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COMUNISMO
n. 79 - dicembre 2015
Serpeggia la crisi bancaria
La negazione comunista della democrazia alle origini del movimento operaio in Italia (XIII - continua dal numero scorso) - esposto alla riunione a Genova del maggio 2014 - Non ancora un partito per tutta l’Italia: Le agitazioni del 1888-89 - Marxisti e Possibilisti a congresso internazionale a Parigi - Il congresso del Partito Socialista Rivoluzionario - Il congresso del Partito Operaio Italiano - Il congresso anarchico - La “Critica sociale”, Turati e Labriola - La Lega Socialista Milanese - In vista del Congresso internazionale di Bruxelles (continua)
Il marxismo e la questione militare: [Indice del lavoro] - Parte quarta - L’imperialismo - B. Le guerre coloniali (XVII - continua dal numero scorso) - Capitoli esposti alle riunioni a Firenze e a Genova nel gennaio e nel maggio 2014 - La guerra russo-turca e le guerre coloniali in Africa: 1. La crisi economica del 1873 e la guerra russo-turca del 1876 - 2. Il colonialismo europeo in Africa - 3. Le principali guerre coloniali inglesi in Africa - 4. Le guerre contro gli zulu (1878-79) - 5. La prima guerra contro i boeri (1880-1881) - 6. Il controllo del canale di Suez e dell’Egitto (1882) - 7. Primo colonialismo italiano in Africa, da Massaua ad Adua - 8. La battaglia di Adua - 9. Conclusioni - 10. La seconda guerra anglo-boera o del Transvaal (1899-1902) - 11. Due eserciti profondamente diversi - 12. Efficace offensiva boera - 13. La seconda decisiva offensiva inglese - 14. La guerriglia boera - contro-guerriglia britannica (continua)
La successione dei modi di produzione nella teoria marxista - (continua dal numero scorso) - 2. La forma di produzione secondaria - variante asiatica - Capitolo esposto alla riunione di Firenze nel gennaio 2015: È tempo di disubbidire agli Dei - La fase asiatica - Dispotismo politico-centralizzazione economica - Commercio e artigianato - Le comuni rurali - Potere centrale e comuni locali - L’immobilismo asiatico - I rapporti proprietari - La famiglia - Stato e Chiesa (continua)
Dall’Archivio della Sinistra:
Presentazione
– Proletariato e Radicali, lettera di Antonio Labriola del 5 maggio 1890
– Lettera di Engels al Comizio Internazionale per i diritti del lavoro, Londra, 9 aprile 1891
– Maggio Operaio (Critica Sociale, 20 aprile 1891)
– La Unione nazionale degli operai del gas e dei lavoratori in generale di Gran Bretagna ed Irlanda ai partiti ed alle associazioni operaie (Critica Sociale, del 20 febbraio e del 20 aprile 1891)
– I Segretari internazionali del Lavoro e il movimento operaio e socialista in Italia (Critica Sociale, 10 settembre 1891)







Serpeggia la crisi bancaria

È tempo di garanzie – bail – per cercare di salvare i cocci. Da decidere solo se in o out, se il bail debba essere in, cioè a carico del sistema bancario, oppure out, ad opera di un ente esterno, lo Stato. Ma sia l’una sia l’altra delle opzioni, qualcuno le garanzie le deve dare.

Nel sistema bancario i fallimenti non sono più “accettati”: dal 2008, dopo l’esperienza di Leheman Brothers, con tutte le conseguenze, Banche Centrali e governi si sono adoperati con dedizione al salvataggio, a fornire le garanzie per dare fiducia, quella che consente ad un sistema fondato sul debito e sul capitale fittizio di continuare ad andare avanti. Questo è stato condotto dalle autorità monetarie e politiche anche in modo indiretto con l’acquisto da parte delle Banche Centrali di riserve contro titoli, di cespiti bancari. Questa attività è conosciuta come “alleggerimento quantitativo” – quantitative easing – per “stimolare”, si dice così, il ritorno degli investimenti nel circuito industrie-famiglie-produzione-consumi, quando il denaro, benché il suo costo sia quasi azzerato, non viene più utilizzato nel processo produttivo.

Regno Unito, Germania, Francia, per non parlare degli Stati Uniti, sono intervenuti con cospicui salvataggi – bail out – in tutti questi anni di crisi, in salvataggi per miliardi di euro in USA e in Gran Bretagna di banche nazionali in difficoltà. Tanto per dare un numero, nel 2011 la sola Germania è intervenuta con 418 miliardi di euro a sostegno delle proprie banche pericolanti.

Ma nei bail out alla fine sono soldi pubblici che corrono, il debito pubblico cresce, e questo non va bene, almeno non per tutti. Figurarsi nell’Europa dell’euro, con una Banca Centrale sovranazionale e altri organi di controllo degli investimenti e della spesa pubblica, se i presunti Stati “virtuosi” avrebbero potuto accettare ulteriori interventi, con dilatazione della spesa pubblica, da parte dei “poco virtuosi”.

Una lamentela ricorrente dei tanti ed articolati settori anti euro si fonda proprio su questo diverso trattamento all’interno della coalizione politico-finanziaria europea tra membri solo formalmente uguali. Non che questi movimenti non descrivano una situazione effettiva all’interno della Comunità, ma è ridicolo il loro vagheggiare che una iniziativa nazionale potrebbe parare la violenza della crisi generale del capitalismo – e di conseguenza della sua finanza – con il ritorno agli strumenti nazionali della spesa pubblica, degli interventi sui cambi, della politica economica statale.

Una facile profezia. Quando si andranno a delineare i fronti, allora le unità sovranazionali andranno in pezzi.

In particolare una Banca, e più in generale un sistema bancario, si dice “in sofferenza” quando non è più gestibile lo squilibrio tra partite attive e passive, quando i soldi prestati – una partita che per la banca è computata tra le attive – rischiano di non essere restituiti, o sono sicuramente andati perduti.

Poi viene il resto, l’investimento nei titoli ad altissimo rischio, l’allargamento del credito oltre ogni “ragionevole” limite, al quale ha contribuito la grande finanza privata. Il sistema bancario ha continuato a generare nuovo credito, che è rimasto in larghissima parte nel circuito finanziario bancario, per le grandi banche che potevano permetterselo. Qualcuna, in terra italica, allemanna o franciosa, si è compromessa con speculazioni più che azzardate con i famigerati titoli tossici: sono state “salvate” con un out per cifre più che ragguardevoli. Per le piccole e medie, legate al territorio ed alle sue potenzialità produttive, la crisi della riproduzione del capitale nel ciclo produzione-consumo ha significato insostenibili scompensi di bilancio.

Per quelle d’Italia quindi niente bail out, semmai un bail in ridotto. A rimetterci le penne sono stati per ora i detentori delle obbligazioni ad alto rischio e delle azioni, ma se la frana dovesse allargarsi allora il bail in diverrebbe davvero generale, fino ai conti di deposito.

Ovviamente l’origine del disastro viene individuata nella circonvenzione dei risparmiatori per raccogliere denaro fresco, come si definisce, nella truffa ai danni dei depositanti, e via fino al malgoverno della banca in scellerata incapacità, o immoralità per tornaconto personale. Invece quell’origine risiede nella natura e nelle leggi del capitalismo, in una dinamica economica esterna al sistema bancario e finanziario stesso. Poi si dà ad intendere che con un controllo stretto da parte delle Autorità bancarie tutto questo, compresi i suicidi all’uscita del casinò degli investimenti, si sarebbe potuto evitare.

È vero che anche il bail in parziale è un tentativo di salvare parte degli investitori e dei depositanti. Le banche non sono lasciate fallire. I crediti inesigibili, i titoli spazzatura, tutto quanto attossica i bilanci è messo da una parte, nel cestino della carta straccia. Un “Nuovo” innanzi alla vecchia ragione sociale della Banca, qualche discreta cura dimagrante, e la mostra di riprendere il cammino con i bilanci in ordine. Del grande cumulo di spazzatura qualcuno dovrà prima o poi fare le spese. Intanto essenziale è aver guadagnato tempo, aver posposto il redde rationem.

È evidente che si ha così una generale distruzione di ricchezza, e suo massiccio trasferimento, tramite il sistema fiscale, dai salari della classe operaia e dai risparmi della piccola borghesia verso le banche. Sul piano sociale continua quindi lo slittamento delle mezze classi o dei lavoratori con qualche riserva nelle file dei senza riserve. Anche questo previsto e studiato dalla nostra dottrina e a noi comunisti la situazione è evidente. Possiamo non prevedere il momento preciso, anzi spesso l’entusiasmo rivoluzionario ci ha portato a vedere vicino ciò che era ancora molto lontano nel tempo. Felix culpa. Ma questa che da sette anni il capitalismo ed il proletariato stanno vivendo è la lunga fase della crisi generale prevista dalla nostra dottrina, e qualunque espediente, teoria o pratica che pretenda di superarla, e peggio ancora alla semplice scala nazionale, rimanendo all’interno del sistema del profitto è una miserrima ed impotente panacea controrivoluzionaria.

Quanti per timore od orrore della Rivoluzione sociale pretendono di salvare il capitalismo da sé stesso con un capitalismo riformato e più equo, si troveranno arruolati, lo vogliano ora o no, nei ranghi della controrivoluzione.

 

 



La negazione comunista della democrazia
alle origini del movimento operaio in Italia

(Continua dal numero scorso)

Capitolo 13 esposto alla riunione a Genova del maggio 2014

Non ancora un partito per tutta l’Italia

Chiudevamo il precedente rapporto illustrando il congresso di Bologna del Partito Operaio, del settembre 1888, nel corso del quale venne preso atto della crisi che lo investiva dovuta ad una forte diminuzione degli iscritti ed alle pessime finanze del partito. Inoltre anticipavamo che i tentativi di riorganizzazione del POI sarebbero stati stroncati da una nuova ondata repressiva scatenata il maggio dell’anno successivo.


Le agitazioni del 1888-89

Questa volta il pretesto fu fornito dalle lotte contadine nelle campagne del milanese. Ai primi di maggio i contadini, costretti a vivere con un salario di 40 centesimi al giorno, erano scesi in sciopero. Avevano minacciato e tentato di assalire le ville di alcuni possidenti locali, senza arrecarvi gradi danneggiamenti, tanto che lo stesso sottosegretario di Stato per l’Interno, Fortis, rispondendo ad una interrogazione “sui disordini avvenuti in alcuni comuni del circondario di Abbiategrasso”, dichiarava: «I danni recati alle proprietà non sono gravi: alcune case furono danneggiate ma non in misura tale da dover considerare il fatto come una devastazione o come un saccheggio».

Ma la reazione delle forze dell’ordine non fu altrettanto delicata. Sempre Fortis, nella sua relazione alla Camera del 21 maggio 1889, informava che «l’agitazione agraria ed il fermento da tempo si erano manifestati con persistenza e lasciavano supporre che, come già a Casorezzo ed Arluno, a qualche guaio si sarebbe arrivati [...] In alcune altre località dei due circondari di Abbiategrasso e Gallarate vi furono dimostrazioni incomposte e tentativi di sommossa [...] La forza pubblica ebbe parecchi contusi, perché le armi che adoperavano i rivoltosi erano sassi [...] In tutti i luoghi [del triangolo Milano-Gallarate-Abbiategrasso, n.d.r.] vi furono più o meno le medesime dimostrazioni, le stesse grida, ma dappertutto l’ordine fu pienamente ristabilito, e fu ristabilito anche dove più gravi erano stati i tumulti [...] Più gravi furono i fatti di Corbetta. A Corbetta la forza pubblica non era in quantità sufficiente da far fronte ad una dimostrazione sorta improvvisamente [...] Immediatamente il prefetto di Milano mandò per ferrovia, con treno espresso, una compagnia di fanteria e adottò i provvedimenti suggeriti dalla prudenza politica per ripristinare prontamente e perfettamente l’ordine, e vi riuscì [...] Solo dopo due ore di lotta impari, essa, in pericolo di essere sopraffatta, ha usato le armi. Vi fu un morto, vi furono alcuni feriti [...] Oltre agli arresti che furono operati lì per lì in persona dei più noti agitatori e dei più recalcitranti, altri ne furono operati d’accordo coll’autorità giudiziaria. La truppa, la forza pubblica è stata distribuita in guisa nei due circondari, da poter far fronte a qualsiasi eventualità: e noi abbiamo ragione di credere che l’ordine non sarà più oltre turbato. Ma se lo fosse, siamo altresì sicuri di poterlo mantenere o in breve ristabilire» (Dal resoconto stenografico).

In questo lavoro possiamo accennare solo di tanto in tanto alle condizioni ed alle lotte del proletariato industriale e del bracciantato. A proposito di quest’ultimo, ricorderemo le agitazioni che si ebbero nel ravennate nel periodo della battitura del mais. L’utilizzo delle macchine a vapore stava riducendo praticamente a zero la richiesta di manodopera. Dopo una mediazione tentata, e fallita, dall’Associazione Braccianti di Ravenna per un utilizzo delle macchine solo parziale, i braccianti insorsero ed in diversi luoghi i proprietari si dovettero rassegnare a lasciare le macchine nelle rimesse. Alla loro comparsa, le macchine venivano accerchiate da centinaia di operai e non si muovevano fino a che non venivano portate indietro.

Su “Il Sole dell’Avvenire” del 7 settembre 1889 si può leggere questa descrizione: «Nelle ville come nelle borgate quando una macchina apparisce squilli ripetuti di corno echeggiano per l’aere e allora gli operai sbucano dalle case loro, dai campi, dai covili e le corrono incontro onde ottenere che sen ritorni donde è partita. Le donne ed i bambini seguono i loro mariti e padri, dando al quadro penoso maggior vigoria di colorito. Le preghiere, le ragioni, talvolta le minacce, si alternano. La macchina se ne ritorna in mezzo agli urrà della turba affamata o in preda ai timori di divenirla presto». Grazie a quel sistema di sorveglianza spontaneamente instaurato la lotta fu vittoriosa in diverse località; ma nemmeno questa fu una lotta indolore perché molti furono gli arresti fra i braccianti.

Dopo aver riportato l’ordine nelle campagne si scatenò la repressione in città; l’intera redazione del “Fascio Operaio” fu tratta in arresto ed il giornale sequestrato.

Già allora la polizia non si limitava alla repressione violenta contro i lavoratori ed i partiti rivoluzionari, ma infiltrava le sue spie nelle organizzazioni per creare la disgregazione dall’interno. Al proposito ci basti un breve passo di una lettera inviata da Antonio Labriola a Turati il 7 ottobre 1890: «La polizia sa lavorare per mezzo degli inquieti e dei turbolenti. Lo stesso mi è successo e mi succede qui a Roma dove ogni cinque che fanno, o propongono una cosa, c’è per lo meno una spia».

I redattori furono quasi subito prosciolti in istruttoria, ma il giornale poté riprendere la sua normale pubblicazione soltanto nel marzo del 1890, e non più a Milano ma ad Alessandria, con la conseguenza di non poter più dirigere il movimento da quello che era il suo centro naturale.

A Roma tra il 1888 ed il 1889 a causa della crisi edilizia masse di operai si trovarono letteralmente alla fame. Agli scioperi e ai tumulti di disoccupati, dirà Costa, «in mezzo ad essi, e quasi quasi a capo di essi, io mi trovai» (Intervento parlamentare del 9 febbraio 1889). Nel 1888, è sempre Costa che parla, «ci furono dimostrazioni, ci furono grida, ci furono colluttazioni parziali, ci furono arresti, ma non ci fu nulla assolutamente che turbasse nello stesso modo che è stato in quest’anno turbato l’ordine pubblico. Non per merito mio certamente, o signori, ma perché le condizioni delle cose non erano giunte a quello stato di acutezza a cui sono giunte quest’anno [...] Essi [gli operai, n.d.r.] dicono: l’anno passato noi abbiamo aspettato, l’anno passato noi abbiamo sperato; ma in quest’anno non crediamo più alle promesse di nessuno, né alle promesse del governo, né a quelle del municipio, né a quelle dei deputati amici nostri!».

Se è vero che i lavoratori non credevano più alle promesse, nemmeno più promesse furono fatte loro: ad una commissione di operai inviata al governo fu brutalmente risposto dal sottosegretario all’Interno Fortis che «il governo non può farsi costruttore per sopperire alla mancanza di lavoro». Così l’8 febbraio 1889 ai Prati di Castello dopo un comizio di disoccupati i partecipanti si diressero verso il centro della città dandosi al saccheggio dei negozi. Costa fu accusato come sobillatore.

Precedentemente, il 20 settembre 1888, Costa a colpi di ombrello si era difeso dagli attacchi delle forze dell’ordine intervenute contro un gruppo di studenti che manifestavano in ricordo di Guglielmo Oberdan. Al processo che si svolse a Roma dal 3 al 5 aprile 1889, Costa venne condannato a tre anni di carcere per ribellione a mano armata: «Il modestissimo ombrello da quattro o cinque lire, di legno molto sottile, che portavo in mano divenne il mio capo d’accusa». Avendo la Corte d’Appello confermato la condanna, il procuratore generale chiese l’arresto di Costa. Nel marzo 1890, a seguito delle pressioni di Crispi e Zanardelli, la Camera gli sospese l’immunità parlamentare. In quella occasione Costa affermò alla Camera: «Signori miei, ho fatto 5 anni di carcere, ne farò altri 3; dove si è stati si può tornare».

La Camera democratica democraticamente votò l’autorizzazione a procedere contro quel deputato terrorista. Biancheri, il Presidente della Camera, fece avvertire Costa che avrebbe ritardato un giorno la trasmissione dell’autorizzazione a procedere alla procura del re. Gli veniva quindi dato il tempo di mettersi in salvo. In questo gesto c’è chi ha voluto vedere un attestato di simpatia nei confronti del lottatore socialista, e c’è chi ha visto un meditato atto politico in quanto Costa in prigione poteva essere più pericoloso che fuggiasco all’estero.


Marxisti e Possibilisti a congresso internazionale a Parigi

Intanto, per iniziativa di Turati, in accordo con Lazzari, nasceva la Lega Socialista Milanese. Turati ne dava notizia a Costa l’8 luglio 1889: «Ora si è fondata qui la Lega Socialista Milanese che concentra in sé i socialisti (intesa la parola con una certa larghezza, però senza confusionismo), gli amici socialisti del P.O., ed esclude gli anarchici». Alla Lega dunque aderivano gli iscritti al POI di tendenza socialista, ma rimaneva distinta dal Partito Operaio che continuava a rivendicare il suo carattere di organizzazione economica dei soli lavoratori.

Se il POI attraversava una grave crisi, non solo a causa delle repressione statale ma anche del suo ostinato operaismo, il PSR era in analoga crisi ma per motivi opposti, ossia per i suoi reiterati tentativi di trovare un terreno di intesa non soltanto con gli operaisti e con gli anarchici, che almeno si tenevano su di un terreno di classe, ma anche con democratici radicali e mazziniani di sinistra. Questa tattica, anziché rafforzare il partito ed allargare la sua influenza fra i lavoratori, lo aveva portato ad un continuo e progressivo indebolimento ed alla disgregazione. Non solo il tentativo di costituire il Partito Socialista Rivoluzionario d’Italia era sfumato, non solo non si era addivenuti ad una unificazione con gli operaisti e ad una azione comune con gli anarchici, ma la stessa organizzazione del PSR, ristrettosi ormai alla sola Romagna, boccheggiava. Alla fine di giugno del 1889 erano riprese le pubblicazione del “Sole dell’Avvenire”, che però dopo tre mesi cessarono di nuovo.

L’unico fatto importante che riuscì al PSR fu la riunione che, presieduta da Andrea Costa, si tenne a Forlì il 30 giugno 1889 con all’ordine del giorno la partecipazione ai due congressi internazionali, quello “possibilista” e quello “marxista”, indetti a Parigi per il mese seguente. Alla riunione erano rappresentati solo 28 circoli e 9 federazioni, compresa la Lega S.R. del territorio ravennate.

Il congresso, da tenersi a Parigi nel centenario della Rivoluzione francese, era stato stabilito già nel 1886 nel corso della Conferenza operaia internazionale alla quale avevano partecipato partiti socialisti di tutte le tendenze. Non si ebbe un con­gresso ma due contemporanei: l’uno indetto dai “possibilisti” e l’altro dai “marxisti”.

I socialisti rivoluzionari di Romagna si dichiararono disinteressati a ciò che divideva i due congressi e decisero che la loro delegazione avrebbe partecipato ad entrambi. Ai delegati fu data ampia libertà di intervenire come preferivano nelle discussioni, con il solo vincolo di agire a favore della unificazione per la ricostituzione dell’Internazionale. Oltre che ai socialisti rivoluzionari di Romagna, gli inviti erano stati rivolti anche al Partito Operaio ed alla Lega Socialista milanese. Il Partito Operaio inviò un suo rappresentante al solo congresso “possibilista”, mentre Turati dava mandato a Costa di rappresentare anche la Lega Socialista.

Turati scriveva a Costa l’8 luglio del 1889: «Carissimo, i giornali ci dicono che vai a Parigi. Non sappiamo per quale dei due Congressi socialisti. Forse per entrambi [...] Noi abbiamo tempo fa ricevuto [...] una lettera che ci invitava ad aderire al Congresso – non so come chiamarlo – quello insomma dei non possibilisti [...] Il nostro voto sarebbe che i due congressi associassero le loro forze e ti deleghiamo a rappresentarci [...] Ti unisco quindi la credenziale [...] Istruzioni non te ne diamo perché siamo certi che tu non ci impegnerai in deliberazioni che fossero contrarie ai nostri principii o non da noi accettabili [...] Addio, tuo Filippo Turati».

La variopinta rappresentanza del socialismo italiano era ulteriormente completata: dai livornesi Ezio Foraboschi e Francesco Cini, in qualità di rappresentanti di locali società operaie e, da parte anarchica, da Merlino, Molinari e Bertoia; inoltre un tale Pichi, delegato da una società di operai italiani in Alessandria d’Egitto.

Il Congresso internazionale operaio (“marxista”) si aprì a Parigi il 14 luglio 1889; quello operaio socialista (“possibilista”) iniziò i suoi lavori il giorno seguente. L’o.d.g. dei due congressi era praticamente lo stesso, e verteva soprattutto sulla legislazione sociale. Il congresso marxista risultò il più qualificato e numeroso, partecipandovi molte delle più eminenti personalità del socialismo internazionale (Lavrov, Guesde, Vaillant, Aveling, De Paepe, Liebknecht, Bebel, Bernstein, Clara Zetkin, etc.). I possibilisti potevano contare su un minor numero di rappresentanze, tuttavia l’importanza del loro congresso era assicurata dalla presenza dei delegati di vastissimi movimenti di massa come le Trade Unions inglesi e gli Knights of Labor statunitensi.

Costa fu eletto alla presidenza di ambedue i congressi e, conformemente al suo mandato, si mise all’opera per l’unificazione delle assise. Ad eccezione di Amilcare Cipriani che aderì al solo congresso “marxista”, i delegati romagnoli decisero di assistere ad entrambi, ma solo come osservatori.

Entrambi i congressi stabilirono di rendere permanenti i vincoli internazionali istituendo rapporti continuativi tra i partiti dei diversi paesi. I “marxisti” proposero che la giornata del 1° Maggio 1890 fosse caratterizzata in tutto il mondo da astensioni dal lavoro per rivendicare l’orario lavorativo di otto ore. Dal congresso “marxista” nacque la II Internazionale, mentre l’Internazionale dei possibilisti non nacque mai. Merlino e gli altri anarchici assunsero un atteggiamento intransigente verso entrambi.

I congressi di Parigi ebbero sul movimento operaio italiano un effetto maggiore di quanto non fosse stato il suo apporto ai lavori. La rivista “Cuore e Critica” del 2 ottobre 1890 vergava la definitiva sentenza: «Il congresso internazionale socialista, inaugurato a Parigi nel preciso giorno commemorativo della presa della Bastiglia, e per la data, e per il luogo, e pei convenuti, e per le risoluzioni che vi furono adottate, disse chiaro e alto a tutto il mondo, che il centenario del 1789 chiudeva definitivamente l’era della rivoluzione liberale».

I socialisti e le delegazioni operaie tornarono da Parigi con la sensazione che il movimento operaio era ormai una forza reale. Grande era stata l’ammirazione per la socialdemocrazia tedesca che appariva un modello per tutti i partiti socialisti. In occasione del congresso di Halle, dell’ottobre 1890, la Lega Socialista Milanese e il Partito Operaio presero l’iniziativa di inviare ai tedeschi un entusiastico Indirizzo, la stesura del quale era stata affidata, in collaborazione, ad Antonio Labriola e Filippo Turati. «Compagni, la Lega Socialista di Milano e il Comitato Centrale del Partito Operaio Italiano, raccolte le adesioni di socialisti di altre parti d’Italia, mandano a Voi, riuniti per la prima volta in pubblico congresso dopo la dodicenne persecuzione, il saluto della fratellanza e l’attestazione viva della solidarietà che li stringe alla Democrazia Sociale di Germania, antesignana del proletariato universale e preparatrice consapevole della rivoluzione sociale».

L’Indirizzo confessava che né la Lega Socialista né il Partito Operaio si ritenevano investiti dell’autorità di rappresentare il movimento operaio e socialista d’Italia nel suo insieme, ma questa ammissione esprimeva implicitamente il proposito di pervenire anche in Italia alla formazione di un partito socialista a scala nazionale.

Continuava: «La data memorabile della Vostra vittoria del 20 febbraio [elezioni in cui la socialdemocrazia ottenne quasi 1.350.000 voti, n.d.r.], la manifestazione mondiale del 1° Maggio, e la mutazione così rapidamente avvenuta delle Trades-Unions, dicono ora, con la eloquenza dei fatti, come la storia nuova sia già cominciata [...] Mai più il moto proletario si disperderà per lenta consunzione [...] mai più i proletari correranno dietro alle vane promesse delle fazioni politiche [...] mai più chiederanno ai governi borghesi quell’insidioso diritto al lavoro [...] mai più cederanno alle lusinghe di consorterie politiche e di potenti demagoghi. Il proletariato militante procederà sicuro su la via che mena diritto alla socializzazione dei mezzi di produzione ed alla abolizione del presente sistema di salariato, fidando solo nei suoi propri mezzi e nelle sue proprie forze».

 

Il congresso del Partito Socialista Rivoluzionario

In Italia tre congressi erano in gestazione: quello del Partito Socialista Rivoluzionario, del Partito Operaio e degli anarchici.

Il declino del PSR sembrò avere una inversione nel 1889, quando riapparve, per la terza volta, quello che era stato l’organo del PSR, “Il Sole dell’Avvenire”. Zirardini, lo storico direttore del giornale, prese l’iniziativa del rilancio del partito con un articolo intitolato “Della necessità di riorganizzare il Partito Socialista Rivoluzionario Italiano” in cui, constatato lo stato di disarmo del PSR, invitava a stringere le file ed a ricostituire le sezioni. Si ammetteva che riproporre un Partito Italiano era ormai cosa impossibile, ma sarebbe stato possibile riorganizzare il PSR romagnolo attorno all’antico programma. Le indicazioni di Zirardini riscossero successo in tutta la regione ed anche Costa, da Parigi, dove si era rifugiato per scampare all’arresto, plaudì all’iniziativa.

Il congresso del PSR, anche su indicazione di Costa, non venne però convocato allo scopo di riorganizzare il partito, ma, molto più modestamente, per preparare al meglio la partecipazione dei socialisti alle elezioni politiche generali del novembre 1890. Dato lo scopo della riunione, sarebbero state invitate solo le organizzazioni socialiste e quelle del Partito Operaio che accettavano la partecipazione elettorale. Gli anarchici, esclusi, attaccarono violentemente il “socialismo legalitario e parlamentare” e si apprestarono a preparare un loro congresso contrapposto a quello socialista, da tenersi in Svizzera. Il taglio elettorale del congresso dei socialisti romagnoli non piacque nemmeno al Partito Operaio né ai socialisti milanesi. Il Fascio Operaio dichiarò subito che per tracciare un piano strategico per l’assalto delle cittadelle capitalistiche ci voleva ben altro che un programma elettorale. I socialisti romagnoli facessero pure il loro congresso, ma senza l’intervento del POI che, da parte sua, convocava per il 1° novembre a Milano il suo quinto congresso. Pure Turati e Labriola si dichiararono contrari.

Di fronte a questa generale critica, nel tentativo di rimediare, fu deciso che il convegno di Ravenna, pur mantenendo il suo carattere elettorale, doveva considerarsi come preparatorio di un successivo avente per scopo «la riorganizzazione di tutte le forze socialiste rivoluzionarie d’Italia e della classe operaia, coordinate, secondo le singole scuole e tendenze e metodi, in modo da armonizzarle e convergerle tutte allo scopo finale e comune, sulla base della reciprocanza e della solidarietà». Veniva quindi ancora una volta riproposto il vecchio programma di Costa dell’unificazione delle varie scuole del socialismo.

Turati, per quanto invitato, non intervenne al congresso adducendo motivi professionali; ma dalla lettera inviata ai partecipanti si evince che, anche se fosse stato libero da impegni, non avrebbe partecipato dato il suo disaccordo sulle alleanze elettorali con i democratici radicali, alle quali il PSR aveva sempre aderito. Turati metteva in guardia i socialisti romagnoli:

«Le possibili alleanze con partiti cosiddetti o ritenuti o che si fanno credere “affini” le quali [...] possono discutersi e accettarsi soltanto in modi e condizioni tali che non creino confusione alcuna di uomini, di idee e di programmi, che non dissimulino protettorati insidiosi e paralizzanti. L’obiettivo unico, immediato, del partito socialista nella fase odierna dell’evoluzione sociale, [deve] essere quello di ridestare le energie sonnecchianti delle classi popolari – di essere, a così dire, la vigile coscienza precorritrice – di condurle a coalizzarsi per rovesciare l’ordine corrotto dei privilegi e degli sfruttamenti, a uscire dalla servitù del salariato, a pretendere e ottenere, non il diritto al lavoro, ma il diritto all’esistenza e al benessere [...] a essere insomma a far da sé e per sé. È chiaro che ogni intima fornicazione con i partiti politici, i quali tutti, senza distinzione e per loro stessa natura, mirano più al governo e alla legge che al popolo [...] sottrarrebbe, anziché aggiungere, sangue alle nostre fibre; celerebbe sotto la veste del beneficio, il contratto leonino a nostro danno. Dunque, nelle gare elettorali [...] distinzione netta e precisa di programmi, ciascuno col nome del suo partito ed in nome del suo ideale, proclamando a viso aperto e ad alta voce, onde l’equivoco, che già troppo alligna nella vita pubblica ed al quale le ambizioni personali aprono così facile il varco, fugga dalle nostre file e non abbia a contaminare noi pure [...]
«Udiamo da ogni parte anime candide o bigie, di mezzi socialisti e di mezzi democratici, allettarci dicendoci: “Qui molte cose son richieste che voi pure volete, che voi pure riconoscete utili e buone. Voi andate più in là, ma intanto ecco un buon tratto di via che si può correre di conserva” [...] Ma noi rispondiamo che un programma, non da questo o quel paragrafo ha significato, ma dallo spirito suo; e che il programma dei socialisti, l’ideale pel proletariato militante, non potrà coincidere mai, neppur per breve tratto, con un manifesto ove [...] alle rappresentanze politiche dell’ordine borghese chiedonsi riforme, che esse non possono dare [...] ove la questione sociale, che dovrebb’essere tutto, perché è il fondamento di tutto, diventa invece un frammento ed un complemento; dove il postulato umano della giornata normale di lavoro [...] condizione sine qua non d’ogni elevamento delle classi sfruttate trova a malapena un omaggio platonico e scarno [...] dove infine si inneggia non all’uguaglianza, non alla soppressione delle classi, ma alla loro armonia – eufemismo ormai screditato di perpetua rassegnazione, di eterna servitù ed olocausto [...]
«I programmi sociali e il nostro fra essi, pongono la questione sociale [...] come questione che sta dentro, avanti e intorno e sopra di tutte [...] e la vogliono risoluta colle grandi energie umane naturalmente evolventi, prima che per empiastro di leggine e di gride. Fra queste due tendenze l’antagonismo è inconciliabile; e giova che sia [...] Noi sappiamo che libertà vera non si dà, si conquista e sta in ragione della forza degli interessati a goderne; che nessuna classe fu mai tutelata fuorché da se stessa e dalla coscienza del diritto suo [...] Con queste idee e con questi voti, vi manda, per mio mezzo, la “Lega Socialista Milanese” i suoi saluti ed auguri fraterni» (“Cuore e Critica”, 4 novembre 1890).

Più sbrigativa fu invece la risposta di Antonio Labriola:

«Sono dolente assai di dover rispondere ad una lettera gentile con un rifiuto esplicito e reciso. Ma è proprio così: io non ho mai approvato l’idea di questo Congresso indetto al solo scopo di proporre delle candidature [...] Magari si trattasse di un Congresso a scopi generali, in cui la questione elettorale fosse poi entrata come una fra le altre, o come conseguenza delle altre. Ma un Congresso proprio per quello mi è parso un grave errore» (19 ottobre 1890). Qualche giorno prima aveva scritto a Turati: «La smania di diventar deputati, coi voti generici dei democratici d’ogni maniera, non è conciliabile con la lotta di classe, e col moto schiettamente proletario. Perciò io rimango muto come un pesce sul congresso di Ravenna. Se vogliono portare dei candidati lì in Romagna dove pare che siano in molti, faranno benissimo. Ma invitare tutta l’Italia a fare una lega elettorale, è un volere aumentare le discordie invece di troncarle. Per me il vero congresso socialista è quello che si terrà a Milano il 1° novembre».

Dal momento che al congresso di Ravenna mancò la partecipazione dei maggiori rappresentanti del socialismo italiano (di non romagnoli non c’erano che Musini, un delegato di Firenze ed un altro che rappresentava il Circolo di studi sociali di Alessandria), l’assise si ridusse ad un congressino locale per la preparazione elettorale.

L’unico avvenimento che diede lustro al congresso di Ravenna fu di essere riuscito a sfuggire alla caccia della polizia. I partecipanti, giunti alla spicciolata, si erano riuniti in una palestra del Palazzo di Classe, e, mentre loro discutevano, la polizia perlustrava il palazzo e sfondava le porte, senza riuscire a trovarli.


Il congresso del Partito Operaio Italiano

Il 1° novembre 1890 si tenne a Milano il quinto ed ultimo congresso del POI. Le persecuzioni alle quali abbiamo accennato non erano riuscite a demolire il partito, tanto che Milano tornò ad essere la sede del congresso. 105 furono i delegati che vi presero parte. Fra le adesioni di particolare rilievo fu quella della Lega Socialista Milanese. Al congresso del Partito Operaio per la prima volta non intervennero gli anarchici, che invece avevano partecipato, e disturbato, tutti i precedenti.

La questione elettorale fu evitata dichiarando che era stata già chiaramente affrontata e risolta nel congresso precedente. I lavori congressuali invece puntarono unicamente sul problema della sopravvivenza del partito minacciata dalla sua critica situazione finanziaria per i mancati contributi delle Società di mutuo soccorso aderenti al partito. Fu quindi dichiarato ufficialmente che la resistenza rappresentava la componente fondamentale del partito e quindi nello statuto di ogni Sezione si sarebbe dovuto inserire «il principio dello sciopero e i mezzi per poterlo sostenere». In tal modo le Società di mutuo soccorso vennero separate dal partito. Nemmeno le Federazioni erano in grado di assicurare un sistema di finanziamento regolare e centralizzato, così a Milano fu fatto di necessità virtù dando piena autonomia finanziaria alle singole Federazioni, togliendo al Comitato centrale la gestione dei fondi per la resistenza. Questo ridimensionava fortemente le funzioni dell’organo di direzione centrale del Partito.

Altra questione fondamentale, già ampiamente dibattuta ai congressi di Parigi, fu quella relativa alla istituzione delle Camere, o Borse, del Lavoro. Già la prima, a Milano, per iniziativa di Gnocchi-Viani era in fase di realizzazione completa ed altre stavano per sorgere a Torino, Firenze, Piacenza, etc. Le Borse del Lavoro erano concepite come uffici di collocamento gratuito, che avrebbero dovuto servire ad evitare la concorrenza fra i lavoratori e quindi il deprezzamento della mano d’opera. Il Congresso di Milano confermò questo concetto dichiarando che esse dovevano rappresentare, diversamente dalle Società di resistenza, «tutte le forme della organizzazione operaia», e le definì «istituzioni esclusivamente destinate a difendere gli interessi della mano d’opera contro il capitale». Le Leghe di Resistenza e le Borse del Lavoro avrebbero quindi costituito due aspetti della medesima realtà: la lotta economica della classe lavoratrice contro il capitalismo. Venne quindi deliberato di «entrare vigorosamente nella agitazione tendente a moltiplicare l’istituzione delle Borse stesse».

Passando poi alla discussione sulle otto ore e sulla giornata del 1° Maggio il relatore fece una ampia esposizione sui vantaggi, oltre che economici, morali e fisico-igienici che avrebbe apportato ai lavoratori la riduzione della giornata di lavoro. Illustrava poi il valore della manifestazione mondiale del 1° Maggio e terminava la sua relazione notando che le otto ore sarebbero state conquistate esclusivamente attraverso lo scontro di classe. Venne ben messo in evidenza che la diminuzione dell’orario di lavoro, «conservando i salari allo stato in cui si trovano», avrebbe permesso l’occupazione di gran parte dei lavoratori senza lavoro. La giornata del 1° Maggio, fu deliberato, «deve essere la giornata di festa degli operai di tutto il mondo [...per] in tal giorno solennizzare in modo degno e grandioso il diritto dei lavoratori alla libertà ed alla giustizia».

Il congresso si occupò pure della organizzazione dei contadini e delle donne votando un ordine del giorno per una loro migliore organizzazione ed una più intensa propaganda.

