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COMUNISMO
n. 83 - dicembre 2017 - Anno XXXIX
Dove s’infrangerà l’iperbole del Capitale
Il PCd’I e la guerra civile in Italia negli anni del primo dopoguerra (continua dal numero scorso): 2. Il tradimento socialista - Il "Patto di Pacificazione" - Contro il blocco di tutte le forze borghesi
Il marxismo e la questione militare [Indice del lavoro] [RG125-126] - Parte quarta: La Prima Guerra mondiale: V. La campagna austro-serba (1. Gli Imperi in urto nei Balcani; 2. La prima campagna; 3. La seconda campagna, settembre 1914; 4. La terza campagna, ottobre-dicembre 1914; 5. Bilancio della guerra in Serbia) - VI. I complessi sviluppi sul fronte orientale (1. Geografia e infrastrutture; 2. Gli opposti piani strategici; 3. Russi respinti dalla Prussia Orientale; 4. Sui Laghi Masuri; 5. Contro l’Austria; 6. La guerra sui mari; 7. Il 1917: crisi, ammutinamenti, diserzioni)
La successione dei modi di produzione nella teoria marxista (continua dal numero scorso) - Parte terza: La forma di produzione secondaria, variante antico-classica, Roma - La potenza dello Stato - La sottomissione di classe come diritto - I germi del feudalesimo - La poetica del materialismo
La classe operaia e il nazionalismo irlandese (continua dal numero scorso) - Parte terza, Lo sciopero di Belfast del 1907: 1. Collegamento; 2. La National Union of Dock Labourers; 3. Ancora la sirena parlamentare; 4. I portuali di Belfast; 5. Lo sciopero del 1907; 6. Ammutinamento di poliziotti; 7. Le lezioni dello sciopero; 8. L’espansione fuori Belfast; 9. La frattura nella National Union of Dock Labourers
Dall’Archivio della Sinistra:
    James Connolly:
    - Appello per l’unità socialista in Irlanda, Forward, 27 maggio 1911
    - Irlanda, Karl Marx e William, Forward, 10 giugno 1911: Lor Charlemont, un democratico - La storia del Nero Ulster - Karl Marx sul socialismo e l’Irlanda - Walker e il Re
    Lenin:
    - I liberali inglesi e l’Irlanda, Put Pravdy, n.34, 12 marzo 1914

 

 

 

 

 


Dove s’infrangerà l’iperbole del Capitale

La fase terminale del capitalismo, dopo aver ingorgato il mondo con merci e capitali, si caratterizza con lo sviluppo abnorme, rispetto alle esigenze della produzione di merci, della pura speculazione finanziaria, che fa aggio sulla circolazione. Il processo storico di smaterializzazione della moneta, che è partito dalla carta come segno aureo ed è approdato alla moneta scritturale bancaria non convertibile, nell’iridescente mondo della finanza fa che le quotazioni dei segni di valore salgano o scendano in relazione ad eventi che più nulla hanno a che fare con la realtà di produzione e commerci. Ma questa moneta, che si estrinseca nelle diverse aree statali come divisa nazionale, soggetta alla dinamica dei cambi, è anche soggetta alle “regole” di un particolare mercato speculativo, e tuttavia è ancora effettiva moneta in senso proprio; è la moneta capitalistica per eccellenza.

La nostra teoria ha previsto questo processo, il mutamento della sua forma esteriore non ha per nulla rappresentato una rottura con la nostra analisi marxista.

«Con lo sviluppo del capitale produttivo di interesse e del sistema creditizio ogni capitale sembra raddoppiarsi e in alcuni casi triplicarsi a causa dei diversi modi in cui lo stesso capitale o anche soltanto lo stesso titolo di credito appare in forme diverse in mani diverse. La maggior parte di questo “capitale monetario” è puramente fittizio. Ad eccezione del fondo di riserva, tutti i depositi non sono altro che crediti sul banchiere, che non si trovano però mai in deposito. In quanto essi servono alle transazioni di compensazione, hanno la funzione di capitale per i banchieri, dopo che questi li hanno dati in prestito. I banchieri si pagano reciprocamente i rispettivi assegni su depositi che non esistono, mediante cancellazione reciproca di questi crediti (...) Nel sistema creditizio (...) tutto si raddoppia e si triplica trasformandosi in una pura chimera» (“Il Capitale”, Libro III, sez. V, cap. XXIX).

La storia dal capitalismo si caratterizza, proprio per questa natura “fittizia” dell’equivalente generale, come vicenda di crisi reali e di “bolle”, cioè crescite spropositate ed anomale dei prezzi di particolari classi di prodotti, che sono poi seguite da crolli altrettanto subitanei e drammatici. Col solo risultato di spostare da una parte ad un’altra enormi masse di denaro, senza che questo induca alcuna effettiva crescita del processo produttivo, della sua trasformazione Merce-Denaro.

