certa guisa la prova che lo spirito di rapina non era nei Governi Democratici assai minore che nei più disonesti governi tirannici».

La vendetta dei vincitori, ed in particolar modo della Francia, infierì soprattutto sulla Germania. E se in qualche modo questa vendetta venne in seguito mitigata ciò dipese dal fatto che il capitalismo internazionale temeva seriamente il diffondersi del contagio rivoluzionario bolscevico.

Allora, proprio per paura della rivoluzione, si diede fiato alle trombe della pace. Nel 1924 il Piano Dawes tendeva ad alleviare la Germania almeno sul terreno delle riparazioni. L’anno dopo il Patto di Locarno consolidò ancor più i rapporti di “fratellanza fra i popoli”. Nel 1926 Gustav Stresemann e Aristide Briand, ministri degli esteri di Germania e Francia, ricevevano il premio Nobel della pace. Nello stesso anno la Germania venne ammessa nella Società delle Nazioni.

«Lenin ci ha insegnato – scriveva la Frazione italiana sul proprio organo di stampa – che il "tapage" intorno alla pace si sviluppa proprio quando più fervono i preparativi per la guerra. I fatti lo provano. Mai, nel dopoguerra, avevamo assistito come in questi tempi, alle grandi manovre terrestri, aeree e marittime, alla corsa galoppante verso gli armamenti» (Prometeo, n. 6, 15 settembre 1928).

Nell’agosto 1928 si tenne a Bruxelles un congresso al quale presero parte tutte le personalità di spicco del pacifismo europeo: il democratico Vandervelde, che nel 1917 si era distinto nella lotta contro la rivoluzione vittoriosa in Russia; i socialdemocratici italiani, che avevano consegnato il proletariato disarmato alla reazione fascista; i rappresentanti del governo tedesco di Hindenburg, gli stessi che avevano affogato nel sangue il movimento spartachista; i sostenitori del boia Horty, affossatore della rivoluzione di Bela Kun; i leali oppositori di Poincaré, che negli stessi giorni avevano ammassato, ad Ivry, i battaglioni di polizia contro i manifestanti comunisti.

Il congresso aprì i suoi lavori rendendo omaggio alla Società delle Nazioni e si svolse ispirandosi ai suoi principi di giustizia, fratellanza e pace. Si chiese che alla S.d.N. venisse affidato il controllo economico sui trust, il disarmo, l’imposizione ai governi di effettuare misure di carattere socialista. Ma a parte le apparenze di facciata il congresso di Bruxelles rappresentò un tentativo, patrocinato da Vandervelde, di unificazione delle politiche dei diversi partiti socialisti su di una base pan-europea, primo passo per la realizzazione dell’unificazione europea in contrapposizione al potere americano.

Nell’agosto 1928, come aveva già fatto nell’agosto 1914, il socialismo si assumeva in prima persona il compito della difesa degli interessi capitalistici. Il capitalismo europeo, dopo aver sconfitto i movimenti rivoluzionari, anche grazie all’appoggio della finanza americana, cercava di creare una base di resistenza comune contro la supremazia di oltre oceano. Ed è quindi perfettamente comprensibile che alla manifestazione socialista avessero dato il loro plauso e la loro adesione gli arcivescovi belgi, le principesse austriache, ed in Germania sia i preti sia i re dell’acciaio.

Contemporaneamente a Mosca si teneva il VI Congresso dell’Internazionale che dava un ulteriore colpo di piccone al già demolito edificio rivoluzionario e dove si parlava di pericolo di guerra con accenti molto simili a quelli del congresso di Bruxelles. «In questo anniversario del 1914 – commentava Prometeo – il proletariato rivede vecchie e nuove figure di traditori disposti a tutti i tradimenti. Vandervelde e gli assassini degli spartachisti hanno declamato a Bruxelles. I secondini dei più grandi rivoluzionari viventi hanno declamato a Mosca».

Vandervelde aveva parlato di «lotta per la pace e contro la guerra»; nel covo dei ladroni di Ginevra il segretario di Stato americano Kellogg aveva addirittura presentato il progetto di «mettere la guerra fuori legge». Il "Patto Kellogg" venne firmato da quindici nazioni fra le quali Francia, Inghilterra, Stati Uniti e Italia. Il socialdemocratico Müller, cancelliere di Hindenburg, chiedeva che si desse rapida applicazione al piano e si convocasse una riunione dei partiti socialisti di Francia, Germania e Inghilterra per esaminare la questione della evacuazione della Renania. Anche Litvinov, per conto dell’URSS, aderiva al patto di Kellogg, ma reclamando che si procedesse "realmente" nel cammino del disarmo.