Riguardo alle cooperative fu riaffermata la preoccupazione sul pericolo che degenerassero in società commerciali di tipo capitalistico. Il POI auspicava che le cooperative mettessero a disposizione del movimento operaio locali, forze e mezzi, partecipassero alla propaganda anticapitalista, si dichiarassero solidali nei confronti delle vittime degli scioperi.

Il congresso terminò i lavori con un voto di «saluto ai martiri di Chicago, dei quali l’11 corrente mese compie il 3° anniversario della impiccagione, ed a tutte le vittime della causa dell’emancipazione sociale».

Questo fu l’ultimo congresso del Partito Operaio che, come il Partito Socialista Rivoluzionario, era ormai in fase di aperto declino; ancora due mesi e cesserà anche definitivamente la pubblicazione del “Fascio Operaio”. Moriva di morte naturale l’ideologia economicistica e corporativa, quella di un partito limitato alla resistenza, economico e non politico e quindi, anche se inconsapevolmente, riformista e non rivoluzionario. Però i risultati delle sue battaglie non andarono perduti in quanto l’organizzazione della lotta economica dei lavoratori trapassò nello sviluppo delle Camere del Lavoro e delle Federazioni di mestiere.


Il congresso anarchico

Il primo novembre, mentre si adunava il Congresso operaio di Milano, gli anarchici annunciarono pubblicamente il loro congresso che si sarebbe tenuto a gennaio a Lugano. Si trattava di un espediente per depistare la polizia: inutile precauzione in quanto, come più volte abbiamo evidenziato, il movimento anarchico pullulava di spie. In una lettera di Antonio Labriola ad Engels del 6 aprile 1892 si legge: «Sta il fatto che fra Roma, Ginevra, Londra, Parigi e Madrid si è distesa una gran rete d’intrighi, nella quale gli anarchici visionari ed onesti fanno la parte degli sciocchi, mentre gli altri sono attori principali o complici del terrore poliziesco».

In realtà il congresso non si discostò molto da Lugano, si tenne ad un tiro di schioppo, a Capolago, dal 4 al 6 gennaio 1891.

Vi presero parte una ottantina di delegati, tutti anarchici dal momento che sia il POI sia il PSR rifiutarono di parteciparvi. Sulle contrapposte tendenze che si diedero battaglia non abbiamo interesse a soffermarci. Diremo solo che il congresso tentò la costituzione di un Partito Socialista Anarchico Rivoluzionario, ma si trattava di un ben strano partito dal momento che organi centrali non erano previsti ed ogni sezione o gruppo avrebbe goduto di illimitata autonomia. Infatti le deliberazioni avrebbero potuto essere applicate o meno dagli aderenti.

Il programma stabiliva i principi teorici ed i mezzi pratici che il partito si proponeva di adottare. Per quanto riguardava i primi nessuna novità rispetto alle tesi della vecchia internazionale anarchica. Interessante è invece l’enunciazione dei mezzi, che dovevano comprendere la «propaganda in qualunque forma» e la «partecipazione a tutte le agitazioni e a tutti i movimenti operai». Infine fu dichiarata l’adesione alla festa internazionale del 1° Maggio. Questo rappresentò un bel passo in avanti se si pensa che precedentemente gli anarchici avevano condannato persino gli scioperi come inutile mezzo di lotta “legale”.

Da questi 3 congressi (di un altro congresso, ma questo non socialista, diremo nella rubrica “Archivio della Sinistra”), tenuti nello spazio di tre mesi, nessun passo avanti fu possibile fare verso la formazione di quel partito socialista nazionale che era nelle intenzioni di tutti quanti.


La “Critica sociale”, Turati e Labriola

Il PSR si era impegnato a convocare, dopo Ravenna, un congresso nazionale di unificazione socialista. Il 18 gennaio 1891 in un’adunanza tenuta a Ravenna fu nominata la Commissione per il congresso, ma per quanti sforzi venissero fatti a quel congresso non si arrivò mai. Certo è che ai socialisti romagnoli nessun aiuto venne dalle altre organizzazioni, anzi Antonio Labriola scrisse a Turati che, se poteva, cercasse di impedirlo: «Se credete di poter impedire il nuovo congresso di Bologna, eviterete un nuovo scandalo, o un nuovo smacco al partito cosiddetto socialista» (aprile 1891).

Contemporaneamente a Milano Filippo Turati assumeva la direzione della nuova rivista “Critica Sociale”. Questa prendeva il posto della precedente “Cuore e Critica”, che cessava di esistere. Cambiando e l’intestazione e il direttore si voleva dare una netta svolta politica a quella che era stata la impostazione della pubblicazione di cui prendeva il posto. È da notare però che anche “Cuore e Critica” era stata una ottima rivista, culturale e politica, a cui avevano partecipato i nomi più illustri della erudizione, ed era stato anche uno strumento attraverso il quale la corrente più moderna della sociologia positivistica si era avviata verso il socialismo ed aveva formato un gruppo di intellettuali dal quale, poi, uscirà gran parte dei dirigenti del futuro Partito Socialista.

Con la nuova testata Turati si proponeva di dare alla rivista non una impostazione esclusivamente marxista per evitare di rompere con il mondo della cultura positivistica, con gli intellettuali democratici che intendeva così iniziare al “socialismo scientifico”. La rivista avrebbe dovuto contribuire a creare quella “coscienza socialista” che mancava anche a tanti che pur si dicevano socialisti e ne avrebbe aiutato il sorgere in quei socialisti d’istinto che costituivano la base del Partito operaio ed ai quali mancava «la coscienza un tantino più chiara delle loro forze e dei loro destini». Questa coscienza sarebbe potuta arrivare solo grazie alla iniziativa di una avanguardia intellettuale. Turati si proponeva ottenerlo con una triplice azione: portare il socialismo nel movimento operaio; unificare nel socialismo scientifico tutte le varietà di socialismi rompendo definitivamente con lo pseudo socialismo degli anarchici; attrarre verso il movimento operaio quegli intellettuali suscettibili di acquisire e poi diffondere la visione scientifica del socialismo: «un punto di veduta storico e scientifico, una dottrina positiva, suggerita dall’evoluzione incessante e fatale dei grandi fatti economici e morali che solcano la storia» (“Critica sociale”, 15 gennaio 1891).

Questo programma non piacque per niente ad Antonio Labriola che rifiutò la richiesta collaborazione alla nuova rivista: «Se si trattasse di un giornale di battaglia, o di partito, io potrei sentirmi vincolato a promettere l’opera mia, ed a mantenere la promessa. Ma trattandosi di libera discussione datemi il tempo che mi venga la voglia di discutere. E per ora non ho nessuna voglia di discutere con nessuno [...] Voi vedete la cosa diversamente da me. Voi volete fare la propaganda fra i borghesi, voi volete rendere simpatico il socialismo. Dio vi aiuti in tale filantropica impresa. Io, quanto a me, i borghesi li credo buoni soltanto a farsi impiccare. Non avrò la fortuna di impiccarli io, ma non voglio nemmeno contribuire a dilazionarne l’impiccagione» (Labriola a Turati, 18 gennaio 1891).

Labriola poteva, anzi era d’accordo con Turati sulla necessità di formare una cultura socialista in Italia, ma era nettamente contrario ai tentativi di Turati di attrarre al socialismo scientifico gli intellettuali positivisti, che lui sentitamente disprezzava. In una corrispondenza con Engels scriveva il 30 marzo 1891: «Tra questi fenomeni spontanei [del movimento operaio] e la coscienza sviluppata della rivoluzione proletaria manca in Italia un anello di congiunzione che è appunto la coltura socialista. I nostri operai non saranno certo gli eredi della filosofia classica tedesca, appunto perché quella filosofia a mala pena passò per il solitario cervello di qualche professore italiano. La nuova generazione non conosce che i positivisti, che sono per me i rappresentanti della degenerazione cretina del tipo borghese».

Le preoccupazioni di Labriola non erano certo campate in aria. Turati continuava nel suo dialogo con la borghesia progressista per trovare una base comune molto, ma molto allargata: «La base è, se non l’accettazione di tutta la teoria socialista, la simpatia viva, peraltro, verso l’azione di quest’idea nella contesa sociale, e il riconoscimento sincero del diritto degli operai, che hanno coscienza di classe e ideale di emancipazione, di prendere nella vita pubblica una parte importante e adeguata» (“Critica sociale”, 31 luglio 1891).


La Lega Socialista Milanese

Anche il programma che la Lega Socialista Milanese si era data era tutto impostato in questo senso. La “Critica Sociale” nel darne l’annuncio avvertiva che esso non era uscito «da cervello d’un Giove», ma «fu veramente il prodotto di un pensiero collettivo». Ora, il pensiero collettivo, e noi lo rivendichiamo, funziona ed è indispensabile solo quando e se l’organizzazione è inquadrata all’interno di un preciso programma al quale tutti i suoi aderenti spontaneamente si uniformano; al contrario, dove non ci sia unicità programmatica, il pensiero collettivo non può che esprimere un guazzabuglio di idee o, nel migliore dei casi, affermazioni così generiche e vaghe da non scontentare nessuno perché possono essere stiracchiate in tutti i sensi, per dire tutto senza dire niente.

Questo era purtroppo il caso della Lega Socialista dove «tutte le tendenze del socialismo, teorico ed operajo, hanno qualche rappresentante, anche quelle che confinano con l’anarchismo; e nelle sue adunanze [...] ogni pensiero, quasi ogni proposizione del programma venne passata al setaccio di una critica minuziosa e severa [...] Le deliberazioni furono tutte prese a grande maggioranza e per esse non si produssero scissioni in seno alla Lega» (“Critica Sociale”, 20 aprile 1891).

Nel programma si legge che «il Socialismo [...] si propone di combattere e demolire quei privilegi [della classe borghese, n.d.r.], risolvendo così nelle coscienze e nel fatto, la questione sociale». Si dice che «l’ideale politico del socialismo [...] si afferma antipatriottico e antiautoritario». Viene poi affermato che «è indispensabile che la popolazione salariata si organizzi come una forza speciale, interessata alla demolizione del privilegio proprietario, e sostenga una lotta costante contro la classe capitalista allo scopo di raggiungere la propria emancipazione [...] Il quarto Stato conquista a grado a grado la dignità e la libertà del lavoro, eleva il proprio tenore di vita materiale e morale, compie la propria educazione di classe e prepara in sé le attitudini convenienti ai suoi futuri destini [...] È necessario che il proletariato si organizzi e si addestri come partito distinto, anche per impadronirsi delle forze del potere politico e giovarsene per l’abolizione dello Stato borghese e per la soppressione delle differenze e degli antagonismi di classe».

Si ricorderà come il Consiglio Generale di Londra avesse definito «controsenso logico impossibile a realizzarsi» la pretesa di Bakunin di realizzare la “uguaglianza delle classi”.

Il paragrafo sul “metodo” del futuro partito inizia così: «Il socialismo scientifico non crede ad un rinnovamento miracoloso dell’organismo sociale per effetto di decreti dall’alto o di sommosse dal basso. Esso giudica oziosa e lascia impregiudicata la questione se il conseguimento dei grandi fini dell’evoluzione economica e politica renderà necessario, come avvenne fin qui nella storia, il cozzo violento e sanguinoso degli interessi colluttanti e delle classi che li rappresentano».

Il documento si sofferma poi a lungo sui problemi di matrimonio e famiglia, di istruzione ed educazione, di religione e morale, ma non una sola volta appaiono scritte la inquietante (per la borghesia) affermazione di “dittatura del proletariato”, e nemmeno di “lotta di classe”!

Insomma, il programma della Lega milanese che voleva essere la risposta del socialismo scientifico alle varie correnti di socialismo spurio esistenti in Italia, poco aveva di socialista e di scientifico.


In vista del Congresso internazionale di Bruxelles

A Milano, il 2 e 3 agosto si tenne il “Congresso Operaio Nazionale” col proposito di coordinare tutte le forze operaie italiane compatte alla conquista dei loro diritti economici e sociali e di nominare i rappresentanti al congresso internazionale di Bruxelles; 450 furono le società operaie che aderirono, rappresentate da 250 delegati. Ma, al di là dei numeri impressionanti, di fatto, questo congresso ebbe una base geografica che andava poco più in là della Lombardia. All’assise non parteciparono né Andrea Costa, né Antonio Labriola; vi erano, invece rappresentati gli anarchici, i mazziniani ed i demo-radicali.

Come era da aspettarsi, data la eterogenea composizione, fu molto vivace il dibattito e lo scontro delle posizioni, ma Turati, il vero protagonista del congresso, anche se con più di qualche compromesso, riuscì a portarlo sulle posizioni del socialismo.

Ci asteniamo dalla narrazione dei vari interventi e ne riportiamo i risultati. Riguardo al primo punto all’ordine del giorno, concernente la legislazione sociale e la partecipazione al Congresso internazionale di Bruxelles, fu approvato il seguente documento, proposto da Turati:

«Considerando che la vera ed intera difesa dei lavoratori consiste nel venire in possesso degli istrumenti di lavoro onde ottenere l’intiero equivalente del prodotto del loro lavoro, il che nel moderno stadio di sviluppo dell’industria non è conseguibile che mediante la proprietà collettiva delle terre e dei capitali;
«Che lo Stato borghese non potrebbe venir meno alla sua ragione d’essere e diventare da organo dell’interesse dei capitalisti, organo dell’interesse del popolo;
«Che malgrado ciò, anche sul terreno del monopolio capitalista i lavoratori organizzati possano chiedere e la classe dominante per istinto di conservazione, può essere forzata a concedere quei provvedimenti che assicurino ai lavoratori e alle loro famiglie alcune delle garanzie più indispensabili e più urgenti, ottenute le quali, il proletariato militante possa proseguire con maggiore efficacia la lotta di classe per la sua completa emancipazione e compiere con maggiore alacrità la sua missione storica;
«Che l’organo naturale di codesti procedimenti è attualmente lo Stato;
«Che, sebbene non sia da sperare negli effetti di una legislazione difensiva del lavoro, senza una forte organizzazione operaia che la promuova e ne vigili l’attuazione, tuttavia, data codesta organizzazione, la legislazione può, entro certi limiti, aiutare a garantire l’opera [...]
«Che le principali richieste a cui lo Stato deve soddisfare per la difesa dei lavoratori, sono le seguenti: a) Giornata normale di otto ore; b) Riposo settimanale di almeno 36 ore non interrotte; c) Vigilanza sulle industrie pericolose ed insalubri; d) Divieto del lavoro dei fanciulli minori di anni 14, combinato con una seria obbligatorietà della istruzione popolare; e) Assunzione a carico dello Stato o degli imprenditori dell’Assicurazione generale dei lavoratori contro gli infortuni, le malattie e la invalidità. [...]

«Il Congresso delibera:
«1) Che i suoi rappresentanti al Congresso di Bruxelles debbano sostenere la necessità di rafforzare dovunque l’organizzazione per arti e mestieri dei lavoratori e di promuovere in essi una agitazione politica per ottenere dallo Stato un’efficace tutela dei lavoratori nei sensi suindicati.
«2) Debba inoltre proporre che sia disposta una pubblicazione popolare da tradursi in diverse lingue, onde i lavoratori possano essere facilmente istruiti sulla portata e sugli effetti della legislazione difensionale del lavoro nei paesi civili e sui miglioramenti desiderati.
«3) Che l’argomento della legislazione difensiva del lavoro sia posto all’ordine del giorno nel Congresso operaio italiano dell’anno prossimo, onde i lavoratori italiani possano formulare in proposito un programma di lotta pratico e preciso».

Riguardo al diritto di coalizione fu denunciata la menzogna contenuta nel codice Zanardelli e, su proposta di Turati, fu accettato all’unanimità il seguente documento:

«Considerando:
«Che la coalizione degli operai, unica loro attuale difesa contro gli eccessi dello sfruttamento del lavoratore, non può essere efficacemente garantita che da una gagliarda e prudente federazione della classe lavoratrice, organizzata per arti e mestieri fra i vari paesi industriali e agricoli;
«Che, ad affrettare e rendere efficace questa federazione debbono concorrere le Camere del lavoro e i segretariati internazionali del lavoro; [Anche su questo argomento si vedano i documenti dell’Archivio della Sinistra, n.d.r.]
«Che è necessario imporre ai governi il più ampio riconoscimento del diritto di coalizzare [...] e la soppressione di tutti quei fatti e quelle leggi che lo rendono illusorio e ne limitano gli effetti, quali in particolare l’intervento armato dello stato a favore dei capitalisti, sia per sostituire gli operai scioperanti, sia per intimidirli sotto pretesto di ordine pubblico, e gli art. 165 e 167 del nuovo Codice penale italiano, che sotto pretesto menzognero di libertà sottraggono la materia dello sciopero al diritto comune;
«Che la salvaguardia effettiva del diritto di coalizione non può aversi se le associazioni interessate non provvedono, nelle singole località, a organizzare un’efficace solidarietà verso gli scioperanti perseguitati dal licenziamento dei padroni o dai processi o da ingiuste condanne;
«Che pel momento, nelle condizioni dell’organizzazione dei lavoratori italiani non è il caso che partano da essi proposte circa il boicottaggio;
«il Congresso delibera:
«Di dare mandato al suo rappresentante al Congresso a Bruxelles di propugnare tutti quei mezzi che sieno acconci a ordire la federazione delle forze operaie e le abolizioni legislative nei sensi detti di sopra;
«Di porre all’ordine del giorno del prossimo Congresso operaio italiano la proposta d’una agitazione per l’abolizione degli articoli 165 e 167 del nuovo Codice penale, a difesa e sussidio delle vittime delle persecuzioni penali e capitaliste in materia di coalizione e di scioperi».

Il nuovo codice penale del 1889, che prendeva il nome dal liberale di sinistra Zanardelli, con la famosa teoria della “violenza morale” in tema di sciopero, si dimostrava di gran lunga più reazionario dell’antico, rendendo in pratica punibili tutti gli scioperi di una qualche importanza, anche quelli che un tempo erano ammessi in base alla “ragionevole causa”.

Sul militarismo fu approvato il seguente o ordine del giorno, proposto da Lazzari:

«Considerando:
«Che il militarismo è l’applicazione della forza e della violenza alla difesa e conservazione delle classi e delle istituzioni privilegiate;
«Che le sue funzioni impediscono il libero e logico svolgimento dell’umano progresso destinato a procurare il benessere per tutti, perché mantengono nello spirito sociale una preoccupazione opposta al vero interesse della società, che è il perfezionamento e l’emancipazione dei suoi membri, e creano una produzione destinata alla distruzione e alla morte che genera uno sperpero immenso di forze economiche;
«Che la classe operaia è la più colpita e la più danneggiata dalle esigenze del militarismo, a cui deve sacrificare la parte più scelta della sua gioventù, costretta a diventare parassita d’una produzione già travagliata dalla speculazione capitalista e ad essere strumento di repressione e di persecuzione in mano della borghesia;
«Che una società civile di liberi e di eguali, essendo rappresentata dalle relazioni internazionali dei popoli, fondate sul principio della solidarietà sociale, non ha bisogno dell’opera di difesa violenta ed anti-umana del militarismo;
«il Congresso riconosce che la classe operaia deve schierarsi contro il militarismo come contro un nemico del suo progresso e della sua emancipazione, e dichiara essere dovere delle organizzazioni operaie:
«1) di fare una continua ed attiva propaganda contro i dannosi effetti del militarismo e contro i sentimenti patriottici e nazionali [...];
«2) di rifiutarsi a partecipare a qualunque manifestazione che possa giovare a mantenere nella popolazione i pregiudizi e le influenze militari;
«3) di educare la gioventù operaia ai sentimenti della fratellanza e della solidarietà, affinché sotto le armi i giovani possano resistere all’influenza demoralizzatrice dello spirito militare e non siano più un cieco strumento della disciplina e della tirannia [...]».

Infine, allo scopo di porre le basi per un vero “partito indipendente dei lavoratori italiani”, fu approvato il seguente documento, presentato da Turati:

«Il Congresso operaio nazionale discutendo sul quesito della organizzazione operaia in Italia.
«Considerando:
«Che per effettuare l’emancipazione dei lavoratori è d’uopo la unione di tutte le volontà e di tutte le forze morali e materiali dei lavoratori organizzati a tale uopo.
«Mentre afferma che l’emancipazione non può essere pienamente raggiunta se non col rivendicare in possesso della classe lavoratrice le terre e gli strumenti del lavoro che essa adopera per produrre la ricchezza.
«Delibera:
«di costituire in partito dei lavoratori italiani tutte le società aderenti al presente Congresso e di promuovere una agitazione per raccogliere nel partito stesso tutte le altre Associazioni italiane agli scopi e ai criteri seguenti:
«1° - Il partito dei lavoratori italiani ha per scopo l’emancipazione dei lavoratori dal monopolio politico ed economico della classe capitalista. Esso prende parte alla lotta della vita pubblica con criteri di classe, indipendentemente da ogni altro partito politico o religioso, e sostiene la lotta contro il monopolio capitalista mediante la solidarietà, la resistenza e la propaganda.
«2° - Possono farne parte tutte le Associazioni di lavoratori di città e campagna, di ambo i sessi, salariati e stipendiati od anche indipendenti, purché non abbiano la condizione di sfruttatori o dirigenti del lavoro altrui. Non saranno ammesse le Associazioni amministrate o dirette da non lavoratori, salvo per quelle Associazioni operaie ed agricole che per speciali condizioni locali, secondo i concordi pareri dei Comitati regionali e del Comitato Centrale, conservino pur sempre il carattere di vere Associazioni nell’interesse dei lavoratori.
«3° - Le modalità della costituzione del Partito verranno formulate da una Commissione nominata dal presente Congresso, la quale, tenendo conto delle deliberazioni e discussioni del Congresso medesimo, dovrà sottoporre, nel termine di un mese, un progetto di programma di statuto a tutte le Associazioni aderenti e si farà conto delle osservazioni delle stesse, prima di ridurlo a programma e statuto definitivo.
«4° - Sarà salva l’autonomia delle singole Sezioni e Federazioni in tutto ciò che non sia essenziale all’interesse generale dei Partito. Fino a nuova e diversa deliberazione le Sezioni e Federazioni rimarranno autonome anche nel decidere sulla loro partecipazione alle lotte elettorali.
«5° - La Commissione nominata per la formazione del programma e dello statuto, dopo averne redatta la formula definitiva, fungerà da Comitato Centrale provvisorio del Partito fino alla convocazione di un successivo Congresso nazionale da tenersi al più tardi nell’estate dell’anno prossimo. Nominerà inoltre nel suo seno un segretario internazionale del lavoro».

Naturalmente in questi documenti si trovano tante stonature, imperfezioni, debolezze ed anche errori teorici. Tuttavia non possiamo disconoscere che il congresso si pose senza tentennamenti sul terreno della lotta di classe e del socialismo. Vi si nota una enorme evoluzione rispetto al precedente programma della Lega Socialista Milanese, anche se la redazione di entrambi era stata essenzialmente opera di Turati.

Fu poi deliberato che al congresso di Bruxelles sarebbero stati inviati due rappresentanti, anziché uno, per acclamazione designati in Turati e Croce. Per sopperire alle spese di viaggio e permanenza fu stabilita una tassa di 2 lire per ogni società rappresentata al congresso.

Sulla partecipazione italiana al congresso di Bruxelles, la “Critica Sociale” del 20 agosto 1891, per la penna di Turati, scriveva: «Recandoci a Bruxelles, dove palpiterà, quando usciranno queste pagine, il cuore e l’ideale del proletariato militante del mondo – dove forse neppur prenderemo la parola, più solleciti di stringere nodi e di imparare e di riportarne impressioni limpide e sicure che non di mettere in mostra noi stessi – non presumiamo di recarvi un contributo attivo ed importante di spedienti, di esperienze, di forze già virilmente organizzate; ma abbiam nell’animo alto e saldo il concetto di portarvi un contributo morale, una promessa non mendace, quella cioè dell’accessione prossima e cosciente del proletariato del nostro paese alla grande e santa lotta dei lavoratori per l’emancipazione mondiale. Alla cambiale internazionale che colà sarà tratta sopra un non rimoto avvenire, apporremo, senza jattanza ma con animo tranquillo, anche la firma del partito dei lavoratori d’Italia».

Antonio Labriola in lettere a Turati e ad Engels manifestò le sue riserve sulla conferenza di Milano con critiche mordaci, alcune giuste ed altre meno. Ma riguardo alla partecipazione al congresso di Bruxelles, scrisse a Turati il 4 agosto: «Mi rallegro con voi che andrete a Bruxelles [...] E con questa v’investo anch’io per la mia parte dell’ufficio di plenipotenziario all’estero, e vi auguro buon viaggio».

(Continua al prossimo numero)








Il Marxismo e la Questione Militare
[Indice del lavoro]

Parte quarta - L’imperialismo
B. Le guerre coloniali

(Continua dal numero scorso)

LA GUERRA RUSSO-TURCA E LE GUERRE COLONIALI IN AFRICA

Capitoli esposti alle riunioni a Firenze e di Genova nel gennaio e nel maggio 2014


1. La crisi economica del 1873 e la guerra russo-turca del 1876

La guerra franco prussiana del 1870-71 chiude il ciclo dell’importante processo dell’unificazione tedesca mentre in Europa rimangono ancora aperte altre questioni di unità nazionale: quella italiana, quelle legate alle nazioni incluse nell’impero austro-ungarico e quelle dei paesi balcanici sottomessi all’impero ottomano e russo. Queste situazioni sono già da decenni in maggiore o minore fermento e determinano una generale instabilità e tensione politica.

Impero Ottomano al 1870

Nello sfondo una situazione economica generale che Lenin così riporta nel “L’Imperialismo fase suprema del capitalismo” ove descrive l’avvento dei monopoli capitalistici: «Il grande rivolgimento ebbe inizio col crack del 1873 o più esattamente con la depressione che gli tenne dietro; la quale, tranne un’appena sensibile interruzione all’inizio degli anni ottanta e lo slancio poderosissimo, ma di breve durata, verso il 1889, per circa 22 anni riempie la storia dell’economia europea».

Nel crack finanziario le potenze maggiori approfittano delle difficoltà di quelle minori per muoversi con maggiore determinazione nella reciproca concorrenza. Nella nostra teoria le crisi, e ancor più le guerre, sono un fattore di accelerazione del processo di centralizzazione capitalistica verso la formazione di entità finanziare e produttive sempre più mostruose.

La guerra russo turca del 1877-78 va inserita in questo processo riprendendo le due principali questioni, mai risolte stabilmente, dei territori europei sotto il dominio ottomano, sui quali le maggiori potenze europee vantavano presunti diritti e rivendicazioni territoriali, e quella dell’espansione russa oltre il Mar Nero e nel Mediterraneo. In questa lunga contesa, l’Impero britannico aveva sempre assunto una strategia diplomatica di doppio gioco: stringere alleanze con paesi europei quando insieme intendevano sottrarre territori al traballante Sultano, oppure sostenerlo quando era utile per arrestare l’espansionismo russo, come nella guerra di Crimea del 1854-55, come abbiamo esposto nel n.73 di questa rivista. In ogni caso guadagnava sempre. Quella breve ma tremenda guerra, in cui alla fine fu difficile distinguere chi aveva subìto le maggiori perdite e chi ottenuto la vittoria decisiva, produsse dei pesanti accordi che la Russia dovette accettare suo malgrado, ma che ad ogni circostanza possibile tentava di rinegoziare.

Questa la successione degli eventi e delle manovre diplomatiche che riportarono alla guerra russo-turca, per la quale si formarono nuove alleanze o si mantennero neutralità, tutte a scapito del sempre più debole Impero ottomano.

Nel luglio 1875 scoppiarono tumulti anti-turchi in Bosnia e in Erzegovina. Nell’anno la flotta turca vi sbarcò un contingente per domarvi le rivolte.

Il 13 maggio 1876 il ministro degli esteri austriaco Andrássy presentava al Sultano il Memorandum di Berlino contenente una serie di concessioni agli Slavi del Sud, e le possibili sanzioni qualora fossero negate. Il Sultano ovviamente respinse il Memorandum, contando sulla protezione dei britannici, che avevano promesso di inviare una flotta militare nei Dardanelli.

Giugno 1876: rivolta in Bulgaria del movimento nazionale degli Opălčenci. La sua feroce repressione, gli “orrori bulgari”, fu ampiamente documentata nel Regno Unito da un corrispondente di guerra allo scopo di indirizzare l’opinione pubblica britannica: l’ampio uso delle informazioni è sempre usato per favorire i cambiamenti di alleanze degli Stati. La Russia ortodossa per il momento non intervenne a sostegno dei correligionari bulgari, per il timore di ritrovarsi isolata come all’epoca della guerra di Crimea, ma tesseva nuove alleanze nell’intento di recuperare quanto perduto.

Nel dicembre 1876 si svolse la Conferenza di Costantinopoli incentrata su proposte di riforme per l’Impero ottomano: il Sultano turco Abdul Hamid I promulgò la costituzione e ne demandò l’applicazione ad un’assemblea, che non sarà mai convocata.

Il Regno Unito ora assicurava alla Russia la sua neutralità nella guerra, se non toccherà l’Egitto, base importante nei progetti inglesi di colonizzazione dell’Africa, e non occuperà Costantinopoli, che garantisce, dopo la guerra di Crimea, la libera navigazione commerciale nel mar Nero, dove dall’estremo porto di Trabzon (Trebisonda) le merci inglesi raggiungevano la vicina Persia e il resto dell’Asia.

Il 15 gennaio 1877 anche l’Austria annunciò la sua neutralità in cambio della Bosnia e dell’Erzegovina.

Il 24 aprile 1877 la Russia, alleata alla Romania, che concesse il libero transito al suo esercito, ai Principati danubiani, al Principato di Serbia, al Montenegro e agli Opălčenci, dichiarava guerra alla Turchia. Questa era alleata con il Principato di Abcasia, regione caucasico-georgiana che cercava di riprendersi l’indipendenza da quando i russi, dopo parziali conquiste nel 1829 e nel 1842, avevano abolito definitivamente il principato locale nel 1864. Abbiamo già ricordato come Engels avesse spiegato come le continue avanzate russe fossero una necessità per quell’assolutismo per la cui sopravvivenza erano necessarie continue, anche se piccole, guerre di conquista e annessioni.

Il piano strategico russo prevedeva il possesso di tutta la Bulgaria e delle confinanti Macedonia e Tracia e, non detto, di arrivare a Costantinopoli, il tutto in una sola campagna di guerra; nel Caucaso si doveva chiudere definitivamente ogni ribellione ed espandersi in Armenia.

Un primo piano turco mirava alla conquista della Romania e ad attaccare l’esercito russo nella Bessarabia cercando di conquistarla. Fu poi ritenuto troppo rischioso e si stabilì di indebolire il nemico gradualmente in combattimento bloccandolo davanti alle grandi fortezze sul Danubio per poi passare al contrattacco.

L’avanzata russa nel cuore della Bulgaria fu agevole con scontri limitati, ma fu fermata a Pleven, baluardo turco lungo la strada per Sofia. I russi la strinsero d’assedio per 5 mesi con un’armata che progressivamente impegnò 150.000 soldati, in ultimo guidati da Nicola Romanov, fratello dello zar. Nonostante l’eroica difesa dell’armata turca di 70.000 uomini e dell’indubbio valore militare di Osman Nuri Pascià, che inflisse alte perdite ai russi, 40.000 tra morti e feriti, la città cadde perdendo 25.000 uomini più altri 40.000 tra feriti e prigionieri. In seguito i russi sconfissero in maniera definitiva i turchi nella quarta battaglia del passo di Šipka sui monti Balcani presso l’attuale Stara Zagora, da cui era agevole scendere su Costantinopoli. Si fermarono nella cittadina di Santo Stefano a soli 12 chilometri da Costantinopoli, minacciando di attaccarla. Nel frattempo si era schierata la flotta britannica a difesa della città e degli stretti. Nessuno degli alleati della Russia era intenzionato ad andare oltre gli accordi stabiliti; le risorse russe erano allo stremo: se voleva Costantinopoli doveva proseguire da sola.

Intanto i russi vincevano ed avanzavano anche nel Caucaso.

Bulgaria secondo il Trattato di Santo Stefano
Il Sultano, vista la situazione, propose la resa e il 3 marzo 1878 fu siglata la pace di Santo Stefano: ai Turchi rimase in Europa solo l’Albania e la Tracia mentre Serbia, Montenegro e Romania divenivano indipendenti. La Russia acquisì la Bessarabia e parte dell’Armenia e propose la creazione di una Grande Bulgaria, dal Mar Nero all’Egeo, che sarebbe però rimasta tributaria dell’Impero ottomano.

Tra giugno e luglio del 1878 si tenne il congresso di Berlino tra tutti gli Stati coinvolti, moderato da un Bismarck “onesto sensale”, che apportò diverse importanti rettifiche al trattato di Santo Stefano allo scopo di contrastare l’espansionismo russo. Fu scartato il progetto della Grande Bulgaria, considerata un pericoloso avamposto russo nei Balcani e sul Mediterraneo, il che l’Inghilterra non avrebbe mai concesso. La Bulgaria rimaneva quindi soltanto un principato autonomo soggetto a tributo al Sultano e perdeva la Macedonia passata direttamente alla Porta, per tagliarle ogni passaggio diretto al Mediterraneo, mentre la Rumelia orientale ottenne solo l’indipendenza amministrativa. Vienna ebbe l’amministrazione militare della Bosnia e dell’Erzegovina, deprimendo ulteriormente le aspettative e le lotte degli indipendentisti, per i quali cambiava soltanto il colore delle divise dei plotoni per l’esecuzione dei rivoltosi. L’Inghilterra invece ottenne Cipro, occupata durante la guerra come ricompensa al sostegno ai turchi. Alla Romania andò anche la Dobrugia con tutto il delta del Danubio. La Grecia riebbe la Tessaglia nel 1881. La Turchia dovrà versare alla Russia un’indennità di guerra di 300 milioni di rubli; a parziale copertura di questa somma le riconsegnerà il vitale porto di Batum all’estremo orientale del mar Nero, e le importanti fortezze caucasiche di Kars e Ardahan. Alla fine la Russia ottenne non solo quanto perso nella guerra di Crimea ma rafforzò la sua posizione strategica.

Ma la riduzione dei territori ottomani in Europa e la ridistribuzione di altri non risolsero le questioni che s’intendevano definire con le armi; anzi sorsero nuove tensioni che daranno origine dopo pochi anni a diverse guerre territoriali tra i nuovi Stati balcanici. Tutte le tensioni generate dai confini artificiali nella “polveriera balcanica” confluiranno poi nel gran macello della Prima Guerra mondiale.


2. Il colonialismo europeo in Africa

Lo sviluppo del capitalismo europeo spinge le sue maggiori potenze industriali alla ricerca di materie prime e di sbocchi commerciali fino nei più remoti angoli del mondo. L’Africa, con la scoperta d’importanti giacimenti di diamanti, oro e svariate materie prime ad uso industriale e alimentare, diventa l’obiettivo primo e più vicino di una sua forsennata spartizione, subito indicata con la calzante espressione britannica “scramble for Africa”, sgomitare per l’Africa.

In meno di 30 anni, fino alla Prima Guerra mondiale, il continente sarà completamente spartito tra i sette capitalismi più voraci d’Europa, eccetto l’Etiopia e la Liberia rimaste indipendenti. In questa corsa s’inserisce anche il giovane capitalismo italiano. Il suo Stato presenta questo apparente paradosso: non ha ancora ultimato la sua unità nazionale e già si avventura nelle guerre di conquista coloniale, prova del prevalere della sua brama di profitto sulle idealità nazionali. Il suo sviluppo industriale, partito in ritardo rispetto ai concorrenti europei, deve cercare di colmare le distanze e arraffare quanto ancora rimane “libero”, mentre l’unità nazionale può attendere.

Da un punto di vista militare le guerre coloniali sono nella loro quasi totalità conflitti asimmetrici, ciascuno dei quali ha un significato ed insegnamenti diversi.

Nonostante l’evidente disparità delle forze in armi, diverse sono le pesanti sconfitte subite dai meglio attrezzati eserciti europei. L’esercito francese, che aveva occupato Algeri già il 5 luglio 1830, è costantemente impegnato in violente rivolte per 41 anni, l’ultima delle quali nella Cabila nell’autunno del 1871; solo tra il 1852 e il 1871 le vittime algerine si contano in 1 milione di uomini, un terzo dell’intera popolazione. Analoghe lunghe lotte debbono affrontare gli inglesi contro le organizzate tribù del regno Zulu e le rivolte Mahdiste nel Sudan durate dal 1881 al 1899; lo stesso i tedeschi e gli italiani nei territori occupati.

Le ottimistiche aspettative di una facile sottomissione dell’Africa si scontrano contro le agguerrite formazioni militari locali che, se difettano in armamento, organizzazione ed esperienza militare moderni, hanno però dalla loro parte antichi legami e solidarietà tribali, la forte determinazione a rimanere indipendenti contro guerre evidentemente di rapina e di sterminio e la perfetta conoscenza del territorio per la guerriglia e il logoramento dell’avversario. Questi fattori possono difficilmente bastare ad affrontare l’armamento in tecnica e in numeri a disposizione degli europei, ma sono elementi determinanti allo sviluppo degli eventi bellici.

La colonizzazione dell’Africa prima dell’epoca capitalista era limitata a una serie di stazioni commerciali in alcuni punti favorevoli delle coste, spesso alla foce dei fiumi, che servivano come scalo di rifornimento per le navi, per lo sbarco e l’imbarco delle merci, in particolare quella degli schiavi, nei secoli circa 11 milioni. Con l’espandersi della produzione industriale in Europa le stazioni commerciali in Africa si ampliano, diventano stabili insediamenti con consistenti presidi militari. Si espandono anche le pretese sui territori adiacenti che diventano colonie; in breve tutte le coste con il loro retroterra vicino sono dichiarate appartenenti ai vari paesi europei, molto spesso sulla base di mappe approssimative e senza essere realmente controllate e sottomesse militarmente. In seguito sorge il problema di esplorare e occupare l’interno del continente, considerato “res nullius”, quindi del primo che lo occupa. Mentre sono più o meno risolte, anche militarmente, le varie controversie con le organizzazioni tribali o statali africane, nascono forti contrasti tra i paesi colonizzatori sulle aree da occupare, come era appena accaduto nel 1882 per l’occupazione militare inglese dell’Egitto.