Nella fase della crisi questa dinamica caratterizza il rallentamento, fino al blocco, della circolazione: «Non appena subentra un ristagno provocato dai ritardi dei riflussi, da saturazione dei mercati, da caduta dei prezzi, la sovrabbondanza di capitale industriale persiste sempre ma in forma che non gli permette di adempiere alla sua funzione. Una massa di capitale-merce, ma invendibile. Una massa di capitale fisso, ma in gran parte inattivo a causa del ristagno della produzione. Il credito si contrae: 1) perché questo capitale è inattivo, ossia ristagna in una delle fasi della sua riproduzione, perché non può compiere la sua metamorfosi; 2) perché è infranta la fiducia nella fluidità del processo di riproduzione; 3) perché diminuisce la domanda di credito commerciale» (cap. XXX).

Il percorso della bolla è diverso, anche se può indurre, e spesso induce, un processo di crisi, che però sia già latente; per questo motivo non abbiamo mai assunto la bolla speculativa a causa prima della crisi capitalistica – crisi nel nostro senso, ovviamente, di sovrapproduzione.

Di “bolle da speculazione” è piena la storia del capitalismo. Nel secolo scorso gli esempi drammatici e dirompenti abbondano; ogni volta il sistema capitalistico ha potuto ricominciare il suo demente andare, anche se sempre con maggior fatica, e conseguenze sempre più gravi. Non possiamo qui farne l’elenco, basti rammentare quella che da tempo si dichiara terminata, la lunga crisi degli otto anni, la più lunga di tutte, esempio solare di crisi scatenata da una bolla finanziaria.

È una miserabile illusione piccolo borghese quella che presume la crisi finanziaria, e di conseguenza la probabile crisi produttiva, come un effetto della cattiva gestione dei meccanismi capitalistici e finanziari da parte di governanti incapaci, o venduti ai “poteri forti”, banchieri senza scrupoli, avidi rentiers in cerca di facile e subitaneo arricchimento. Non esiste capitalismo perfetto, non esiste finanza etica e responsabile del bene pubblico. Chi se la sogna sta comunque nel campo, anti-umano, del capitalismo putrescente.

La finanza, che con facile critica si definisce “speculativa”, ha da sempre inventato nuovi strumenti opachi e ingannevoli per muovere il capitale fittizio, una massa oggi immane manovrata dagli specialisti della frode, del “subito guadagno”. Tutto questo moltiplica in un gioco di specchi la dimensione virtuale dei valori. Oggi è sostenuta ed innervata da una vertiginosa tecnologia che, usata a fini cotanto meschini, permette di tracciare e consolidare qualunque tipo di contratto, totalmente impenetrabile ad ogni criterio di controllo e disciplina “legale”. Anzi, legislazioni ad hoc e strumenti di controllo addomesticati facilitano il meccanismo truffaldino.

Non basta, è ora il tempo delle “criptovalute”, fascino lascivo di smaterializzazione di una borghesia sopravvissuta ai suoi fasti. Sarebbero al di sopra di ogni disciplina istituzionale e statale, manovrate da entità sconosciute e blindate ad ogni indagine. La cosa in sé non ci scandalizza minimamente. Il precipizio a cui si approssima la “finanza moderna” è iscritto nella storia e nel suo procedere demente, e non ci poniamo criteri etici o morali nel giudicare tanta “novità”. La registriamo freddamente per misurare il grado di dissoluzione ed impotenza cui giunge il declino del modo di produzione capitalistico. È il capitalismo trascinato tutto in una iperbole senza fine e misura, che nel “bitcoin” solo si rispecchia. Un’iperbole che può infrangersi, e ripartire, solo nella discontinuità della guerra mondiale, che venga ad azzerare tutti i debiti e i conti in rosso. Un fallimento generale del capitalismo, ma anche una sua mostruosa infernale rigenerazione.

Non stiamo a chiederci se quella del “bitcoin” e congerie sia veramente “valuta”, adatto alle specifiche funzioni di ciò che viene genericamente chiamato denaro; curioso pagare con qualcosa che nessuno “garantisce”. O solo marketing per venderti l’improponibile, strumenti per spingere oltre il movimento speculativo. Inutilmente gli economisti borghesi invitano alla ragionevolezza gli incauti investitori attirati come mosche dal miele. La speranza nei Tulipani non muore mai: sarà una nuova bolla fatta artatamente crescere per raccogliere “risparmi” che finiranno, allo stringere, nei conti di anonimi grandi speculatori.

E l’appetito vien mangiando: non ne bastava l’emissione, in questi giorni c’è stata anche l’ammissione del “bitcoin” al mercato dei “futures”, si può cioè scommettere sull’andamento dei prezzi della “criptovaluta”. Follia finanziaria al quadrato.