La nostra Frazione metteva in evidenza come tutta la propaganda pacifista in futuro avrebbe servito (come in passato era stata quella della democrazia contro il kaiserismo e quella della civiltà contro il feudalismo zarista) a gettare i proletari sui fronti della guerra imperialista. «E quando il giorno sarà venuto non mancherà ai Poincaré ed ai Vandervelde il modo di provare che la guerra viene dichiarata in stretta osservanza del patto che la metteva fuori legge».

Il "Patto Kellogg" era stato proceduto da quello che Lapinski aveva definito il "Patto contro Kellogg", ossia l’accordo navale franco-britannico. Anche questo accordo era nato sotto l’immancabile insegna della pace, ma mirava, in realtà, ad un incremento dei sottomarini francesi allo scopo di determinare una intesa contro gli Stati Uniti ed orientare un piano di difesa europeo nel quale avrebbe potuto prendere parte anche la Germania, alle condizioni però dettate dalla Francia. Ma, come commentò Trotski, «l’accordo navale franco inglese del luglio 1928 fu liquidato di fronte ad un semplice aggrottar di ciglia dell’America».

Di fronte al protezionismo doganale degli USA, Briand prospettava una unità doganale europea. Ma il progetto degli Stati Uniti d’Europa si dimostrava un aborto già prima di essere concepito. I futuri unificatori del continente europeo erano innanzitutto spaventati dalle probabili reazioni americane e Briand cominciava e terminava i suoi discorsi giurando che l’unificazione europea non doveva in alcun modo intendersi diretta contro l’America. Ripetendo la parole di Briand, Stresemann polemizzava con lui in maniera velata. Henderson aveva polemizzato con l’uno e con l’altro, ma soprattutto con il presidente del consiglio francese.

«Di fatto - riassumeva Trotski - la conversazione ginevrina si svolse nel modo seguente: Briand – in nessun caso contro gli Stati Uniti. Stresemann – giustissimo. Ma alcuni nascondono altre opinioni. L’America non può avere fiducia che nella Germania. Mac Donald – lo giuro sulla Bibbia che la lealtà e l’amicizia sono attributo esclusivo degli inglesi, particolarmente degli scozzesi. È così che si recò a Ginevra la "nuova atmosfera internazionale". La debolezza interna dell’Europa proviene soprattutto dalla sua rovina economica. La forza economica degli Stati Uniti costituisce, al contrario, la loro unità» (Trotski).

Stresemann, che vedeva la Germania maggiormente minacciata dalla Francia che non dagli Stati Uniti, si affrettava a dichiarare che questo utile progetto non doveva in nessun modo essere diretto contro l’America. I laburisti inglesi, che temevano la supremazia francese su di una Europa unita, chiedevano di discutere, prima di tutto, sulla riduzione degli eserciti effettivi, cosa che i francesi respingevano assolutamente. Per l’imperialismo francese la pace poteva essere mantenuta alla sola condizione che si mantenesse lo status quo. Ogni modifica alla ripartizione dell’Europa o delle colonie avrebbe minacciato la pace raggiunta. In altre parole si trattava di riconoscere l’intangibilità del trattato di Versailles. Dato per scontato questo concetto, la Francia preconizzava un "sistema di sicurezza" fondato su accordi fra i maggiori gruppi per imporre il rispetto dei trattati e l’"arbitraggio" per mettere "fuori legge" chiunque osasse intaccarne le basi.

Briand sosteneva che Versailles e solo Versailles rappresentava la pace, e che ogni sua modifica potesse di nuovo precipitare il mondo nella guerra. E, sempre in difesa della pace la Francia stipulava trattati di amicizia con Polonia, Jugoslavia, Romania, ecc.

Ma la Germania si sentiva minacciata ed accerchiata da questa politica di pace francese e, per bocca di Curtis, non esitava a dichiarare che gli interessi della pace si difendono solo se si stabilisce una armonia fra i popoli, armonia che era stata spezzata proprio dai trattati di pace. Siccome questa armonia trovava il suo principale ostacolo nella strapotenza degli armamenti francesi, i tedeschi sostenevano che il programma per la pace passava innanzitutto sul disarmo degli armati o sulla possibilità di armarsi da parte dei disarmati. Il governo tedesco sapeva bene di non parlare a nome della pace, ma in vista di un prossimo conflitto per il quale cercava di preparare le migliori condizioni.