Prendendo a spunto il problema per l’attribuzione della foce e del bacino del fiume Congo, conteso tra il Portogallo e il Belgio, Bismarck convoca nel 1884 a Berlino la Conferenza per l’Africa, o Conferenza sul Congo, allo scopo di regolamentare tutta la questione della spartizione dell’Africa. Tra i primari scopi della Conferenza è di evitare conflitti militari diretti tra gli Stati europei che possano innescare moti rivoluzionari o indipendentisti nel precario equilibrio europeo. Per prima cosa è necessaria la stabilità europea evitando che una guerra per e dall’Africa si trasferisca in Europa. Si stabilisce che un territorio per essere riconosciuto come colonia debba essere realmente controllato militarmente e non solo indicato sulle mappe. Non potendo contare su una cartografia e su confini certi si introduce il concetto di “aree di influenza” dei diversi colonizzatori.

I lavori della conferenza sono influenzati da come le grandi imprese finanziarie e industriali si stanno spartendo il mondo. Leggiamo in Lenin proseguendo il precedente brano de “L’Imperialismo”.

«Nel breve periodo di ascesa del 1889-1890 fu largamente adoperata l’organizzazione dei cartelli per sfruttare la congiuntura (...) Seguì un altro lustro di scarsa attività e di bassi prezzi, ma ormai nell’industria lo stato d’animo era mutato. Non si considerava più la depressione come qualcosa di naturale, bensì come un periodo di pausa precedente un nuovo periodo favorevole. Lo sviluppo dei cartelli entrò allora nel secondo periodo. Non sono più un fenomeno transitorio, ma una delle basi di tutta la vita economica. Essi conquistano una sfera dell’industria dopo l’altra, e anzitutto l’industria della lavorazione delle materie prime (...) Il grande slancio degli affari verso la fine del secolo e la crisi del 1900-1903 si svolsero interamente, almeno nelle industrie minerarie e siderurgiche, per la prima volta sotto il segno dei cartelli (...) Pertanto, i risultati fondamentali della storia dei monopoli sono i seguenti: 1) 1860-1870, apogeo della libera concorrenza. I monopoli sono soltanto in embrione. 2) Dopo la crisi del 1873, ampio sviluppo dei cartelli. Sono però ancora l’eccezione e non sono ancora stabili. Sono un fenomeno di transizione. 3) Ascesa degli affari alla fine del secolo XIX e crisi del 1900-1903. I cartelli diventano una delle basi di tutta la vita economica. Il capitalismo si è trasformato in imperialismo. I cartelli si mettono d’accordo sulle condizioni di vendita, i termini di pagamento ecc. Si ripartiscono i mercati. Stabiliscono la quantità delle merci da produrre. Fissano i prezzi. Ripartiscono i profitti tra le singole imprese, ecc.».

L’espansione coloniale avviene in ogni angolo possibile del mondo e senza interruzione formando imperi coloniali di vaste dimensioni come indicano i numeri seguenti, riferiti alle tre maggiori potenze coloniali europee. Nel 1909 la superficie complessiva delle colonie, dominion e protettorati sottomessi all’Impero britannico è 94 volte più grande della superficie del Regno Unito con una popolazione di 7,7 volte superiore della madrepatria. Con il 20% della superficie dell’intero pianeta e il 23% della popolazione mondiale quello inglese è l’impero più vasto e popoloso di tutta la storia dell’umanità. La superficie dell’impero coloniale francese al 1914 è 19 volte superiore alla madrepatria, mentre quella delle colonie tedesche 5 volte la Germania. Tutte queste colonie formano un immenso serbatoio di materie prime e forza lavoro a bassissimo costo da cui estrarre enormi masse di pluslavoro per arricchire in modo incredibile i paesi colonizzatori.

La colonizzazione dell’Africa

La figura mostra l’Africa alla vigilia della grande spartizione, dopo il riconoscimento del congresso di Berlino sui preesistenti possedimenti, e la situazione alla vigilia della Prima Guerra mondiale, dove si può notare l’espansione britannica in direzione nord-sud, mirante ad una continuità territoriale da Città del Capo ad Alessandria d’Egitto, che si vuole collegare da una ferrovia. Si può anche notare l’espansione francese in direzione est-ovest che dal Marocco al Madagascar tenta di tagliare quell’asse britannico; in questo progetto la Francia è sostenuta da Germania, Belgio e Portogallo.

Ma l’unico serio contrasto sorto durante queste espansioni avviene con la crisi di Fascioda nel 1898 nel Sudan, quasi alla convergenza delle due direttrici di avanzamento coloniale. Qui si fronteggiano minacciosamente per due mesi un contingente francese, in missione “geografica”, e uno inglese, colà inviato per domare l’ennesima rivolta mahdista nel Sudan, accusandosi a vicenda di aver sconfinato dalle rispettive aree di influenza. La crisi è poi risolta per via diplomatica.


3. Le principali guerre coloniali inglesi in Africa

In questo studio limitiamo l’esposizione cronologica agli avvenimenti più rilevanti della colonizzazione inglese in Africa, la più grande fra tutte. Daremo anche una sintesi dell’avventura coloniale italiana nel continente.

La direttrice di espansione principale inglese partiva dall’estremo Sud del Sudafrica, con le sue immense ricchezze in diamanti da poco scoperte e da sempre un punto strategico per la navigazione oceanica, e dall’estremo nord, ossia dall’Egitto con il suo canale; altri insediamenti costieri si aggiungevano nell’Africa equatoriale.

Per una più dettagliata storia della colonia australe rimandiamo a: “Dall’apartheid alla democrazia stessa schiavitù sui proletari” al n° 47 del 1999 di questa rivista, da cui riportiamo alcune citazioni.

Nell’estremo Sud africano la situazione dell’espansione coloniale inglese era complessa perché nell’area convivevano, pur con molti problemi e contraddizioni, tre differenti organizzazioni economiche e sociali. Vi erano le tante e varie tribù africane di etnie diverse, molte delle quali non erano state sottomesse dai colonizzatori e difendevano la loro autonomia con forte determinazione e con le armi. La base economica principale del maggioritario gruppo dei bantu, arrivati dal nord fino agli inizi del 1800, “spingendo avanti le mandrie”, era l’allevamento del bestiame su base seminomade e come tali erano organizzati su base militare, mentre solo una piccola parte autoctona era dedita alla coltivazione della terra condotta in modo collettivo con semplici zappe e altri attrezzi rudimentali.

Vi erano poi i boeri, i discendenti dei primi colonizzatori, per lo più calvinisti olandesi e ugonotti francesi, che avevano reciso ogni legame con la madrepatria, sostenevano la totale indipendenza dal controllo inglese e si consideravano africani bianchi a tutti gli effetti. La loro base economica principale era l’agricoltura condotta con metodi moderni utilizzando in minima parte manodopera locale e, vista la forte resistenza degli autoctoni a lavorare alle loro dipendenze, per la più parte con schiavi importati inizialmente da Giava, poi dall’Angola e dalle coste malgasce.

Il Grande Trek

Tra il 1830 e il 1840 si stima che circa 12.000 boeri, con il cosiddetto Grande Trek, si spostassero verso nord-est, nelle province del futuro Natal, del Transvaal e dello Stato libero di Orange, allo scopo di sottrarsi ad ogni forma di controllo inglese e coltivare nuove terre; così invasero i territori zulu da poco unificati in un unico regno dopo le guerre tra i clan rivali vinte da Shaka Zulu. I boeri fondarono una decina di piccole e litigiose repubbliche, spesso in guerra tra loro, che ebbero tutte vita breve e tormentata come fu il caso della repubblica del Transvaal, cui gli inglesi accordarono lo status di repubblica indipendente nel 1852 e dove fu subito adottata una costituzione su base razziale. Dopo qualche decennio fu costretta a dichiarare bancarotta per l’impossibilità di riscuotere i tributi necessari al suo funzionamento e annessa dagli inglesi nelle sue colonie nel 1877 per “proteggerla dagli zulu”. Da lì scaturirono le guerre anglo-boere.

Vi erano poi gli inglesi che avevano stabilito da tempo delle loro colonie dove si dedicavano al commercio, all’industria e all’amministrazione generale. Il governo di Londra cercò di ridurre al minimo il conflitto con le tribù locali e sostenne l’abolizione della schiavitù, entrando così in conflitto con i boeri. Il progetto era una Confederazione tra le varie entità socio-economiche come aveva già realizzato con successo nel Canada.

Ogni espansione territoriale boera o inglese significava sopprimere le tribù più deboli o allontanarle dalle terre più fertili verso le più aride e desertiche; col tempo una parte degli indigeni, espropriati dei loro mezzi di sussistenza, trovò lavoro presso i bianchi sottoposti a forme di servaggio vario e altri divennero proletari a bassissimo costo.

«Da quel momento (1838) il Sudafrica fu diviso in due sezioni distinte: una settentrionale boera ed una meridionale britannica, contraddistinte da esigenze sociali diverse che portavano a rapporti diversi con gli indigeni, formalmente liberi ma costretti ad un rapporto di asservimento che provocava condizioni economiche a livelli bassissimi. Al nord fu applicata una politica basata sulla sottomissione razziale, che permetteva di contenere al minimo le retribuzioni degli autoctoni impiegati nelle grandi fattorie o al servizio dei coloni, al sud invece l’imperialismo britannico permetteva maggiori libertà alle tribù locali, compreso il diritto di voto ai colorati a partire dalle elezioni del 1854».

Possedimenti inglesi in Africa australe

In merito alla questione militare, iniziamo l’esposizione dall’estate del 1867 quando presso Hopetown, sul fiume Orange, furono trovati casualmente i primi diamanti che richiamarono immediatamente un numero impressionante di cercatori e faccendieri, la più parte inglesi, stimati per un totale di 40.000. Vicino alle miniere sorsero città e imprese che produssero un repentino sviluppo economico; tra le società azionarie sorte per l’estrazione dei diamanti, la De Beers diretta da Cecil Rhodes, monopolizzò il settore. La disponibilità della nuova immensa ricchezza acuì le tensioni e i forti contrasti preesistenti tra gli inglesi, i boeri e i nativi; si aprì la corsa all’accaparramento delle zone diamantifere che aumentò ancor più quando tra il 1884 e il 1886 si scoprirono anche le miniere d’oro.

A quel tempo erano riconosciute come colonie inglesi il Basutoland, la Colonia del Capo e il Natal; questi possedimenti si estendevano sulle coste a forma di un enorme ferro di cavallo che bloccava l’espansione dei boeri verso oriente, i quali a loro volta spinsero sempre più verso nord-est le tribù degli zulu e a nord-ovest i bechuana, i matabele, i mashona, i genero, gli onambo e i damara, tra le più consistenti.

4. Le guerre contro gli zulu (1878-79)

Dopo aver riaffermato il controllo inglese nel Transvaal nel 1877, Henry Bartle Frere, il nuovo Alto commissario per il Sudafrica, forzando la mano rispetto ai progetti di Londra che tentavano soluzioni non militari perché già impegnati nei Balcani e nel secondo conflitto afgano, decise che era giunto il momento di regolare una volta per tutte la questione con gli zulu, il cui regno era frequentemente interessato da lotte intestine di potere. Questa era una condizione indispensabile per investire con una certa tranquillità nel settore minerario. Si immagina che ci fosse il timore che gli zulu vendessero concessioni minerarie ai concorrenti.

Il 1° dicembre 1878 gli inglesi iniziarono l’offensiva per conquistare il territorio controllato da Cetshwayo, re zulu più propenso alla trattativa che alla guerra. La stampa inglese dell’epoca descriveva l’esercito zulu come una accozzaglia di barbari, privi di armi da fuoco, dotati solo di zagaglia, una lancia con punta lunga e asta corta per il combattimento ravvicinato, e scudo di pelle, incapaci di fare la guerra in campo aperto con grandi formazioni militari. Frere gli fece recapitare un ultimatum con l’ordine perentorio di sciogliere il suo esercito e riconoscere la supremazia inglese sul suo regno. Fu respinto per la sua arroganza e perché il re zulu, nonostante l’atteggiamento conciliante, disponeva anche di quasi 40.000 effettivi, su una popolazione complessiva di 250.000, ben addestrati al combattimento in grandi formazioni e molto preparati fisicamente.

Era stato re Shaka, considerato il miglior stratega africano, assassinato nel 1828, a creare e perfezionare una moderna organizzazione militare degli zulu costituendo dei reggimenti stabili, che risiedevano in caserme separate dal resto del villaggio; vi potevano essere inquadrate anche le donne. La mobilità di questi reggimenti era ottenuta con un allenamento continuo e lunghe marce che li rendevano capaci di percorrere anche 50 miglia al giorno. Shaka, dall’esperienza delle lotte per unificare le tribù zulu sotto il suo potere, aveva elaborato una disposizione delle formazioni e una tattica di battaglia chiamata “a testa di bufalo”: un massiccio corpo centrale di esperti veterani doveva compiere l’attacco principale al nemico affiancato da due veloci ali di giovani guerrieri con il compito di aggirare i fianchi dell’avversario, accerchiarlo e impedire che si disperdesse mentre il corpo centrale lo attaccava frontalmente. La riserva alle spalle della formazione centrale era disponibile a ogni tipo di rinforzo. Questo tipo di combattimento fu collaudato, perfezionato e usato nella guerra contro i boeri e gli inglesi.

Dopo il 1860 erano arrivate nello Zululand le armi da fuoco in discreta quantità. Ma gli inglesi solo dopo l’inizio della guerra scoprirono che i guerrieri zulu disponevano sì di circa 10.000 tra vecchi moschetti ad avancarica dell’epoca napoleonica, ma anche di pochi moderni fucili Martini-Henry, gli stessi in uso agli inglesi, un’arma a retrocarica a colpo unico, robusta e affidabile. Durante la guerra del 1879 Cetshwayo disponeva solo di un limitato numero di fucilieri inquadrati in unità regolari ma con scarso munizionamento.

Frere, senza attendere lo scadere dell’ultimatum, contando sulla lentezza delle comunicazioni con Londra, volendo mettere il ministero delle Colonie di fronte al fatto compiuto di una guerra lampo di una settimana e prendendo a pretesto insignificanti questioni di frontiera, fece attraversare il fiume Tukela, confine tra la colonia inglese e il regno zulu.

Frere assegnò il comando militare delle operazioni a lord Chelmsford, che aveva appena vinto una guerra per questioni di confine contro gli Xhosa, che utilizzavano una tattica di guerriglia; riuscì a concentrarli in un’unica zona e li sconfisse in campo aperto sfruttando al meglio la superiorità tecnica e l’organizzazione militare. Il generale preparò un piano strategico su quell’esperienza considerando la scarsa disponibilità di Londra a inviare ulteriori rinforzi perché aveva autorizzato solo campagne difensive ma non offensive.

Chelmsford disponeva di un esercito relativamente piccolo, 17.173 effettivi, per due terzi truppe indigene e volontari locali non del tutto affidabili, con il punto di forza di circa 5.000 uomini appartenenti alle truppe di fanteria inglese, esperte e ben armate. Non disponeva di reparti di cavalleria, poca artiglieria e scarsi mezzi per il trasporto di salmerie e munizionamento, per cui la sua avanzata nei territori zulu era limitata a soli 6-8 miglia al giorno, in netto contrasto con la rapidità di spostamento degli zulu. Contava però sull’ostilità verso gli zulu delle popolazioni nere del Natal, che attraversava. Sarebbe stata sua intenzione concentrare tutte le sue forze per aver maggior volume di fuoco, ma così facendo avrebbe potuto controllare meno territorio e le forze zulu avrebbero potuto portare un contrattacco attraversando il confine, non più presidiato, in più punti e invadere il Natal. Decise quindi di avanzare su 5 colonne, di cui 3 per l’attacco e tenendone 2 sulla difesa. Quella più settentrionale doveva proteggere l’avanzata anche da un possibile attacco boero. Ciascuna colonna doveva avanzare in modo autonomo per ricongiungersi presso Ulundi, la capitale zulu distante 60 miglia dal confine, per impegnare in campo aperto il grosso degli zulu.

I due eserciti si scontrarono per la loro prima grande battaglia il 22 gennaio 1879 nei pressi dell’isolato sperone roccioso di Isandlwana, nel Sudafrica orientale.

La terza colonna, forte di 4.800 effettivi, comandata da Chelmsford, doveva essere la principale punta d’attacco. Giunta nell’altopiano sottostante l’altura di Isandlwana si divise in due parti: una, con 1.800 effettivi, doveva accamparsi in attesa di nuovi ordini, l’altra andava a stanare presunte forze zulu nell’intorno. La zona collinare non permetteva visuali ad ampio raggio e ciò influì sull’evento. Gli ordini anche per i brevi accampamenti erano di scavare trincee lungo il campo e disporre i carri in cerchio a difesa. Qui non fu possibile applicare nessuna delle due disposizioni perché il terreno in parte roccioso lo impediva e i pochi carri servivano per i continui convogli di rifornimento con il vicino deposito di Rorke’s Drift; questi oltretutto avanzavano lentamente perché gli zulu avevano dissestate con massi e buche le poche piste esistenti. Fu disposto solo un servizio di sentinelle e pattuglie a cavallo.

Cetshwayo aveva deciso di inviare il suo migliore gruppo d’attacco di 20.000 guerrieri proprio contro la colonna principale con l’ordine di respingerla, mantenersi sulla difensiva ma non oltrepassare il confine con il Natal per evitare un conflitto più ampio. L’intero esercito zulu era stato diviso in più parti allo scopo di intercettare l’esercito inglese e tagliargli le linee di rifornimento. Il loro attacco era stato fissato per il 23 gennaio, seguendo tradizionali calcoli rituali, ma iniziò il 22 quando i due fronti vennero a contatto quasi casualmente.

Nella fase iniziale una pattuglia inglese si trascinò dietro gli zulu fino al campo principale. Gli zulu si disposero velocemente nella formazione “a testa di bufalo” e gli inglesi piazzarono la loro modesta batteria di cannoni preparandosi alla battaglia mentre buona parte delle truppe ausiliarie locali fuggì precipitosamente. Nonostante diverse fonti sostengano che fosse presente alla battaglia tutto il grosso gruppo d’attacco, più precisi rapporti, anche inglesi, ammettono che partecipò solo uno dei quattro gruppi della riserva zulu che complessivamente contava 4.500 guerrieri.

La battaglia fu lunga e condotta principalmente con dei corpo a corpo. Gli zulu furono inizialmente disorientati dal nutrito fuoco dell’artiglieria e dei fucilieri, cui non erano abituati. Ma in breve gli inglesi finirono le munizioni mentre i rinforzi richiesti non giunsero in tempo. La battaglia terminò con la schiacciante vittoria zulu e la perdita di tutto il materiale e le armi inglesi. I superstiti che riuscirono a fuggire furono soltanto 50: gli zulu non facevano prigionieri. Le perdite zulu furono stimate al momento in oltre 1.000 ma crebbero nei giorni seguenti per infezioni ed emorragie.

Il giorno successivo vi fu una battaglia combattuta presso l’ospedale e deposito di Rorke’s Drift, adeguatamente trincerato, dove poche centinaia dell’esercito coloniale inglese sostennero e respinsero un duro attacco zulu. Anche molti feriti inglesi perirono nei giorni seguenti a causa di infezioni e emorragie. Questa piccola vittoria non fu in grado di controbilanciare la disfatta patita dalle forze britanniche il giorno prima.

La sconfitta di Isandlwana provocò grande scalpore in Inghilterra costringendo il comandante in capo lord Chelmsford a interrompere l’invasione del regno zulu per rivedere tutta la sua strategia. Fu la peggiore sconfitta riportata dalle forze armate britanniche contro un nemico tecnologicamente inferiore, con le più alte perdite mai patite dall’esercito inglese in Africa. Questa fu una delle ultime battaglie in cui i soldati inglesi indossarono le vistose uniformi con la giubba rossa, poi sostituite con divise color kaki più mimetizzabili con il terreno.

La battaglia di Isandlwana, del 22 gennaio 1879, e la successiva battaglia di Adua, del 1° marzo 1896, rappresentano due delle maggiori vittorie di eserciti indigeni dell’Africa nera, armati in maniera non omogenea, contro eserciti coloniali europei modernamente attrezzati.

Nei mesi successivi Cetshwayo cercò di intavolare trattative di pace con lord Chelmsford, il quale però ne aveva fatto una questione di prestigio personale e rifiutò ogni possibilità di accordo. A Londra il Primo ministro inglese Disraeli, che viveva un momento di crisi e in vista delle elezioni dell’anno successivo aveva bisogno anche del successo nella guerra contro gli zulu, acconsentì a inviare i rinforzi richiesti, sostituendo però nel comando lord Chelmsford.

Questi decise di risolvere la questione prima dell’arrivo del nuovo comandante Wolseley e organizzò una massiccia avanzata disponendo ora di nuove truppe. Una prima colonna avanzò rapidamente eliminando ogni resistenza fino a 5 km dall’accampamento reale di Ulundi costituendo il campo fortificato di Fort Notela; il giorno seguente arrivò Chelmsford col grosso delle forze che erano di 5.300 fanti, 900 cavalleggeri, 12 pezzi di artiglieria da campagna e due nuove mitragliatrici Gatling, che dispose in un grosso rettangolo vuoto al centro a tre chilometri dall’accampamento zulu, lasciando una riserva di 1.000 uomini al campo fortificato. Come previsto gli zulu, calcolati in circa 20.000, si lanciarono all’attacco secondo il loro classico schema ma, nonostante il loro impeto, non riuscirono ad arrivare a contatto della linea inglese perché falciati dai fucilieri e dalle mitragliatrici; quando iniziarono a ritirarsi la cavalleria li inseguì. Anche gli attacchi sui lati e della riserva fallirono e in nemmeno un’ora di battaglia, dopo 4.000 zulu caduti, Cetshwayo si arrese; era il 4 luglio 1879. Gli inglesi ebbero 10 morti e 97 feriti.

Dopo questo successo il regno zulu fu smembrato in 13 piccoli regni controllati dal governo inglese e in costanti guerre tra di loro. Per cercare di mantenere l’ordine e controllare le ribellioni, Cetshwayo fu richiamato dall’esilio e gli fu affidato un piccolo regno. Nel 1887 il territorio zulu fu annesso alla Gran Bretagna e dal 1897 fu incorporato nel Natal.


5. La prima guerra contro i boeri (1880-1881)

Dopo l’annessione forzata del Transvaal alla Colonia del Capo, i boeri non approfittarono della guerra contro gli zulu per attaccare contemporaneamente gli inglesi, per ottenere la completa indipendenza dall’Impero, anche perché a quel tempo godevano di un’ampia autonomia, al pari del Canada, Australia e Nuova Zelanda.

Dopo una serie di ribellioni su vasta scala nel corso del 1879, nel dicembre del 1880 i boeri autoproclamarono l’indipendenza del Transvaal. Alcuni giorni dopo, un reggimento inglese fu mandato a ripristinare l’ordine britannico. 250 armati boeri tesero loro una imboscata e, facilitati dalla vistosa uniforme rossa inglese mentre loro erano ben mimetizzati nei loro vestiti coloniali, uccisero 150 inglesi e ne fecero prigionieri 120. Altri deboli rinforzi inviati nei giorni seguenti furono intercettati e sconfitti. La sconfitta inglese decisiva avvenne presso la Majuba Hill dove si affrontarono 3.000 boeri contro 1.200 inglesi, che riportarono le maggiori perdite: 405 morti e 315 feriti contro 97 tra morti e feriti boeri. A seguito di ciò, il trattato di pace del 1881 riconobbe al Transvaal l’autogoverno e una maggiore autonomia, ma non l’indipendenza. La piena indipendenza fu riconosciuta nel 1884, ma non per molto perché la scoperta di importanti filoni auriferi a Witwatersrand nel 1885 con l’arrivo di enorme fiumana di nuovi coloni europei, rimise tutto in discussione creando le condizioni per la seconda guerra boera del 1899-1902.

Questa prima guerra fu vinta dai boeri per i seguenti motivi: 1) gli inglesi avevano la convinzione di essere nettamente superiori agli avversari in tutti i campi, rafforzata dopo la schiacciante vittoria contro gli zulu, e quindi affrontarono la crisi con supponenza e superficialità; 2) i boeri prevalsero per una attenta preparazione e per una migliore conoscenza del territorio in cui riuscirono in devastanti imboscate, perdendo solo poche decine di uomini contro le molte centinaia degli inglesi. Le loro 4 vittorie sorpresero il mondo e per primi gli inglesi.

Diversi storici non la riconoscono come guerra per la breve durata, se paragonata alla seconda, e per l’esiguo numero di soldati impegnati, meno di 5.000 in totale, in appena 4 brevi battaglie di cui una sola superava i mille uomini sul campo.


6. Il controllo del canale di Suez e dell’Egitto (1882)

L’occupazione dell’Egitto, uno dei paesi africani più sviluppati e ancora inserito nell’Impero ottomano, è un caso esemplare della dominazione economica, militare e poi coloniale europea.

Uno degli effetti della crisi economica del 1873 e del crack finanziario che ne seguì fu colta come un’imperdibile occasione dal Regno Unito per mettere le mani sull’Egitto e sul canale di Suez, aperto regolarmente al traffico marittimo nel 1869. Il governo egiziano, principale finanziatore dell’impresa, era schiacciato dai debiti contratti per la costruzione, i cui soli interessi assorbivano la maggior parte delle entrate egiziane. Nel novembre del 1875 il governo dell’Impero ottomano, per la generale situazione economica in cui versava, fu costretto a proclamare la bancarotta e il corso della moneta cartacea egizia subì un crollo vertiginoso.

Il governo inglese ne approfittò per cercare di assumere il controllo del canale il cui pacchetto azionario era composto di 177.000 azioni in mano del governo egiziano, 207.000 in mano francese e 17.000 tra vari privati. Il Primo ministro inglese Disraeli “convinse” il kedivè egiziano a cedergli a basso prezzo il pacchetto egiziano delle azioni della Compagnia del canale che, tramite i banchieri Rothschild, furono acquistate per 4.080.000 sterline. Si spiega così la neutralità inglese con la Russia nella guerra russo turca del 1876, in cambio del disinteresse russo necessario all’Inghilterra per il suo libero intervento in Egitto. Il capitalismo francese, primo attore nella lucrosa impresa del canale, sostenuto da altri europei tra cui quello italiano, intervenne in ambito finanziario per garantire i suoi interessi e fu così costituita la “Commissione del debito egiziano” che assunse la gestione delle entrate e delle spese dell’Egitto allo scopo di proteggere quegli investimenti.

Di lì al controllo dell’intera macchina statale il passo fu breve, compresa la smobilitazione di buona parte dei quadri dell’esercito e delle truppe regolari; furono inoltre aumentate le tasse fondiarie allo scopo di rastrellare quanto più denaro possibile. Seguirono ovviamente violente proteste egiziane per riprendere il controllo del governo ma, nonostante le concessioni accordate, il ministero delle finanze rimase sempre agli inglesi e quello dei lavori pubblici ai francesi.

Nel 1882 era stata convocata a Costantinopoli una conferenza sul futuro dell’Egitto che, tra i vari punti, impegnava tutte le potenze europee a non annettere né occupare il territorio egiziano e il suo canale, questo dichiarato spazio neutrale e libero ad ogni tipo di navigazione commerciale e militare ma non utilizzabile per operazioni belliche.

Il governo inglese non attese la ratifica del protocollo e il comandante la flotta inglese ancorata nella rada di Alessandria consegnò il 10 luglio 1882 alle autorità locali il provocatorio ultimatum di interrompere immediatamente tutte le costruzioni delle difese militari e dei forti della città, da eseguire entro le 24 ore successive. La mattina successiva Alessandria fu pesantemente bombardata per 12 ore dai nuovi e potenti cannoni navali inglesi. Il kedivè fuggì dal Cairo e riparò ad Alessandria per mettersi sotto la protezione britannica.

Un’assemblea straordinaria di vari notabili egiziani nominò il colonnello Arabi nuovo comandante militare ma questo commise due gravi errori: nonostante disponesse di un buon armamento non rafforzò le difese sul canale, contando che gli inglesi ne rispettassero la neutralità militare. Questi invece lo usarono come teatro delle loro operazioni, fecero giungere una considerevole flotta con notevoli truppe di terra dall’India, misero sotto il loro controllo i due sbocchi del canale e occuparono Ismailia, la città edificata appositamente per organizzare la costruzione del canale e sede della società per la sua gestione. Il secondo errore fu di affidare il controllo di importanti posizioni difensive agli indisciplinati reparti beduini, una buona parte dei capi dei quali era già stata comprata dagli inglesi. L’esercito egiziano forte di 60.000 uomini fu diviso in tre parti uguali a difesa delle tre possibili direttrici d’attacco inglese: Alessandria, Il Cairo e Tell-el-Kebir, in una posizione strategica a metà strada lungo la ferrovia tra il canale e il Cairo. Notando che gli egiziani quasi non presidiavano i loro avamposti di notte, gli inglesi nella notte tra il 13 e 14 settembre 1882 poterono avanzare indisturbati fin sotto le trincee egiziane di Tell-el-Kebir cogliendoli di sorpresa all’alba; li sconfissero pesantemente chiudendo con quella battaglia tutta la guerra.

Si erano affrontati 20.000 soldati per parte; 50 i morti inglesi contro i 2.500 egiziani, che in rotta precipitosa abbandonarono tutte le artiglierie. L’Egitto, formalmente ancora parte dell’Impero ottomano, con il suo canale fu controllato direttamente dal governo inglese, per riacquistare la sua formale indipendenza solo nel 1956.

In questa circostanza la Francia, prudentemente, non intervenne militarmente a sostegno di alcuna parte, tanto meno pensò di mettersi contro l’Inghilterra perché i suoi interessi sul canale non erano minacciati ed aveva già troppa altra carne al fuoco: nel 1881 aveva appena “convinto” il Bej di Tunisi ad accettare il suo protettorato sulla Tunisia per difenderlo dalle scorrerie dei bellicosi Krumiri, e stava organizzando, col tacito accordo inglese, l’espansione a Gibuti, nel Madagascar e nella Cocincina. L’occupazione della Tunisia avvenne nonostante le proteste dell’Italia che la rivendicava in considerazione della consistente colonia italiana che vi si era stabilita e degli accordi bilaterali stipulati sulla pesca.

Anche in questo caso si conferma l’osservazione di Engels riguardo al ricorrente uso della corruzione inglese nei confronti degli anelli deboli del nemico che oscurano fortemente le celebrate doti strategiche dei generali inglesi. Ma in guerra, si sa, tutto è lecito.

I notevoli sviluppi nella metallurgia e nella chimica si riversarono nella costruzione di armi sempre più potenti, precise, sperimentate e migliorate durante il corso delle continue guerre in quel periodo. Si rendono evidenti l’efficienza e la potenza di fuoco dei cannoni navali inglesi e delle nuove mitragliatrici americane Gatling. Queste, usate per la prima volta nella guerra di secessione americana, erano di qualità notevolmente superiori alle “mitraillesues” francesi dell’epoca della guerra franco-prussiana del 1871; anche se ancora pesanti, erano particolarmente adatte al combattimento ravvicinato soprattutto nella difesa di strade e ponti con limitato campo d’azione. Si rivelarono di un’efficacia devastante nella conquista inglese strada per strada di Alessandria. La mitragliatrice leggera montata su semplice treppiede inventata in quegli anni dall’americano Gardner fu adottata utilmente dagli inglesi nelle battaglie di El Teb e Tamai in Sudan nel 1884. Ebbe il battesimo del fuoco nel 1894 nella guerra dei Matabele, una tribù zulu, la prima mitragliatrice leggera automatica inventata dall’americano Maxim nel 1885 che sfruttava i gas di scarico e l’energia del rinculo per espellere la cartuccia e caricarne un’altra, eliminando così l’uomo al meccanismo a manovella. In uno di quegli scontri 50 uomini con solo 4 Maxim misero in fuga 5.000 guerrieri zulu.

Costituita una solida base in Egitto le truppe anglo-egiziane poterono meglio organizzare la successiva campagna nel Sudan in rivolta, dal 1881 al 1899, o guerra Mahadista, che aveva assunto una dimensione religiosa e anticoloniale. La lunga rivolta si concluse con la vittoria anglo-egiziana nella battaglia di Omduman il 2 settembre 1898. Nelle alterne vicende della guerra cercò di intromettersi anche il colonialismo italiano che offrì agli inglesi il suo appoggio, ma fu costretto dagli inglesi, che non volevano intrusi nella faccenda, a desistere e abbandonare le posizioni che aveva faticosamente conquistato.


7. Primo colonialismo italiano in Africa: da Massaua ad Adua

Abbiamo sempre visto nella borghesia italiana una classe meschina, corrotta, indecisa, senza nerbo, nei secoli incapace di impegnarsi per i suoi obiettivi generali, se non nell’oppressione del proletariato, disponibile a ogni compromesso per risparmiarsi i rischi. Ha sempre tradito sia gli alleati sia i sottomessi. Queste caratteristiche si sono riflesse nel suo personale politico e nel suo comitato d’affari di governo. Lo ha confermato questo studio sulla questione militare nel comportamento della borghesia italiana durante le guerre di indipendenza nazionale. La retorica risorgimentale ha tentato di seppellire col silenzio o sotto fumose ricostruzioni i molti vergognosi disastri e le inqualificabili grettezze che l’hanno screditata di fronte alle classi sottomesse interne ed alle concorrenti borghesie nel mondo. Precisiamo, a scanso di equivoci, che il comunismo non si associa a chi vorrebbe sostituire questo indecente personale politico con uno migliore, in ambito capitalista, ma lavora a rovesciare dal potere tutte le borghesie, oneste o disoneste, coraggiose o infingarde.

Ma è vero che nella vicenda del primo colonialismo italiano si raggiunge il fondo della meschinità frammista alla supponenza! Anche gli altri capitalismi lo sono e lo sono stati, anch’essi di rapina e sanguinari, ma almeno non così ipocriti!

Possiamo datare i primi passi dell’avventura coloniale italiana in occasione dell’apertura del Canale di Suez, nel 1869. Già l’anno precedente la compagnia di navigazione genovese Rubattino, già utilizzata per l’impresa dei Mille, aveva ottenuto dal governo italiano particolari agevolazioni per una linea commerciale da Genova a Bombay e successivamente fino in Cina. A tale scopo era necessaria una base di appoggio nella lunga rotta per il deposito di carbone, le officine di riparazione, il deposito delle merci, ecc. Era però una forma mascherata del governo italiano per iniziare le sue manovre coloniali, questo mentre aveva ancora da risolvere la sua complicata questione nazionale. Doveva muoversi con abilità attraverso i mille scogli della diplomazia e delle alleanze con i maggiori paesi europei. Pochi anni prima, nel 1861, era stato bloccato da Francia e Inghilterra il poco noto tentativo di Cavour di costituire una stazione commerciale fissa, base di ogni protettorato e successiva colonia, sulla costa della Nigeria e nell’isola di Principe nel piccolo arcipelago di Sao Tomè nel golfo di Guinea, al tempo valide basi per la lunga circumnavigazione dell’Africa verso le Indie. Analoghi tentativi nel Borneo e in Argentina, come colonie penali per i detenuti più pericolosi, non giunsero mai a conclusione.

Nel 1869 su una nave da guerra della Regia Marina partirono l’esploratore genovese Sapeto, ex missionario in quelle terre, e l’ammiraglio Acton allo scopo di individuare il sito giusto per una base italiana. Scoperto che i pochi ripari possibili nello Yemen e negli isolotti all’interno dello stretto del Bab el Mandeb, tra il Mar Rosso e l’Oceano Indiano, erano già stati comperati dalla Francia e dall’Inghilterra, volsero la prua verso le coste africane dove, accordandosi con due signorotti locali, Sapeto acquistò per circa 106.000 lire del tempo, una striscia di terra lunga 6 chilometri e larga poco meno in una favorevole posizione nella baia di Assab. Il terreno era in territorio egiziano, e quel governo protestò vivacemente, appoggiato da quello inglese che non voleva concorrenti stranieri sulle rotte indiane. Vista la situazione il progetto fu poi bloccato. In Italia queste manovre passarono inosservate: c’erano le grandi sommosse popolari contro la tassa sul macinato che colpiva duramente le classi più povere; tra il dicembre ’68 e il gennaio ’69 vi furono 47 morti, 147 feriti e un migliaio di arresti.

La questione riprese nel 1882 quando il gigante coloniale inglese, sbaragliato l’esercito egiziano e assunto il controllo militare del paese, sostenne per proprio tornaconto il nanerottolo italiano perché nel frattempo la Francia, il Belgio e la Germania stavano ampliando notevolmente le loro zone di influenza coloniale in Africa. Per l’Inghilterra era necessario cercare di ostacolare e frenare ulteriori manovre di quei paesi, non intervenendo direttamente ma sostenendo l’ultimo arrivato: il governo italiano e casa Savoia. Ovviamente nulla di scritto sul “bonario disinteresse” inglese ma solo sulla parola, come si conviene tra galantuomini, come era stato per gli accordi di Plombières tra Cavour e Napoleone III.