Naturalmente nulla ci interessa delle sorti di questa “novità”, né chi rimarrà prima o poi fregato da questo ennesimo colossale imbroglio. Ci limitiamo a notare che dopo quasi dieci anni di ininterrotta crisi capitalistica nuovi detonatori sono innescati, alla faccia del minimo di raziocinio e prudenza invocati dai cosiddetti esperti ai governi ed alle autorità monetarie.

Ma queste sono virtù tutt’affatto ignote al capitalismo, che continua imperterrito a scavare la sua fossa

 

 

 

 

 

 


Il PCd’I e la guerra civile in Italia negli anni del primo dopoguerra
Esposto nella riunione a Torino nel settembre 2015

(continua dal numero scorso)
 
2. Il tradimento socialista

Nel precedente rapporto abbiamo messo in evidenza come il partito socialista, mentre dichiarava di voler organizzare il proletariato in vista della presa del potere, di fatto impediva e sabotava l’organizzazione armata di una classe lavoratrice decisa a farla finita con il dominio capitalista.

In un rapporto redatto da un capo fascista dell’Emilia (1920) si legge, a proposito del partito socialista: «Al Partito socialista mancano i mezzi, lo spirito e il senso di responsabilità, per dare mano alla formazione di quadri militari, ufficiali e sottufficiali, che affiatati, coordinati, collegati con comunicazioni sicure e sufficienti possa poi al momento opportuno inquadrare le masse volonterose a farle agire in uno sforzo concorde e razionale. Esistono elementi operai capaci di gettarsi in rivolta e conflitto, ma il metodo e il tempo avranno ragione di loro» (Riportato dall’ Ordine Nuovo del 17 agosto 1922).

I nostri nemici di classe avevano chiaro il fatto che l’inettitudine del partito socialista avrebbe impedito la riscossa delle masse proletarie e bloccata l’azione anche degli elementi più capaci e pronti a gettarsi nella lotta.

Ma il suo vero volto, il PSI, lo mostrerà dopo che con il congresso di Livorno il partito comunista gli avrà strappato la maschera pseudo-rivoluzionaria dietro la quale si nascondeva; ed a quel punto apparirà chiaro, e confesso, il suo ruolo controrivoluzionario.

Anna Kuliscioff, con grande lucidità, aveva previsto che a Livorno si sarebbe determinata “la concentrazione Turati-Serrati” poiché il direttore dell’Avanti! aveva ripudiato il comunismo, la dittatura del proletariato, il sovietismo, in favore del vecchio socialismo e, scrivendo a Turati, affermava: «Giacché non siete voi a ripiegare, ma è il propagatore massimo del sovietismo che ripiega evidentemente verso di voi, senza rilevare e insistere su questa incongruenza, è meglio accettare il fatto» (Lettera del 13 novembre 1920).

Ma veniamo a noi. Riguardo al fascismo il nostro partito scriveva: «Con una crescente offensiva sempre più intensa si è, in Italia, sviluppata la reazione borghese. La borghesia ha armato le sue guardie bianche e con l’aiuto e la solidarietà del potere statale, ha iniziato una violenta azione contro il movimento proletario. Di fronte a questi fatti, il partito socialista ha completamente rinnegato la sua funzione di partito rivoluzionario. Invece di far comprendere al proletariato che questo periodo di violenza borghese e di guerra civile non è che una fase inevitabile della lotta di classe, che è assolutamente necessario prepararsi ad opporre la violenza rivoluzionaria del proletariato alla violenza reazionaria della borghesia e che il proletariato deve vincere con le armi alla mano il suo avversario se non vuole restare nell’attuale condizione di schiavitù; il partito socialista al contrario, di fronte ai suoi nemici, ha ripiegato completamente. Ha continuamente cercato di disarmare spiritualmente e materialmente il proletariato, ha negato la sua solidarietà ai violenti ritorni offensivi delle masse guidate dai comunisti, ha invocato la tregua, la pace civile, l’evoluzione pacifica della crisi sociale. Ecco il partito che vorrebbe rientrare nell’Internazionale Comunista» (Bulletin de renseignements pour les camarades étrangers, febbraio-maggio 1921).

Infatti, in risposta alla violenza fascista scatenata contro il proletariato e le sue organizzazioni il partito socialista emanava aberranti comunicati tipo quello lanciato da Turati:     «Non raccogliete le provocazioni, non fornite loro pretesti, non rispondete alle ingiurie. Siate buoni, siate pazienti, siate santi. Lo foste già per millenni, siatelo ancora. Tollerate! Compatite. Perdonate anche. Quanto meno mediterete vendetta, tanto più sarete vendicati. E coloro che scatenano sopra di voi l’obbrobrio del terrore, tremeranno dell’opera propria».