L’Inghilterra, da parte sua aveva un doppio scopo da raggiungere: salvaguardare il suo impero mondiale e contrastare l’egemonia della Francia sul continente; quindi seguiva la politica della "doppia bandiera", che si riassumeva nell’adesione al piano Briand per l’unificazione europea da conseguirsi, però, nel quadro della Società delle Nazioni, dove era già consolidato un raggruppamento di forze favorevoli all’Inghilterra.

La Frazione, nel n. 42 di Prometeo (1° dicembre 1930) scriveva: «Noi vediamo profilarsi, nella direzione della guerra, e della sua preparazione, una doppia manovra del capitalismo. I gruppi imperialisti che, in conseguenza del trattato di Versailles, si trovano in una situazione di inferiorità rispetto agli altri, e che hanno per conseguenza una zona più ristretta di manovra nel campo economico, agiscono proclamando la necessità di una modificazione della situazione internazionale e, sotto questa copertura, s’incamminano verso l’instaurazione di governi fascisti. Gli altri gruppi imperialisti si preparano egualmente alla guerra ed operano una mobilitazione ideologica sotto la bandiera della democrazia e dell’antifascismo, appunto perché meno ristretto è il campo di manovra di questi imperialisti sul terreno economico».

All’inizio del 1931 venne concluso un trattato navale anglo-franco-italiano. Fino ad allora i rapporti fra Italia e Francia erano stati molto tesi e le divergenze sembravano destinate ad aumentare. L’Italia, rivendicando l’importanza della penisola sul Mediterraneo, chiedeva la parità navale, mentre la Francia, facendo valere l’estensione del suo impero coloniale, rivendicava i suoi "bisogni assoluti".

Un mancato finanziamento americano convinse però il regime fascista a più miti consigli, specialmente se i quattrini negati dagli USA potevano giungere dall’Inghilterra tramite il laburista Henderson, ex presidente dell’Internazionale Socialista, che aveva sempre battuto la gran cassa del boicottaggio finanziario contro il fascismo.

Ma la formazione di una coalizione imperialista non può che produrne un’altra formata da altri paesi imperialisti antagonisti. Ed infatti, immediatamente dopo l’accordo navale anglo-franco-italiano, il ministro tedesco Curtis si recava a Vienna dove veniva stabilita l’intesa per la costituzione del blocco danubiano-tedesco e per un accordo economico basato sulla reciproca apertura dei mercati agricoli ed industriali; ciò in vista di una successiva abolizione delle barriere doganali.

Se la Conferenza Danubiana fu anch’essa presentata a Vienna e a Berlino come una pietra angolare del grande edificio della pace universale, a Parigi la notizia venne accolta con tutt’altro favore: la stampa si ricordò immediatamente che l’unificazione degli Stati in Germania aveva percorso la stessa strada: cominciando proprio con lo Zollverein (unione doganale). Ciò, nel 1931, non avrebbe rappresentato che un primo passo verso l’unificazione austro-tedesca.

Di fronte a questo nuovo fatto l’imperialismo straccione italiano alzò immediatamente la testa e cercò di trarne il maggior profitto dimostrandosi disposto ad un riavvicinamento del tipo triplicista. Inoltre, fino da allora sia l’Italia fascista sia la Germania socialdemocratica ritenevano consigliabile un loro blocco in funzione antifrancese. Anche l’Inghilterra cercava ora di rimescolare le carte e proponeva l’entrata della Germania nel patto navale, nello spirito di una pacifica unità europea sotto la direzione inglese, ma a questo punto fu l’alleata di oltre Manica che fece saltare il progetto.

«Tutti questi elementi della situazione internazionale devono rendere estremamente vigili i proletari rivoluzionari. I contrasti si accentuano tra i diversi imperialismi i quali tutti, sotto il pretesto della difesa della pace, si preparano alla guerra» (Prometeo, n. 50, 15 aprile 1931). Ed infatti non solo non si parla più di Stati Uniti di Europa, non solo non si parla più di disarmo, ma oltre a questo sembrano impossibili a concludersi anche accordi tra i paesi imperialistici senza che subito dopo scoppino contrasti insanabili tra di loro. La Francia si dichiarava disposta ad instaurare un rapporto di collaborazione e amicizia con la consorella latina basata su di una incontrollabile superiorità militare. Il fascismo, deluso dalle lusinghe laburiste, rispolverava il suo orgoglio nazionale ed espansionistico. E dire che la socialdemocrazia internazionale aveva giustificato l’idillio Mussolini-Henderson come «un gran passo in avanti» sul cammino della pace. L’Inghilterra, se non proprio in campo militare, in quello economico impone la sua egemonia. Il trattato austro-tedesco costituisce una speronata agli ex alleati dell’Intesa, intenti a litigare tra di loro.