Sotto l’assistenza e la protezione inglese, la Rubattino ritornò nella baia di Assab e poté vendere allo Stato italiano quella base al modico prezzo di 416.000 lire, quattro volte il prezzo d’acquisto, trattenendo per sé solo una modesta porzione di terreno come deposito di carbone. Il Re d’Italia aveva la sua prima colonia in Africa, e con quella doveva consolarsi dello “schiaffo di Tunisi” per essersi appena lasciato sfuggire la ben più importante Tunisia. La nuova colonia fu descritta come una nobile missione di civiltà e progresso, inizio di una occupazione di vasti possedimenti in grado di assorbire la forte emigrazione; nessuna delle due motivazioni si rivelò reale.

In Italia forte era l’opposizione interna alle manovre coloniali perché fu subito chiaro che lo scopo erano solo vantaggi economici per i borghesi. I capitalisti delle industrie settentrionali, che scontavano il ritardo rispetto alla concorrenza delle nazioni del nord Europa, premevano per una politica protezionistica. La Chiesa romana non era contraria al colonialismo in sé, che le avrebbe permesso una migliore penetrazione in terre lontane, solo condannava quei governi che considerava portatori della pericolosa barbarie del liberalismo e del laicismo; condannava quindi il colonialismo francese e italiano mentre benediva quello del pio Belgio. La Corte sabauda e la borghesia meridionale invece lo appoggiavano caldamente.

Si obiettò che c’era già un’Africa in casa, viste le pessime condizioni di vita di una grande percentuale di italiani. Nel 1881 furono registrati 100.000 casi di malaria; tra il 1884 e il 1887 il colera uccise 55.000 persone. Agli inizi degli anni ’80 solo il 6% dei chiamati alle visite di leva tra i giovani minatori di zolfo siciliani e i contadini dell’Agro romano infestato dalla malaria fu riconosciuto idoneo al servizio militare a causa della scarsa alimentazione e delle condizioni igieniche delle abitazioni. La carne era totalmente assente dalle tavole delle classi inferiori. In Italia il pane costava 60 centesimi al chilo quando un operaio tessile del nord guadagnava 1 lira e 35 centesimi al giorno; le donne solo 50 centesimi ed un bambino 40. Solo nel 1886 fu approvata la legge che vietava il lavoro notturno dei bambini. La spaventosa miseria fu la causa dei Fasci Siciliani dell’autunno-inverno del 1893-94 e dei moti popolari nella Lunigiana del ’94, tutti repressi nel sangue.

Concluso l’affare, dopo lo sbarco di un contingente militare, di tecnici, geografi ed esploratori, si accertò poi che la baia di Assab non era idonea alla costruzione di un moderno porto militare e commerciale ma solo come deposito di carbone per la Rubattino. Negli anni precedenti era stata realizzata una piccola base, presidio di partenza per i geografi che dovevano tracciare le mappe della regione. Ma diverse spedizioni furono attaccate dalle popolazioni dell’interno e alcune completamente distrutte, creando ulteriori problemi al governo italiano.

La baia di Assab

Fallito il tentativo di acquisire il porto di Zeila, nominalmente sotto il controllo egiziano, a Roma si decise di occupare la città portuale di Massaua, in Eritrea, prendendo a pretesto il massacro di una spedizione commerciale italiana condotta dall’esploratore Bianchi. Ben aiutati dagli inglesi in tutte le questioni pratiche, da loro ben protetti contro le reazioni indigene e della piccola guarnigione egiziana che si ritirò senza reagire, lo sbarco avvenne il 5 febbraio 1885 con risvolti tragicomici. Il colonnello Saletta arriva senza carte geografiche e interpreti, i suoi 800 bersaglieri, imbarcati a gennaio, vestivano le divise invernali, i suoi cannoni finirono sommersi nella stiva da 600 tonnellate di materiale vario (dalla sua relazione ufficiale); solo tramite l’ufficiale britannico che viaggiava con lui riuscì a comperare un certo numero di cammelli.

Formalmente l’Italia a Massaua doveva occuparsi di traffici commerciali, dopo aver dato la caccia a quella “banda di quattro ladroni” responsabili dell’eccidio. Iniziava invece una rapida espansione e occupazione di tutta la fascia costiera dell’Eritrea e dell’avamposto di Saati in direzione dei fertili altopiani etiopici, provocando le forti reazioni dei ras etiopi locali e i timori di Giovanni IV, l’imperatore d’Etiopia (Besbes Kassa negus dal 1872). Quello etiope era il più forte e imbattuto impero africano con una storia millenaria, una forte impronta religiosa come cristiani di rito copto e basato su un sistema di tipo feudale: i vari re locali erano di fatto completamente autonomi, riconoscevano all’imperatore un tributo annuale e il comando supremo nel caso di grandi conflitti con i regni vicini.

In quell’avanzata Saletta usò indiscriminatamente la mano pesante sulla popolazione, e non solo contro chi si opponeva all’invasione, ordinando arresti arbitrari, torture, fucilazioni sommarie, adottando gli stessi metodi usati in Italia contro il brigantaggio. Allo scopo furono costruiti in Eritrea 7 penitenziari tra cui orrendo era quello di Nocra, un’isola dell’arcipelago delle Dahalak a 55 km da Massaua dove i detenuti incatenati dovevano lavorare nelle cave di pietra sotto un sole cocente, con scarsa alimentazione e poca acqua e senza alcuna assistenza sanitaria. Le relazioni di alcune ispezioni italiane descrivono condizioni di vita terribili; questo lager funzionò dal 1887 al 1941 e dal 1936 imprigionò i soldati di Hailé Selassié.

Sempre nel 1885 l’Italia, mediatrice l’Inghilterra, concluse un accordo con il sultano di Zanzibar per ottenere il protettorato della Somalia. Non interessando ad altri, strategicamente la Somalia poteva servire solo per accerchiare l’Etiopia (Abissinia era il suo antico nome utilizzato dall’Italia) e tagliarle l’accesso al mare. Divenuta compiutamente colonia nel 1905 rimase sempre povera e lontana. Non solo il commercio degli schiavi fu mantenuto e tollerato per non inimicarsi i trafficanti locali, ma gli schiavi furono usati nelle tenute italiane, dove la loro compravendita avveniva con tanto di marca da bollo italiana e timbri vari.

Queste manovre provocarono proteste diplomatiche del negus Giovanni IV d’Etiopia e reazioni militari tra cui quella del ras Alula, un fedelissimo del negus, che il 25 gennaio 1887 attaccò il presidio italiano di Saati, difeso da 700 uomini con 2 cannoni. Dopo uno scontro di 4 ore l’attacco etiope fu respinto, ma il giorno seguente presso Dogali Alula con 7.000 guerrieri intercettava una colonna di 548 soldati italiani che giungevano a rinforzo e la annientava: 430 morti e feriti i rimanenti. In Italia il governo di Francesco Crispi, che da repubblicano e sostenitore di Garibaldi era diventato fervente monarchico, autorizzava la partenza per ottobre di un corpo di spedizione italiano di 20.000 uomini, segno che si intendeva proseguire nell’avventura africana. Solamente il deputato socialista Andrea Costa subito dopo Dogali si era espresso contro: “né un soldo, né un uomo per le pazzie africane”.

Le truppe rimasero a Massaua per alcuni mesi attendendo che una ambasceria britannica riuscisse a appianare la crisi; fallita questa, ebbero l’ordine di puntare direttamente nel cuore dell’Etiopia. Crispi sosteneva le tribù degli oppositori di Giovanni IV, tra cui quella di Menelik, ras degli Scioa e pretendente al trono etiope, che venne abbondantemente rifornito di armi e munizioni italiane. Nel marzo 1889 durante uno scontro contro i dervisci nel Sudan muore Giovanni IV e Menelik divenne il nuovo imperatore. Nel maggio 1889 l’Italia propose subito la firma di un trattato di amicizia e commercio noto come il Trattato di Uccialli con il quale però cercava di trasformare l’Etiopia in un suo protettorato nonostante la sconfitta a Dogali e il possesso solo di Massaua.

L’inganno venne fuori nel luglio del 1890 quando Menelik invitò i sovrani russi e inglesi alla sua incoronazione e da questi gli fu risposto che l’invito avrebbe dovuto giungere loro dal governo italiano secondo gli accordi generali stipulati alla Conferenza di Berlino del 1884 in merito alla sovranità limitata di un protettorato. Il “trattato di amicizia” dell’articolo 17 in italiano aveva una versione, differente da quella in lingua tigrina, che di fatto sanciva il protettorato italiano sull’Etiopia.

Menelik chiese la revisione anticipata del trattato; il governo italiano da una parte lo blandiva, dall’altra, con il solito modus operandi, si accordava col suo principale avversario Ras Mangascià. Menelik nel frattempo acquistava armi da fuoco e munizioni, sfruttando anche il prestito di 4 milioni di lire ricevuto dall’Italia dopo la firma del trattato di Uccialli. I suoi principali fornitori furono la Russia, l’unico governo europeo a sostenere in modo chiaro l’Etiopia, e la Francia, sempre pronta ad ostacolare l’Italia in Africa. Ma l’Italia stessa vendette al negus diverse migliaia di moderni fucili Carcano Mod.92 e una fornitura di quattro milioni di cartucce, di vitale importanza per l’esercito etiope che non disponeva di fabbriche di polvere da sparo.

Contando sul non intervento di Menelik, proseguiva l’occupazione italiana nel Tigrè, regno di Mangascià, che sconfisse occupando tutti i suoi territori e arrivando fino ad Adua e Macallè; nel 1895 penetrava in profondità fino all’Amba Alagi stabilendo dei fortini con piccole guarnigioni.

Menelik era rimasto neutrale nello scontro tra gli italiani e Mangascià, ma quando quest’ultimo, sconfitto, gli si sottomise, decise allora di intervenire. Radunato il suo esercito stimato in 100.000 uomini, di cui il 70% dotati di armi da fuoco e di cannoni, nel novembre del 1895 Menelik prese a pretesto l’invasione italiana del Tigrè per rompere il trattato di Uccialli e muovere guerra all’Italia portando la sua offensiva a riconquistare il Tigrè.

Il contingente italiano era forte di circa 36.000 uomini tra reparti nazionali e truppe locali assoldate, gli ascari, dislocati però in numerose guarnigioni collegate da poche strade e piste. Nel Tigrè il grosso degli italiani era posizionato nei fortini di Adigrat, Macallè e nello strategico avamposto del colle dell’Amba Alagi, con 2.500 uomini, prevalentemente ascari. In quei pressi l’1 dicembre 1895 avvenne il primo contatto con l’avanguardia etiope di 30.000 uomini guidata da ras Mekonnen; vista l’impossibilità di reggere lo scontro frontale per la disparità di forze, l’avamposto italiano ripiegò su posizioni sicure sul colle richiedendo rinforzi. Il comandante Toselli ricevette un primo ordine di resistere il più possibile ed un secondo, ma che non giunse mai, di ripiegare in fretta mentre si cercava di radunare i contingenti italiani distribuiti sugli altri avamposti. Il contingente di Toselli fu completamente circondato e distrutto nella battaglia dell’Amba Alagi del 7 dicembre. Un centinaio di superstiti riuscì a sganciarsi e a congiungersi con i rinforzi, a loro volta attaccati e costretti a ripiegare su Macallè.

Poiché all’avanguardia di Mekonnen si era aggiunto il grosso etiope guidato da Menelik, gli italiani decisero di ripiegare ulteriormente su Edagà Amus dove si stavano riunendo le forze italiane guidate dal generale Baratieri e lasciarono a Macallè, nello strategico forte di Enda Jesus, 1.300 uomini, prevalentemente ascari con l’ordine di tenere il più possibile il forte e rallentare l’avanzata etiope. Baratieri era giunto al grado di generale per “meriti storici”; era stato uno dei Mille e, pur non avendo compiuto studi militari, per l’esperienza sul campo era stato promosso ufficiale. Aveva delle perplessità su queste avventure coloniali, come anche altri ufficiali superiori. Amico di Crispi e del vescovo Bonomelli fu nominato governatore della colonia.

Il forte di Enda Jesus fu messo sotto assedio dagli etiopi bloccandone il rifornimento d’acqua. Resa impossibile ogni resistenza, ras Mekonnen il 7 gennaio 1896 accettò una tregua e come segno distensivo lasciò partire buona parte della guarnigione italiana. Menelik scrisse a re Umberto per una pace in cambio dell’annullamento del trattato di Uccialli, richiesta respinta dal governo italiano il 22 gennaio. Le truppe italiane si concentrarono nella zona tra Adigrat ed Edagà Amus. L’esercito di Menelik aggirò lo schieramento nemico e si diresse verso la conca di Adua, una zona ricca di risorse e nodo cruciale per la via diretta sull’Eritrea italiana, il che costrinse Baratieri a dislocare le truppe in posizione difensiva presso il monte Saati. Completati i rispettivi posizionamenti Menelik ripropose un incontro diplomatico offrendo la pace in cambio di un nuovo trattato, nuovamente respinto da Roma che cercava un successo militare per rinsaldare il prestigio nazionale.


8. La battaglia di Adua

Passavano le settimane nell’inattività delle forze schierate mentre peggiorava la situazione dei rifornimenti per entrambi i fronti, lontani dalle loro basi, in maggior misura per il contingente italiano, distante oltre 250 chilometri da Massaua. Baratieri avvertì il pericolo e, conscio di una probabile sconfitta, propose un rientro in Eritrea. Ma a Roma non c’erano le idee chiare: incitarono Baratieri all’offensiva ma gli tagliarono i fondi e i rifornimenti ricordandogli che “Napoleone faceva la guerra coi soldi dei vinti”! Inoltre il 21 febbraio Crispi decise di sostituirlo, senza avvisarlo, con il più spavaldo generale Baldissera, che avrebbe dovuto raggiungere in incognito il teatro delle operazioni per non influire negativamente sul morale di Baratieri, e inviò anche un contingente di rinforzo.

Il gruppo di comando di Baratieri era composto di altri 4 generali, che non lo stimavano, lo consideravano inadeguato e avevano il compito di controllarlo e spingerlo all’azione. Respinsero con sdegno la sua proposta di rientro in Eritrea sia perché i campi nemici distavano solo 7 chilometri e l’operazione sarebbe stata troppo pericolosa, sia perché non conoscevano la reale consistenza dell’esercito nemico. Il comando italiano credeva ci fosse solo un terzo dell’esercito di Menelik, con questo ammalato, con disordine e insubordinazione nelle sue file per la penuria di viveri. Gli italiani, in deficit di muli e cammelli per i trasporti e senza reparti di cavalleria, non disponevano nemmeno di mappe sicure della zona: nonostante lì avessero già combattuto ai comandanti furono dati sommari ed imprecisi schizzi fatti a mano sul momento; rimaneva cibo solo per 6 giorni. Le forze etiopi erano invece di circa 100.000 unità di cui l’80% con armi da fuoco e 42 pezzi di artiglieria e mitragliatrici e diversi reparti di cavalleria; quelle italiane erano di 17.700, tutti con armi da fuoco e 56 pezzi di artiglieria. Va precisato che si trattava di cannoncini di scarso impiego in quella zona di colline ravvicinate.

I reparti italiani, eccetto i corpi dei bersaglieri e degli alpini, erano di varia provenienza, composti da militari di leva sorteggiati dai loro reggimenti in Italia, quando non inviati per punizione; non avevano esperienza bellica, nessuno spirito di corpo e adeguato addestramento per quel tipo di guerra. Il loro equipaggiamento era scadente, soprattutto le scarpe. Per esigenze di uniformità di munizionamento con i reparti indigeni erano stati riequipaggiati con il fucile Vetterli-Vitali Mod.1870/87, superato dal Carcano Mod.91 con il quale si erano addestrati in patria e inferiore alle migliaia del Mod.92 vendute agli etiopi.

Baratieri e Menelik furono quindi entrambi costretti ad attaccare per evitare lo sfaldamento delle loro unità. Baratieri programmò un attacco per il 1° marzo, anticipando di un giorno quello previsto da Menelik, che sapeva che se avesse perduto la battaglia avrebbe perduto anche il trono.

Il cauto Baratieri non intendeva attaccare direttamente le posizioni etiopi, considerate troppo salde, e propose di avanzare di notte per occupare una serie di colline in posizione più favorevole e ancora più vicine al nemico, costringendo Menelik o ad accettare il combattimento da posizione sfavorevole o cedere il campo e ritirarsi nei suoi altopiani etiopici. Divise quindi le sue forze in 4 colonne affidate ai 4 generali: Dabormida sulla destra si sarebbe attestato sul colle di Rebbi Arayeni, Albertone sulla sinistra avrebbe occupato il colle Kidane Mehret, Arimondi al centro attestandosi parzialmente sempre sul colle Rebbi Arayeni ma in posizione leggermente più arretrata, mentre Ellena avrebbe guidato la riserva dietro Arimondi. Organizzò la manovra affinché le colonne avanzassero in sincronia, in modo che le varie brigate sarebbero state in grado di fornirsi reciproco appoggio e neutralizzare un attacco con fuoco incrociato. Baratieri previde di fatto solo un riposizionamento tattico ma nessun attacco in profondità né un piano di ritirata.

Alle 21,30 del 29 febbraio 1896 le prime 3 colonne lasciarono il campo seguite alle 23 dalla riserva, cui si era aggiunto Baratieri. Dimenticarono al campo i segnalatori ottici!

La brigata di sinistra, composta quasi completamente di ascari, più abituati a muoversi anche di notte su quel tipo di terreno, si distanziò di molto dalle altre colonne. La formazione si alterò ulteriormente quando ci si rese conto che i sentieri meridionali presi dalla colonna di sinistra e da quella di centro convergevano in un unico punto, quindi la colonna centrale, con dietro la riserva, fu fatta fermare per lasciar transitare quella di sinistra, aumentando così il suo distacco col resto dell’armata. Verso le 3,30 del 1° marzo la colonna di sinistra raggiunse quello che credeva il suo obiettivo; ma un’ora dopo le guide avvisarono il generale Albertone che il colle occupato non era quello previsto, che invece si trovava a diversi chilometri più avanti verso sud-ovest. Invece di restare sulla posizione e attendere gli altri a protezione, Albertone decise di eseguire gli ordini iniziali e alle 5,30 giunse il Kidene Mehret. A questo punto la distanza tra la sua colonna indigena e il resto dell’armata era incolmabile. A battaglia perduta e generale prigioniero si aprirono accese discussioni sull’opportunità di quell’avanzamento, in obbedienza all’ordine ricevuto; Albertone tentò il suicidio, ma fu poi decorato e destinato a comandi ausiliari.

Le vedette etiopi notarono i movimenti italiani. Menelik dalla chiesa di Enda Gabrièl per i riti domenicali ordinò ai suoi ras di convergere su Albertone. Alle 6 del mattino l’avanguardia della colonna italiana, molto avvicinata agli avamposti etiopi, fu investita da una carica così intensa che costrinse tutta la brigata a ripiegare frettolosamente sulle pendici del monte Semayata.

Vi furono 3 ore di combattimenti accaniti con forti perdite etiopi, ma esaurite le munizioni e accerchiata la brigata italiana dovette arrendersi; lo stesso Albertone fu fatto prigioniero e gli ascari superstiti fuggirono in direzione del centro dello schieramento italiano.

Le brigate di centro e di destra completarono il loro dispiegamento sui rispettivi obiettivi alle 5,30. Baratieri, giunto alle 6,30 e udito il fragore della fucileria proveniente dalla sinistra ordinò alla colonna di destra di Dabormida di abbandonare la posizione sul Rebbi Arayeni, che sarebbe stata occupata dalla colonna di centro e dalla riserva, e andare a sostegno della colonna avanzata occupando il monte Derer (o Diriam). Ma Dabormida, completato alle 8 lo sgombero dalla posizione, invece di muoversi nella posizione assegnata v’inviò solo un ridotto distaccamento, incanalandosi con il grosso nel vallone di Mariam Shewito, più sulla destra, scoprendo il fianco sinistro della colonna centrale e andando a finire contro il resto delle truppe del ras Mekonnen che vi erano accampate. Il contingente italiano respinse gli etiopi e continuò ad avanzare verso il fondo del vallone, isolandosi ancor più.

Verso le 10 una colonna di truppe scioane guidate da Menelik attaccò il distaccamento sul monte Dere e lo distrusse in mezz’ora di combattimenti. Menelik quindi divise le sue truppe in due tronconi, uno per aggirare il fianco della brigata di centro di Arimondi, rimasto scoperto, e l’altro verso il fianco e il retro della brigata di centro di Dabormida, ora completamente isolata. Qui avvennero violenti scontri per molte ore. Quando gli italiani decisero di ripiegare arrivò la cavalleria etiope che dette il colpo di grazia alla colonna: lo stesso Dabormida morì in circostanze poco chiare e il suo corpo non fu mai ritrovato. I resti di quelle colonne dopo una lunga resistenza solo alla sera iniziarono la ritirata e, per la presenza di grossi reparti etiopi, dovettero dividersi in piccoli gruppi per cercare di raggiungere i vecchi campi italiani della zona.

Per portare aiuto alla colonna di Albertone, Baratieri ordinò alla brigata di centro di Arimondi di avanzare e attestarsi su due monti vicini, facendo avanzare anche la riserva. L’ordine mandato ad Albertone di ripiegare dietro le nuove difese giunse tardi. Verso le 9 incominciarono a giungere verso le posizioni italiane i feriti e gli sbandati della brigata di Albertone il cui flusso si intensificava sempre più. Muovendosi dietro quelle file per coprirsi dai colpi dell’artiglieria italiana, le colonne etiopi si abbatterono sulla posizione di Arimondi, ingaggiando furiosi combattimenti anche corpo a corpo. Le consistenti colonne etiopi occuparono le varie postazioni italiane che man mano cedevano; la brigata di riserva di Ellena fu mal utilizzata con continui prelevamenti di truppe per tappare le varie falle e non entrerà mai in scena. La brigata centrale di Arimondi attaccata frontalmente e aggirata sui due fianchi cedette alle 12 dopo che anche il suo comandante era caduto in battaglia.

Alle 12,30 Baratieri ordinò la ritirata generale ma non ne era previsto il piano e nemmeno un riparo naturale o militare, e non dette direttive in merito; tentò senza convinzione di allestire una retroguardia su alcune alture, ma poi decise di ritirarsi su Adi Caiè dove giunse alle 3 del mattino del 2 marzo dopo aver abbandonato il grosso al suo destino. La resistenza ad oltranza di alcuni reparti fino all’alba del 2 marzo permise ai resti delle due brigate centrali di ripiegare in modo confuso verso Adigrat.

Menelik diede l’ordine alle truppe, indebolite dalle ferite, dalle malattie e dalla penuria di cibo, di rientrare ad Addis Abeba e non inseguire l’esercito italiano in rotta, salvo con alcuni reparti di cavalleria fino al vecchio campo di Saurià. Baratieri fu richiamato in patria e sottoposto alla corte marziale per aver preparato un piano d’attacco “ingiustificabile” e per aver abbandonato le sue truppe sul terreno accusandole di viltà. Fu assolto dalle imputazioni ma censurato come del tutto inadatto al comando. Il generale Baldissera sostituì Baratieri ma la guerra si protrasse senza energia da entrambe le parti fino a ottobre di quel 1896, quando fu firmata la pace di Addis Abeba con cui l’Italia conservava la colonia dell’Eritrea, abrogava il trattato di Uccialli e riconosceva la piena indipendenza dell’Etiopia.

Il calcolo delle perdite italiane varia sensibilmente secondo le fonti, la più pesante conta 7.000 morti, compreso due generali, 1.500 feriti e 3.000 prigionieri più la perdita di tutta l’artiglieria, di 11.000 fucili e buona parte dei trasporti. Non sono mai state chiaramente verificate le notizie diffuse sulle sevizie cui sarebbero stati sottoposti i prigionieri italiani come l’amputazione della mano destra e del piede sinistro di tutti gli 800 ascari prigionieri, considerati traditori.

Re Umberto per il rilascio dei prigionieri italiani di Adua dovette sborsare 5 milioni di lire (altre fonti parlano di 10 milioni) e per questo furono organizzate collette in tutta l’Italia. Controverse sono anche le stime delle perdite etiopi, che si aggirano tra i 4.000 e i 7.000 morti e tra gli 8.000 e 10.000 feriti.


9. Conclusioni

Da un punto di vista generale, quelle imprese coloniali nell’Africa Orientale, intraprese non tanto per interessi economici ma di prestigio del capitalismo italiano, dopo le poco esaltanti tre guerre di indipendenza nazionale, peraltro non ancora completata, si capovolgono nel loro contrario. Mostrano il vero volto di questa borghesia pavida e sottomessa ai potenti quanto spietata con i deboli. Le incertezze politiche del governo ricaddero sulla debolezza dei piani militari, come era stato nelle precedenti guerre risorgimentali. Fu un fallimento sul piano politico più che militare, cui si sarebbe potuto rimediare. Il proletariato, che subito dopo Adua, in istintiva disfattista rivalsa gridava Viva Menelik!, schiacciato dalla crisi economica e dai nuovi debiti di guerra, fu spinto a grandi dimostrazioni nelle piazze: a Milano nel maggio 1898 vi furono 40 morti. Nel luglio 1900 l’anarchico Gaetano Bresci a Monza uccise il re d’Italia Umberto I. Il parlamento esautorò Crispi affidando il governo all’anticolonialista Di Rudini. La classe politica uscita dal Risorgimento fu progressivamente messa da parte e l’imperialismo straccione italiano trovò in Giolitti e in Vittorio Emanuele III i suoi nuovi attori.

Dal punto di vista strettamente militare, rispetto alla precedente vittoria zulu ad Isandlwana, condotta prevalentemente con armi africane tradizionali, quella di Adua è stata la prima netta vittoria di un esercito africano parimenti armato contro un esercito europeo in una grande battaglia campale. La sconfitta italiana, che a livello militare generò il “complesso di Adua”, fu dovuta ad una serie concomitante di cause:
- Sottovalutazione delle forze avversarie, “quattro predoni selvaggi” domabili con “quattro cannonate”, e ostinato rifiuto dell’accordo conciliatorio più volte offerto da Menelik;
- Il generale Baratieri non aveva adeguata preparazione ed esperienza militare per condurre una campagna di questo tipo. Indeciso e insicuro non preparò un chiaro piano di battaglia; errore del generale Albertone e ancor più grave del generale Dabormida.
- Lo stato maggiore, più volte in netto contrasto con le decisioni del Comando, non lo apprezzava e mancava spirito collaborativo.
- Le truppe italiane, eccezion fatta per i reparti scelti dei bersaglieri e degli alpini, erano soldati senza esperienza in ambito africano e senza un affiatamento e spirito di corpo, elementi fondamentali nei momenti delicati di ogni battaglia.
- Difetti nel sostegno tecnico, scarsi mezzi di trasporto, vestiario inadeguato e armamento diverso da quello di addestramento e spesso inferiore a quello etiope. Non furono previste truppe a cavallo né cammellate.
- Scomposto il piano di avanzamento ravvicinato, ogni colonna combatté separatamente contro l’intera massa degli indigeni; nemico in maggior numero, con migliore conoscenza del territorio e mosso secondo un chiaro piano di battaglia, anche se adattato al momento.

L’imperialismo italiano si ripresenterà in Africa nel 1911 occupando la Tripolitania e la Cirenaica, allora amministrate dalla Turchia, con cui entrò in guerra. Essendo questi fatti prologhi della grande fornace della Prima Guerra mondiale, saranno esposti in quell’occasione.


10. La seconda guerra anglo-boera o del Transvaal (1899-1902)

Alla base della seconda guerra boera sono gli enormi interessi dei capitalisti britannici sulla ricchezza dei giganteschi giacimenti di oro del Witwatersrand nella Repubblica del Transvaal, appena scoperti nel 1886, che richiamarono nella zona un continuo e massiccio afflusso di nuovi coloni, prevalentemente dall’Inghilterra, al punto che in pochi anni divennero la maggioranza della popolazione. Diversi “uitlanders” (stranieri) assunsero presto la gestione delle miniere, il controllo della produzione aurifera su base monopolistica in collegamento con altre società minerarie, il cosiddetto sistema delle “goldbugs” (le cimici dell’oro) e fondarono la nuova città di Johannesburg, la capitale mondiale dell’oro.

La loro potenza economica era però ostacolata e limitata dalla forte restrizione sui diritti politici agli uitlanders nella esistente società afrikaner del Transvaal, che riscuoteva enormi diritti di estrazione dai capitalisti stranieri. La popolazione boera, temendo di perdere il controllo politico della repubblica, nel 1888, con una legge, limitò il diritto al voto agli stranieri se non dopo 15 anni di residenza nel paese.

Rhodes, il miliardario e il più grande produttore di diamanti del Sudafrica, è nominato da Lenin ne “L’Imperialismo” per la sua affermazione della necessità di diventare imperialisti per dare sfogo all’eccesso di popolazione, creare nuovi sbocchi alle merci inglesi ed evitare la guerra civile in Inghilterra. Ed era Cecil Rhodes, primo ministro britannico della Colonia del Capo, a premere per un’annessione all’Impero britannico della repubblica del Transvaal e di quella dell’Orange. È ormai riconosciuta una triangolazione di consensi, mai ammessa pubblicamente, tra il ministro delle Colonie britanniche J. Chamberlain, il Primo ministro della Colonia del Capo Rhodes e i due più grandi capitalisti dell’oro, gli inglesi J. Wernher e A. Beit, presidenti dell’omonima società Wernher-Beit.

Per giungere allo scopo Rhodes nel 1895 organizzò a Johannesburg un piano che prevedeva nel Transvaal una sollevazione dei membri di un appena fondato “Comitato per la Riforma”, sostenuto militarmente da un improvvisato piccolo esercito privato guidato dall’eccentrico chirurgo Leander Starr Jamseon e da alcuni ufficiali inglesi. L’operazione fu un disastro: nessuna sollevazione dei presunti cospiratori e la colonna inglese fu intercettata dai boeri e costretta alla resa il 2 gennaio 1896.

Il fallimento di questa operazione ebbe importanti conseguenze politiche: Kruger fu rieletto presidente del Transvaal per rafforzare il predominio degli afrikaner sugli uitlanders, Rhodes fu costretto a dimettersi, il ministro delle Colonie Chamberlain rischiò di cadere anche lui, mentre il governo inglese dovette intraprendere una politica di pacificazione. Ciò fu anche perché l’imperatore tedesco Guglielmo II aveva mandato un telegramma di felicitazioni a Kruger per la sua rielezione e promesso l’appoggio diplomatico tedesco alle repubbliche boere prospettando una possibile federazione con la vicina colonia tedesca dell’Africa sud-occidentale, l’attuale Namibia, peggiorando così i già precari rapporti anglo-tedeschi. Iniziò quindi un periodo di trattative, mediazioni, piccole concessioni politiche, ritrattazioni e contrasti tra falchi e colombe da ambo le parti, che in sostanza non approdarono ad alcun significativo risultato positivo della crisi, fino alla tarda estate del 1899.

Nel frattempo i due fronti si preparavano alla guerra, considerata ormai inevitabile. A Londra si decise per un’azione di forza e si mobilitava, riservisti compresi, un intero corpo d’armata per rafforzare le deboli forze distribuite ai confini con le due repubbliche boere: vi erano 500 soldati irregolari inglesi a Mafeking, 500 a Kimberley più qualche migliaio di volontari, e 2.000 soldati al comando del generale Symons a Dundee, che, contrariamente agli avvertimenti ricevuti, aveva stabilito un isolato avamposto con parte delle sue truppe nel Natal settentrionale.


Venuti a conoscenza dell’arrivo dei grandi rinforzi inglesi, i presidenti del Transvaal e dell’Orange decisero di attaccare per primi, non prima di aver inviato i soliti ipocriti ultimatum, inaccettabili per i riceventi. Quello boero presentato il 9 ottobre all’agente inglese pretendeva il ritiro immediato di tutte le truppe giunte in Africa dopo il 1° giugno 1899 e il divieto di sbarcare i contingenti in arrivo; giunse a Londra quando stava per essere inviato un ultimatum che dava 24 ore di tempo ai boeri per concedere il diritto di voto agli uitlanders dopo solo un anno di residenza. Chamberlain non inviò il suo potendo così addossare ogni responsabilità ai boeri.


11. Due eserciti profondamente diversi

Le forze boere in caso di guerra erano reclutate tra tutti gli uomini validi tra i 16 e 60 anni d’età, che dovevano partecipare con proprio equipaggiamento e cavalcature; poiché non c’era un servizio logistico centrale molti di questi erano seguiti da servi personali (agterryers) che si rivelarono utili nella sussistenza. Abituati alla dura vita nel territorio e alle lotte contro gli indigeni, erano eccellenti cavalieri e abili tiratori, formando agili reparti di fanteria montata. Lo Stato provvedeva all’armamento, leggero e pesante. Queste milizie mancavano delle caratteristiche di un moderno esercito professionale e non avevano divise né gradi. Erano organizzati in commando di circa mille uomini, eleggevano un loro comandante, che disponeva di alcuni veld-kornet, ossia funzionari amministrativi che in guerra fungevano da ufficiali, e alcuni sottufficiali responsabili dei singoli gruppi combattenti. Il comandante emetteva degli ordini, ma non aveva l’autorità di costringere all’obbedienza: i boeri conservavano la caratteristica di combattenti volontari che potevano agire autonomamente anche in netto contrasto con le disposizioni del comando centrale. Le decisioni più importanti venivano prese durante il krygsraad, il consiglio di guerra.

Dopo il raid di Jamseon del 1896 le due repubbliche boere potenziarono l’armamento costituendo reparti fissi di artiglieria ora dotati di 4 moderni cannoni pesanti francesi da 155 mm Creusot (Long Tom) e 50 cannoni tedeschi Krupp e 20 pezzi Maxim-Nordenfeld da una libra; i commando furono dotati degli ottimi fucili a ripetizione Mauser importati dalla Germania. Furono impiegati in battaglia anche i corpi regolari della polizia a cavallo che costituì un gruppo scelto. Vi furono anche contingenti di gruppi volontari stranieri di irlandesi, italiani, americani, tedeschi, scandinavi e olandesi. Complessivamente disponevano di 87.300 uomini di cui 2.130 volontari stranieri e 13.300 afrikaner della Colonia del Capo.

Agli inizi di ottobre partirono le avanguardie dei 47.000 rinforzi inglesi provenienti dai migliori reggimenti, metà dei quali però riservisti, per aggiungersi ai 10.000 con 24 cannoni già presenti in Sudafrica, più i reparti già attivi, provenienti dall’India e dal Mediterraneo, che portarono il contingente inglese subito schierato a un totale di 22.000 uomini, di cui 14.000 nel Natal.

Nel 1881 la riforma Childers aveva profondamente modificato l’esercito britannico, reclutando i reggimenti su base territoriale per aumentare l’affiatamento e lo spirito di corpo, aveva sostituito la vistosa giubba rossa con l’uniforme color kaki, razionalizzato l’equipaggiamento, dotato i reparti dei fucili a ripetizione Lee-Metford e Lee-Enfield e a ogni battaglione di fanteria e cavalleria furono assegnate due mitragliatrici Maxim.

L’esercito inglese si basava sulla consolidata esperienza di tutte le sue guerre coloniali, combattute però con popolazioni indigene scarsamente armate. La classica tattica prevedeva un consistente bombardamento preliminare seguito dall’attacco della fanteria a ranghi serrati e carica finale della cavalleria; in caso di attacco nemico erano previste scariche di fucileria che devastavano e scomponevano le tribù primitive. Nelle guerre in India avevano fatto esperienza di attacchi in ordine sparso in territori montuosi contro piccoli gruppi di ribelli, ma in generale la tattica si basava sull’assoluta disciplina senza alcuna iniziativa personale. Non si dava molta importanza all’addestramento al tiro nonostante fosse ormai evidente l’effetto micidiale del fuoco concentrato delle armi moderne.

L’artiglieria britannica mostrava alcune carenze: i reggimenti campali disponevano di cannoni da 15 libre mentre l’artiglieria a cavallo impiegava cannoni da 12 libre, efficienti e affidabili ma inferiori per gittata e potenza a quella usata dai boeri. Dovettero poi allestire improvvisati reparti con cannoni navali da 4,7 pollici e 12 libre per contrastare i pezzi pesanti nemici. L’artiglieria britannica si basava sul bombardamento massiccio a puntamento diretto mentre non erano sviluppate le tecniche di tiro indiretto e di sbarramento mobile a sostegno dell’avanzata della fanteria.

Altro punto debole era nella cavalleria che, addestrata ad intervenire come massa d’urto nelle fasi finali delle battaglie campali, non aveva esperienza per funzioni di esplorazione, incursione, copertura alla fanteria, invece ottimamente svolte dalla fanteria montata boera. Su dovettero quindi integrare sul campo queste mancanze costituendo reparti irregolari di volontari in parte reclutati in loco.


12. Efficace offensiva boera

Il 12 ottobre 1899 i commando boeri forti di 21.000 unità divise in 4 raggruppamenti entrarono nel Natal dando inizio alla guerra. Grazie alla loro maggiore mobilità ottennero iniziali successi riuscendo a tagliare le comunicazioni della guarnigione avanzata di Dundee. Durante una controffensiva morì il generale Symons e il suo successore, temendo di rimanere accerchiato dalle manovre convergenti boere, il 22 ottobre iniziò una disastrosa ritirata verso Ladysmith dove c’erano le truppe del generale White.

Per contrastare l’avanzata boera, il generale White aveva concentrato le sue forze presso Ladysmith da cui il 30 ottobre, pur con scarse informazioni sul nemico, decise di sferrare un attacco su due colonne. Quella principale fu sorpresa e respinta dentro la città mentre la seconda fu costretta alla resa a Nicholson’s Nek. I 12.000 soldati britannici riparati in città subirono un assedio dal 2 novembre 1899 durato 100 giorni.

Man mano che arrivavano i rinforzi, gli inglesi occuparono posizioni strategiche come ponti e snodi ferroviari.