Ma Turati non era il solo ad avere abbracciato la predicazione evangelica, era l’intero partito a far propri gli insegnamenti del Nazareno. «I nostri compagni evitino qualunque provocazione e siano fermi a difendere, con i metodi che sono propri della civiltà socialista, il patrimonio ideale e materiale del nostro partito. Se i compagni si comporteranno in tal modo, l’azione fascista sarà presto infranta dal senso universale di disgusto che spontaneamente si solleverà contro di essa» (Avanti!, 17 febbraio 1921).

Il 4 marzo è ancora l’Avanti! che chiama il proletariato alla resa senza condizioni e se la prende con quei compagni che «di fronte all’incendio delle case del popolo, delle redazioni dei giornali, delle camere del lavoro [...] rispondono [...] con incendi di cantieri e di ville».

L’organo del PSI ammoniva quindi, non i nemici della classe proletaria, ma i lavoratori stessi che «violenza chiama violenza, sangue chiama sangue».

Rivolto poi al grande capitale si dichiarava unico garante della legalità borghese: «La Direzione [del PSI, n.d.r.] esige la disciplina di tutte le organizzazioni e di tutti gli organizzati a questo appello [...] Ma gli altri? Pensi la borghesia bancaria, industriale, terriera alla tremenda responsabilità che si assume, se supporrà che l’appello socialista sia ispirato a men che legittimi interessi, a men che alto senso di dignità di partito e di uomini, e se perciò volesse continuare la lotta sopra un terreno di sangue e di distruzione».

Si potrebbe credere che l’atteggiamento cristiano-pacifista espresso dal PSI fosse dettato da vigliaccheria, dal tentativo di evitare le persecuzioni fasciste, di salvare la pelle mostrandosi docili ed arrendevoli. Era questa infatti l’accusa lanciatagli da parte della borghesia, democratica e fascista, cioè di essere diventati agnellini soltanto da quando le prendevano. Evidentemente non è escluso che non vi fosse anche un tale atteggiamento da parte di alcuni dirigenti politici e sindacali, individualmente presi. Però le guerre civili non possono essere ridotte al temperamento, audace o vile, dei personaggi che si trovano ad esserne attori, o vittime, ma dal cozzo violento delle classi in lotta.

Per dimostrare la natura forcaiola della socialdemocrazia riproduciamo alcuni stralci di un intervento parlamentare proprio di quel deputato socialista che sempre e fieramente si era opposto al dilagare della violenza fascista, e che pagò con la vita stessa. Ma eroismo personale hanno ben poco valore nello scontro tra le classi, e soprattutto quando queste doti sono messe al servizio della conservazione borghese, ossia a scopo assolutamente controrivoluzionario, parallelo al programma fascista. I due programmi, socialdemocratico e fascista, differivano sui mezzi, non sul fine: la pace sociale e la conservazione degli istituti borghesi.

Il parlamentare a cui ci riferiamo è, naturalmente, Giacomo Matteotti. Nel suo intervento del 31 gennaio 1921 alla Camera (si noti che la scissione di Livorno era avvenuta solo 10 giorni prima) affermava:

«Ammetto senz’altro che in ogni partito, che in ogni massa, da ogni parte vi possano essere dei delinquenti, dei male intenzionati, dei violenti [...] Noi, che siamo un partito di massa, e di organizzazione, neppure rinneghiamo alcuno degli errori della massa. Siamo anzi pronti a riconoscere che qualche volta possa essere avvenuto che la teorizzazione della violenza rivoluzionaria, che mira a sopprimere lo Stato borghese, e a sostituirlo con lo Stato socialista, possa avere indotto alcuni nell’errore di azioni episodiche di violenza; ma altrettanto prontamente rivendichiamo al nostro partito il diritto di essere direttamente responsabile solo per ciò che esso vuole, e ordina alle sue organizzazioni. Nessun ordine da parte nostra è partito di esercitare atti episodici di violenza, perché noi tutti sappiamo che questi (e ciò è stato ripetuto infinite volte nelle nostre assise di partito, e nei nostri manifesti) non servono alla causa del socialismo, ma la danneggiano, come pure la causa del socialismo rivoluzionario, che vuole instaurare la immediata conquista del potere da parte del proletariato. Non solo, ma anche tutti i nostri giornali, e i manifesti delle nostre sezioni, Giunte, amministrazioni comunali, e Camere del lavoro, pubblicati ovunque si sono verificati questi casi, suonano quasi tutti allo stesso modo: “bisogna ritornare alla vita civile; la lotta di classe deve riprendersi sul terreno civile; gli episodi di violenza sono condannevoli perché non servono alla causa del socialismo”».

Poi, a dimostrazione della buona fede del suo partito, Matteotti cita addirittura la stampa borghese: «I vostri giornali, il vostro Corriere della Sera, or ora, a proposito del Congresso di Livorno, scriveva queste parole: “Il socialismo che ha trionfato a Livorno si caratterizza nel ripudio della violenza come atto quotidiano di lotta, e come forza operante delle organizzazioni”».