Rispetto al tentativo tedesco di Anschlüss la Francia attuava una politica prepotente di isolamento della Germania attraverso l’assoggettamento economico e finanziario degli Stati balcanici e del monopolio dei trusts e della Banca che regolano, secondo i trattati imposti, la produzione e l’economia di quasi tutto il mercato europeo.

D’altro campo il capitalismo tedesco che aveva presentato l’accordo doganale come un mezzo per salvare l’Austria dalle sue difficoltà economiche, mirava alla realizzazione pratica del famoso "Anschlüss" che non significava altro che l’assorbimento dell’Austria da parte della Germania. Vienna, su cui puntava la politica tedesca, rappresentava il ponte di congiunzione economico dei bacini industriali tedeschi con l’indispensabile produzione agricola danubiana. L’Austria, a sua volta, sarebbe stata sollevata dall’accerchiamento costituito da Cecoslovacchia, Ungheria, Iugoslavia, a quell’epoca Stati satelliti dell’imperialismo francese e dell’Italia che con l’occupazione di Trieste aveva tolto loro l’unico sbocco al mare.

Contemporaneamente sempre più presente ed attiva si faceva la presenza russa sulla politica internazionale. Litvinov a Ginevra, ponendo ormai il problema della difesa dello Stato russo negli stessi termini della difesa nazionale, dichiarava che l’Unione Sovietica, per il conseguimento dei suoi interessi, non si riteneva vincolata da alcuna riserva politica per trattare con questo o quel governo. E dalla tribuna della Società delle Nazioni il rappresentante dello Stato Sovietico lanciava alle potenze riunite nel covo dei briganti l’invito alla «emulazione pacifica fra le due economie: quella proletaria e quella capitalistica». Come di vede il krusciovismo del 1956 veniva già praticato, nel 1931, da Stalin.

Nel maggio del 1931 la Russia comincia ad intavolare consultazioni con la Francia in vista di un accordo di non aggressione. Questo nuovo orientamento sovietico, che fino ad allora era stato indirizzato verso l’Italia e la Germania, permise alla Francia di completare la sua opera di isolamento tedesco. La Romania aveva ricevuto dalla Francia un prestito considerevole e la Grecia era stata legata alla sua politica attraverso un trattato commerciale.

«Le prediche sul disarmo – ammoniva ancora Prometeo nel giugno 1931 – non riescono a mascherare il pericolo della guerra che nella formazione dei blocchi trova i suoi fattori essenziali. La preoccupazione vivamente manifesta nella ultima conferenza di Ginevra è principalmente consistita nella profonda e mortale crisi economica del sistema capitalista" (Prometeo, n. 53, 7 giugno 1931).

Mentre tutte quante le potenze si impegnavano nella spasmodica corsa per la pace, o per la guerra, che in regime capitalista è la stessa cosa, si arrivò nel febbraio 1932 alla conferenza di Ginevra sugli armamenti. Prometeo scriveva: «Il circo è aperto da alcuni giorni e non è escluso che le rappresentazioni durino per alcuni mesi per la grande soddisfazione dei commercianti ginevrini i quali – in questi tempi di crisi – devono aver non poco sussultato all’idea che il baccanale non avesse più luogo per la data fissata. Le belve nel circo di Ginevra hanno cominciato a guardarsi stupite – e non avevano torto – per il fatto che non era ancora possibile incontrarsi, e preparare i gas fumogeni del disarmo, e che la guerra non era ancora scoppiata. Gli avvenimenti di Oriente erano là per dare alla cerimonia di apertura la sua vera significazione: ma il gergo ginevrino della Società delle Nazioni trova una soluzione a tutto, anche alle situazioni più intricate. Ed è risaputo che tutta la stampa benpensante ed i governi imperialisti riescono a dimostrare che in Oriente non c’è la guerra. In effetti questa è dimostrata dalla dichiarazione di guerra e nullamente dalle cannonate, le incursioni degli aeroplani, gli incendi, le devastazioni, ecc. Fra Giappone e Cina non esiste la dichiarazione di guerra, quindi tutti gli strumenti della pace sono salvi (...) Per bene intendere la significazione della conferenza di Ginevra occorre non limitarsi a ritenere che le dichiarazioni pacifiste, gli omaggi che le belve sciorinano sull’altare del disarmo, abbiano il solo significato di gettare della polvere negli occhi. Tutte queste dichiarazioni hanno un’altra importanza: le loro diverse intonazioni servono a difendere delle posizioni di forza di questo gruppo imperialista, ed a diminuire o a smantellare le posizioni di forza del gruppo rivale» (Prometeo, n. 69, 21 marzo 1932).