Nel frattempo i boeri avevano invaso la Colonia del Capo; il 14 ottobre Mafeking fu assediata da 6.000 miliziani dell’Orange come pure Kimberley dove era giunto Rhodes in qualità di direttore delle locali miniere portando con sé una piccola formazione di poliziotti del Capo con alcune migliaia di volontari. A questo punto gli inglesi temettero un’invasione generalizzata della colonia con la possibilità di una sollevazione in massa congiunta degli indigeni e dei coloni, che non si ebbe.

Giunto il grosso dei rinforzi il comandante in capo inglese Buller il 4 novembre decise di distribuire le divisioni del suo corpo d’armata nei punti critici della colonia per fermare un’eventuale invasione boera e di assumere personalmente il comando del settore del Natal e dirigere su Ladysmith.

Dopo questa avanzata, i boeri rinviarono l’attacco decisivo su Ladysmith per attestarsi su posizioni difensive sulle rive del Tugela, non mancando però di effettuare alcune incursioni con 2.000 combattenti verso sud, dove il 15 novembre attaccarono un treno blindato inglese facendo molti prigionieri tra cui il giovane Winston Churchill; proseguendo ancora verso sud vennero a contatto con i rinforzi britannici, ma poi timorosamente rientrarono a nord del Tugela preparandosi per la prevista controffensiva britannica.

Questa iniziò alla fine di novembre quando una divisione guidata dal generale Metheun avanzò lungo la ferrovia per liberare la guarnigione di Kimberley. In questo settore le iniziali postazioni boere erano deboli e fu facile per gli inglesi riportare alcuni costosi successi sul piano delle perdite, che permisero loro di proseguire nell’avanzata. I boeri ripiegarono con ordine e si posizionarono a riparo di trincee ai piedi di alcune alture da cui avevano un’ampia visuale con buona possibilità di tiro. Metheun aveva stabilito un difficile attacco notturno l’11 dicembre 1899 alle posizioni trincerate boere di Magersfontein; ma le truppe scelte scozzesi furono colpite allo scoperto dal fuoco di sorpresa dei fucilieri boeri che le attendevano nelle trincee e al mattino dovettero abbandonare in rotta disordinata le loro posizioni; la manovra inglese si risolse in una sanguinosa sconfitta considerando che Metheun disponeva di 15.000 uomini con 27 cannoni contro 8.200 boeri. Le sue perdite furono di 205 morti, 690 feriti e 76 dispersi contro 250 tra morti e feriti boeri.

Questa pesante sconfitta segnò la fine del tentativo inglese di liberare Kimberley, le truppe si attestarono sulle rive del Modder senza organizzare altri attacchi.

Il giorno precedente, il 10 dicembre anche la colonna del generale Gatacre forte di 3.000 uomini nel tentativo di attaccare un nodo ferroviario lungo la linea per Port Elizabeth fu pesantemente colpita di sorpresa allo scoperto presso Stormberg da una colonna boera di 2.300 uomini, subendo la perdita di 135 uomini, la cattura di 696 prigionieri e fu costretta alla ritirata.

Ma la terza sconfitta di questa settimana nera doveva capitare al comandante in capo Buller, nonostante il suo duro lavoro per riorganizzare le file britanniche e cercare di liberare la guarnigione assediata a Ladysmith, cosa per niente facile. Infatti i boeri, sotto la guida dell’abile generale Louis Botha, erano ben attestati in posizioni trincerate sul Tugela sfruttando una serie continua di rilievi collinari che dominavano il corso del fiume per molti chilometri.

Buller, considerato molto rischioso aggirare le trincee boere con una lunga e complicata manovra, decise per un attacco frontale presso Colenso, al centro delle linee nemiche per il 15 dicembre 1889. Il piano di battaglia prevedeva l’attacco per il 17 dicembre sostenuto da una sortita della guarnigione di Ladysmith che avrebbe impegnato i boeri su più fronti. Buller disponeva di 14.000 fanti, 2.700 cavalieri, 44 cannoni di cui 20 a grande gittata montati su navi da guerra che avevano risalito il Tugela. I boeri erano 4.500 con diversi cannoni e tutti dotati dei fucili a ripetizione a 5 colpi Mauser Gewehr 1898.

Senza avvisare il comandante della guarnigione, Buller anticipò l’attacco di 2 giorni. La prima colonna guadava il fiume proprio sotto un’ansa ben tenuta da 2.000 boeri con cannoni e una mitragliatrice Maxim. Durante cinque attacchi in un’ora i reparti irlandesi non riuscirono a superare la barriera di filo spinato tesa dai boeri. Una colonna che dirigeva al ponte ferroviario fu massacrata, come pure quella mandata in soccorso. I cannoni navali sprecavano i colpi sparando a casaccio mentre quelli più vicini venivano distrutti dai boeri. Il centro inglese si sbandò e Buller non poté far altro che ordinare la ritirata ad Estcourt. Pesanti le perdite inglesi: 145 morti, 750 feriti, 240 dispersi e 10 cannoni, contro 50 morti boeri e 27 feriti.

A Londra si decise per un cambio radicale di strategia e dei vertici del comando militare ora assegnato all’esperto comandante militare dell’Irlanda, il feldmaresciallo Roberts affiancato dal generale Kitchener, recente vincitore della battaglia di Omdurman (Khartoum) dove gli inglesi avevano sterminato i ribelli mahdisti, un esercito armato con armi bianche (30.000 tra morti, feriti e prigionieri). Fu anche notevolmente potenziato l’armamento e tutto il materiale bellico, reclutati nuovi contingenti di volontari e inviato subito un secondo corpo d’armata regolare di 45.000 soldati che arrivò nella colonia a metà gennaio 1900.

I boeri non seppero cogliere questo inatteso successo e non passarono all’offensiva, rimanendo attestati sulle difese sul Modder; un loro consistente attacco il 6 gennaio 1900 contro la guarnigione assediata a Ladysmith fu respinto dopo lunghi combattimenti notturni. Fallì invece un secondo tentativo di Buller di giungere a Ladysmith, questa volta aggirando le postazioni boere sul Tugela; dopo iniziali successi il 23-24 gennaio gli inglesi di Buller furono pesantemente sconfitti a Spion Kop a causa di errori tattici e controffensive boere, nonostante la forte superiorità numerica: 30.000 effettivi con 36 cannoni contro 8.000 boeri con 4 cannoni. Le perdite inglesi furono di 383 morti e 1.054 feriti contro 335 boeri tra morti e feriti.

Strategicamente la situazione era in mano boera e mentre a Londra si pensava di autorizzare la resa di Ladysmith, il nuovo comandante Roberts ordinò a Buller di stare sulla difensiva in attesa di una nuova offensiva.


13. La seconda decisiva offensiva inglese

In poco più di un mese Roberts e Kitchener, tramite la potenza del capitalismo di cui difendevano gli interessi, riorganizzarono l’esercito britannico nella colonia tecnicamente e nelle strutture di comando, rimuovendo o relegando ad altri incarichi i comandanti ritenuti inadeguati, ma soprattutto elaborando un nuovo piano strategico che trascurava per il momento le città assediate per puntare dal ponte ferroviario sul fiume Orange dirittamente a sud di Bloemfontein, capitale dello stato libero dell’Orange, ovvero portare il teatro di guerra in casa del nemico.

Allo scopo Roberts aveva concentrato lungo la ferrovia 40.000 soldati regolari con 100 cannoni, più reparti di fanteria montata appena costituiti, e reparti di cavalleria irregolare da impiegare in missioni di esplorazione e ricognizione davanti al grosso delle truppe; aveva cioè adeguato le sue forze alla natura del territorio e alle caratteristiche tattiche del nemico.

A causa di sopraggiunte difficoltà logistiche e delle pressanti richieste di soccorso da Kimberley, Roberts decise di modificare il piano per puntare a nord e tentare di liberarlo attraversando i fiumi Riet e il Modder. Nonostante le difficoltà a riorganizzare le colonne dei rifornimenti, che avevano al seguito grosse mandrie di animali da macello, una divisione di 5.000 cavalieri, il 12 febbraio iniziò una rapida avanzata precedendo la fanteria, neutralizzando le deboli difese boere incontrate, che però attaccarono con rapide azioni le mandrie e i convogli lasciati in posizioni arretrate. Tre giorni dopo ci fu il congiungimento delle forze inglesi nei punti stabiliti ed infine la divisione di cavalleria entrò in contatto con la guarnigione di Kimberley che aveva resistito all’assedio con onore.

Il famoso ed esperto generale boero Cronje che con 5.000 uomini difendeva la linea sul Modder, vista la situazione decise di abbandonare la posizione e ripiegare sulla capitale Bloemfontein, ma la manovra, con i carri al seguito, avvenne in modo confuso con reparti che si dividevano e sparpagliavano senza coordinamento, conseguenza dell’impostazione dell’intero esercito boero, fino a che finirono di trovarsi la strada sbarrata dalla cavalleria inglese al guado di Paarderberg. Qui fecero l’errore di fermarsi per appostarsi in posizioni trincerate di difesa, dando il tempo alla fanteria inglese di ricongiungersi alla cavalleria.

Il 18 febbraio gli inglesi sferrarono un massiccio assalto generale, ma inizialmente furono fermati dai boeri con forti perdite e profondi dissidi nel comando inglese. Sopraggiunto Roberts ordinò un massiccio bombardamento al campo boero in cui erano intere famiglie con donne e bambini che avevano rifiutato l’opportunità di andarsene. Dopo alcuni giorni Cronje si arrese con tutte le truppe rimaste.

Dalla collina 8 batterie di cannoni più 20 mitragliatrici Maxim sparavano sul campo boero i nuovi proiettili shrapnel, dal nome dell’ufficiale inglese che lo aveva messo a punto, carichi di circa 60 sfere di piombo che all’impatto volavano in tutte le direzioni, e proiettili con cariche di lyddite, un nuovo potente esplosivo. I boeri avevano solo 4 cannoni e non furono in grado di opporre alcuna valida resistenza all’artiglieria britannica.

Un piccolo commando boero giunse in soccorso di Cronje conquistando temporaneamente un’altura scarsamente protetta dagli inglesi, che avrebbe permesso nottetempo ai boeri di sfuggire all’assedio; ma lo fece solo un piccolo gruppo. Il cerchio inglese si strinse fino al 27 febbraio quando il generale boero, accompagnato dalla moglie e con 4.069 superstiti, fu costretto alla resa senza condizioni per essere poi trasferito nell’isola di Sant’Elena. Alle perdite britanniche in combattimento, ben superiori a quelle boere, si aggiunsero quelle ancor maggiori, per tifo e dissenteria, dei soldati che, disponendo di scarso vettovagliamento, si erano abbeverati alle acque del Modder contaminate dai cadaveri e dalle carogne degli animali.

Questa vittoria, nell’anniversario della vittoria nella prima guerra boera di Majuba Hill cambiò completamente l’andamento del conflitto. Sul fronte occidentale le truppe britanniche il 1° marzo 1900 riuscirono a liberare Ladysmith dall’assedio. Le difese boere della capitale dell’Orange non ressero alla supremazia delle forze inglesi che poterono entrare a Bloemfontein il 13 marzo. Roberts, certo di aver vinto definitivamente i boeri non si occupò di neutralizzare le loro forze e concesse un’amnistia per chiudere in fretta la questione.

Ma i boeri, cercando anche protezione e solidarietà all’estero, si organizzarono per continuare la guerra adottando la tattica della guerriglia diffusa su tutti i fronti. Molteplici e significativi furono gli attacchi nelle retrovie con l’intento di tagliare i rifornimenti inglesi per ferrovia, che però non impedirono a Roberts e Kitchener di organizzare una avanzata, faticosa a causa di gravi deficienze logistiche, su Pretoria, la capitale del Transvaal, e debellare così ogni resistenza boera.

Il nuovo piano prevedeva che Buller nel Natal con 20.000 uomini tenesse impegnata parte dei boeri, una colonna doveva raggiungere Mafeking e liberarla dall’assedio mentre la colonna di Roberts con 43.000 effettivi avrebbe marciato su Pretoria. Questa partì il 3 maggio 1900 senza incontrare resistenza perché i boeri guidati dal generale Botha preferirono arretrare in ordine ed evitare scontri in campo aperto. Le truppe inglesi dovettero fermarsi una decina di giorni presso Kroonstad per riparare la linea ferroviaria, poi, vinta una battaglia a Doomkop, entrarono a Johannesburg il 31 maggio. La colonna inviata a Mafeking il 18 maggio l’aveva liberata dal lungo assedio.

A questo punto il morale boero cedette, il governo del Transvaal abbandonò Pretoria dirigendo a nord verso il confine portoghese, vennero evacuati i forti a difesa della capitale, vinse l’ala propensa per la pace e così il 5 giugno Roberts entrò a Pretoria. Botha interruppe le trattative e si ritirò nel Transvaal orientale a riorganizzare le forze che non intendevano cedere agli inglesi.

S’impose un nuovo piano diviso in due parti: la prima bonificare il territorio dell’Orange dai consistenti commando boeri ancora presenti, che non erano stati coinvolti nell’avanzata e che attaccavano le retrovie e i depositi. La missione fu affidata al generale Hunter che in due settimane accerchiò i boeri costringendone alla resa 4.300 sui 6.000 stimati; buona parte dei rimanenti in varie colonne si sottrasse all’accerchiamento, sfuggì all’inseguimento inglese e riparò in zone sicure per riprendere l’attività di guerriglia.

La seconda parte consisteva nel riprendere la marcia nel Transvaal orientale per sconfiggere il grosso dei boeri che stava arretrando. Dopo la liberazione di Ladysmith, il generale Buller riprese l’offensiva nel Natal, sconfiggendo i commando boeri, riuscì a superare gli aspri territori montuosi e raggiungere il nodo di comunicazione di Standerton e il 4 luglio le sue truppe entrarono in contatto con quelle di Roberts provenienti da Pretoria. Riparata anche qui la linea ferroviaria i due contingenti ora riuniti, il 25 agosto, sconfissero i boeri guidati da Botha a Bergendal dopo una breve ma intensa battaglia; i resti dei commando boeri con i suoi vertici arretrarono e oltre 2.000 sconfinarono nel Mozambico.

Dopo alcuni scontri residui e l’occupazione di punti strategici nel mese di settembre, Roberts il 25 ottobre dichiarò, prematuramente, l’annessione del Transvaal all’Impero britannico e la conclusione della sua missione. Ma non era così perché 30.000 boeri, con i loro migliori capi, erano ancora in armi nel Transvaal e nell’Orange e ben intenzionati a combattere, soprattutto dopo le prime misure repressive adottate dagli inglesi come la confisca o la distruzione dei raccolti e l’incendio delle fattorie. Un rapporto segreto dell’Alto commissario per le Colonie del Capo sconfessava l’ottimismo di Roberts sostenendo che senza un controllo sistematico del territorio la guerra sarebbe durata a tempo indefinito.


14. La guerriglia boera - contro-guerriglia britannica

I commando boeri si riorganizzarono velocemente attaccando le retroguardie inglesi mentre il grosso si era spinto a nord. In un krygsraad in ottobre i boeri decisero sia di intensificare la guerriglia, nonostante le rappresaglie inglesi, sia di organizzare un’invasione delle Colonie del Capo e del Natal. Alcune colonne boere furono fermate, ma due nel dicembre 1900 sconfissero pesantemente quelle inglesi che stavano devastando il Transvaal occidentale, mentre altre due colonne, superando le difese inglesi, il 16 dicembre penetrarono nel territorio del Capo preoccupando non poco i dirigenti britannici. Dopo infruttuosi contatti coi capi boeri, Kitchener, il nuovo comandante inglese, in contrasto con l’alto commissario Milner, favorevole all’occupazione lenta ma sistematica del territorio evitando le distruzioni delle fattorie, decise per una soluzione di forza più rapida e intensa possibile allo scopo di ridurre i tempi del conflitto.

La sua strategia in merito consisteva nell’organizzare sistematici rastrellamenti del territorio con colonne mobili alla ricerca dei gruppi boeri ancora attivi e nella deportazione anche di donne e bambini, di bestiame e raccolti allo scopo di privare i gruppi delle risorse necessarie alla resistenza. I civili boeri furono ammassati in enormi campi di concentramento mal riforniti di viveri al punto che presto si diffusero malattie e denutrizione.

Kitchener richiese altri rinforzi di truppe scelte, già nel numero di 250.000, anche lui conscio della difficoltà di giungere in breve ad un tangibile risultato quando si valutava ancora la presenza di 20.000 guerriglieri. I risultati dei rastrellamenti furono però minimi. Decise quindi per la costruzione di un complesso sistema di casematte e piccoli fortini di cemento, collegati tra loro da barriere di filo spinato e difese da guarnigioni fisse che avrebbero dovuto intrappolare i commando colà sospinti dai rastrellamenti delle colonne mobili. In un progressivo incremento di durezza e violenza arrivò a proporre la confisca delle proprietà dei boeri in armi e fino alla deportazione oltremare di tutti i residenti con le loro famiglie. Nel luglio gli fu comunicato che in assenza di tangibili risultati entro la fine dell’anno si sarebbe adottata la linea “pacifica” di Milner.

La sua dura tattica ebbe infine l’effetto, spezzate le linee di rifornimento boere e il loro morale, di costringerli alla resa; con il trattato di Vereeniging del maggio 1902 finirono le guerre boere, e l’indipendenza delle due repubbliche che furono annesse all’Impero britannico.

I boeri riceveranno un risarcimento per i danni subiti di 3 milioni di sterline.

Le cifre di questa guerra coloniale sono enormi così come le risorse dell’imperialismo britannico impiegate in quel limitato settore. Solo saranno superate da quelle della imminente Prima Guerra mondiale.

Le truppe inglesi coinvolte furono quasi mezzo milione di uomini di cui 347.000 truppe coloniali provenienti da tutto l’Impero; in combattimento morirono 7.894 soldati più 13.250 di malattie, 934 dispersi e 22.828 feriti.

Il fronte boero all’inizio della guerra contava 88.000 effettivi, di cui 25.000 del Transvaal e 15.000 dell’Orange più 13.300 afrikaner della Colonia del Capo, inclusi i volontari stranieri. Ne perirono 9.098 di cui 4.000 in combattimento. 24.000 prigionieri furono trasferiti oltremare.

I civili caduti furono 27.927, di cui 4.000 donne, 1.676 uomini e 22.000 bambini, per la quasi totalità morti per denutrizione nei 58 campi di concentramento allestiti dagli inglesi, più un imprecisato numero di africani neri tra i 107.000 prigionieri; fu imprigionato il 50% della intera popolazione delle due repubbliche. Il numero dei bambini morti nei campi è di molto superiore alla somma dei caduti in combattimento dei due fronti. Furono date alle fiamme 30.000 fattorie.

Si nota come il numero delle vittime civili sia cresciuto enormemente rispetto alle precedenti guerre dove i caduti fra i non combattenti erano una piccola percentuale rispetto ai soldati. Già nel primo macello mondiale del 1914-18 si avrà il netto ribaltamento e i morti civili saranno la percentuale maggiore.

I boeri persero la guerra non solo per l’inferiore disponibilità di risorse economiche e uomini rispetto gli inglesi, ma per il tipo di esercito non professionale, su base volontaria, senza una precisa gerarchia militare, con depositi, caserme e reparti stabili ridotti. Ciò era dovuto alla struttura economica della società boera basata prevalentemente su grandi fattorie isolate tra loro che le rendevano unità produttive indipendenti. La loro strategia di combinare consistenti azioni di guerriglia con scontri campali a seconda del territorio, che ben conoscevano, e della situazione complessiva dette buoni risultati costringendo gli inglesi ad investire molto e a lungo per ottenere poco, come sarà poi nelle future guerre asimmetriche combattute nell’estremo oriente.

Le guerre anglo-boere hanno rappresentato lo scontro tra due modi di produzione: quello capitalistico moderno e quello agricolo estensivo. La vittoria inglese, seppure rappresenta lo schiacciamento della nazionalità boera da parte dell’imperialismo britannico, non poteva interrompere il processo che vide la trasformazione dell’agricoltura, dei commerci e delle industrie, la nascita delle città, delle fabbriche, di un vero tessuto produttivo e mercantile nazionale. Il conflitto anglo-boero ha così segnato la gestazione del moderno Stato del Sud Africa.

(Continua al prossimo numero)

 


La successione dei modi di produzione nella teoria marxista

2. La forma di produzione secondaria - variante asiatica

Capitolo esposto alla riunione di Firenze nel gennaio 2015


È tempo di disubbidire agli Dei

«Quando gli Dei erano uomini – sottostavano alla corvée, portavano il canestro di lavoro – il canestro di lavoro degli Dei era troppo grande – il lavoro oltremodo pesante, la fatica enorme.
«An ed Enlil diedero un nome agli esseri umani e stabilirono la regalità – ma non fecero ancora scendere dall’alto la regalità, la corona della città.
«E non crearono per la straripante moltitudine di genti la spada, la zappa, il cesto e l’aratro, che sono la vita del paese.
«Allora l’infanzia dell’uomo durava cento anni.
«Ma non compiva riti – sicché si indebolì, decrebbe.
«I canali non erano stati scavati – le chiuse non erano state costruite – il mulino ad acqua non riempiva i grandi serbatoi per l’irrigazione – l’abbondanza di acqua non irrigava il campo coltivato – l’umanità si affidava soltanto alle piogge.
«Ashnan non faceva crescere l’orzo variopinto – il solco non era stato aperto – non portava frutto – la steppa non era ancora coltivata, non portava frutto.
«I popoli e le numerose genti non versavano agli Dei birra di malto, succo di dattero, vin dolce.
«Non solcavano per gli Dei i grandi campi con l’aratro» (Regole di Lagash).

«Anu era salito in cielo,
«Enlil aveva preso per sé la terra con gli esseri viventi.
«Quelli del cielo erano esentati dalla corvée,
«agli Igigi fu imposto il canestro di lavoro» (Atrahasis Epos).

«Per affermarsi, gli Igigi stabiliscono una festa per la popolazione.
«Ma non avevano ancora assegnato un re su tutte le numerose genti.
«In quel tempo non era stato intrecciato un turbante o una corona, non uno scettro ornato con lapislazzuli – Né avevano costruito un santuario» (Mito di Etana).

«Non era ancora iniziata l’opera, così il commercio non esisteva.
«Non era ancora iniziata l’opera, così le carovane dei mercanti non partivano» (Enmerkar e il Signore di Aratta).

«Che i tuoi poveri mandino in strada i bimbi ad elemosinare!
«Che la tua prostituta s’impicchi all’entrata del bordello!
«Che le prostitute sacre del tuo tempio, madri, uccidano i loro figli!
«Che il tuo oro sia comprato al prezzo dell’argento,
«l’argento al prezzo della pirite,
«il rame al prezzo del piombo!
«Che i tuoi nobili, abituati a mangiare cibo raffinato, giacciano affamati sull’erba!
«Che i tuoi uomini di rango si cibino di rifiuti».

Questa ultima la maledizione di Babilonia contro la città-Stato avversaria Akkad, passata dalla dissoluzione del comunismo primitivo nelle braccia ostili della civiltà. È un destino dal quale l’umanità è oggi tempo che si liberi, ormai solo una morsa che costringe la classe dei lavoratori ad un’esistenza alienata immolata sull’altare insanguinato della produzione per la produzione, perso il controllo delle forze produttive e da queste dominati e schiacciati.

I tratti caratteristici delle forme di produzione classiste sono ben riconoscibili: moltitudini di poveri espropriati per debiti o gettati sul lastrico dalle guerre endemiche tra città; la prostituzione, prima rituale e di Stato delle ierodule, poi per denaro; la svalutazione monetaria; un cibo raffinato per i nobili e i rifiuti per i produttori.

Il capitolo sulla concezione materialistica della storia apparso nel numero 77 di questa rivista si era concluso con l’analisi del concetto di transizione, e si riportò a proposito una lunga citazione di Marx tratta dai Grundrisse; qui le prime righe:

«Tutte le forme di società finora esistite sono crollate in presenza dello sviluppo della ricchezza – o, che è la stessa cosa, delle forze produttive sociali».

L’invenzione dell’agricoltura, dell’addomesticamento e allevamento degli animali, la formazione delle prime città-stato, ecc., permettono il più libero dispiegarsi delle forze di produzione, tendenti a distruggere i rapporti di produzione entro cui si erano dapprima accresciute. Disgregata l’antica unione tra forze e rapporti produttivi, un feticcio si inframezza fra uomo e uomo, i rapporti sociali si nascondono dietro a cose. L’infanzia dell’umanità sopravvive nel mito di una perduta età dell’oro.

I caratteri essenziali della forma primaria sono stati oggetto del capitolo precedente. Tra questi, ai fini che qui interessano, riveste importanza l’omogeneità di fondo delle varie formazioni sociali storiche: al di là delle differenze geofisiche che ne connotano l’ambiente, tutte sono individuabili come società di comunismo primitivo; la specie ha attraversato un lungo periodo di comunismo inferiore prima di dividersi in classi contrapposte.

Questo cessa con la transizione alla forma secondaria.


La fase asiatica

Ogni società di una certa consistenza spaziale e demografica deve aver attraversato una fase asiatica. I legami comunitari e di consanguineità, la proprietà collettiva dei mezzi di produzione, primo fra tutti la terra, le istituzioni politiche assembleari, ecc. non possono essere scomparsi all’improvviso. Il germe dell’antagonismo di classe ha corroso la comunità naturale, ha portato al dominio della proprietà privata, ha separato la sfera politica contrapponendola alla società, ecc.; questo progresso sociale – accompagnato necessariamente da una scia di sangue – ha riguardato certamente tutte le formazioni sociali uscite dalla forma primaria. In alcune – soprattutto nel Mediterraneo – la fase asiatica è scomparsa rapidamente quasi senza lasciare traccia, la proprietà privata ha presto sottomesso i legami comunitari e la classe dei proprietari si è impadronita del potere politico. Altrove, in India, Turchia, Messico, Perù, ecc., la variante asiatica è invece sopravvissuta per millenni ed è crollata solo sotto il peso dei cannoni del colonialismo borghese.

Ciascuna delle formazioni sociali uscite dalla forma primaria svilupperà rapporti sociali specifici e molte di queste avranno una propria distinta parabola storica. La storia della specie diventa un intreccio di molte varianti e la dottrina marxista non nega le peculiarità che nascondono l’identità di fondo. Compito di questo lavoro non vuol essere una classificazione delle infinite formazioni in questa o quella forma di produzione, ma rintracciare i capisaldi della dottrina per tracciare il percorso che il proletariato ha di fronte verso e dopo la conquista del potere politico e il compimento di tutto questo grandioso ciclo storico. Dal momento in cui l’umanità fuoriesce dalla propria infanzia il marchio della divisione in classi permane nelle rivoluzioni successive, nessuna delle quali poté liberarsene, lo farà solo la socialista futura.

Gli storici borghesi nello studio del passato cercano solo la legittimazione della superiorità del capitalismo. Non comprendono che una formazione sociale può presentare al proprio interno rapporti sociali propri di forme produttive differenti, come spiegò Lenin nel discorso “Sull’imposta in natura” del 1921: «Cosa significa la parola transizione? Non significa, quando la si applichi all’economia, che in quel determinato regime vi sono elementi, particelle, frammenti sia di capitalismo sia di socialismo? Chiunque deve ammettere che è così. Ma non tutti, pur ammettendolo, si domandano sempre quali siano precisamente gli elementi che rappresentano i diversi tipi economico-sociali che sono presenti in Russia. Ma è appunto qui che è il nodo della questione. Enumeriamo questi elementi: 1. l’economia patriarcale, cioè in larga misura contadina naturale (cioè di autoconsumo); 2. la piccola produzione mercantile (che comprende la maggioranza dei contadini che vendono il grano); 3. il capitalismo privato (individuale); 4. il capitalismo di Stato; 5. il socialismo. La Russia è così grande e così varia che tutti questi differenti tipi economico-sociali si intrecciano strettamente».

Prosegue Lenin: «Ci si domanda: quali sono gli elementi che predominano?».

La dottrina materialista della successione dei modi di produzione risponde a questa domanda: per ogni forma di produzione si devono individuare i rapporti sociali dominanti, che possono essere propri di società molto differenti tra loro e nelle quali quegli stessi rapporti possono essersi sviluppati più o meno in profondità.

Partiamo come di consueto dai fattori geofisici, i quali, a causa del basso livello delle forze di produzione, hanno contribuito in maniera determinante all’affermazione della variante asiatica in Estremo Oriente. «Il continente asiatico essendo il più esteso e nello stesso tempo il più panciuto nella forma, di modo che ha il minimo “raggio medio”, ossia ha poco sviluppo di contorni (coste) relativamente alla superficie, vede aggravato il carattere delle vaste pianure distanti dai mari (...) Ma tali pianure hanno caratteri opposti a nord e a sud, all’ingrosso, quanto a influenza dei massicci montani; e le influenze di questo tipo sul clima – e la feracità dei terreni – si sommano con l’effetto della latitudine. Vi sono infatti, nell’ombelico dell’immenso ventre di terra, i monti più alti del globo, e ne scendono naturalmente colossali fiumi. I monti sono relativamente vicini alle coste meridionali, che non mancano di mediterranei o di mari interni aperti sull’Oceano caldo, con arcipelaghi grandiosi. I fiumi hanno relativamente breve percorso e recano deiezioni e limi fertili dai complessi montani in disgregazione, e tutto ciò, aggiunto ai climi temperati e caldi e alla favorevole insolazione, rende le terre atte ad accogliere e nutrire popolazioni a densità altissime, che superano le stesse di Europa. Legano le vie fluviali coste calde e mari ben navigabili in tutte le stagioni, e tutto ciò ha facilitato l’insediamento dei popoli e la fine del nomadismo» (“Russia e rivoluzione nella teoria marxista”).

La conformazione idrogeologica del continente impone alle prime piccole comunità di agricoltori sedentari una cooperazione su grande scala per poter utilizzare proficuamente le ricche risorse naturali; la piovosità irregolare non consentirà loro di praticare – come nel Mediterraneo – un’agricoltura irrigua senza preliminari opere di canalizzazione e controllo dei flussi d’acqua, opere che per la loro maestosità non possono essere che collettive. Dove l’unica fonte d’approvvigionamento idrico è costituita da fiumi impetuosi, il controllo delle piene è essenziale per la sopravvivenza delle comuni; fin tanto che l’autorità centrale è in grado di garantire che queste opere siano eseguite, la vita fiorisce rigogliosa; quando il suo potere s’indebolisce o scompare (classico esempio della civiltà Khmer nell’odierna Cambogia) le piene provocano devastazione e morte al loro passaggio e le magre non consentono l’adeguata irrigazione delle colture; solo quando argini, canali e serbatoi sono mantenuti in efficienza è possibile coltivare in territori con precipitazioni abbondanti ma irregolari.

Di pari passo, con il progredire delle conoscenze geometriche – tanto che Erodoto le farà nascere nell’Egitto faraonico baciato dal corso del Nilo – e agrimensorie, le città-stato elaborano i primi calendari ed affinano la scienza astronomica; scienza che, sviluppatasi in società divise in classi antagonistiche, si rovescia nel proprio contrario e diviene mezzo per la sottomissione dei produttori.

Le comuni rurali devono, allora, sottomettersi al dispotismo di un’autorità centrale la quale mobilita tutta la manodopera disponibile per lavori forzati, corvée, in opere di pubblica utilità e nella costruzione dei grandi complessi monumentali che passeranno alla storia come tipici di queste società. Le élite dominanti mobilitano la manodopera disponibile con metodi coercitivi e sono in grado di fare su scala anche sovraregionale ciò che i sovrani feudali europei possono compiere solo entro gli angusti limiti del proprio dominio. Questo lavoro di corvée, servile, si differenzia da quello schiavistico perché il primo non è imposto in permanenza: prestato il servizio il contadino è libero di tornare a coltivare il proprio appezzamento di terra.

La militarizzazione del lavoro per l’autorità centrale è necessaria alla centralizzazione nelle società classiste, e come dei soldati i produttori immediati vengono incolonnati e condotti al lavoro: «Fra i Chaga, la corvée idraulica entra in azione al suono dello stesso corno che tradizionalmente chiamava alla guerra gli uomini della tribù. Fra i Pueblos indiani i capi di guerra (o sacerdoti), benché subordinati al cacicco (il capo supremo), hanno la direzione e supervisione delle attività della comunità. Le prime città-stato idrauliche della Mesopotamia sembra siano state per lo più governate da re-sacerdoti. In Cina il leggendario direttore del controllo governativo delle acque, il Grande Yu, si narra sia salito dal rango di supremo funzionario idraulico a quello di re, diventando, secondo testimonianze proto-storiche, il fondatore della prima dinastia ereditaria, quella dei Hsia» (Wittfogel).

L’autore, che non è un marxista, intende sostituire la nostra nozione di modo di produzione asiatico con l’anodina “società idraulica”. Nonostante questo il volume attraversa con grande dovizia di particolari società molto distanti nello spazio e nel tempo, e per questo possiamo attingere da uno “specialista” come questo. La scienza comunista deve saper utilizzare i trattati del nemico di classe, come Marx utilizzò i lavori di Smith e di Ricardo; anzi, è sulla capacità di questa ri-lettura che si misura la superiorità di una nuova concezione del mondo.

Il dispotismo asiatico non solo utilizza militarmente i propri sudditi per le grandiose opere per l’agricoltura, i trasporti, la protezione idraulica, ecc., ma obbliga, all’epoca degli scontri tra i grandi imperi mesopotamici, a deportazioni di masse umane per eseguire lavori nei territori conquistati. Altre volte è per popolare zone desertiche, al fine di diminuire la pressione demografica al centro dell’impero, o per indebolire le indigene classi dominanti soggiogate. «Già nel tardo II millennio i re assiri avevano attuato sistematicamente e su larga scala il trasferimento di gruppi di popolazioni sottomesse. Sotto Tiglat-Pileser III questa politica di deportazione assunse nuove e imponenti dimensioni. Egli infatti, secondo le sue stesse affermazioni, nel quadro di una sola campagna trasferì 65000 persone dalla zona dei monti Zagros. Questa politica mirava a due risultati: da un lato indebolire i territori conquistati, sostituendo le élite locali con un apparato amministrativo fedele al sovrano assiro, dall’altro ottenere una forza lavoro completamente dipendente, da impiegare nei diversi progetti edilizi dei re assiri» (Kirschbaum, Gli assiri).

L’aumento delle forze di produzione permise anche quel fenomeno che passò alla storia definito giustamente rivoluzione urbana; le città sorgevano richiamando più comunità rurali del circondario, oppure attorno ad un nuovo tempio-palazzo, luogo e simbolo del potere neocostituito ed accentratore del grande surplus disponibile. «Il surplus agricolo delle società di classe, che si imposero risolutamente sulle vecchie forme di produzione comunistiche, permise che una parte della popolazione potesse non occuparsi della produzione degli alimenti. Ciò, insieme a insediamenti ormai stabili, determinò la formazione di città, le quali presentarono da subito (ad esempio in Mesopotamia) forti densità di abitanti rispetto alla campagna circostante, poco abitata, e a regioni intere del tutto disabitate» (Capitale e Popolazione, “Comunismo”, 2003).


Dispotismo politico - centralizzazione economica

Nel rapporto sulla forma di produzione primaria sottolineammo come al suo interno la divisione delle funzioni sociali fosse “naturale”, come le parti di un corpo che eseguono i compiti che meglio riescono loro.

La specializzazione familiare in date funzioni permise gradualmente la formazione di caste più o meno chiuse all’esterno, custodi dei segreti dell’arte.

Già ad Uruk troviamo un’accentuata divisione tecnica del lavoro descritta da Nissen nella sua “Protostoria del Vicino Oriente” a proposito di scavi che avrebbero rivelato la presenza di una fornace in grado di raggiungere alte temperature usando come combustibile il bitume presente nell’area; sarebbe un’area per la fusione dei metalli in cui avrebbero collaborato parecchi produttori.

Dalla produzione immediata quella divisione si propaga nella società, la quale a sua volta torna ad influenzare le forme della produzione immediata. La società, con l’aumento della sua complessità perde la possibilità di sviluppo armonico per assumere i connotati di una guerra in difesa di privilegi particolari. Ne è testimonianza la lista delle professioni rivenuta ad Uruk III e copiata in parecchie città mesopotamiche, tra cui Ebla. Vi troviamo: «Il sanga, interpretato comunemente come il capo dell’amministrazione templare, lo shabra, tradotto con “prefetto”, l’ensi, reso con “governatore” – titoli questi che assumono una valenza diversa a seconda delle città e dei periodi in cui vengono usati – ed infine il capo dell’assemblea, che non può non essere messo in relazione con la famosa assemblea dei cittadini di Uruk ai quali Gilgamesh sottopone le più importanti questioni dello Stato» (Pettinato, “I sumeri”, pp. 121-122).

Contemporaneamente alla differenziazione sociale nasce uno dei marchi d’infamia delle società classiste, la contrapposizione tra città e campagna, che ancora scorna le moltitudini di falliti riformatori sociali ed architetti disegnatori di periferie. La citazione è dallo storico greco Senofonte, contemporaneo degli avvenimenti qui trattati. «Nei piccoli centri sono gli stessi uomini a fabbricare un letto, una porta, un aratro, una tavola, e spesso è sempre lo stesso a costruire perfino una casa, ed è soddisfatto se trova così committenti che gli diano lavoro sì da farlo vivere. È allora impossibile che un uomo che esercita tanti mestieri li faccia bene tutti. Nelle grandi città invece, per il fatto che sono in molti ad aver bisogno dei vari oggetti, una sola attività basta a ciascuno per dargli da vivere, spesso nemmeno tutta, ma uno fa le calzature per uomo, un altro per donna; e ci sono luoghi nei quali ci si guadagna da vivere anche solo cucendo i calzari, un altro soltanto tagliando la tomaia, un altro poi non facendo nulla di tutto ciò ma mettendo insieme questi pezzi. Allora è inevitabile che chi si occupa di un lavoro molto specifico e delimitato sia anche portato a farlo nel migliore dei modi» (Ciropedia, Libro Ottavo).