Matteotti affermava quindi che da parte del partito socialista mai vi erano state istigazioni alla lotta rivoluzionaria o alla rappresaglia in risposta agli attacchi ricevuti, ma aveva perfino escluso la difesa fisica nei momenti delle aggressioni. «Voi pretendete far assumere al socialismo la responsabilità degli atti che alcuni perversi, non socialisti, hanno potuto compiere [...] Il lavoratore che ha vista incendiata la Camera del lavoro, cioè la casa che egli possiede in parte, che ha costruito in parte, pensate voi che possa, nella sua ignoranza e nella sua primitività, non coltivare un pensiero di vendetta verso la casa dei signori che hanno ordinato freddamente la distruzione della sua? Pensate voi che i lavoratori più umili e più ignoranti e per questo più rozzi, che sentono la conseguenza del sentimento represso, violato, pensate voi che non possano coltivare sentimenti di vendetta?».

Passando poi a parlare dei patti agrari che, denunciati e non rispettati dai padroni, portavano la manodopera agricola, non in senso figurato ma materialmente, alla fame, Matteotti ammette che c’erano state reazioni esagerate da parte dei braccianti: «Possono benissimo essere avvenuti degli abusi [da parte di una categoria di lavoratori] ancora purtroppo incolta».

Delinquenti, male intenzionati, perversi, violenti, ignoranti, primitivi, rozzi, incolti; questi sono gli amorevoli appellativi con i quali, in queste poche righe, Matteotti, il socialista democratico, il non violento, il pacifista, si riferisce a quei proletari che virilmente si erano difesi, avevano affrontato e pure rintuzzato la violenza reazionaria della borghesia.

Le parole di Matteotti, il martire della democrazia (non certo del socialismo!), erano in perfetta sintonia con quelle, nientemeno, di papa Benedetto XV: «Sanno bene i proletari quale speciale affetto Noi nutriamo per loro perché più somiglianti all’immagine di Gesù Cristo, [però] diciamo ai proletari: state in guardia per la vostra Fede, la quale pericola quando eccedono le vostre pretensioni. Qui sta appunto l’insidia degli avversari, di far chiedere troppo [...] e quando non si ottenga quel che si brama si incita il popolo a defezione. È necessario dunque astenersi dalle intemperanze; ed intemperanza certo vi ha sempre quando si usa la forza o si insinua l’odio di classe, o si disconoscono le varie disuguaglianze sociali volute da natura pur nella stessa uguaglianza e fraternità umana, e quando infine si fa consistere tutta la finalità della vita nella conquista dei beni terreni [...] Restino dunque fedeli alla Chiesa i proletarii, quantunque sembri dar meno degli avversarii [...] e si ricordino che essa, come abbiam detto, ha una predilezione per i poveri; ed anche nei casi in cui le tocchi prendere le difese dei ricchi, non li difende in quanto ricchi, ma in quanto ingiustamente aggrediti» (Civiltà Cattolica, 25 giugno 1920).

Benedetto, volendo, avrebbe potuto richiedere la tessera del PSI, ed i socialisti quella dell’Azione Cattolica. Ma a favore del papa c’è da dire che lui, a differenza di Matteotti, non si indirizzava ai proletari trattandoli da “perversi, delinquenti, male intenzionati, violenti, ignoranti, primitivi, rozzi, incolti”.

Visto che gli operai erano ignoranti e bruti, Matteotti si rivolgeva «alla parte più intelligente della classe borghese» avvertendola «che l’esasperazione è al colmo [... e] anche la nostra autorità sulle masse ha dei limiti, al di là dei quali non può andare». E per dare una idea della situazione riferiva: «Noi abbiamo lasciato pochi giorni fa quei paesi dopo aver riunite le nostre organizzazioni, dopo essere andati anche di notte, per sottrarci alla vigilanza delle vostre spie, onorevole Corradini, in mezzo alle organizzazioni. Noi abbiamo detto loro: state calmi; non rispondete alle violenze. Lo abbiamo ripetuto in tutti i toni. Ci siamo fatti offendere a sangue dai nostri lavoratori. Abbiamo avuto accuse di viltà. Accuse che ci hanno offeso più che non quella della vostra stupida stampa. Ci hanno detto vigliacchi [...] Ma nonostante tutto, abbiamo detto: non bisogna reagire. E ci siamo imposti, anche con la violenza, ai nostri compagni. Abbiamo preso per le spalle qualcuno dei più violenti e dei più pronti alla rappresaglia e abbiamo detto: se qualcuno di voi si abbandona alla rappresaglia, sarà allontanato dalle organizzazioni».

Dunque, mentre si predicava la sopportazione passiva di fronte alle bastonature, agli incendi, agli assassinii dei fascisti, non si esitava però ad adoperare “anche la violenza” e l’espulsione dalle organizzazioni operaie di quei proletari che, giustamente, trattavano i socialdemocratici da vigliacchi e traditori.