Così ogni imperialismo ha un concetto di pace del tutto diverso da quello dell’imperialismo antagonista. È chiaro quindi che gli Stati attualmente più potenti, ossia che hanno un incontrastato predominio militare ed economico, basino la loro politica del disarmo sul blocco della corsa agli armamenti. Il pacifista francese, ad esempio, ben sapeva che la sua posizione di predominio in Europa dipendeva da Versailles e che l’equilibrio scaturito da Versailles sarebbe stato messo in discussione solo da una nuova guerra. Per meglio preparare l’imperialismo francese alla guerra bisognava mettere quello tedesco nell’impossibilità di riarmarsi. Il pacifista francese temeva che la Germania potesse dotarsi di mezzi bellici capaci di sferrare un attacco e non si stancava di elencare gli orrori che la guerra dei gas e degli aeroplani tedeschi avrebbero potuto provocare; ma la sua coscienza non veniva per niente scalfita quando questi gas e questi aeroplani portavano a compimento la “missione civilizzatrice” in Indocina.

Gli imperialismi meno forti, al contrario, basavano la loro politica del disarmo sulle tesi generali dell’eguaglianza degli armamenti che si sarebbe stabilita, a seconda dei casi, o nella facoltà di armarsi fino a raggiungere le posizioni dell’avversario (Germania), o a disarmare il rivale per meglio prepararsi a batterlo (Italia).

E poiché nel gran Barnum della Società delle Nazioni nessuno credeva al valore delle proposte avanzate, gli imperialismi preparavano le loro batterie per la guerra prossima ventura, e Ginevra non rappresentava che una tappa in vista di questa guerra; una arena dove si andavano polarizzando le coalizioni imperialistiche, dove ogni accenno alla pace non era che il diretto riflesso delle necessità militari delle diverse potenze.

"Ginevra è dunque una tappa verso la guerra – scriveva Prometeo – Domani le note che risuoneranno nel circo si vedranno in diretta relazione con i tanks ed i gas che dovrebbero lanciarsi i proletari gli uni contro gli altri. Di più Ginevra corrisponde alla particolarità della situazione generale attuale: esistono le condizioni obiettive per la guerra, ma mancano le condizioni che possano scatenare subitamente la guerra. Da un altro canto le stesse condizioni obiettive per la rivoluzione comunista esistono, ma mancano quelle soggettive. La mancanza di una idonea preparazione dell’imperialismo tedesco è l’unica "garanzia" contro la guerra immediata, come d’altra parte l’assenza dei partiti comunisti, l’influenza politica del centrismo è l’unica "garanzia" per il capitalismo contro la rivoluzione. E la caratteristica della situazione mondiale è data dal fatto che proprio la Germania sia al contempo la chiave della situazione interimperialista, come dei rapporti di classe fra il capitalismo e il proletariato rivoluzionario».

Se, in nome della pace, tutte quante le potenze si stavano preparando alla guerra degli eserciti, la guerra economica e commerciale era già scoppiata. Il capitalismo francese, ad esempio, adottava la politica del "contingentamento" per limitare la concorrenza estera nei suoi mercati e l’imposizione del 15% sui carboni inglesi per controbattere i colpi ricevuti dalla svalutazione della sterlina e dai "dazi Runciman". Il capitalismo inglese adottava direttamente la politica protezionistica stabilendo dazi del 10% sul valore e dava al Consiglio dei Ministri la facoltà di innalzare questi dazi alle soglie che saranno ritenute necessarie. Il partito conservatore allora al potere parlava, già all’inizio del 1932, della possibilità di arrivare fino al 100%. L’accordo commerciale italo-francese venne disdetto. La Germania non era in grado di pagare le rate delle riparazioni di guerra alla Francia e quest’ultima di far fronte alle sue scadenze con gli Stati Uniti.

La guerra economica, sia quella commerciale sia quella dei crediti, anche se spietata lascia pur sempre un margine entro il quale gli imperialismi possono muoversi; quando questo margine viene a mancare non c’è altra soluzione che quella cruenta, quella dello scontro armato. È quanto era accaduto in Oriente dove la guerra economica non poteva essere arginata entro i limiti del boicottaggio cinese nei confronti del Giappone; ed era scoppiata la guerra, anche se la Società delle Nazioni non se n’era accorta.

Era su questo scenario internazionale che si svolgeva a Ginevra la conferenza per il disarmo.