Il disfacimento del possesso collettivo, comunitario dei mezzi di produzione e del principale dell’epoca, la terra, procedette lentamente. Nei secoli finali dell’impero Romano le soprastrutture si manterranno fino alla loro distruzione da parte degli invasori. Un processo simile si è avuto negli imperi orientali e medio-orientali, con la loro complessa gerarchia istituzionale.

In generale l’amministrazione cosiddetta templare-palaziale – specie nella Mezzaluna Fertile – si poneva sotto la protezione della divinità cittadina, proprietaria nominale dei terreni statali e trasfigurazione mitologica degli antichi legami comunitari; il rapporto privilegiato con la divinità e la custodia della sua immagine costituivano il fondamento e la legittimazione religiosa dell’esistenza della casta sacerdotale. Il tempio-palazzo era presieduto da funzionari che a loro volta potevano avere alle dipendenze una schiera di sottufficiali con compiti amministrativi o cultuali (scribi, contabili, storici, astronomi, agrimensori, ecc.). Dipendenti del tempio erano anche artigiani e manovali impiegati in edilizia e nei lavori agricoli sui terreni demaniali. L’autorità centrale era infatti soprattutto una grande proprietaria terriera. Antica è la discendenza del moderno capitalismo di Stato.

Ovvero, i poderi «potevano venire affidati a funzionari del tempio come terre di approvvigionamento, secondo il principio “terra in cambio di servizi”, o infine essere concessi in affitto a privati che non avevano nessun legame istituzionale con il tempio (...) Anche nelle terre che gestivano direttamente, nei momenti di maggior fabbisogno di manodopera, soprattutto durante il raccolto, era necessario ricorrere a elementi della popolazione soggetti a obbligo di corvée (...) I dipendenti del tempio, a volte anche quelli che disponevano di terre di approvvigionamento, venivano retribuiti con compensi in natura (...) Ciò richiedeva uno stoccaggio centralizzato e il versamento giornaliero o mensile ai dipendenti dei principali prodotti dell’amministrazione templare, soprattutto orzo, datteri, sesamo e olio di sesamo, lana, birra (...) Con le eccedenze di produzione agricola e tessile potevano acquistarsi, attraverso i canali del commercio interno ed estero, merci utili come legno o metalli. I mercanti che gestivano queste trattative commerciali per conto dei templi non erano o, perlomeno, non erano sempre membri dell’organizzazione templare. Nel periodo paleobabilonese esistevano corporazioni indipendenti di mercanti guidate da un “sorvegliante”, che avevano spesso una sede nei porti fluviali, i centri di scambio più importanti. Nel I millennio i mercanti di professione, organizzati collettivamente, erano spesso (sempre?) a servizio dello Stato» (Jursa, I babilonesi, pp. 52-55).

Una produzione altamente centralizzata ed organizzata era necessaria a mantenere in funzionamento le opere pubbliche. I contingenti di lavoratori necessari per le diverse mansioni erano stabiliti rigidamente dal palazzo e la manodopera era ricompensata in natura. Una parte della produzione, soprattutto agricola, doveva essere destinata al tesoro del tempio; presso di questo esisteva una dettagliata contabilità delle entrate e delle uscite; le somme non riscosse venivano registrate a debito.

Nelle città ad un simile sistema organizzato le comunicazioni verbali non potevano più bastare, nasce così la necessità della scrittura, i sistemi di raccolta e comunicazione dei dati, come si dice oggi. «Testimonianze archeologiche provenienti dal Medio Oriente fanno supporre che in quell’area, nel periodo compreso tra il 15000 e il 3000 a.C., la contabilità si sviluppasse in tre fasi principali corrispondenti a tre diverse forme di economia e a tre modi di contare. I cacciatori-raccoglitori usavano tacche per contare (...) (15000-8000 a.C. circa); con lo sviluppo dell’economia agricola, gli agricoltori inventarono, per tenere la contabilità, un sistema di contrassegni di argilla (8000-3100 a.C. circa). Tali contrassegni si adattavano bene ad un arcaico sistema di calcolo, e il contrassegno con il numero veniva legato agli oggetti contati. Quando città e stati cominciarono a svilupparsi furono inventati i numeri astratti che venivano registrati con scrittura pittografica su tavolette di argilla (3100-3000 a.C. circa)» (Pettinato, I sumeri, p. 44).

È il continente asiatico lo spazio proprio di sviluppo di questa variante della forma di produzione secondaria; nelle grandi pianure rigidi inverni si alternano ad estati torride; invece delle dolci terre mediterranee, abbiamo un continente immenso lontano dai mari: basterebbe questa morfologia a spiegare l’immobilismo delle società ivi stanziate. Sono questi fattori geofisici che influenzano le forme di produzione antiche. Sull’agricoltura, settore produttivo dominante, si indirizzano le attenzioni delle autorità centrali. Lo storico e diplomatico greco Megastene descrive la cura con cui i funzionari Maurya regolavano il flusso delle acque; meticolosità presente anche nel manuale cinese Chou Li dedicato a questo scopo. L’importanza attribuita all’irrigazione è dimostrata dalla solennità nelle operazioni dell’apertura e della chiusura dei canali, dirette dal sovrano stesso, nella Persia degli Achemenidi.

«I documenti relativi alla situazione persiana mostrano con quanta cura fosse ripartita l’acqua disponibile. Essi indicano la tempestiva cooperazione fra il “signore dell’acqua” (mīrāb), i funzionari e aiutanti suoi subordinati e i capi del villaggio. I dati relativi all’isola di Bali ci forniscono il quadro accurato del funzionamento di un assetto idraulico ben integrato. Qui il sovrano e il ministro dei redditi (sedahan agong) prendono le decisioni fondamentali sul tempo e sul modo di afflusso dell’acqua alle varie unità idrauliche locali, i subak. Il funzionario a capo di un raggruppamento di codeste unità sovrintende all’approvvigionamento di ciascun subak; a sua volta, il capo dell’unità locale, il klian subak, coordina i singoli contadini, i quali pronunciano un solenne giuramento di sottomissione alle norme mentre i campi di riso, sawah, vengono sommersi dall’acqua. “Così l’ordinata distribuzione dell’acqua fra i vari coltivatori dei sawah si compie con estrema cura e con ben fondati criteri. Il coltivatore del sawah non può in qualsiasi momento disporre della sua quota di approvvigionamento idrico, dove l’acqua è scarsa. I vari coltivatori del sawah, anche se appartengono allo stesso subak, devono ripartirsi l’acqua disponibile e i loro sawah devono essere irrigati secondo un preciso ordine di successione”» (Wittfogel).

Un discorso a parte meritano i Maya, i quali popolavano un’area comprendente l’attuale Guatemala, parte dell’Honduras e la penisola dello Yucatan; territorio caratterizzato da piovosità irregolare. A ciò si aggiunga che gran parte del suolo è costituito da rocce calcaree che non trattengono l’acqua in superficie. Questo ha costretto le comunità antiche a sviluppare sistemi complessi di regolazione dell’approvvigionamento idrico

«Le installazioni per l’approvvigionamento di acqua potabile erano: 1) pozzi artificiali (pozos o cenotes nel significato originario del termine maya); 2) cisterne (chultun); 3) grandi serbatoi artificiali» (ivi, p. 353).

Mentre i cenotes richiedevano soltanto una cooperazione semplice e non su grande scala, i serbatoi necessitavano di un lavoro coordinato centralmente. Wittfogel riporta la testimonianza di un ranchero del XIX secolo che volendo ripulire un serbatoio situato nella sua proprietà dovette avvalersi dell’opera di millecinquecento indiani coordinati da ottanta capisquadra. I Maya non utilizzavano questo lavoro coordinato solamente per il controllo del flusso e della raccolta delle acque, ma anche per la costruzione delle strade e dei propri monumentali templi. Le modalità di remunerazione del lavoro non sono totalmente chiare, ma sicuramente in gran parte era un servizio di corvée obbligatorio prestato dai contadini per i signori. A testimonianza della gerarchia sociale è stata riscontrata la presenza di un elevato numero di funzionari inferiori, dipendenti direttamente dal centro, i quali poco o nulla trattenevano per sé dei tributi versati dalle piccole comunità a cui erano a capo.

Ritornando all’esempio primo della variante asiatica, la Mesopotamia, vi troviamo già sviluppato nel I millennio a.C. il prestito ad interesse dei privati allo Stato, cioè l’indebitamento di questo. I lavori di costruzione di una capitale assira, Dur-Sharrukin cominciarono nel 717 a.C. dopo che il re aveva acquistato, dietro indennizzo ai proprietari, parte dei territori su cui sarebbe sorta la città. Il finanziamento edilizio si basava essenzialmente sulle risorse acquisite grazie alla guerra, tuttavia ebbero un certo peso anche operazioni di prestito, come dimostra la lamentazione di un commerciante verso Sargon II. «Il re, mio signore, ha detto: “nessuno pagherà i tuoi prestiti prima che sia terminato il lavoro a Dur-Sharrukin!”; ora però sono stati soddisfatti i commercianti (con prestiti) per la parte di Dur-Sharrukin già completata, ma di me non si è ricordato nessuno!» (Kirschbaum, Gli assiri, p. 74).

Al di là delle specificità presenti nelle varie formazioni sociali, il carattere di fondo che accomuna tutte le società della variante asiatica è il ruolo decisivo della cooperazione e della centralizzazione economica. Lo scarso livello delle forze produttive non consente alla tecnica di sostituirsi al lavoro umano, che rimane e rimarrà ancora per secoli l’unica vera forza di produzione a disposizione delle classi dominanti.

Gigantesco appare l’effetto della cooperazione semplice nelle colossali opere degli antichi Asiatici, Egizi, Etruschi ecc. «Avvenne in tempi remoti che, provveduto alle spese militari e civili, gli Stati asiatici si trovassero a possedere un’eccedenza di mezzi di sussistenza, che poterono spendere per la costruzione di opere di lusso e di utilità. Il loro potere di disporre delle mani e delle braccia di quasi tutta la popolazione non agricola, e il dominio assoluto dei monarchi e dei sacerdoti su quell’eccedenza, fornirono loro i mezzi per erigere i poderosi monumenti di cui coprirono il paese (...) Nello spostamento delle colossali statue e delle enormi masse il cui trasporto ci riempie di stupore, si utilizzava senza risparmio quasi soltanto lavoro umano. Il numero dei lavoratori e la concentrazione dei loro sforzi bastavano. Così vediamo potenti barriere corallifere emergere dagli abissi dell’oceano, fondersi in isole e formare terraferma, sebbene ogni singolo depositante sia minuscolo, debole, inconsistente. Gli operai non agricoli di una monarchia asiatica hanno poco da offrire all’opera comune, salvo le loro individuali forze fisiche, ma il numero è la loro forza; e fu il potere di dirigere quelle masse umane che diede origine a tali imprese titaniche. Esse sono state rese possibili dalla concentrazione dei mezzi di sussistenza dei lavoratori in una o in poche mani» [R. Jones, Textbook of Lectures, ecc.]. «Nella società moderna, questo potere dei re asiatici ed egizi, o dei teocrati etruschi ecc., si è trasferito nel capitalista, si presenti egli quale capitalista singolo o, come nelle società per azioni, quale capitalista combinato» (Marx, Capitale, Libro I, IV, 11).


Commercio e artigianato

Narra Erodoto che Ciro II Il Grande, un barbaro, così disprezzasse i Greci: «Non ho mai temuto uomini che si radunano nel centro delle loro città per scambiarsi ingannevoli giuramenti». Se è vero che, sin dall’inizio, l’essenza del mercato è la truffa, il surplus a disposizione della comunità, generato essenzialmente dalle migliorate tecniche agricole, aveva consentito il progredire della divisione del lavoro e ad una parte della società stessa di dedicarsi ad altre attività che cominciano ora a fiorire. Questo processo rappresenta un progresso incommensurabile, del quale si potrà appropriare appieno, fare veramente suo, solo il comunismo superiore.

Nella variante asiatica il dominio della proprietà fondiaria fa sì che l’artigianato sia indissolubilmente legato all’agricoltura. La divisione manifatturiera del lavoro presuppone la divisione dell’industria (la città) dall’agricoltura (la campagna). La predominanza della seconda impedisce lo sviluppo della prima. Le città sono appendici della campagna da cui succhiano il plusvalore.

È tipico dei borghesi proiettare i rapporti sociali propri della forma di produzione capitalistica a ritroso nel tempo fino all’alba della storia; negli specialisti di storia antica si trova raramente una consapevole caratterizzazione della figura del mercante; non ci si cura del rapporto tra questa attività ed il resto del complesso produttivo né si va alla ricerca della genesi storica della sua separazione dal resto del corpo sociale: tanto meno si indagano i rapporti proprietari. Fino a quale stadio si è sviluppata la moneta? Qual è la forma di remunerazione dell’opera di mercatura? A queste domande non si dà risposta, non per mancanza di prove documentali ma perché l’ideologia dominante ha il compito precipuo di eternare la forma di produzione del capitale.

Il dizionario Treccani fornisce questa definizione di commercio: «attività intermediaria nella circolazione delle merci», con il che si presuppone una produzione indirizzata al valore di scambio e la separazione del commercio dalla produzione; processo storico che esplode relativamente tardi (forma di produzione terziaria) i cui germi si riscontrano nella presenza di popoli dediti quasi esclusivamente a quell’attività (Fenici), separazione cioè non solo funzionale ma anche razziale. Non è lecito attribuire le forme attuali delle relazioni capitalistiche a società che ancora non conoscevano né il moderno salariato né il relativo rapporto di capitale.

La mercatura nasce dall’esigenza della struttura economica di differenziarsi internamente in branche produttive autonome e contrapposte per permettere a queste di espandersi. I mercanti non nascono come ceto autonomo ma dipendenti dal potere palaziale-templare; la loro attività non è ancora diventata una attività autonoma ma è funzionale alle esigenze delle operazioni agricole. La Mezzaluna Fertile, ad esempio, è una pianura alluvionale priva di una serie di materie prime fondamentali all’epoca. La citazione si trova nel già citato volume sui Sumeri: «Mancano le pietre dure, di cui è ricco l’altopiano iranico. Manca il legname da costruzione, che cresce sui Monti Zagros, Tauro, Amano, Libano. Le prime città della bassa Mesopotamia svilupparono perciò il commercio, affidandolo a mercanti dell’organizzazione centrale, specialisti anch’essi e mantenuti dalla società. Questi mercanti entrarono in contatto con le regioni circostanti, e stabilirono dei posti avanzati, delle vere e proprie città coloniali, in alta Mesopotamia, in Siria, in Anatolia, in Iran».

La carenza di materie prime in Babilonia rendeva quindi il commercio con l’estero necessario sul piano economico. Il finanziamento del quale proveniva assai probabilmente dal surplus agricolo reso possibile dall’abbondante produzione cerealicola. Il mezzo di scambio delle grosse transazioni era l’argento mentre per le piccole veniva sostituito dall’orzo, dai datteri, dalla lana nonché da altri metalli quali il rame.

«Gli oggetti rinvenuti nei vari siti delle tre epoche preistoriche della Bassa Mesopotamia (...) confermano che già nel IV millennio a.C. si aveva un ricco scambio di beni tra paesi produttori di materie prime e paesi con abbondanza di cereali, quali sono appunto i siti della Bassa Mesopotamia. Il ritrovamento poi di una barca a vela nelle tombe di el’Ubaid rende plausibile che già in questa epoca non soltanto fosse possibile la navigazione dei due fiumi Tigri ed Eufrate, ma anche quella più impegnativa del Golfo Persico-Arabico.
«Questo allora si verifica nella seguente fase, quella di Uruk, dove per la prima volta sono archeologicamente documentate vere e proprie colonie commerciali fino a Susa nel lontano Iran, Malatya nell’odierna Turchia, Abuba Habira e Gebel’Aruda nella Siria settentrionale, località queste site a distanze assai ragguardevoli, trova nella documentazione archeologica dei siti preistorici dei presupposti che inquadrano l’espansione di Uruk come punto culminante di uno sviluppo durato per millenni».

Grazie a questo progredire di settori produttivi diversi il valore di uso inizia a trasformarsi in valore di scambio e si conosce una produzione finalizzata allo scambio insieme alla specializzazione e divisione del lavoro. Ad El’Ubaid è documentata per la prima volta una tipologia di ceramica ottenuta con un tornio lento, col quale l’artigiano può ruotare il vaso davanti a sé. Nel successivo periodo di Uruk si ha l’invenzione del tornio rapido che serve a ben modellare il vaso sotto le mani del vasaio. La quantità a questo punto prende il sopravvento sulla qualità, il lavoro è chiaramente affidato a specialisti che lo considerano lavoro di routine.

Come gli altri membri della comunità, gli artigiani ricevevano in concessione la terra e, al pari di essi, rendevano anche servizio di corvée. Vari artigiani erano impiegati in permanenza nelle officine del tempio, al pari di numerosi schiavi (per lo più donne). Pare tuttavia che la maggior parte degli artigiani lavorasse per conto dei templi in base a un particolare sistema contrattuale: i magazzini del tempio fornivano loro le materie prime che essi lavoravano a casa per un determinato compenso. Mentre si arricchiva chi sovrintendeva a queste nuove professioni, i suoi campi venivano coltivati per suo conto da affittuari, braccianti o schiavi e questi possessi terrieri, invece di ostacolarli nelle loro attività mercantili, assicuravano loro mezzi addizionali per le loro intraprese.

Nel poco distante Egitto dei faraoni l’intera economia era incentrata e ruotava attorno al ciclo vitale del grande fiume Nilo. La navigazione interna era sicuramente sviluppata, tuttavia la scarsità di materie prime non permise lo sviluppo di un regolare commercio estero, ostacolato anche dall’assenza di popoli finitimi ad un pari livello di progresso. Il numero, notevole, di piccoli artigiani privati era confrontabile a quello dei corrispondenti dipendenti dal faraone, ma di rilevanza sociale decisamente inferiore.

«Il governo era impegnato soprattutto in tre generi di lavoro industriale: 1) operazioni estrattive e preparatorie richiedenti molta manodopera, parte della quale qualificata, ma per lo più non-qualificata; 2) grandi intraprese di costruzione, richiedenti una combinazione di lavoro qualificato e non-qualificato; 3) industrie di lavorazione, alla cui attività provvedevano per lo più artigiani specializzati riuniti in officine di grandi o piccole dimensioni. In tutti e tre i settori, gli artigiani qualificati, fra i quali si trovavano artefici di grandi capacità, a quanto sembra lavoravano per lo più alle dipendenze del governo. I “sovrintendenti al lavoro” esercitavano probabilmente la giurisdizione suprema nei loro confronti. Nelle industrie collaterali essi operavano alle dipendenze di capisquadra appositamente designati» (Wittfogel).

Sull’altro emisfero anche l’impero Inca conosceva la presenza di uno scambio con i popoli stranieri gestito direttamente dallo Stato; le comunicazioni a lunga distanza erano, e sono tutt’ora, sfavorite dalla morfologia del territorio; le poche vie di terra e d’acqua erano controllate dal governo. Funzionari disponevano il trasferimento di enormi quantità di beni – cereali, fave, cotone, legname, metalli, tessili, ecc. – lungo la costa e sull’altipiano da una zona all’altra; i piccoli produttori-commercianti scambiavano prodotti per via di baratto alle numerose fiere che si tenevano regolarmente nel paese. Mercanti privati non avrebbero potuto competere con l’efficienza di questi traffici gestiti direttamente dal centro, perciò i mercanti di professione erano pressoché assenti. Anche le miniere erano gestite o dai capi locali nei territori in passato indipendenti o da membri della burocrazia imperiale. Persino la gestione delle giovani, sorvegliate in case-lavoro, era affare statale, fanciulle che passavano la maggior parte del tempo a tessere, filare e preparare bevande. Nonostante la complessità dello sviluppo sociale di questo popolo, sia la proprietà della terra sia l’artigianato non riuscirono mai a svincolarsi dal controllo statale.

Non si riscontra la medesima situazione presso i Maya, i quali tardano ad uscire dalla forma primaria di produzione. Gli appezzamenti di terra coltivati dai mercanti e dagli artigiani vengono assegnati loro dai calpulli, unità locali dotate di una limitata autonomia. Se si esclude il tempo che dedicavano alla coltivazione dei campi, sembra che i numerosi artigiani messicani svolgessero la loro piccola attività per proprio conto, producendo articoli da vendere ai mercati che si tenevano nei grossi agglomerati urbani. I piccoli commercianti erano del pari poco rilevanti e per questo motivo potevano godere d’una discreta autonomia, mentre i grandi commercianti inter-territoriali, i pochteca, erano legati all’apparato governativo. A questi era consentito di affittare i propri terreni ed erano del pari esclusi dal servizio di corvée, in sostituzione del quale pagavano un tributo al centro.

La Cina, del pari, dimostra la nascita della mercatura come settore sotto controllo statale. I testi di divinazione, soprattutto su ossa oracolari, della dinastia Shang (1600-1045 a.C.) riferiscono di conchiglie utilizzate probabilmente come mezzi di scambio ma non si accenna alla presenza di artigiani privati di professione; neppure nel tardo periodo Zhou, al tempo degli “Annali di Primavera e Autunno” (721-481 a.C.) si riscontrano tracce diverse, anzi le prove documentali mostrano come gli artigiani cooperassero così strettamente con i governi che è possibile considerarli alla stregua di funzionari. Durante l’ultima fase della dinastia Zhou, al tempo dei Regni Combattenti (480-256 a.C.), i mercanti indipendenti crebbero d’importanza. Lo Stato dei Ch’in prese misure restrittive nei loro confronti, ne decimò le file mandandoli a far la guardia alla frontiera, prima i mercanti poi anche i figli e nipoti; una rivoluzione culturale ante-litteram!

I primitivi e complessi documenti cinesi si occupano diffusamente degli artigiani. I vasi di bronzo del periodo Shang e del primo periodo Zhou rivelano uno straordinario raffinamento. Tuttavia, a differenza di quanto avvenne nell’Europa medievale, le attività artigiane cinesi non si svilupparono in domini feudali o in comunità urbane controllate dalle gilde, ma in grandi centri amministrativi controllati dal sovrano, dai governanti territoriali o dai loro funzionari. Questi artigiani governativi svolgevano la loro attività sotto la direzione del Ministero dei Lavori, il ssŭ-kung, a fianco di lavoratori manuali comuni che adempivano in questo modo all’obbligo di corvée.

In India la conquista ariana, stando alle prove testuali contenute nei Veda, fu compiuta da una comunità che, pur prestando grande importanza alle opere di regolazione e approvvigionamento idrico, poneva l’accento sul patrimonio zootecnico e sulla mercatura. In un inno dell’Atharvaveda-Samhitā, mercanti pregano il dio Indra come “il primo dei mercanti”. Nonostante la crescita della loro importanza sociale, i mercanti, a differenza dei nobili e dei sacerdoti, ma al pari dei contadini ariani, facevano parte del “popolo”. Durante il periodo buddista nacquero e prosperarono grandi mercanti alle dipendenze del governo, i setthi, come ha sottolineato un rapporto alla riunione generale di Torino del settembre 2014, a dimostrazione di come la religione non faccia che esprimere ed a volte trasfiguri la struttura, e di quanto l’induismo non fosse adatto ai nuovi rapporti sociali emergenti. Ma i commercianti, come gruppo, non erano in grado di influenzare le decisioni dei governi.

Più volte il Partito ha trattato il tema del feudalismo di Stato in Russia. Nella Russia post-mongolica i nuovi dominatori si mostrarono subito desiderosi di occuparsi, o direttamente per mezzo di funzionari, o indirettamente per mezzo di agenti, dell’attività mercantile. All’interno dello Stato i funzionari governativi dapprima acquistavano cera, miele e altri prodotti a prezzi bassi fissati da essi stessi e li rivendevano poi a prezzi elevati a mercanti russi o stranieri. Il governo vendeva anche beni che riceveva come tasse o tributi. Anche i mercanti stranieri dovevano sottostare alle regolamentazioni governative. Quando entravano in territorio russo essi dovevano presentare tutte le loro merci ai funzionari che ne fissavano il prezzo, non potendo commerciare con i privati prima di aver dato allo zar la possibilità di acquistare quanto desiderava. Lo zar si serviva largamente dei servizi di un certo numero di ricchi mercanti, soprattutto i gosti. I detentori di terra di servizio, i pomeščiki, vendevano per proprio conto grano ed altri prodotti ed anche i monasteri si dedicavano alla mercatura su grande scala.

La crescente importanza della sfera mercantile era andata ovunque ad intaccare gli antichi rapporti sociali. Ma una istituzione precorre i tempi. Già all’epoca del leggendario re Gilgamesh i sumeri avevano costituito colonie commerciali al di fuori della madrepatria. I mercanti assiri che operavano in territorio straniero, soprattutto nel Nord, non risiedevano all’interno della città della Cappadocia. I settori cintati da mura erano riservati alla popolazione indigena e ai palazzi del governatore. Le autorità locali ispezionavano i prodotti dei mercanti nel palazzo avendo anche diritto di prelazione su qualsiasi bene. Questi mercanti non potevano considerarsi compiutamente indipendenti, non formavano già un ceto autonomo, era infatti Assur che dirimeva le controversie legali e aveva il potere di imporre tasse. Entro questa struttura generale, le colonie trattavano le loro questioni giudiziarie in un’assemblea generale di tutti i coloni, il karum; fra i membri di queste assemblee c’erano dei mercanti.

«Nella Babilonia primitiva sembra che l’akil tamgari fosse il direttore del Dipartimento del Commercio o del Dipartimento delle Finanze e, in quanto tale, capo della burocrazia fiscale. Era a capo dei commercianti comuni che intraprendevano spedizioni commerciali “talvolta esclusivamente nell’interesse della corona”. Egli, quindi, era un eminente funzionario per mezzo del quale il regime assolutistico esercitava il controllo sui commercianti del paese. Talvolta un’assemblea si occupava di questioni che riguardavano un’intera città e, quindi, i suoi membri commercianti partecipavano alla soluzione di problemi di considerevole importanza locale, tuttavia, l’assemblea, essendo presieduta da un governatore del re o dal prefetto della città e fungendo essenzialmente da giurì civile, non controllava certamente il governo della città e i commercianti, che erano sotto l’autorità dell’akil tamgari, non erano neppur liberi di controllare la sfera della propria attività professionale, il commercio del paese» (Wittfogel).

Lo sviluppo del settore mercantile non poteva non accompagnarsi alle “maledizioni” del denaro, tra cui l’indebitamento dei piccoli contadini oberati dai prestiti ad interesse. Nel XIV secolo a.C. sembra che si sia verificato nella zona di Assur una spirale debitoria (la stessa che sconvolgerà Atene) cosicché le ricche famiglie di mercanti approfittarono della situazione per impadronirsi, attraverso contratti di mutuo, delle terre che erano appartenute alle comunità di villaggio o ai piccoli contadini. Tuttavia le corvée che gravavano su quelle terre dovevano comunque, ora come in precedenza, essere assolte dai debitori, in aggiunta alla restituzione dei prestiti ricevuti. Il cappio al collo dei produttori immediati era diventato doppiamente stretto: il servizio obbligatorio in favore del sovrano e il debito verso il ceto usuraio.

Contemporaneamente all’azione erosiva dell’interesse e dell’usura si sviluppa la truffa per eccellenza dell’economia mercantile: la coniazione di moneta falsa; si narra che il satrapo Ariande, nell’impero Achemenide, che aveva osato battere moneta per proprio conto, probabilmente speculando sul fatto che in Egitto l’argento valeva più dell’oro, fu deposto e giustiziato. Dopo di ciò una vasta riforma tributaria decentrò ai satrapi la riscossione di imposte e di tasse nelle rispettive province. Venne istituita una polizia finanziaria costituita da un corpo di guardie alle dirette dipendenze del Gran Re, che ispezionava e sorvegliava i satrapi affinché questi non incassassero o trattenessero più del dovuto, e che la giustizia fosse rettamente amministrata, pena le più terribili sanzioni.

Come in Grecia, nessuna forza statale poteva fermare la storia e presto o tardi i piccoli produttori sarebbero di nuovo precipitati nella miseria. Quando il console romano Lucio Licinio Lucullo si trovò ad Efeso (70-69 a.C.) per le operazioni militari contro l’impero Persiano poté constatare di persona l’abbrutimento sociale a cui la civiltà aveva condotto gli abitanti. La vicenda è narrata da Plutarco e riportata nel volume di Arborio Mella. Gli abitanti spogliati dei loro beni erano ridotti in schiavitù da gabellieri e usurai; i genitori erano costretti a vendere i figli, le collettività a privarsi delle offerte votive e delle opere d’arte custodite nei templi; ridotti allo stremo i cittadini stessi si consegnavano schiavi ai creditori. Ma più atroce era la loro condizione prima di giungere a tal punto: i creditori li tormentavano con tratti di corda, con aculei, col cavalletto, li esponevano ai raggi infuocati del sole o li immergevano nel fango e nel ghiaccio durante l’inverno tanto che la schiavitù appariva loro un sollievo.


Le comuni rurali

Ciò che connota la variante asiatica della forma di produzione secondaria è la presenza, accanto ad una forte autorità centrale, di piccole comuni rurali autosufficienti caratterizzate dalla stretta compenetrazione tra lavori agricoli e artigianali.

In India sorge dapprima una forma caratteristica: un signore territoriale, che dispone di una forza armata, obbliga i villaggi, che hanno già quanto loro basta di produzione artigiana, a farsi suoi tributari, di prodotti prima, più oltre di danaro e preziosi. Si forma così un sistema di staterelli principeschi, che ogni tanto un capo più potente, e meglio armatosi col godimento dei tributi dei soggetti, sottopone ed associa in regni più estesi. Questa forma asiatica tipica differisce quindi dalla schiavitù delle società classiche, come dalla servitù feudale del Medioevo Europeo, ma si sviluppa largamente in aspetti sia schiavistici sia feudali.

Le grandi imprese statali dei potentati asiatici, tanto utili opere pubbliche quanto grandi monumenti delle città capitali, sono realizzate da masse di prigionieri di guerra condotti schiavi a lavori forzati. In queste società non vi sono più uomini liberi, e la forma comune del villaggio agrario tributario al signorotto o allo Stato fa sì che il contadino non sia libero, ma servo.

Scrive Marx nel Capitale: «Le piccole, millenarie comunità indiane, che in parte sussistono tuttora, poggiano sul possesso collettivo del suolo, sulla combinazione immediata di agricoltura e artigianato, e su una stabile divisione del lavoro, che serve di modulo e schema generale già pronto quando nuove comunità si istituiscono. Esse formano un complesso produttivo autosufficiente, il cui territorio di produzione oscilla fra cento e alcune migliaia di acri. La massa principale dei prodotti è destinata al fabbisogno diretto della comunità, non è merce, e quindi la stessa produzione è indipendente dalla divisione del lavoro generata dallo scambio di merci nel complesso della società indiana. Solo l’eccedenza dei prodotti si trasforma in merce, dapprima ancora parzialmente in mano allo Stato, al quale da tempi immemorabili un certo quantitativo affluisce come rendita in natura» (Libro I, Sez. IV, Cap. 12).

La produzione è chiaramente orientata al valore d’uso e la produzione di merci viene o gestita direttamente dallo Stato con la creazione di colonie commerciali, zone riservate, ecc., o si sviluppa ai confini delle comunità presso popoli mercantili, primi fra tutti i Fenici.

«Nella sua forma più semplice, la comunità coltiva la terra in comune e ne distribuisce i prodotti fra i suoi membri, mentre ogni famiglia pratica la filatura, la tessitura ecc. come mestiere sussidiario domestico. Accanto a questa massa occupata in modo uniforme, troviamo 1’ “abitante-capo”, giudice, commissario di polizia ed esattore delle imposte in una persona sola; il contabile, che tiene la contabilità agricola e mette a catasto e registra tutto ciò che riguarda le colture; un terzo funzionario che indaga sui delitti e sui reati, e scorta e protegge i viaggiatori in transito da un villaggio all’altro; una specie di guardiaconfini, che tutela i limiti territoriali della comunità contro le usurpazioni di comunità limitrofe; il sovrintendente alle acque, che distribuisce l’acqua dei serbatoi comuni a scopi agricoli; il bramino, che provvede alle funzioni religiose; il maestro, che insegna ai fanciulli della comunità a leggere e scrivere nella sabbia; il “bramino del calendario”, che in qualità di astrologo fissa i tempi della semina e del raccolto e indica le ore fauste ed infauste per tutti i lavori dei campi; un fabbro e un falegname che fabbricano e riparano gli strumenti agricoli; il vasaio, che fornisce tutto il vasellame al villaggio; il barbiere, il lavandaio, l’orefice e, qua e là, il poeta che in certe comunità sostituisce l’orafo e in altre il maestro. Questa dozzina di persone è mantenuta a spese della comunità intera» (ivi).

L’aumento delle forze di produzione conseguente alla rivoluzione agricola e urbana porta con sé la divisione del lavoro, la quale rende autonome le funzioni sociali particolari che l’antica comunità naturale aveva attribuito a determinati suoi membri sulla base di una divisione sì del lavoro ma funzionale alla migliore riproduzione della comunità stessa. Ad un certo grado di sviluppo sociale il capo viene sollevato dall’impegno del lavoro agricolo, affinché possa consacrarsi completamente alle sue funzioni comunitarie, secolari o religiose. A questo fine, gli uomini della tribù lavorano in comune la terra del capo, attuando lo stesso tipo di cooperazione che praticano nei lavori di irrigazione, nelle opere di difesa e in altre intraprese comunitarie. Per esempio fra le tribù dei Chagga il capo dispone di molta terra personale ed il lavoro comunitario richiesto per la sua lavorazione è considerevole, i produttori tuttavia non ricevono un grosso corrispettivo per le loro fatiche, tutt’al più un po’ di cibo e della birra. I capi possono sì impadronirsi della cosa pubblica ma non arriveranno come a Roma ad esserne proprietari legali e quindi a poterne disporre in eredità. Nella variante asiatica il capo è la comunità stessa, il vertice d’una piramide in cui i tasselli hanno una loro funzione specifica ed una indispensabilità conseguente. Il rapporto sociale dominante nella variante asiatica è ancora la relazione del produttore con la terra quale mezzo di produzione fondamentale. L’antica forma comunistica originaria si è ormai dissolta e cominciano a comparire le famiglie; la produzione “privata” inizia a contrapporsi a quella comune.

La terra viene assegnata con una spartizione prima periodica, poi, dopo lunga evoluzione, fissa ai membri attivi della tribù, che applicano al proprio lotto il lavoro proprio e dei familiari diretti, e con essi godono il raccolto. In questa seconda forma l’uomo lavoratore non è separato dagli strumenti di produzione, come avverrà nel mondo moderno. Terra ed animali, sementi, concimi ed utensili sono ancora un prolungamento della persona dell’uomo, sia pure non col nobile meccanismo della prima tribù, in cui non essendo ancora individualizzata nemmeno la consanguineità familiare, tutto l’uomo-tribù – remoto esempio originario dell’uomo-società di domani – ha come suo prolungamento materiale e sociale tutta la terra e tutti gli strumenti e greggi di cui il villaggio è proprietario – mentre in forme successive ne darà poi un temporaneo possesso di fatto ai suoi componenti.


Potere centrale e comuni locali

Nell’impero sumerico le province erano di varie dimensioni (quella di Umma comprendeva più di cinquanta villaggi). Erano amministrate da governatori nominati dal re, il quale, in diritto, avrebbe potuto destituirli o spostarli; in realtà a scegliere erano le più influenti famiglie dei vari capoluoghi. Oltre al governatore, in ogni provincia risiedeva un comandante militare che rispondeva direttamente allo Stato centrale. I rapporti comunitari si modificano in quanto i nuovi presupposti della produzione sono i lavori collettivi. Nella variante asiatica la necessità di questi impedisce alla comunità di divenire monopolio di proprietari privati, com’è nella variante antico-classica.

La gerarchia diventa tanto complessa che il satrapo, Ciro II, ha dei generali e dei locaghi che amministrano i distretti delle varie provincie della satrapia. È un’organizzazione quasi medievale ma altamente centralizzata.

«Oltre a regolare secondo giustizia molte altre cose, egli ebbe a disposizione anche un vero esercito. Generali e locaghi, infatti, che fecero rotta verso di lui per denaro, capirono che comandare bene al servizio di Ciro portava più guadagno dello stipendio mensile. In effetti, se uno gli obbediva nel modo dovuto quando dava un ordine, mai lasciava il suo zelo senza ricompensa. Perciò si disse che Ciro disponesse dei migliori collaboratori in ogni opera. Se vedeva che qualcuno era un valido amministratore, secondo giustizia, che metteva ordine nel territorio che governava e procurava delle entrate, non rimuoveva mai nessuno, ma lo rendeva sempre più potente, sicché quelli si impegnavano volentieri, guadagnavano in piena sicurezza e nessuno mai nascondeva a Ciro ciò che possedeva: non pareva, infatti, che egli invidiasse coloro che si arricchivano sotto gli occhi di tutti, ma semmai che cercasse di sfruttare i beni di coloro che li tenevano nascosti» (Senofonte, Anabasi, Libro Primo).

Lo Stato, per assicurare ai coltivatori la continuità del processo di lavoro, deve assumere funzioni militari per la difesa dalle invasioni dei popoli nomadi che assaltano i terreni agricoli per trasformarli in pascoli. La peculiarità della variante asiatica è la presenza di un’unità superiore proprietaria delle condizioni di produzione, mentre le piccole comunità risultano concessionarie. Ora la proprietà, essenzialmente della terra, consente allo Stato centrale di sovrastare le piccole comunità. Queste sono comuni rurali in cui è presente un’unione autosufficiente di agricoltura e manifattura. Versano una parte del plusprodotto all’unità superiore.