Nella Inchiesta socialista sulle gesta dei fascisti in Italia (Libreria editrice Avanti!, 1922) dopo avere documentato tutta la brutalità delle squadre fasciste, Matteotti scriveva: «In un’ultima riunione quasi clandestina degli amministratori degli enti locali e dei dirigenti le organizzazioni dei contadini, io predico ancora una volta di non insorgere, di non resistere, di lasciarsi battere, per la civiltà».

Il 10 marzo 1921 Matteotti presentava una interrogazione parlamentare al fine di conoscere «quali siano i provvedimenti che il governo e le autorità hanno dato o intendano dare per impedire che nella classe lavoratrice s’ingeneri definitivamente questo pensiero: che solo con la violenta reazione essa può difendere la sua vita e la sua organizzazione». Dopo l’interrogazione, nel suo intervento Matteotti, con un lungo e dettagliato elenco, illustra ad uno ad uno gli omicidi ed i delitti commessi nel suo Polesine dalle squadre fasciste e conclude: «Notte per notte, giorno per giorno sono così incendi ed assassinii che si commettono [...] Qui si tratta di una organizzazione di brigantaggio. Non è più lotta politica; è barbarie; è medio-evo». E di fronte alle brutalità e delitti dei fascisti cosa risponde il socialdemocratico? «L’ordine della Camera del lavoro è di non fare nessuna provocazione. L’ordine è: restate nelle vostre case: non rispondete alle provocazioni. Anche il silenzio, anche la viltà sono talvolta eroici».

Dopo quasi un anno e mezzo di fascismo al governo, Matteotti ancora scriveva: «Quando i lavoratori tornarono dalla trincea, memori dei tormenti e delle promesse, e per le strade invidiarono i nuovi arricchiti, urlarono troppo, minacciarono troppo, esagerarono; fu necessaria la predica della misura, della moderazione, della calma». E, dimenticandosi quali risultati avevano prodotto le prediche socialdemocratiche «della misura, della moderazione, della calma», continuava: «Stolta è la lusinga di redimere il proletariato con la conquista violenta e con la dittatura dei pochi che presumono averne la investitura. Ma, appunto in correlazione a tale riconoscimento, che per noi è fondamento di vita civile, un’altra cosa oggi importa: il diritto delle minoranze all’esistenza e alla propaganda civile». Non si può certo accusare Matteotti di non essere chiaro: la borghesia deve riconoscere la funzione e l’opera della socialdemocrazia e quindi concedergli “il diritto all’esistenza ed alla propaganda”.

Poi, rivolto ai giovani, scriveva: «Tocca ai giovani rivendicarlo, con energia, con dignità, con fierezza, con sacrificio, con pericolo! Sacrificio inutile – diranno i prudenti – perché i dominatori hanno gli strumenti della forza, e gli oppressi sono inermi. Sacrificio utile – diciamo noi – perché tutte le grandi cause della civiltà hanno dovuto avere prima le loro vittime, i loro martiri, gli inutili eroi, che hanno aperto gli occhi e la strada agli altri» (La Libertà, 1 febbraio 1924). E sarà proprio lui l’inutile eroe della democrazia.

Chi, meglio del partito socialista, avrebbe potuto garantire la pace sociale?

Sfogliando le collezioni dell’Avanti! di citazioni di questo tenore se ne trovano a volontà e non è il caso di continuare. Solo un’ultima, per chiudere, tratta dal manifesto socialista per la campagna elettorale, che conferma la base programmatica di tanta viltà: la illusione socialdemocratica della validità e superiorità della via parlamentare e democratica al potere: «Se noi adoperiamo oggi il voto legale per rispondere all’illegalità dei partiti dell’ordine, ciò significa essere prossimo l’istante nel quale la legge saremo noi, noi tutori del nuovo ordine sociale, contro gli ultimi, imbelli conati di un’era morta e superata. Con le frecce non si spengono le stelle, con le bombe non si uccidono le idee» (Avanti!, 12 aprile 1921).

Ma quale violenza i socialisti, Turati in testa, rinnegavano? La violenza in generale o solo la violenza di classe? Scrivevamo noi su Il Comunista del 14 luglio 1921: «Prendiamo Turati, banditore [...] di quella parola d’ordine di passività. Ricordiamo il suo linguaggio quando la violenza delle armi dell’esercito austriaco dilagava sul territorio italiano, nell’ottobre del 1917, dopo la rotta di Caporetto. Diceva egli ai soldati italiani: non uccidete, gettate le armi, non usate violenza contro violenza? Egli diceva l’opposto; egli esaltava e santificava la resistenza armata e violenta delle truppe italiane sul Grappa. Quando noi avanzavamo la tesi rivoluzionaria della negazione della difesa nazionale, egli prestandoci per comodità polemica una motivazione “tolstoiana” (mentre noi partivamo dalle parole d’ordine: “le armi dei proletari non contro i proletari, ma contro il nemico di classe, contro il nemico interno”) definiva un simile criterio “idiota e nefando” [...] Il socialpacifista non lo dice, ma lo diremo noi. La distinzione riposa sulla considerazione della “funzione del potere statale costituito”. E la distinzione è semplicissima. Se la violenza è adoperata dal potere statale, per sua volontà, per sua disposizione, essa è legittima. Legittima, dunque, e santa, la difesa armata e sanguinosissima sul Grappa, poiché è lo Stato che la sanziona, la chiede, la organizza, la ordina. Ma illegittima la difensiva contro il fascismo, perché essa è iniziativa extrastatale, extralegale».