Nel corso di questa conferenza venne registrata una significativa svolta da parte dell’Unione Sovietica. Fino ad allora la Russia aveva tenuto un atteggiamento molto ambiguo, ma non totalmente scorretto da un punto di vista proletario, forse perché ogni evoluzione richiede dei tempi di trasformazione. In passato i rappresentanti di Mosca avevano presentato proposte del tipo "disarmo immediato, generale e totale". Se le proposte di Mosca erano state respinte esse avevano però indirettamente dimostrato l’impossibilità della pace in regime capitalista.

Facendo un passo indietro, il 30 novembre 1927 Litvinov (di fronte alla Commissione Preparatoria, istituita fin dal 12 dicembre 1925, perché, appunto, preparasse la Conferenza di Disarmo) aveva dichiarato: «Il governo sovietico è sempre stato dell’avviso che in regime capitalista non esiste motivo per fare assegnamento sulla eliminazione delle cause che danno origine ai conflitti armati. Il militarismo e le grandi flotte sono essenzialmente conseguenze naturali del sistema capitalista. Il loro stesso sviluppo fa sì che essi intensifichino le contraddizioni esistenti, accelerando e acuendo potentemente tutti i conflitti potenziali convertendoli inevitabilmente in scontri armati (...) Sebbene la guerra mondiale sia stata chiamata la "guerra per por fine alle guerre", tutta la storia delle relazioni internazionali nel dopoguerra è stata una storia di ininterrotto e sistematico accrescimento delle forze armate negli Stati capitalisti e di un grande aumento del peso generale del militarismo, che grava sulle spalle delle classi lavoratrici».

Il rappresentante russo, dopo aver accusato la Commissione di avere svolto funzione «solamente di natura decorativa», imputava alla S.d.N. di non avere nessuna intenzione di effettuare una riduzione degli armamenti esistenti: al contrario, gli Stati appartenenti alla S.d.N. potranno perfino ottenere una sanzione che legittimi i loro aumenti di armamento in avvenire.

Litvinov presentava quindi la proposta sovietica articolata in 14 punti. Alla sua esposizione aggiunse un ironico commento: «Questa è la nostra proposta di disarmo. A prima vista il suo radicalismo, la sua ampiezza vi sembreranno complicati, di difficile attuazione; anzi addirittura utopistici. Ma ciò è dovuto al fatto che il tema è nuovo. Si può infatti dire che la questione del disarmo generale non è stata mai finora sollevata». E, prevedendo l’accusa che i 14 punti rappresentassero soltanto della "facile propaganda bolscevica", aggiunse: «questa volta siamo pronti ad accettare la sfida e a dimostrare che questa è propaganda per la pace (...) Ma se la Commissione Preparatoria per il disarmo non è il luogo adatto alla propaganda, bisogna allora ammettere che siamo incorsi in un malinteso».

Significative sono le reazioni ai 14 punti presentati da Litvinov: il generale De Marinis, rappresentante italiano ammise che «il piano è fatto in modo tale da eliminare la guerra non solo nel futuro, ma di cancellare perfino la storia». Il conte Clauzel, delegato francese, trovava la proposta «indubbiamente in armonia con l’ideale, che noi tutti coltiviamo, vale a dire l’instaurazione di una vera pace nel minor tempo possibile». Lord Cuschenden predicò che «il disarmo generale e totale è stato l’ideale dell’umanità fin dagli albori della sua storia e in generale anch’io sono favorevole ad esso». Ma tutti quanti dichiararono che il progetto dovesse essere rigettato sia per motivi procedurali, sia perché la maggior preoccupazione era la sicurezza. A levar tutti d’impiccio fu il signor Sato, giapponese: «il progetto di convenzione davanti a noi – disse – contempla il disarmo totale ed integrale, cosa non prevista dal Covenant».

La proposta russa, come era naturale, venne rifiutata e al suo posto non venne adottata nessuna altra risoluzione, ma le pubblicazioni sul tema del disarmo dei vari organi della Lega riempirono ben 14.000 pagine. Al congresso dei Soviet del maggio 1929 Rykov poteva dire: «Essi non hanno eliminato nemmeno un soldato, un cannone, un incrociatore, una cartuccia, ma sono riusciti a scrivere 14.000 pagine».

Di per sé la proposta russa non era da considerarsi scandalosa: «in effetti è perfettamente giustificato che lo Stato proletario provi agli sfruttati di tutto il mondo la impossibilità della pace in regime capitalista, provando che gli imperialismi rifiutano la condizione tecnica per evitare la guerra, rifiutando cioè il disarmo immediato». In corrispondenza di questo modo "indiretto" dello Stato russo i partiti avrebbero dovuto fare la «la prova "diretta" di questa impossibilità con la posizione di Lenin per la trasformazione in guerra civile della guerra imperialista».