Nella citazione di Marx che segue si noti l’importanza del ruolo dei primi centri urbani che spingono alla transizione tra i modi di produzione. Le città di frontiera svilupperanno gli embrioni del mercantilismo, le città-capitale dei sistemi governativi.

«Questa forma, quando alla base vi sia il medesimo rapporto fondamentale, può realizzarsi anche in modo molto diverso. Ad es. non è assolutamente in contraddizione con essa il fatto che, come accade nella maggioranza delle principali forme asiatiche, l’unità complessiva che sovrasta tutte queste piccole comunità figuri come il proprietario supremo o come l’unico proprietario, e le comunità effettive quindi soltanto come possessori ereditari. Essendo l’unità il proprietario effettivo e l’effettivo presupposto della proprietà collettiva, questa può allora presentarsi come qualcosa di particolare che sovrasta la molteplicità delle comunità particolari effettive, in cui il singolo allora è effettivamente privo di proprietà; ovvero la proprietà – cioè il rapporto del singolo con le condizioni naturali del lavoro e della produzione in quanto corpo oggettivo della sua soggettività, che egli trova già dato sotto forma di natura organica e che gli appartiene – gli si presenta mediata dalla concessione dell’unità complessiva – realizzata nel despota come padre delle molte comunità – al singolo attraverso la mediazione della comunità particolare. Il plusprodotto – che del resto viene determinato legalmente in forza dell’appropriazione effettiva mediante il lavoro – appartiene così, di per sé, a questa unità suprema.

«Perciò, nell’ambito stesso del dispotismo orientale e nell’assenza di proprietà che giuridicamente sembra caratterizzarlo, in realtà esiste alla base questa proprietà tribale o comunitaria, prodotta per lo più mediante una combinazione di manifattura e agricoltura all’interno della piccola comunità, la quale in tal modo diviene del tutto autosufficiente e contiene in sé tutte le condizioni della riproduzione e della produzione eccedente. Una parte del suo pluslavoro appartiene alla comunità superiore, che allora esiste come persona, e questo pluslavoro si manifesta sia sotto forma di tributi ecc., sia sotto forma di lavori collettivi a glorificazione dell’unità, e cioè in parte del despota reale, in parte del sistema tribale idealizzato, ossia del dio.

«Questo tipo di proprietà comunitaria, nella misura in cui si realizza effettivamente nel lavoro, può poi assumere questi aspetti: o le piccole comunità vegetano l’una accanto all’altra in reciproca indipendenza, e il singolo lavora indipendentemente con la sua famiglia sul lotto assegnatogli (un determinato lavoro destinato, da una parte, alla riserva collettiva, insurance per così dire, [dall’altra] a fronteggiare le spese della comunità in quanto tale, per la guerra, il culto ecc.; è qui che troviamo per la prima volta il dominium signorile nel senso originario, ad es. nelle comunità slave, in quelle rumene ecc. È qui il passaggio al lavoro servile ecc.); oppure l’unità può estendersi fino a rendere collettivo il lavoro stesso, che può diventare un sistema formale come nel Messico, nel Perù in particolare, presso gli antichi Celti e alcune tribù indie.

«Inoltre il sistema collettivo all’interno dell’ordinamento tribale può assumere prevalentemente l’aspetto per cui l’unità è rappresentata da un capo della famiglia tribale oppure dalla relazione tra i capi di famiglia. Corrispondentemente si ha allora una forma o più dispotica o più democratica di questa comunità. Le condizioni collettive dell’effettiva appropriazione mediante il lavoro, come gli acquedotti, che sono molto importanti per i popoli asiatici, i mezzi di comunicazione ecc., figurano allora come opera dell’unità superiore, del governo dispotico che si erge al di sopra delle piccole comunità. Le città vere e proprie si formano qui, accanto a questi villaggi, solo là dove esiste un punto particolarmente favorevole per il commercio con l’estero; oppure dove il capo supremo dello Stato e i suoi satrapi scambiano il loro reddito (plusprodotto) con il lavoro, spendendolo come labour-funds» (Grundrisse).

L’unità centrale, che poggia su una miriade di piccole comunità di villaggio, appare come il proprietario supremo o come il proprietario unico, rispetto al quale le comuni singole non esercitano sulla terra che una forma di possesso ereditario. Si tratta di un possesso collettivo della piccola collettività di villaggio perché la mediazione tra singolo e unità centrale è rappresentata dal villaggio.

Nelle comuni, l’individuo è vitalmente legato alla collettività: la sua attività di produttore ha come presupposto il lavoro collettivo e l’esercizio comune del possesso del suolo. Una parte del suo lavoro appartiene, per l’eccedenza, alla comunità, una parte all’autorità centrale; la comune, a sua volta, poggia come unità economica su quella combinazione fra agricoltura e industria domestica che le assicura l’autosufficienza, e l’individuo può o lavorare in forma autonoma sulla particella di terreno assegnatagli periodicamente dalla comune, o agire come parte di un’organizzazione collettiva della coltivazione del suolo. La comune assicura un minimo di organizzazione interna, ha la sua piccola burocrazia a carattere democratico-patriarcale: il capo-villaggio, il contabile, l’agronomo, il sacerdote, il maestro, ecc.

Nella variante asiatica, anche quando la facilità di procurarsi gli schiavi poteva favorirne l’impiego nell’agricoltura, o nell’artigianato, questi restarono tuttavia sempre una forza ausiliaria. Il lavoro degli schiavi poteva essere sorvegliato e, quindi, vantaggiosamente utilizzato solo in intraprese spazialmente ristrette, come miniere e cave, costruzione di strade, canali, palazzi e templi, trasporti pesanti. Gli schiavi verranno utilizzati largamente anche presso la corte, negli uffici e nelle officine governative, oppure per le attività domestiche presso gli arricchiti. Una guerra vittoriosa poteva fornire una considerevole riserva di manodopera schiava così che in genere i conquistatori di regioni agricole (vedasi le deportazioni di Tiglat-Pileser III) avviavano i loro prigionieri all’attività agricola, ma anche in questo caso gli schiavi restavano di secondaria importanza e il loro impiego avveniva in forme di semischiavitù: potevano diventare proprietari e sposarsi. In Egitto pare che la schiavitù abbia assunto una certa importanza solo nel Nuovo Regno, quando importanti guerre e conquiste fecero affluire abbondante manodopera straniera non libera.

Con il progredire delle società in direzione della produzione mercantile i rapporti tra centro e periferia si fonderanno sempre più su intermediazioni in moneta e sempre meno sull’amministrazione diretta di uomini, terre e greggi; l’amministrazione centrale si limiterà a controllare che le entrate e le imposte riscosse corrispondano al dovuto; i servizi di corvée saranno allora convertiti in tributi al sovrano. A differenza del feudalismo europeo, tuttavia, il controllo centrale rimarrà saldo, ne sia testimonianza il resoconto di Senofonte:

«Vige ancora oggi, a quel che si dice, una regolamentazione introdotta da Ciro: ogni anno un ispettore con un esercito percorre il paese, per portare aiuto nel caso che qualcuno dei satrapi ne abbia bisogno, per ridurre alla ragione chi eventualmente passi la misura, se qualcuno mostra negligenza nel pagamento dei tributi, nella difesa degli abitanti, nel modo in cui la terra è resa produttiva, o se trascura qualsiasi altra delle prescrizioni, per rimettere appunto ordine in tutte queste situazioni; se però non ci riesce, deve fare rapporto al Re, e questi, una volta informato, prende una decisione riguardo all’indisciplinato» (Ciropedia, Libro Ottavo).


L’immobilismo asiatico

È lecito domandarsi come mai la variante asiatica non abbia descritto un proprio percorso storico del tipo di quello che, dall’urto-incontro tra la variante antico-classica e quella germanica, ha generato la forma di produzione feudale.

Nel dispotismo orientale il rapporto tra il produttore e la terra è mediato, da una parte, dall’autorità centrale, dall’altra, dalle comuni locali, le quali vegetano in un isolamento protetto dallo Stato centrale quale presupposto e contemporaneamente garanzia della loro perpetuazione. La variante asiatica è “immobile” e “senza storia”, più tenace verso i cambiamenti, perché non contiene elementi che riescono a disgregarla. Essendo la più vicina al comunismo primitivo ne conserva in parte l’organicità. È uno sviluppo multilaterale ma limitato in cerchie chiuse, in contrapposizione allo sviluppo unilaterale ma senza limiti del capitalismo.

L’opposizione tra parcella e demanio sorge quando entrambe possono divenire proprietà privata. La parcella può essere persa dal proprietario, pur continuando a lavorarla (per il patrizio); il patrizio accumula le parcelle dei plebei rovinati; l’influenza del patrizio sul demanio diventa tanto maggiore quanto maggiore è la sua accumulazione. Nella variante asiatica la contrapposizione tra proprietà parcellare e unità centrale è mediata dall’appartenenza alla comunità. La variante antico-classica rapporta la proprietà allo Stato politico, che ha assorbito l’antica comunità, quindi chi perde la proprietà perde anche i diritti civili. Nella variante germanica il possesso resta mediato dalla comunità e coincide ancora col fatto economico dell’utilizzo della terra.

«Affinché la comunità continui ad esistere nella vecchia maniera, come tale, è necessaria la riproduzione dei suoi membri nelle condizioni oggettive date. La stessa produzione, l’incremento della popolazione (anche questo rientra nella produzione) sopprimono necessariamente a poco a poco queste condizioni; le distruggono invece di riprodurle, ecc., così la comunità tramonta insieme con i rapporti di proprietà sui quali era fondata. La più tenace e la più duratura è necessariamente la forma asiatica. Ciò è implicito nella sua premessa; ossia nel fatto che il singolo non diviene autonomo nei confronti della comunità, che la sfera della produzione è autosufficiente, che l’agricoltura è unita con la manifattura, ecc. Se il singolo modifica il suo rapporto con la comunità, con ciò modifica la comunità stessa e produce effetti distruttivi sia su di essa sia sul suo presupposto economico; d’altra parte si ha la modificazione di questo presupposto economico, prodotta dalla sua propria dialettica, pauperizzazione ecc. Specialmente l’influenza della conquista, che ad esempio a Roma riguarda essenzialmente le condizioni economiche della comunità stessa, sopprime il legame reale su cui essa poggia.

«In tutte queste forme la riproduzione dei rapporti esistenti – più o meno naturali o anche sorti storicamente, ma divenuti tradizionali – del singolo con la propria comunità, è una esistenza determinata, che per lui è predeterminata, oggettiva, sia in rapporto alle condizioni di lavoro, sia in rapporto a coloro che lavorano con lui, ai membri della sua tribù ecc. È il fondamento dello sviluppo, che perciò è a priori uno sviluppo limitato, ma che con l’eliminazione delle limitazioni mostra i segni della rovina e della decadenza. Lo sviluppo della schiavitù, la concentrazione del possesso della terra, lo scambio, i rapporti monetari, la conquista, ecc., agirono in questo senso presso i romani, sebbene tutti questi elementi sembrassero fino ad un certo punto compatibili con la base e sembrassero in parte allargarla solo in modo innocuo, in parte germogliare da essa come meri abusi. All’interno di una determinata sfera, possono qui verificarsi anche grandi sviluppi. Possono sorgere grandi individualità. Ma non c’è qui da pensare a uno sviluppo libero e completo né dell’individuo, né della società, giacché un tale sviluppo è in contraddizione con il rapporto originario» (Marx, Grundrisse).

L’immobilismo asiatico non implica l’assenza di rapporti vivi e vitali all’interno della formazione sociale, il punto è che la contrapposizione tra forme di appropriazione collettive e private – motore del cambiamento e motivo della maggiore vitalità della variante antico-classica e germanica – non è esacerbata come in queste ultime, anzi è di scarso peso. Si ha una combinazione tra agricoltura e manifattura patriarcale, con i classici esempi del villaggio indiano e del mir russo, dove oggetto di lavoro è la terra irrigata collettivamente con mezzi di lavoro di proprietà comune, a cui si accompagna, e ne fa da contraltare, il lavoro agricolo famigliare su piccoli appezzamenti, in possesso e non ancora in proprietà. La proprietà del suolo appartiene soltanto all’unità centrale da cui, per il tramite delle comuni locali, è assicurato alle famiglie il possesso ereditario individuale di lotti adeguati in estensione.

Neppure l’incremento demografico riesce a scalfire la corazza di queste società, tanto che, scrive Marx, se «la popolazione cresce, una nuova comunità viene fondata su terreni incolti secondo il modello dell’antica. Il meccanismo della comunità mostra una divisione pianificata del lavoro, ma una sua divisione di tipo manifatturiero è impossibile, perché il mercato del fabbro, del falegname ecc. resta invariato, e al massimo, a seconda della grandezza dei villaggi, vi si incontrano due o tre fabbri, vasai ecc., invece di uno. La legge che presiede alla divisione del lavoro comune opera qui con l’autorità inviolabile di una legge naturale, mentre ogni singolo artigiano, come il fabbro ecc., compie tutte le operazioni proprie del mestiere secondo un metodo tradizionale ma in piena indipendenza, non riconoscendo alcuna autorità nell’ambito del proprio laboratorio. L’organismo produttivo semplice di queste comunità autosufficienti, che si riproducono costantemente nella stessa forma e, se mai accade che vengano distrutte, risorgono sulla stessa sede e con lo stesso nome, fornisce la chiave per capire il mistero dell’immutabilità delle società asiatiche, con la quale contrastano in modo così clamoroso il dissolversi e ricostituirsi perenne degli Stati e l’incessante mutamento delle dinastie in Asia. La struttura degli elementi economici di base della società non è qui toccata dalle bufere che si scatenano nell’atmosfera politica» (Marx, Capitale, Libro I, IV, Cap. 12).


I rapporti proprietari

Il documentato volume di Wittfogel così suddivide i tipi di proprietà della terra nella variante asiatica: 1) “soggetta a regolamentazione”, ovvero gestita da coloro che ne hanno il possesso e la lavorano, per conto dello Stato centrale, o pagano ad esso una tassa o un affitto; 2) “gestita dal governo”, ovvero coltivata sotto la direzione di funzionari governativi, loro “concessa in beneficio”, temporaneamente o illimitatamente (terra di servizio), a rappresentanti del clero (terra sacra) o ad altri (terra di sinecura).

All’inizio del processo evolutivo il demanio si caratterizza come proprietà del Dio cittadino quale personificazione della collettività. Da qui gradualmente si avrà una traslazione. Il demanio è proprietà del Dio e diventa proprietà diretta del sovrano perché questi è figlio del Dio. Secondo Pettinato circa l’80% della terra di Sumer era gestito direttamente dallo Stato, il 20% suddiviso tra campi dati in sostentamento agli stessi funzionari o ai militari e campi dati in affitto.

A differenza di quanto crede l’apologia borghese la proprietà nasce collettiva, non individuale; il membro della comunità è proprietario in quanto non può distinguersi dalla comunità stessa che è l’unica vera proprietaria. Il singolo è ancora soltanto un possessore. Scrive Marx:

«Il singolo membro è, in quanto tale, soltanto possessore di una certa parte, ereditaria o meno, poiché ogni frazione della proprietà non appartiene al membro della comunità per sé stesso, ma in quanto egli è immediatamente membro della comunità, in quanto cioè è unito direttamente con essa, e non se ne distingue. Questo individuo singolo è dunque soltanto un possessore. Esiste soltanto una proprietà collettiva, e soltanto un possesso privato. Il modo di questo possesso in rapporto alla proprietà collettiva può subire le più diverse modificazioni di natura storica, locale ecc., secondo che il lavoro stesso venga fatto isolatamente dal possessore privato, o sia determinato a sua volta dalla comunità o dall’unità che sovrasta la comunità particolare» (Grundrisse).

Ogni formazione sociale concreta, storica – a differenza di quanto accadde nel comunismo primitivo – sviluppa caratteri peculiari. In Cina si aveva la presenza di terre coltivate da militari in zone di confine, dove il lavoro era effettuato o direttamente dai soldati (campi di guarnigione, t’un-t’ien) o dai civili (yin-t’ien). Queste due tipologie di coltivazione in certi periodi compresero fino a un decimo di tutta la terra coltivabile, ma durante molte dinastie la loro estensione fu molto minore. Oltre alle colonie militari, c’erano demani governativi per la colture speciali e parchi e giardini per diporto dei governanti.

In Russia, invece, domina quel feudalismo di Stato a metà strada tra la seconda e la terza forma di produzione, dove i pomeščiki erano così occupati a fornire i loro servizi allo Stato, militari o civili, che non potevano dedicare molta cura alla coltivazione, come invece facevano i nobili proprietari terrieri d’Inghilterra o di Germania. Di conseguenza la coltivazione moderna e su vasta scala era in Russia estremamente limitata fra gli aristocratici proprietari terrieri prima del 1762 e, nonostante qualche espressione, rimase l’eccezione anche molto tempo dopo. La nobiltà russa fu sempre “di servizio”, vivendo alle corti dei grandi e dei piccoli principi e nelle città, con funzioni militari, di corte o civili.

Nella variante antico-classica, tra gli altri fattori, sarà la crescita dell’importanza della proprietà privata della terra a far esplodere le grandi rivolte dell’antichità. Nella variante asiatica questa forma di proprietà ha scarsa importanza. Talvolta, anche dove le terre erano concesse in proprietà ad individui, tornavano al re alla loro morte; nel Perù arcaico le terre di sinecura erano detenute privatamente e indefinitamente, ma i beneficiari non avevano il diritto di alienarle, non essendone proprietari ma possessori permanenti. Nei secoli conclusivi dell’impero Sumero fece la sua comparsa la proprietà terriera privata, ma sembra che i governi delle antiche città-tempio abbiano continuato ad esercitare uno stretto controllo sulla terra coltivabile.

In altre formazioni storiche la proprietà privata della terra cominciò a rivestire una certa importanza. Nell’impero Persiano accanto alle terre dello Stato esistevano quelle dei templi e terreni detenuti in proprietà esclusiva da singoli. Tuttavia ovunque, al di fuori delle città greche, il controllo governativo della terra permaneva sulla maggior parte della terra coltivabile. I persiani assegnavano la terra a membri della casa reale, a cortigiani, a funzionari, a militari colonizzatori e a produttori obbligati a fornire contingenti per le forze armate (terra di servizio). Quest’ultima non era una istituzione feudale, né favorì l’emergenza di un ordinamento feudale sotto il successivo regno dei Parti: i grandi proprietari terrieri dei Parti non erano semi-autonomi detentori di feudi ma, come erano stati i loro predecessori persiani, funzionari governativi.

Il califfato mamelucco che governò sull’Egitto dalla metà del XIII all’inizio del XVI secolo diede un grande ma intricato sviluppo alla compravendita della terra, gran parte della quale ora era entrata nella proprietà disponibile degli acquirenti, che potevano anche lasciare in eredità ai discendenti. All’inizio del califfato la terra privata, mulk, era quasi assente. La sua successiva crescita avvenne secondo un intricato procedimento che imponeva a un detentore di terra di servizio di restituirne parte alla tesoreria prima di poterne acquistare dal governo la rimanente. Benché la mulk abbia continuato a crescere essa restò soltanto uno fra i vari tipi di possesso di terra attribuita ad un funzionario: oltre alla terra di servizio (iqtā’) e alla mulk, poteva possedere terra di pensione o essere l’amministratore di una waqf che assicurava il sostentamento a lui e alla famiglia. I sultani turchi, impossessatisi poi del califfato, imposero drasticamente l’egemonia della terra di Stato abolendo, ufficialmente, la maggior parte della terra di proprietà privata.


La famiglia

L’evoluzione dei rapporti sociali segna ed è determinata anche dal tipo di famiglia. A misura che i rapporti di proprietà, all’inizio essenzialmente sulle greggi e sulla terra, soppiantano i primitivi legami di sangue, si impone alla testa della società la classe dei detentori dei mezzi di produzione alla quale i produttori sono divenuti subordinati. Dissolti i rapporti sociali del comunismo primitivo, il patriarcato prepara il terreno allo schiavismo diffondendolo già all’interno della comunità di sangue, nella famiglia. Il patriarcato costringe i membri della famiglia ad una funzione produttiva unilaterale. Poiché da questa dipende la riproduzione della comunità, il patriarca si pone a capo anche di questa, determinando uno schiavismo dispotico sui membri della comunità, i cui membri divengono schiavi domestici.

Ai popoli nomadi che si allontanano dalle steppe s’impone le necessità di nutrire gli armenti. Si sviluppa l’agricoltura. L’economia, prima immediata riproduzione della specie, è ora mediata, contrapposta ai produttori fino a dominarli. Decisive diventano le necessità economiche e non i bisogni immediati. La società si sviluppa in funzione dello sviluppo delle forze di produzione. Il bestiame è sinonimo di ricchezza, attribuita al patriarca. Il bestiame diventa un valore che si impone socialmente.

Nella società antico-classica lo schiavismo ha la sua genesi all’interno della famiglia, rapporto sociale che abbassa il produttore a strumento, con ciò spogliandolo di ogni diritto sociale, trasposizione del dominio delle cose sull’uomo, che si incarna nel patrizio monopolizzatore delle ricchezze.

La famiglia nella variante asiatica è tuttavia ancora istituzione organica, come dimostra il Codice di Lipit-Ishtar. «Se la prima moglie di un uomo ha perso la vista o è diventata paralitica, non dovrà lasciare la casa; se il marito sposa una seconda donna, quest’ultima dovrà accudire la prima moglie. Se un uomo sposato si unisce a una prostituta da strada e i giudici gli hanno imposto di non tornare dalla prostituta, dopo che ha divorziato dalla moglie, quando ha pagato il denaro del divorzio, non sposerà quella prostituta».


Stato e Chiesa

La fine del comunismo primitivo, la rottura di quella originaria armonia, ma prigioniera in ambiti ristretti ai rapporti di sangue e di territorio, ha dato inizio alla travolgente successione delle storiche società di classe. La classe dei lavoratori è venuta ad opporsi alle classi possidenti non più dedite alla produzione. Queste hanno dovuto crearsi un complesso apparato di funzionari con il compito di mantenere il loro predominio con la forza materiale, o la minaccia di usarla, e spirituale tramite chierici e ministri di culto. Mentre le rivolte dei servi venivano domate nel sangue, la religione e l’indottrinamento scolastico confermavano e giustificavano il dominio di classe.

L’esempio maggiore nella variante asiatica è quello del millenario Impero Celeste. Ai tempi degli Zhou, e probabilmente anche sotto la dinastia degli Shang, la maggior parte dei funzionari lo divenivano per via ereditaria; sotto la dinastia imperiale degli Han (206 a.C.-220 d.C.) per nomina dell’imperatore. Il periodo di disgregazione conclusosi nel 589 d.C. modificò le precedenti strutture di governo ma, benché guerre e conquiste aprissero il funzionariato a ceti di diverse estrazioni sociali, un certo numero di antiche famiglie mantenne il suo controllo sull’apparato statale.

Gli studi sui rapporti tra potere secolare e sacerdotale si sono soffermati soprattutto sulle formazioni sociali sbocciate e sviluppatesi in Mesopotamia. All’uscita dalla forma di produzione primaria si assiste alla nascita delle prime cariche sacerdotali, ancora legate alle esigenze di riproduzione della vita materiale. Queste cariche direttive in caso di guerra vengono sostituite da organi militari: a causa dello stato endemico di guerra che avvolge le città-stato il capo militare tende a prendere il predominio. Fino a quel momento la guerra era rimasta un compito collettivo, e le prove di quanto sostiene Engels nell’Origine si ritrovano nelle forme di produzione secondaria, ad esempio nelle tattiche militari proprie di genti nomadi che opponevano strenua resistenza all’invasore civilizzato.

«Gli Ircani, a chiudere la marcia, avevano con sé nella retroguardia i carri e le famiglie. La maggior parte dei popoli d’Asia infatti va in guerra portando con sé tutti i componenti della famiglia e così facevano allora gli Ircani» (Senofonte, Ciropedia, Libro Quarto).

Della variante asiatica presente nella Mezzaluna Fertile, la ricerca storica borghese, basandosi su dati archeologici del periodo proto-dinastico, ha sviluppato un modello noto come città-tempio. Secondo questa ricostruzione la città-stato sarebbe appartenuta alla divinità poliade con il re esecutore dei voleri del dio e suo rappresentante.

Il sovrano, secondo la Lista Reale Sumerica, con il titolo di en, aveva una connotazione più religiosa che profana. A partire dalla dinastia di Akkad con en si cominciò a designare un tipo di sacerdote. Solo in un periodo successivo, quando cominciarono le guerre tra le città, gli organi di governo si videro costretti a scegliere un capo militare, che fu chiamato lugal, grande uomo. Perdurando le guerre tra gli Stati, quella che era una carica temporanea divenne istituzionale: a capo della città si vennero a trovare due figure distinte, l’en con prerogative secolari-sacerdotali ed il lugal con compiti militari.

«A poco a poco il lugal cominciò ad accentrare su di sé gli incarichi propri dell’en fino a soppiantarne totalmente la figura» (Pettinato, I sumeri, p. 239).

Nonostante molti millenni di storia, o meglio, di preistoria, il nodo del “giusto” rapporto fra Stato e Chiesa è ancora oggi tutt’altro che risolto, a ulteriore prova dell’impossibilità per la scienza, anche quella asservita al modernissimo e razionalistico capitale, di arrivare ad una conoscenza condivisa e non contraddittoria della stessa società, confermando che i grandi mezzi tecnici prodotti da una lunghissima evoluzione del lavoro e del pensiero umano non bastano quando non se ne possa svellere il controllo e l’uso da parte di una classe contro un’altra.

(Continua al prossimo numero)









Dall’Archivio della Sinistra

Per iniziativa del Circolo Radicale di Roma e di altri democratici di estrema sinistra, tra i quali Felice Cavallotti, era stato convocato a Roma, l’11 maggio 1890, un Congresso Democratico nel tentativo di formare un partito da contrapporre alle tradizionali consorterie di potere. Questo nuovo partito, nelle intenzioni dei promotori, avrebbe dovuto ripulire l’Italia da malcostume, ruberie ed illegalità varie e tornare (ammesso che mai fosse esistita) ad una vita politica “onesta”. Come si vede la cosiddetta questione morale è storia antica.

Al congresso, svoltosi dall’11 al 13 maggio fu approvato, in vista delle future elezioni, il programma, denominato Patto di Roma. Vi si stabiliva che «la nazione deve essere consul­ta­ta nei suoi interessi supremi, nell’uso del suo sangue e del suo denaro»; proclamava che tutti i poteri sono emanazione della sovranità popolare; proponeva il risanamento morale dell’ambiente parlamentare anche con una legge sui (senti... senti...) conflitti di interesse, etc. etc.

In quella occasione, pochi giorni prima del congresso, Antonio Labriola indirizzava una lettera ad Ettore Socci, Presidente del promotore Circolo Radicale, nella quale, con garbo ma con estrema precisione, prendeva le distanze e dal Congresso, e dal Circolo. La lettera venne di lì a poco pubblicata con il significativo titolo di “Proletariato e radicali”.

Labriola non manca di riconoscere ai radicali il merito di lottare, almeno al momento, per le libertà e le prerogative democratiche, ma mette in chiaro che tali libertà e prerogative, qualora venissero anche attuate, resterebbero all’interno del sistema capitalista borghese e che le finalità del proletariato sono di tutt’altra natura.

Riguardo al parlamentarismo afferma che se per i proletari è lecito valersene, un po’ meno è averci fiducia, dovendo restringere «al puro possibile le loro esigenze, le loro proteste, le loro proposte». Inoltre non manca di avvisare i maniaci della democrazia che «col trionfo del proletariato i parlamenti spariranno».

Il moto e la rivoluzione proletaria, afferma Labriola, differiscono dal moto e dalla rivoluzione borghese, per fini, mezzi e tattica. Di conseguenza il proletariato non deve fidarsi né delle lusinghe, né delle promesse provenienti dall’altra classe, ma avrà possibilità di vittoria solo contando sulle proprie forze ed organizzandosi in un proprio partito politico.

Labriola chiude la lettera affermando di voler dedicare, con fede d’intelletto, tutte le sue forze alla causa del proletariato.


PROLETARIATO E RADICALI
lettera di Antonio Labriola del 5 maggio 1890

Caro Socci,

il nostro Circolo Radicale, da un anno che è sorto, vive di vita se non gloriosa, per lo meno onesta e disciplinata. Fu ideato come convegno e come palestra dei democratici d’ogni scuola, che, alieni da intransigenze preconcette, sian desiderosi di discutere serenamente, e di operare, se accada, con sentimento di opportunità. Nessuna formula troppo rigorosa vi costringe le coscienze alla ipocrisia della setta; e come noi soci, noi tutti, siam persone libere d’animo e di mente, non è mai accaduto che nelle deliberazioni nostre facesse capolino lo spirito di conventicola, o che la vanità delle facili manifestazioni rivoluzionarie ci inducesse a fare contro il buon senso, o a dimenticare quella moderazione, che per essere misura non è mai debolezza.

Professarsi fautori di tutte le riforme, che siano consentanee al principio della sovranità popolare, come è scritto nel nostro statuto già due volte rifatto, è pensiero tanto largo, tanto conciliativo e tanto conciliabile con ogni temperamento d’intelletti e d’animi democratici, da non parer strana cosa se si sta già da un pezzo assieme noi, che pur siamo, chi radicale nell’ambito delle istituzioni, e chi repubblicano, o sociologo, o socialista addirittura. Per opporsi alla corruzione politica che invade le sfere del parlamento e tutti gli ordini delle pubbliche amministrazioni, per farsi difensori del diritto e della libertà, e per conservare intatto il patrimonio delle idee democratiche e crescerlo di nuova esperienza, per dirsi avversarii della triplice alleanza e del militarismo, per diffidare della imparzialità dei magistrati, per esprimere un voto su la questione degli infortunii sul lavoro, per celebrare il centenario della Rivoluzione Francese, o per inviare una parola di simpatia ai socialisti di Germania, per fare in somma tutto quello o che si è fatto da noi modestamente ma onestamente nel Circolo da tredici mesi in qua, non occorreva che i soci chiudessero le loro menti nelle angustie di un catechismo, o si scambiassero le patenti di ricognizione in nome di vecchie formule settarie e dommatiche.

Tu devi intenderla così quando scrivi e dici, che il Circolo, anche nella prossima occasione del Congresso delle Società Democratiche che vi fu promosso, anzi in quella precisamente, s’ispira ai principi della scuola positiva; perché, salvo che altri intenda male il senso italiano e largo di cotesta parola restringendolo all’accettazione di una determinata scuola filosofica, vuol dire che quel congresso è un esperimento, e, comunque riesca, il Circolo continuerà a vivere della sua propria vita.

La democrazia non può esaurirsi nell’adorazione di fantastiche formule, come di costellazioni inchiodate nel cielo della speranza, né è chiamata a far le parti di custode di una dottrina astratta ed arcana, che ignara di tempi e di circostanze converta in asceti i seguaci suoi.

È appunto perché l’opportunità, che è saggezza, non va confusa con l’opportunismo, che è volgarità e corruzione, non è chi possa sul serio affermare, che il Congresso indetto per domenica prossima, per il solo fatto che mira a restringere l’azione dei democratici italiani a quel minimo di idee pratiche, che apparisca conciliabile col proposito di accorrere alle urne, abbia in sé nulla che direttamente offenda i più larghi disegni e le più alte aspirazioni dei socialisti e dei repubblicani. Alla camera non ci si va per convertirne la tribuna in pergamo, e molto meno per prepararvi la rivoluzione, o politica, o sociale. La palestra parlamentare è troppo circoscritta, perché i partiti tutti che aspirino alla radicale rinnovazione degli ordini politici o sociali, quando stimano opportuno di valersene come di campo di azione, non debbano, prima di entrarci, per necessità di cose restringere al puro possibile in un dato momento e in determinate condizioni le loro esigenze, le loro proteste, le loro proposte.

I parlamenti, come forma transitoria della vita democratica d’origine borghese, spariranno col trionfo del proletariato; in nome del quale s’inaugura oggi un nuovo periodo della storia. Ma finché durano, sono quali sono; cioè quali li rende compatibili con le monarchie e con le repubbliche borghesi il principio della legislazione indiretta, la condizione della burocrazia alla rappresentanza, il vizioso intreccio del governo autonomo locale con l’azione degli agenti del governo centrale, la ipotetica affermazione di una magistratura indipendente, che poi alla fin fine non è se non uno dei tanti servizii tecnici della pubblica amministrazione: sono quali sono, cioè quali li fa ora la storia contemporanea della democrazia liberale, che cederà poi col tempo e fatalmente all’impeto sempre crescente, ma sicuro e preciso, della democrazia sociale.

Valersene è sempre lecito ad ogni partito che non sia di puri utopisti e visionarii: averci o no fiducia, e maggiore o minore, gli è cosa che dipende da circostanze di fatto, di tempo e di luogo. Socialisti e radicali che v’entrano, col solo fatto d’entrarci riducono il loro programma ai minimi termini, e fanno atto di rassegnazione. La logica generica degl’intransigenti, che rigettano a priori l’azione dei parlamenti, è troppo astratta per meritare soverchia attenzione; ma socialisti e radicali faranno sempre bene a ricordare, che contro la malaria non c’è cautele che bastino.

Non siamo tutti d’accordo su questi punti principali, fuori e dentro il Circolo? E chi vorrebbe discutere in astratto degli effetti di un Congresso, che non è chiamato a dettar leggi alla storia, né a scrivere la Magna Charta della democrazia mondiale, anzi a compiere il pratico e modesto ufficio di far crescere a Montecitorio il numero dei deputati, dell’Estrema Sinistra, sopra un programma pratico che non permetta, né a pesci grossi, né a pesci piccoli di uscir dal chiuso?

Ma io dissento, non dirò da te, né da questo né da quello, ma dalla maggioranza dei radicali politici in un punto tanto per me capitale e decisivo, che, pure essendo dei più assidui fra i membri del Circolo, mi son messo precisamente ora per rispetto al Congresso in una specie di semiastensione, fino a rinunciare ad un ufficio che mi dava diritto e ragione di dar mano, almeno per indiretto, alla relazione del programma.

Finché i radicali politici, che storicamente e in fatto sono l’estrema ala sinistra del liberalismo borghese e semiborghese, promettono di aumentare e di precisare le condizioni legali delle comuni libertà, in tutto quello che riguarda le riunioni, le associazioni, la stampa, finché portano la voce alta e forte della critica disinteressata su gli abusi delle pubbliche amministrazioni, e cercano di correggere i congegni di queste, finché tentano di riformare in senso agguagliatore la funzione della finanza; finché favoriscono la scuola popolare e la laicizzazione della vita sociale; finché combattono il militarismo e sorreggono di lontano con ripieghi ed espedienti il proletariato che già sale da sé agli onori della storia; finché sono umanitarii, filantropi, idealisti, fanno opera plausibile, credibile, qualche volta coronata da successo, sempre onesta. Ma quando si lusingano di non passare sotto le forche caudine del capitalismo, che è il solo, vivo, reale e presente signore delle monarchie e delle repubbliche, quando sognano di dovere essi soli, non si sa bene per quale eccezione alle regole della storia, sopravvivere al fatale decadimento di tutta la borghesia; e, senza entrare francamente e risolutamente nelle file dei socialisti, si atteggiano ad antesignani, guidatori e correttori del nuovo moto proletario; – oh! Allora sì che i radicali politici, scambiando e tempi e date e circostanze, si fanno una assai strana illusione!

Illusione finché si tratti di un manipolo di generosi, finché si tratti di spiriti nobili, di spiriti eletti, d’idealisti impenitenti, ma irreprensibili! Che se poi si dà il caso, che intorno ad essi si schieri una folla, e dal tutto insieme ne nasca un governo, l’illusione dei pochi diventa a breve andare, l’ipocrisia di una grande moltitudine e con grave ritardo e ristagno del progresso, come è chiarito dai frequenti esempi della Francia, il gran laboratorio di tutte le illusioni, il gran museo di tutti i disinganni politici e sociali del secolo!

Contro cotesti pericoli di nuove illusioni e di nuovi disinganni, noi socialisti, che attingiamo l’ispirazione nostra all’analisi rigorosa della vita storica, noi socialisti risolutamente affermiamo non avere il proletariato altra speranza di riuscita, da quella in fuori di fidare unicamente in sé stesso, di organizzarsi in partito dei lavoratori, di non cedere né a lusinghe né a promesse di manipolatori politici, perniciosi d’intenzione se retrogradi, ma non meno perniciosi, per quanto involontariamente, se Giacobini, se dottrinarii, se idealisti.

È chiaro a dirla cosi? E se è chiaro tocca appunto ai radicali politici, come per dovere, di definire se stessi, e di circoscrivere con piena consapevolezza l’opera propria, non solo di fronte a governi, a conservatori, a moderati, a progressisti, ma anzi e principalmente per rispetto al proletariato. Perché due sono i casi. Quelli che fra i radicali sono socialisti, dirò così inconsapevoli, basta che aprano gli occhi su le cose, e su la ragion dei tempi, ché il resto verrà da sé. Ma quelli i quali dicono, che saranno chi sa mai socialisti domani o quell’altra settimana poi, quelli che immaginano di darsi per socialisti, così per incidente o di sbiego, che trattano la questione sociale come un amminicolo dei programmi politici, e credono che il socialismo sia uno sport letterario, o un codicillo, una giunta, una nota, una postilla del gran libro del liberalismo, e anzi non vedono nel moto proletario se non la continuazione semplice del moto liberale, e non s’arrendono a persuadersi che la rivoluzione sociale è tutt’altra dalla borghese, nei fini, nei mezzi e nella tattica: tutti quelli, in somma, che ostinandosi in vane illusioni promettono ciò che non possono mantenere, finiscon poi per incontrare sfiducia e discredito anche nell’azione politica, che per loro vocazione e missione son chiamati a compiere.