L’articolo “Proletariato e resistenza” a firma di Turati e Treves su Critica Sociale del 1° novembre 1917 riportava infatti: «Quando avviene che la nostra patria è invasa dal nemico, allora si sente come ciò è sensibilmente differente da tutto quello che si è pensato, sentito e sofferto per tutte le altre patrie offese, invase [...] Il socialismo [che] è dottrina realistica anche nel sentimento [...] tutto sé stesso protende al proletariato, gridando: aiuta! Aiuta! È l’ora suprema del dovere e del sacrificio! In fondo, niente altro si diceva nelle ore più calme e più fauste della vicenda di guerra, allorché la Direzione del Partito diceva ed ora conferma la sua direttiva: “Né aderire alla guerra, né sabotarla!” [...] In quest’ora men fausta di prova suprema il debito non fa che precisarsi ancora, per i soldati al fronte, per i cittadini nel Paese: stringere la compagine necessaria alla suprema resistenza, aiutandola con ogni disciplina, con ogni sacrifizio».

Tutto quanto il pur breve articolo continua su questo tono, ma a noi questo basta per affermare che il pacifismo socialista è tale soltanto quando si tratta di violenza proletaria a fini proletari e non quando si tratti della difesa dello Stato borghese. Nel qual caso il socialismo proclama giusto e sacrosanto l’uso della violenza, e non solo, giusto e sacrosanto il sacrificio del proletariato per la difesa della patria borghese. Una cosa però dobbiamo riconoscere a Treves-Turati; dicono una grande verità quando affermano che la loro sciovinista difesa della patria è perfettamente in linea con la ipocrita formula lazzariana, adottata dalla direzione del partito, del “né aderire, né sabotare”.

Se Turati, Matteotti e C. predicavano la capitolazione del proletariato di fronte alla violenza nemica, i massimalisti, da parte loro, si dissociavano da tutti gli atti di ribellione spontanea con i quali il proletariato rispondeva agli attacchi degli avversari. In polemica con Turati che li accusava di soffiare ossigeno rivoluzionario sul fuoco della lotta di classe, i massimalisti protestavano la loro innocenza dichiarando che mai avevano pensato alla rivoluzione e, tanto meno, mai si erano sognati di organizzare la classe operaia in vista dell’insurrezione armata: «Fu colpa del partito se gli eventi precedettero sempre l’opera nostra, incalzati vertiginosamente da tante impazienze? Se, quando noi appena progettavamo la socializzazione di una industria, gli operai occupavano le fabbriche? Se, mentre noi progettavamo la socializzazione della terra, coi metodi e le forme che sono del nostro partito, i contadini occupavano violentemente le terre? [...] Noi fummo tutti gradualisti [ma] il gradualismo fu vinto dalla realtà. La natura che non dovrebbe mai fare dei salti, ne ha fatto di prodigiosi e pazzeschi. La realtà ha smentito ogni costruzione ideologica, la predicazione pacifica è stata sommersa dalla pratica della violenza borghese» (Avanti!, 6 aprile 1921).

I massimalisti ammettono che il proletariato, malgrado tutti i tentativi del PSI di mantenere la pace sociale, si era autonomamente posto sul terreno della lotta di classe; ammettono che il loro programma, al pari di quello riformista, era totalmente fallito; ammettono che, a dispetto di tutti i loro sforzi pompieristici, esisteva una guerra civile. In poche parole ammettono di essere fuori della storia. E quale lezione ne traggono? Cosa propongono ancora alla classe operaia? «Noi possiamo, noi dobbiamo dire alle nostre masse che non bisogna accogliere le provocazioni e restare sulla difensiva [...] Per questo l’Avanti! si fa il merito di non aver incitato e di non incitare e propugnare una savia e oculata resistenza passiva, nulla concedendo, nulla chiedendo».

Si tenga presente che questi erano quegli stessi massimalisti che avevano in mille occasioni sproloquiato di lotta di classe, insurrezione armata, rivoluzione proletaria; quegli stessi che si dichiaravano rivoluzionari e ricorrevano all’Internazionale contro la loro espulsione.