La Frazione poteva concedere che fino al 1932 la posizione dello Stato dell’Unione Sovietica sul disarmo potesse essere considerata non in contraddizione con le direttive marxiste; ma, alla Conferenza del 1932 la Russia non si presentò, come le altre volte, con la proposta del "disarmo totale ed immediato", ma dichiarandosi disposta a prendere in seria considerazione le proposte di tutte le altre delegazioni. Questa era la premessa che doveva servire a Litvinov: «la possibilità della pace in regime capitalista».

«D’altra parte la sua formulazione “sicurezza contro la guerra” è spiegabile unicamente se messa in relazione – come d’altronde egli ha fatto – con la politica dei "patti di non aggressione" e cioè con la politica diretta ad impedire la minaccia della guerra economica contro la Russia, ed alla quale i diversi imperialismi sottoscriveranno, in cambio della garanzia immediata sulla distruzione dei partiti comunisti, preludio dell’attacco della battaglia della reazione bianca contro la stessa Russia (...)

«A Ginevra le belve sono riunite per degustare nel banchetto che prepara la guerra. Quella che si svolge è la conferenza degli armamenti; chi la presiede è il socialdemocratico Henderson che conosce molto bene l’arte della guerra, come lo ha provato nel 1914. L’internazionale dei traditori socialdemocratici partecipa al banchetto e vi si associa credendo di portare anche le adesioni del proletariato attraverso le petizioni e la mobilitazione indegna delle donne. Il proletariato deve guardare a Ginevra come l’assemblea internazionale dei suoi carnefici cui toglierà le armi dalle mani solo con la vittoria rivoluzionaria. E per preparare questa vittoria il comando dell’ora è urgente: rafforzare gli organismi che potranno risolvere la crisi del movimento comunista; ricostruire le salde avanguardie comuniste che spezzeranno la catena che lega Ginevra ad una nuova guerra, che dall’esperienza di Ginevra riceveranno un nuovo insegnamento alla lotta mortale contro il regime della schiavitù e della guerra».

Come giustamente aveva notato la nostra Frazione, a Ginevra «le belve vi erano riunite per degustare nel banchetto che prepara la guerra». Ed infatti, anche se in nome della pace, i preparativi di guerra si facevano sempre più febbrili perché sempre più acuti erano gli antagonismi interimperialistici.

Abbiamo precedentemente rilevato la necessità, per la Germania, di unire economicamente il bacino industriale tedesco a quello agrario danubiano, da qui la manovra per l’Anschlüss austro-tedesco. D’altra parte l’obiettivo principale della politica francese era quello di ostacolare questa unificazione per poter mantenere la propria egemonia in Europa. Briand riuscì a far rinviare la questione alla corte dell’Aia precisando però che la Francia non si sarebbe sentita obbligata ad accettare una sentenza arbitrale favorevole, sul piano del diritto, alla Germania.

Prometeo annotava: «Il fatto che il "patto danubiano" se ne sia andato all’aria dimostra che con l’inoltrarsi dei fenomeni della crisi economica (...) gli avvenimenti si dirigono verso l’uscita di una aggravazione degli antagonismi verso la guerra (...) Il fallimento del patto danubiano è una nuova conferma della gravità della situazione che traversiamo, dall’impossibilità per il capitalismo di dare una regolazione di lunga portata dei problemi che sono originati e inaspriti dall’aggravarsi della crisi in tutti i paesi" (Prometeo, n. 73, aprile 1932).

Il rapporto tra i diversi imperialismi stabilito con il trattato di Versailles e tutti gli altri accordi, al principio degli anni ’30, era ormai rotto senza però che fosse stato possibile stabilire un nuovo accordo tale da rimpiazzare quello precedente e ai vari paesi imperialisti non rimaneva che la lotta a coltello tra di loro, o per impadronirsi delle sfere di influenza dei rivali, o per mantenere ad ogni costo le posizioni acquisite nel corso della guerra. Ne conseguiva che ogni soluzione avanzata da un paese veniva a cozzare con gli interessi vitali degli altri gruppi imperialistici, poiché un nuovo equilibrio di una qualche durata sarebbe potuto uscire solo dal confronto diretto, cioè dalla guerra.

Da una parte gli Stati Uniti concretavano la dottrina Monroe sulla base di una potenza industriale e finanziaria che gli permetteva una indiscussa posizione di superiorità tale che la loro ingerenza era assicurata in tutti i campi e in tutti i paesi, mentre nessuna interferenza veniva tollerata all’interno del continente americano.