Ormai quella parte di operai la quale sa quel che vuole – per non dire del servus pecus, che crede ai radicali come ai clericali, cioè non crede a nessuno – non si lascia più ingannare dalla vana speranza, che le leggi della folla borghese dei parlamenti siano atte ora o mai ad impedire, che il metodo capitalistico della produzione assorba la piccola proprietà e la piccola industria, e trasformi fatalmente in salariati tutti gli artigiani e piccoli coloni. Non chiede perciò ai radicali politici provvedimenti e misure di ripiego per risolvere la questione sociale; ma solo le generali condizioni di libertà e di coltura, che gli occorrono per isvolgersi e per affermarsi fortemente e coscientemente; – e a chi predica la panacea delle cooperative si risponde risolutamente, che quello è mezzo insidioso per imborghesire una parte degli operai a scapito della solidarietà del proletariato.

Fra politica borghese e socialismo, (due periodi distinti della storia!) c’è tale deciso distacco, che nessuna arte d’uomini d’ingegno varrà a trarre l’una cosa dall’altra, come per magia di provvedimenti legislativi.

M’induce a fare questa dichiarazione pubblica e recisa, non solo la voglia in me così prepotente di dire a tutti, e sempre, e in ogni luogo e circostanza quello che mi pare la verità, ma anche un serio motivo di personale difesa di legittimo amor proprio.

Da alcuni anni in qua, che io mi professo pubblicamente socialista, dopo avere maturata già innanzi, nella mente e nell’animo, cotesta dottrina e cotesta persuasione, ho chiuso sempre gli orecchi alla critica poco seria, poco garbata, poco ragionevole di quelli i quali credono di cogliere in fallo un uomo, se affermano, che le idee alle quali è giunto non sian quelle dalle quali è partito. A coteste accuse ho opposta sempre la secura coscienza, che, se mai, il pensare diversamente a lungo scadere di anni, non è contraddirsi ma svolgersi; per non dire, che di cotesti critici sciatti e scortesi io non so quanti sappiano, senza avere letto e udito quello che ho scritto insegnato e detto da venti anni in qua, da che punto davvero io sia partito, e a che punto davvero io sia arrivato. Ma cadrei certamente in una vera, e propria e flagrante contraddizione, che vuol dire pensare e far cose opposte e contrarie in uno e medesimo tempo, se da quella tolleranza che è propria di un Circolo, chiamato a far da ritrovo e da palestra, io traessi la regola di ogni atto della mia vita, perciò ho voluto dire proprio a te, caro Socci, ora, alla vigilia di cotesto Congresso essenzialmente politico, fino a che punto e dentro quali limiti, ma non oltre, l’azione dei radicali politici, quando sia seria, precisa, forte e consapevole, mi paia utile ed apprezzabile per la causa alla quale, come tutti vedono, professo di dedicare le forze mie, senza ripieghi o sottintesi, e con fede d’intelletto: LA CAUSA DEL PROLETARIATO.

Roma, 5 maggio 1890

Tuo sempre, Antonio Labriola


Il secondo scritto che riportiamo in questa nostra tradizionale rubrica è la risposta di Engels all’invito che gli era stato rivolto di partecipare al “Comizio Internazionale per i diritti del lavoro”, indetto a Milano per il 12 aprile 1891.

L’iniziativa del comizio era stata presa da alcuni esponenti che gravitavano nella vasta area radical-repubblicana. Questi, al fine di dare alla manifestazione un carattere più autorevole ed ampio, avevano chiesto l’adesione e la partecipazione di personalità del mondo operaio, socialista ed anarchico in Italia e all’Estero.

Il Comitato promotore pubblicava su “L’Italia del Popolo” del 28 marzo 1891 un manifesto di convocazione “Alle Associazioni e ai lavoratori”. Tra le firme di adesione, oltre a quelle di radicali e repubblicani di varia ispirazione (Felice Cavallotti, Gabriele Rosa, Giovanni Bovio, Antonio Maffi, etc.), si possono trovare anche quelle di socialisti come Andrea Costa, Gregorio Agnini, Camillo Prampolini, Antonio Labriola.

Filippo Turati, al contrario, non aderì alla manifestazione ed in una lettera ad Andrea Costa così spiega la sua presa di posizione: «La nostra adesione non vi fu al Comizio Internazionale del 12 prossimo perché non ci piacque il modo come nacque e non abbiamo gran fiducia nella serietà del suo successo. Io stesso a nome della Lega Socialista e due amici a nome della Unione Democratico-sociale, nella prima seduta preparatoria, avversammo fieramente l’idea, perché ci ripugnava una tale iniziativa fosse presa da una società essenzialmente politica come la mazziniana Nuova Italia e perché un comizio “internazionale” in questo momento è promessa superiore alle probabili speranze e possibilità [...] Per uno di quei giochetti inverosimili che nascono qualche volta nelle assemblee, venne approvato con pochi voti un ordine del giorno dell’anarchico Gori, che non si sarebbe creduto dovesse raccogliere più di due o tre voti, e il quale con le solite frasi generiche e sensazionali propugnava il Comizio internazionale, non più per la questione seria e concreta delle 8 ore, ma per l’emancipazione del lavoro in genere – una cosa così grande che finisce, ora, a non significare più nulla [...] Il Fascio dei lavoratori (Partito Operaio) non aderì [...] L’impressione generale è che questo Comizio, che trova dissidenti e diffidenti gli operai e del quale i socialisti milanesi declinarono l’iniziativa, sia qualcosa come un tentativo di confisca della questione operaia del 1° maggio da parte dei politicanti repubblicani ed anarchici. Desidero ch’esso riesca meglio di quello che a me pare possibile, ed è certo che, sebbene non fossimo d’accordo quanto all’iniziarlo, noi socialisti milanesi non lo combatteremo, anzi vi prenderemo parte. Del resto se tu verrai sarà già una garanzia di esito serio» (2 aprile 1891).

Se il transigente Turati in quell’occasione si mostrò intransigente, da parte sua fu l’intransigente Antonio Labriola ad assumere un atteggiamento transigente, ed in questa sua inusuale veste scriveva a Engels il 30 marzo 1891: «Egregio Signore,troverà nell’“Italia del Popolo” che le mando il manifesto d’un comizio da tenersi in Milano. L’iniziativa è venuta dai circoli mazziniani, ma io, tuttoché alieno dal trovarmi in compagnia di certe persone, non mi sono rifiutato di appoggiarla. L’intonazione del manifesto è non solo alta e nobile, ma quasi socialistica. L’idea non è molto pratica, come ha già notato il Vorwärts di Berlino. Ma in Italia non ci sono per ora altri mezzi, e bisogna pur trarre partito dalle illusioni dei radicali. Generalmente si va svolgendo nei mazziniani una certa inclinazione verso il socialismo. Se mai le giungesse un invito da Milano – perché a me hanno chiesto l’indicazione di parecchi nomi – non isdegni rispondere con una lettera pubblicabile. Il suo nome è circondato di riverenza nell’animo di tutti i rivoluzionari d’Italia».

Può quindi darsi che sia stato l’invito di Antonio Labriola a fare sì che Engels acconsentisse a dare la propria adesione con la breve, ma importante, lettera che ripubblichiamo.

Il Comizio non andò poi così male come Turati aveva previsto. Labriola, scriverà ad Engels il 16 aprile: «Vedrà nel “Secolo” che le mando un resoconto fedele e molto interessante del Comizio di Milano. Per quello che può aspettarsi da un comizio la cosa è riuscita, ed i mazziniani di nuovo stile si son fatti onore». Anche Turati, a posteriori, ne darà un giudizio positivo, come risulta dal secondo documento che riportiamo.

Questo terzo documento, dal titolo “Maggio Operaio” è, appunto, di Turati ed apparve sulla “Critica Sociale” del 20 aprile 1891. L’articolo dopo avere staffilato i pennivendoli dell’ordine sociale (cretini allora come, del resto, oggi) esprime in maniera perfetta la necessità, perché la lotta di classe abbia esito positivo, della solidarietà operaia nazionale ed internazionale, che travalichi le “chiostre di monti e di carabinieri”. E, dopo avere espresso apprezzamento per il Comizio di Milano esalta il congresso internazionale dei minatori svoltosi a Parigi

In tema di solidarietà internazionale di classe riportiamo un altro gruppo di documenti: si tratta di due circolari della “Nazionale Unione degli operai del gas e dei lavoratori in generale” di Gran Bretagna ed Irlanda (a firma di Thorne e di Eleonora Marx Aveling) e della risposta data da Antonio Labriola.

In sostanza la National Union auspicava la formazione di un Segretariato internazionale del lavoro in modo da contenere, per quanto possibile, la “concorrenza sleale” degli operai immigrati sui quali i capitalisti puntavano per stroncare gli scioperi e ridurre i salari. Naturalmente tra questi “concorrenti sleali” gli italiani erano in prima fila.

Ma se il crumiraggio e la vendita a prezzo stracciato della loro forza lavoro poteva denotare poca coscienza di classe da parte delle masse degli immigrati, i tristi fenomeni di xenofobia da parte dei nativi non erano certo più esaltanti: i tragici fatti di Aigues Mortes sono di quegli anni.

Già Turati, dopo la prima delle due circolari, aveva riconosciuto che «si tratta[va], in sostanza, di riprendere il lavoro dell’Internazionale operaia da opporre alla sempre più forte organizzazione internazionale degli imprenditori», ma aveva anche osservato che «la disunione degli operai e delle società operaie in Italia sarà un ostacolo a che la proposta venga qui prontamente realizzata». Ma il problema vero stava nel fatto che «l’emigrazione verso gli Stati vicini non avviene [...] pel richiamo di un mercato speciale, ma è piuttosto un’alluvione umana [...] sospinta dalla miseria e dalla disperazione» (“Critica Sociale”, 20 febbraio 1891).

Se nella seconda circolare è scritto che il contatto per l’Italia è Turati, la “Critica Sociale” del 20 aprile ridimensiona cosa: «Per conto nostro personale, come ripetutamente scrivemmo al Comitato dell’Unione Londinese, avendo comunicato la proposta al Comitato centrale del Partito Operajo italiano e ad alcuni de’ principali suoi nuclei senza che questi finora prendessero alcuna deliberazione, ci prestiamo ben volentieri, in via provvisoria, a quel servizio di corrispondenza che potesse rendersi necessario; ma non avendo, né potendo avere veste ufficiale di poter rappresentare formalmente il partito operajo italiano, né altre associazioni indipendenti di lavoratori, ci auguriamo che i prossimi congressi socialisti ed operai italiani si preoccupino di cotesta iniziativa, che a noi sembra per tanti versi commendevole e pratica, onde nominare uno o più rappresentanti del movimento dei lavoratori di tutta Italia nei rapporti con l’estero, e coordinare, nei limiti del possibile, mercé opportuno scambio di notizie e di iniziative, cotesto movimento nazionale con quello degli altri paesi più progrediti del nostro sulla via dell’emancipazione del quarto stato».

La traduzione della lettera (scritta in tedesco) di Antonio Labriola ad Eleonora Marx è quella che lui stesso fece per la rivista “Critica Sociale”. «Ho tradotto dal mio cattivo tedesco in un italiano mediocre, ma ho tradotto liberamente, perché c’è troppo divario di fraseologia dall’una lingua all’altra».

Noi riteniamo che questi documenti siano molto importanti e che vadano letti con la massima attenzione dal momento che trattano di problemi che da sempre il proletariato, per sua natura migrante, ed il suo partito hanno dovuto, e dovranno, affrontare.


Lettera di Engels al Comizio Internazionale per i diritti del lavoro

Londra, 9 aprile 1891

Cari cittadini!

Sono infinitamente dispiaciuto di non poter aderire al vostro invito cordiale e così onorevole per me, di partecipare al vostro Comizio del 12 aprile. E tanto più ne sono dispiaciuto, in quanto mi sento particolarmente vicino e legato al vostro Paese, perché vent’anni fa ho tenuto la carica di segretario per l’Italia nel Consiglio generale dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori. Questa Internazionale ha cessato ora di esistere nella sua forma ufficiale, ma essa ha continuato a vivere, e per sempre, nello spirito di solidarietà della classe operaia di tutti i Paesi; essa è ora anche più vitale e più potente di quanto non sia mai stata, perché nella sua vecchia forma ufficiale degli anni 1864-1875 essa non avrebbe potuto abbracciare i milioni di operai europei ed americani, uniti sotto la bandiera rossa del proletariato militante. Spero con voi che il vostro Comizio del 12 aprile porterà nuove colonne di combattenti nella grande armata proletaria mondiale; che esso darà un potente impulso al rafforzamento dei vincoli di solidarietà che uniscono gli operai italiani con i loro fratelli d’oltralpe, con i francesi, i tedeschi, gli slavi; e, infine, che esso segnerà una nuova tappa nel movimento di emancipazione della classe operaia italiana.

Noi abbiamo raggiunto in vent’anni enormi successi; ma molto resta ancora da fare, prima di poter contare su una pronta e sicura vittoria. Dunque, avanti, sempre avanti!


MAGGIO OPERAIO
(Critica Sociale, 20 aprile 1891)

Altri, guardando nel limitato orizzonte italico, lo dirà a mala pena marzo o febbrajo. Ma noi che amiamo di spingere lo sguardo un po’ oltre, che sappiamo con che rapidità ineluttabile i movimenti economici, a differenza da tutti gli altri, si propaghino oggidì di nazione in nazione, sfidando chiostre di monti e di carabinieri, e pensiamo a quel che era, sotto l’aspetto del movimento d’emancipazione operaja, l’Italia soltanto di dieci anni fa e quali passi giganteschi ha fatto anche qui la coscienza della lotta di classe, e seguiamo il vario ed ognor mutante atteggiarsi dei giornali e dei partiti di fronte a questo Davide armato che minaccia di atterrare Golia; noi sentiamo, anche tra le raffiche e le brine tenaci, e malgrado la combattuta povertà dei primi germogli, sentiamo l’alito del maggio che lontano s’annunzia e che ci riempie di speranza e di gioja.

E lasciamo, senza rancore, che i giornali “dell’ordine”, i sostenitori ad oltranza dell’antropofagia capitalistica, cerchino ogni maniera di consolazioni e di spassi. Noi li vediamo volentieri pinzettare con voluttà, nelle manifestazioni operaje, tutto ciò che v’è in esse di infantile, e pertanto di chiassoso, di retorico, anche di teatrale; e spulciare i nuovi programmi e manifesti operai per trovare e mostrarne al pubblico, con aria di trionfo, le vere o supposte incongruenze, gli errori, le utopie. Li lasciamo compiacersi nel rilevare le confessioni, le vacuità, il disordine, le intemperanze di pensiero e di frase, nel recente Comizio del lavoro, del quale non approvammo l’iniziativa né trovammo corretto il modo di votazione degli ordini del giorno, ma del quale dovemmo ammirare lo slancio, il numero immenso di adesioni, e giudicarlo – come lo giudica Gabriele Rosa in una sua cartolina – “esercitazione ed esperimento che frutterà”.

E, a proposito del 1° maggio, lasciamo che codesti corifei dell’ordine “à tout rompre”, dell’ordine a base di questura e di bajonettate, si sbraccino in lusinghe e in moniti paterni verso gli operai, e in consigli di quiete ragionevole né chiesti né necessari. Ecco qui: essi vanno da un po’ di tempo laudando ed adulando certi operai che non sappiamo dove, che, richiesti di scioperare il 1° maggio, avrebbero risposto che non era il caso, che la disoccupazione forzata li aveva fatti scioperare già troppo; e alla proposta di un certo ordine del giorno avrebbero obiettato, con arguzia veramente ateniese, che “gli ordini del giorno non si mangiano”. E non si avveggono (felici scribi!), o ne fanno le mostre, che di questi campioni prelibati dell’umana imbecillità il numero si assottiglia ogni giorno; che essi non sono neppure “operai”, sono soltanto dei cretini che per caso fanno l’operajo, come avviene a degli altri cretini di fare il giornalista.

E il numero, per converso, ogni giorno prestamente s’allarga, s’allarga con progres­sio­ne geometrica, di quei veri operai, che pensano, che sentono, che fanno, come fecero e pensarono i minatori internazionalmente congregati a Parigi. Erano le rappresentanze di un milione di lavoratori di sotterra; e disputavano se e quando (non paja i­per­bolica la frase) arrestare il moto della terra, paralizzare d’un colpo tutta la vita so­cia­le moderna, cessando, a giorno fisso, tutti quanti, l’estrazione del prezioso litantrace.

E decisero che l’ora non è ancor giunta; ma il dì verrà, e non è già lunge, che la coscienza del diritto, assistito dalla solidarietà delle forze, li persuaderà al gran passo.

Immensa tragedia! Assalto tacito ed immobile, dato, come per incanto, alla forma di produzione borghese, capitolante per l’inazione di quei “servi” che ne sono i padroni.

E l’animo ci rimorde di non poter qui riferire almeno il sunto di quelle grandiose discussioni e deliberazioni; dalle quali il popolo di oppressi, che in Italia comincia ora appena a destarsi alla vita, trarrebbe assai più fiamma di fede che non da mille capitoli teorici e da mille concioni.

E distinguere il dramma potente, immensamente umano, di quei cavatori, di diverse lingue, di razze, di costumi diversi, tutti affratellati da un solo, da un supremo ideale, tutti ugualmente miseri, ugualmente angariati, che si videro sorgere come un sol uomo, acclamanti, plaudenti, in un impeto di sublime entusiasmo, a giurar fede ai compagni del Belgio, chiedenti ajuti pel loro sciopero, per la loro grande ed imminente battaglia economico-politica pel suffragio universale; chiedenti ai fratelli dell’altre nazioni, concorrenti nel mercato del lavoro, che cessino la produzione carbonifera quando le Compagnie delle miniere se ne varranno per sovvenire nella lotta i proprietari delle cave del Belgio.

A questo spettacolo, che da per tutto si riproduce e sempre in guisa più larga, a questo guardino, se hanno core, i nostri criticuzzi borghesi. Perché questa è l’umanità che arriva, è la giustizia che annunzia il suo trionfo, ed è la fine, per sempre, dei lor lazzi e delle loro scede. Trionfo cui precluse, son già quasi trent’anni, la profetica voce del poeta tedesco:
Lavoratore, ridestati! – Riconosci la tua potenza! – Tutte le ruote si arresteranno – quando il tuo forte braccio lo vorrà. – Impallidisce la schiera de’ tuoi oppressori – Quando tu, stanco del tuo carico, – Appoggi l’aratro in un canto; – Quando tu gridi: “basta!” – Spezzate il vostro duplice giogo! – Spezzate la miseria della schiavitù! – Spezzate la schiavitù della miseria! – Pane è libertà! Libertà è pane!”


La Unione nazionale degli operai del gas e dei lavoratori in generale di Gran Bretagna ed Irlanda ai partiti ed alle associazioni operaie
(Critica Sociale, n. 3 del 20 febbraio 1891)

Londra, 21 dicembre 1890

Caro compagno,

durante la recente visita dei compagni Bebel, Liebknecht e Singer in occasione del 70° compleanno di Federico Engels, essi si abboccarono con i rappresentanti della “Unione degli operai del gas e dei lavoratori in generale”, che comprende circa centomila tra uomini e donne appartenenti a ben settanta Associazioni, e con quelli di parecchie altre unioni ed organizzazioni, non esclusi John Burns, Counningham Graham ed altri. In tale riunione si manifestò assai vivo il convincimento che il tempo sia venuto di stabilire una relazione organizzata ed intima fra i partiti del lavoro dei diversi paesi. Il problema più urgente è di prevenire l’importazione da un paese nell’altro del lavoro sleale, cioè di quegli operai che, ignorando le condizioni della lotta del lavoro in una data regione, vengano in essa attirati dai capitalisti allo scopo di ridurre le mercedi, o di aumentare gli orari, od anche per questi due scopi riuniti.

Il mezzo più pratico da adottarsi a tal uopo sembrò essere quello di costituire, in ogni paese, un segretario internazionale del lavoro, il quale si tenga in relazione coi segretari di tutte le altre nazioni. Così, ad ogni dissidio che insorga fra i capitalisti ed i lavoratori in un dato paese, i segretari internazionali di tutti gli altri saranno tosto avvertiti e procureranno di prevenire l’emigrazione di lavoratori diretta a sostituire, a patti meno equi, i disoccupati o gli scioperanti del paese in cui il dissidio è scoppiato.

Questo, per ora, è il punto più immediato e più facile su cui metterci d’accordo; ed è sperabile che una combinazione in questo senso faciliterà grandemente lo scambio delle idee sulle varie questioni che interessano i lavoratori di ogni nazione. È questa ormai la più urgente e la più costante necessità del movimento delle classi operaie.

Se le vostre organizzazioni consentono nelle nostre vedute, voi vorrete tosto mettervi in relazione con noi e darci il nome del segretario ch’esse avessero delegato a prender parte a questo importante movimento.

Vostri fraternamente

W. Thorne (segretario generale) - Eleonora Marx Aveling (pel Comitato esecutivo)

(Critica Sociale, n. 6 del 20 aprile 1891)

Londra, 16 marzo 1891.

Caro Compagno,

siamo lieti di significarvi che la nostra lettera che proponeva di stringere relazioni più strette fra i lavoratori di tutti i paesi, venne accolta nel modo il più cordiale ed il più incoraggiante. Risposte ci pervennero da dieci paesi diversi e nella maggior parte di essi fu nominato un Segretario Internazionale del Lavoro, come si era da noi raccomandato. Altrove, dove era impossibile nominare un Segretario Internazionale senza porre a repentaglio l’esistenza stessa delle Unioni locali, uomini noti e sperimentati saranno lieti di ricevere ogni comunicazione che verrà lor fatta e di darvi riscontro.

Noi speriamo sinceramente che ciò sia per essere il principio d’una grande Federazione dei lavoratori d’ambo i sessi di tutti i paesi, e speriamo altresì che l’opera così iniziata verrà consolidata e troverà il suo completo sviluppo al Congresso internazionale di Bruxelles nel prossimo agosto.

I Segretari internazionali sono i seguenti: America: American Federation of Labour; Samuel Gomper - 21, Clinton Place, New York City (Stati Uniti) – Francia: Parti ouvrier; A. Deleluze - 35, rue Four-à-Chaux, Calais; Comité révolutionnaire central; Landrin - 157, avenu de la République, Paris – Svizzera: Gewerkschaftsbund (Lega dei Sindacati); C. Beck - Bahnhofstrasse, 60, Zurich. Arbeiterbund (Lega del lavoratori); Scherer, zur Kleinburg, St. Gallen – Danimarca: Partito socialista danese; L. Petersen, Valkendorfsgate, 20, Copenhague: Partito democratico-socialista e dei Sindacati; J. Jensen - Broleggerstrade, 11, 2 Sal., Copenhague – Spagna: Unione generale dei lavoratori; Antonio Garcia Quijido - Calle de Tallero, 29, 1°, Barcellona – Norvegia: Partito operajo; C. Jeppersen, Redazione del Sozial-Demokraten. Cristiania – Italia: Fascio dei lavoratori; Filippo Turati - via Clerici, 2, Milano.

Le lettere che danno o richiedono notizie devono indirizzarsi per l’Austria al dottor Victor Adler, redattore dell’Arbeiterzeitung - VI, Gumpendorfstrasse, 60, Vienna; per l’Ungheria a Paul Engelmann, redattore dell’Arbeiterpresse, Budapest; e per la Germania a E. Legien, an der Koppel, 79, 1 Etage, Hamburg, St. Georg, il quale fu nominato Segretario della Federazione dei Sindacati tedeschi.

Abbiatevi, caro Compagno, i nostri cordiali saluti.

Fraternamente vostri

W. Thorne (segretario generale) – Eleonora Marx Aveling (in nome del Comitato esecutivo)


I SEGRETARI INTERNAZIONALI DEL LAVORO
e il movimento operaio e socialista in Italia
(Critica Sociale, n. 13 del 10 settembre 1891)

[Quando nella lettera Labriola parla della inesistenza del Partito Operaio intende la mancanza del partito “degli” operai, ossia socialista, a livello nazionale, n.d.r.]

Napoli, 24 agosto 1891

Egregia signora Marx Aveling!

Due delegati al Congresso di Bruxelles, l’inglese Walker e il francese Deschamps, se pure i giornali che ho sott’occhi non recano il falso, han proprio messo francamente e coraggiosamente il dito su la piaga. Così sta il fatto: e non è chi possa opporre nulla quando si afferma che i poveri operai d’Italia fanno ora nella economia mondiale l’umiliante parte di turbatori di sciopero e di rinvilitori di salario; e anzi, per dir tutto in poche parole, sono come il contingente principale, e il più tenace ed irresistibile, del grande esercito della riserva.

Quando io ebbi l’onore di ricevere da lei la Circolare in data 24 febbraio p. p. diretta a promuovere l’istituzione di un Segretariato internazionale del lavoro, che avesse poi ufficio di combattere la “concorrenza sleale”, mosso dal desiderio di rispondere senza indugio, scrissi a un dipresso quel che segue:

«Se la proposta, per quel che riguarda l’Italia, mira ad ottenere, che ai compagni stranieri e agl’inglesi in ispecie sia dato il modo di ricevere, a conforto e a chiarimento della loro azione anticapitalistica, delle ordinarie ed esatte informazioni sull’emigrazione italiana, che è tanto turbatrice nei suoi effetti, la cosa è senza dubbio di assai facile esecuzione. Basterà valersi a tale intento speciale delle pubblicazioni del nostro Ufficio centrale di statistica, che occupano, come tutti sanno, uno dei primi posti fra le raccolte di cotal genere. E se occorresse di andare più a fondo, basterà fare delle ricerche nei documenti parlamentari riferibili a leggi sull’emigrazione, o soltanto proposte, o effettivamente recate in atto, ovvero nel Bollettino Consolare, o nei rapporti alla Società Geografica di Roma, e poi nei libri ed opuscoli che l’Italia produce in copia da che s’è messa a gareggiare con la Germania nella fabbrica della carta stampata. La più parte di coteste notizie si trova del resto riferita, in forma anche più semplice e più riassuntiva in molti libri stranieri, fino alle Geographische Mittheilungen del Petermann, e allo Staatswissenschaftliches Wörterbuch del Conrad. Ma chiunque faccia la raccolta e la cernita delle notizie, se pure non ha voglia di perdersi in vane e grottesche geremiadi, espresso che abbia il proprio rincrescimento, bisognerà che si fermi poi lì e si rassegni.

«Se la domanda è invece rivolta a conseguire un intento pratico; nel senso, che una forte organizzazione operaia di carattere nazionale eserciti una effettiva ed efficace pressione sulla “concorrenza sleale”, allora sì che la proposta è affatto vana e l’intero disegno si fonda sopra un’idea illusoria.

«Nella presente condizione d’Italia non si tratta già di una semplice e passeggiera crisi del lavoro, né di mettersi alla facile scoverta di una banda di speculatori e di sensali. Questi, a dirla di passaggio, non mancano; ma sono la conseguenza semplice e naturale della situazione generale delle cose. Il caso è più grave. Sono le forze elementari della miseria e della disperazione che si sprigionano furiose, mentre si entra in uno stadio di relativa soprapopolazione (i ripetitori nostrani delle dottrine del reverendo Malthus traducono ben volentieri in “assoluta” l’espressione di “relativa”) e nell’atto che la grande produzione industriale e capitalistica attraversa il momento critico della sua prima e faticosa formazione. Si tratta qui del fatto naturale della popolazione, che come semplice massa si espande all’esterno e si sposta all’interno, in un periodo di proletarizzazione acuta ed intensiva di un gran numero di artigiani e di contadini. A peggiorare cotesta situazione contribuirono non poco, e la vendita dei beni monastici, e l’indebolimento dell’assistenza dei poveri da parte della Chiesa, che è tale da rasentare la completa abolizione: misure coteste alle quali non dà compenso la così detta amministrazione civile dei comuni, che è misera di spirito, partigiana e corrotta da ogni maniera d’intrighi, di fiscalità e di prepotenze. Ove si guardi inoltre alla costosa politica, ricercatrice di cose vane nelle alleanze e nelle imprese coloniali, col militarismo forzato che ne segue, e ove non si ometta di notare che la grande industria, nata dapprima in Italia dall’impiego del capitale straniero, non si regge senza l’aiuto diretto o indiretto del Governo; ed ecco il quadro della miserevole condizione presente degli operai italiani si fa chiaro e completo.

«Queste condizioni di fatto, che io l’anno scorso avevo cominciato ad illustrare nel “Socialdemokrat”, i socialisti italiani possono di certo studiarle, per renderle evidenti agli occhi del pubblico in generale e degli operai in ispecie. Ma essi non hanno alcun mezzo in poter loro per portarvi rimedio, per non dire che l’idea della “concorrenza sleale” non troverebbe la via per giungere fino all’anima ed alla mente della gran massa dei proletari».

Questi pensieri io avevo messo in carta per rispondere senza ritardo, guidato dal sentimento, che verso la intelligente e coraggiosa figlia di Carlo Marx io non potrei tenere altro modo di cortesia, da quello in fuori di dire apertamente tutta intera la verità. Ma poi mi parve opportuno di ripensarci; e, come dissi al nostro Engels, rimisi la risposta a tempo più lontano.

La Circolare era di fatti rivolta ai rappresentanti delle Unioni di operai, e in cotal veste io non potevo né posso comparire dinanzi a lei. Ho soltanto facoltà di dirle la mia individuale opinione, così com’essa si è formata spontaneamente in me, per effetto di studio e di osservazione, qual frutto di esperimenti e di delusioni. La “Frankfurter Zeitung” era interamente nel vero affermando di recente, e certo non per farmi torto, che tutti i miei sforzi per concorrere alla formazione di un partito operaio italiano fossero finora falliti. Cotesti tentativi, da chiunque vengano, falliscono non solo per le persecuzioni poliziesche, ma perché urtano nella presente condizione antagonistica degli interessi degli operai, i quali interessi non sono ancora agguagliati dalla uniforme pressione del capitalismo. Né la massa dei lavoratori ha in sé gli elementi di cultura che occorrono per afferrare il nesso ed il senso dell’attuale vita economica.

A misura che l’esercito di riserva col nome di disoccupati aumenta di numero, e la proletarizzazione così in città come in campagna cresce d’intensità, una parte non piccola degli artigiani, ignari della mala sorte che a tutti sovrasta, si butta ai ripieghi illusori e ciarlataneschi delle società di mutuo soccorso e delle così dette cooperative. Su cotesta disposizione degli animi speculano e ciurmadori politici d’ogni specie e tribuni improvvisati: e se pure si dà il caso che la delusione sull’opera di questo o di quello fra i santi protettori del momento porti a delle frequenti crisi sul mercato demagogico, pei nuovi entrati nella giostra c’è però sempre posto per ricominciare il giuoco. Non è raro il caso che delle persone venute in fama come tenere della sorte degli operai, esercitino poi, o di nascosto o palesemente, il mestiere di sensali di lavoro o di emigrazione. La destinazione cambia ed ora il campo favorito è la repubblica brasiliana di recente conio, dove fiorisce l’industria della schiavitù del salariato. Quanto prima saranno abolite per legge alcune delle cautele di cui l’emigrazione è ancora circondata.

Non è dunque da far le meraviglie, se la formazione del partito operaio rimane un pio desiderio. Mentre i capitalisti e il Governo, che di quelli è il naturale alleato, dispongono di tutti i mezzi atti a fornire completa orientazione sullo stato delle cose all’interno e all’estero, gli sforzi degli operai più avanzati urtano in infinite difficoltà procedenti da interessi, o locali, o di consorteria. Tutto ciò toglie alle tendenze socialistiche quella unità e coerenza di moto e di azione, che solo possono per via d’esperienza portar poi poco per volta alla formazione di un partito. Soli i compositori tipografi sono riusciti finora a formare una unione quasi nazionale.

Migliori condizioni maturerà col tempo il corso naturale delle cose: se pure l’Italia non è destinata a sparire dal numero delle nazioni capaci di rappresentare la storia e il progresso. Ma a maturarle non influiranno di certo le presenti contese fra i “legalitari” e gli “antilegalitari”. Lungi assai dalla vita della gran massa del popolo, la cui disposizione d’animo è, o apatica, o rivoluzionaria, si agita cotesta disputa sul prendere o sul non prender parte alle elezioni. La vita del popolo italiano guardata nell’insieme si svolge ancora come nell’ambito della storia antica, quando tutto era mosso da motivi pratici, ma istintivi e intuitivi, e perciò non mai riducibili a idee generali e sistemi.

La Circolare, alla quale io rispondo così tardi, appena giunta in Italia fu pubblicata dal Turati nella “Critica Sociale” di Milano. Il Turali sentì il bisogno di aggiungervi alcune malinconiche postille; e disse, che mancando una organizzazione operaia a cui far capo, e finché non s’adunasse un congresso all’intento di unire le forze socialistiche d’Italia, a lui era dato soltanto di esprimere una opinione affatto personale. E l’opinione che manifestò fu davvero pessimistica. Poco dopo toccò a me di fare un ingrato esperimento.

A richiesta del Lafargue mi misi alla ricerca dei mezzi atti a spingere i lavoranti dei porti della Liguria a una manifestazione di solidarietà coi compagni di Marsiglia, ove i tentativi per rialzare il salario falliscono per la minacciata o effettiva concorrenza dei Genovesi. Alla prova del fatto si vide non esservi in Italia associazioni di tale vitalità da assumersi un simile lavoro.

Per tre mesi poi si trascinò furiosamente per tutta l’Italia la crisi dei disoccupati, che per ragioni per se stesse evidenti, periodicamente si acutizza tra il febbraio e il maggio. Non mancarono, come al solito, i comizi e i tumulti, né mancarono i protettori, gli adulatori e i tribuni del popolo vogliosi di farsi merito con danari spesi in elemosina, o col promettere e col dare, la qual cosa è più comoda, i lavori del Comune e dello Stato. Ma cotesta, starei per dire, propaganda intuitiva della miseria che disperatamente lotta, a mia grande delusione non esercitò una notevole influenza sulla gran massa dei lavoratori. M’ero mescolato a quel moto, non già per risolvere la “questione sociale”, frase cotesta da piccoli e presuntuosi borghesi, ma per trarre partito dalla crisi dei disoccupati come da mezzo popolare di educazione e come avviamento ad approfondire il senso della manifestazione del 1° maggio. Ma la più parte degli artigiani di città, per tacere affatto dei contadini, non arriva ancora al vero midollo della questione. Questi artigiani non vedono nella disoccupazione se non un semplice fatto fortuito, e così poco scaltriti dalla scuola e dall’esperienza com’essi sono, se ne rimangono rannicchiati nella cerchia d’idee che fu propria dei piccoli borghesi del secolo XVII. Su tutte queste cose ella può chiedere maggiori informazioni all’Engels, che dell’Italia ne sa quanto me.

A farla breve, ai primi d’agosto ebbe luogo a Milano, non il Congresso socialistico ideato già un pezzo innanzi da alcuni deputati, ma una conferenza di rappresentanti di operai: cosa cotesta di certo più utile e più pratica. In quell’assemblea, che è la settima di cotal genere, e non la prima, come scrisse il Vorwärts, furono discusse molte buone idee, furono adottate delle misure per favorire la propaganda, ed oltre alla nomina dei delegati al Congresso di Bruxelles fu anche istituita una commissione, che preparerà il programma del partito operaio italiano. Tocca ora a quella commissione di curare la corrispondenza cui riferivasi la sua circolare del febbraio scorso.

Io non sono in grado di esprimere una opinione, né da pessimista, né da ottimista, su gli effetti della conferenza di Milano, alla cui riuscita ha tanto contribuito il Turati. Questo mio riserbo m’impedisce di prevedere che cosa accadrà della ideata creazione di un organo centrale del partito, e se si riuscirà mai a metter termine alle lotte fra legalitari ed antilegalitari mediante la partecipazione energica degli operai alla vita politica. Ma per quel che concerne la creazione del Segretariato internazionale del lavoro, io devo francamente affermare che la commissione istituita a Milano cadrebbe in un grossolano errore se volesse solo d’un poco superare la misura di quel che si conviene di fare, per raccogliere metodicamente e per comunicare opportunamente dei dati statistici. Senza giornali, senza organizzazione di partito nelle singole provincie, senza disciplina di sciopero e di resistenza, senza casse di soccorso e in tanto difetto di sentimento universale di classe, sarebbe cosa del tutto assurda il credere, che una commissione residente a Milano trovi modo di fare intendere il concetto della “concorrenza sleale” all’infinito numero di analfabeti, i quali, vadano essi a piedi, o viaggino per terra e per mare, emigran sempre dai vari cantoni d’Italia sotto il cieco impulso della conservazione, come uomini allo stato di natura.

Qualcosa di simigliante a quel che le scrivo si leggeva che è poco in alcuni giornali operai, e segnatamente in una lettera che un socialista anonimo diresse alla “Giustizia” di Reggio Emilia; se non che la cosa era presa di traverso. Si è sentito per es. a dire, che gli operai stranieri danno prova di egoismo di fronte agli operai italiani di tanto più poveri di loro, e si è sentita a lamentare la mancanza di spirito di fratellanza ed altre cose simili. In Italia si vede assai spesso che la filosofia popolare ama di civettare con la volgare fraseologia del pedestre Bentham e dell’uggioso Spencer. Coteste son frasi vuote, di sicuro, ma pure di dietro alla frase spunta una verità assai semplice: la casa non si comincia dal tetto!

I sentimenti e le idee d’internazionalità, che hanno tanta evidenza per noi, si trovano a troppa distanza dal cervello della parte più povera del proletariato italiano, e la schiera non certo numerosa dei socialisti d’Italia non ha mezzi sufficienti per gettare un ponte, su cotesto abisso. D’altra parte è pur nostro dovere di salvare quei sentimenti e quelle idee da ogni amalgama che le alteri, da ogni volgarizzazione che le corrompa.

Con la maggiore stima mi segno devotissimo suo

Antonio Labriola.