L’Inghilterra rivendicava l’adozione di una sua dottrina sul tipo Monroe (ma a differenza di quella americana, era di carattere difensivo) e, attraverso una serie di intese doganali e militari, tentava di isolare il suo immenso impero dal resto del mondo. L’Inghilterra non doveva però solo più temere gli attacchi esterni era minaccia anche da forze centrifughe interne.

Alla conferenza di Ottawa dell’estate 1932 si verificò per la prima volta una inversione di tendenza: l’Inghilterra non sedeva più in veste di padrona incontrastata, ma i principali dominions assumevano una figura, dovuta dallo sviluppo industriale, di unità economiche e politiche indipendenti. Il Canada, ad esempio, insisteva per ottenere dall’Inghilterra l’abbandono delle importazioni di grano russo, mentre l’Australia voleva l’abbandono dei mercati dell’America del Sud imponendo alla metropoli di servirsi esclusivamente delle loro esportazioni. L’Inghilterra veniva messa di fronte alla brutale alternativa: o si impegnava ad acquistare esclusivamente dai dominions tutti i prodotti che questi erano in grado di esportare, oppure i dominions avrebbero accentuato la loro indipendenza dalla metropoli.

La Francia, che da Versailles aveva ricavato il predominio sull’Europa, tentava di istituzionalizzare questa sua posizione di forza con il piano Briand per l’organizzazione degli Stati Uniti d’Europa. Ma Germania, Italia e Russia, che dal dominio francese sarebbero state soffocate, pur non avendo la forza di imporre la loro volontà, non per questo disperavano per l’avvenire ed aspettavano con ansia l’occasione di conquistarsi il loro "posto al sole".

Intanto la crisi economica avanzava inesorabilmente mettendo in ginocchio il sistema produttivo e finanziario capitalistico.

Nel luglio 1932 si tenne la conferenza di Losanna, che si chiuse con la famosa affermazione della "liquidazione della guerra". In verità questa non era la prima volta che la guerra era stata "liquidata", era successo almeno un’altra dozzina di volte. Ma, effettivamente, alla conferenza qualcosa di molto radicale era avvenuto. Per la prima volta la Francia aveva dato prova di una moderazione estrema nei confronti della Germania. Al governo tedesco si chiedeva solo il pagamento di tre miliardi di marchi, alla scadenza di tre anni e soltanto se la situazione economica non venisse compromessa da questo pagamento. Alla Germania veniva accordato il "condono", una specie di concordato come se fosse un debitore al quale i tribunali riconoscono l’impossibilità di far fronte ai suoi obblighi. Di conseguenza il governo tedesco, rifiutandosi di pagare non commetteva più un atto di ostilità.

Ma quale era la causa di tanta umanità francese? I fatti erano questi: gli Stati Uniti si trovavano nella impossibilità di riversare capitali in Germania per l’impossibilità di smaltirne la produzione. Di conseguenza la Germania non poteva pagare le "riparazioni" alla Francia che, a sua volta, doveva restituire questi capitali agli Stati Uniti sotto forma di pagamento di "debiti di guerra". Questa circolazione finanziaria che partiva da New York per ritornarvi dopo essere passata attraverso Berlino e Parigi veniva interrotta, e, allora parlare di due o di tre o di dieci miliardi era del tutto indifferente, perché tutti sapevano che i debiti non sarebbero stati pagati.

Ma, al di là delle frasi pompose sulla "liquidazione della guerra", a Losanna gli Stati Uniti si rifiutarono di aderire al progetto francese e non rinunciarono a rivendicare il pagamento dei debiti di guerra da parte di Parigi, così come Parigi non rinunciava al "principio" delle riparazioni e subordinava la riduzione delle sue pretese alla condizione di stabilire un fronte comune di resistenza nei confronti dell’imperialismo americano.

Allo scadere della cambiale gli Stati Uniti presentarono il conto e, se la Francia rifiutò di pagare, pagò brontolando l’Inghilterra e pagò l’Italia facendo "onore alla sua firma".

Non passarono due mesi dalla conferenza di Losanna che Von Schleicher significò alla Francia la decisione tedesca di riarmarsi «per difendere la sua sicurezza«se la Francia non avesse accettato di «disarmare per non minacciare la sicurezza della Germania».

(continua)

 

 

 

 

 


Dall’Archivio della Sinistra

Presentazione [ È qui ]

La Reazione Dorata (“Prometeo”, n. 55, 5 luglio 1931) [ È qui ]

Guerra o Rivoluzione ("Prometeo", n. 56 del 19 luglio 1931) [ È qui ]