Come spesso accade, la risposta a questi belati pacifisti degli ex-“rivoluzionari” del socialismo italiano, il partito comunista l’aveva già data, e con un paio di mesi in anticipo.

«Prendiamo ad esaminare soltanto la loro posizione sul problema della violenza. Dicono qualche cosa di simile: ammettiamo la violenza come momento necessario dell’atto rivoluzionario, ma neghiamo l’opportunità di predicarla fin da ora [...] poiché la situazione non è matura, la borghesia è forte, la borghesia se si sente minacciata ci assale prima del tempo. Ma è proprio questo ciò che hanno fatto costoro. Hanno predicato la necessità della violenza fino a ieri, ma nulla hanno fatto per organizzare in una preparazione delle masse quella loro predicazione verbale, appagandosi che questa desse come risultati 150 seggi parlamentari e 2.500 comuni socialisti, e dinanzi all’attacco borghese che non sanno ributtare, predicano il disarmo ideale e materiale del proletariato prospettandolo in dichiarazioni ignobili [...]

«Chi non è socialdemocratico puro, chi arriva a vedere che, comunque le cose si svolgano, all’urto finale armato si arriverà prima o dopo, deve anche capire che ci si arriverà in condizioni tanto più favorevoli quanto più il proletariato sarà preparato a tali frangenti. Ed il metodo comunista vuole che anche quando la situazione non è quella dell’imminenza dell’assalto, si dica al proletariato che l’assalto ci dovrà essere e che solo con le armi in pugno lo si potrà condurre. Collo stesso passo con cui si prospetta questa necessità creando nelle masse la coscienza di doverla e saperla affrontare, i comunisti devono andare organizzando la forza proletaria contro quella dello Stato borghese, ed è solo a questo patto che si può anche, ove la situazione lo consigli, sospendere azioni arrischiate e sfavorevoli.

«Ma chi dinanzi allo sferrarsi del periodo di decisivi conflitti, dinanzi alla eloquenza del fatto che la borghesia getta la maschera della democrazia e della legalità, vuol rispondere applicando questa maschera stessa sul viso del proletariato, facendolo il gerente della legittimità del civile regime parlamentare, dicendo alle masse di scartare la prospettiva di una loro azione armata, e di attendere il misterioso divenire di chi sa quali forze inermi e imponderabili che gli apriranno l’avvenire, non può uscire da questo dilemma: s’egli è un seguace della menzogna socialdemocratica che esclude la violenza proletaria dalle vie della storia, basterà per lui il limbo degli imbecilli; se è invece un assertore della necessità sia pure annebbiata di un episodio di lotta violenta, o peggio se fu un declamatore di violenze verbali anche al di là del necessario, deve essere precipitato e sommerso nella bolgia dei traditori» (Il Comunista, 20 febbraio 1921).

Se fino al gennaio 1921 i massimalisti avevano giocato a fare i rivoluzionari (beninteso, solo a parole!), passato Livorno non ebbero più il pudore di mascherare la loro funzione che consisteva nel disarmo e nella disgregazione del proletariato.

«Essi hanno la colpa gravissima, dopo aver parlato alle masse della necessità della violenza e della dittatura proletaria (predicazione che si deve fare con serietà e coscienza) di non aver nulla fatto per prepararle ed organizzarle per l’azione rivoluzionaria» (L’Ordine Nuovo, 16 marzo 1921).

E, dal momento che anche gli uomini hanno le loro responsabilità, Serrati può essere considerato come il massimo responsabile. Serrati che, abbiamo visto, fino al gennaio 1921 aveva predicato che la rivoluzione era inevitabile, che altrettanto inevitabile era il metodo violento per abbattere lo Stato, che aveva sproloquiato di formazione ed organizzazione dell’esercito rosso, ora, in una lettera a Jacques Mesnil (28 aprile 1921), confessava l’impotenza sua e del partito socialista:

«Tutto il bassofondo sociale si è armato di rivoltelle e di pugnale, di moschetti e di bombe a mano, si è inquadrato, si è assoldato a venti-trenta lire al giorno e vive della caccia al socialista [...] Viviamo giornate angosciose. E non vi è nulla da fare di fronte a tanta impunita prepotenza perché, purtroppo, mentre tutti parlavano di rivoluzione, nessuno la preparava. Ora noi siamo vittime di quella infatuazione rivoluzionaria a parole che ingannò non poco tutti nei mesi andati [...] La borghesia impaurita dal nostro abbaiare morde e morde sodo».

Certo ci voleva proprio la faccia tosta di un Serrati per fare affermazioni del genere: come se lui, anche personalmente, di quella situazione non fosse stato uno dei maggiori responsabili. Serrati si spingeva più avanti, imputando ai proletari ed ai socialisti di essere stati loro «a preparare il terreno controrivoluzionario aizzando e vituperando i soldati, i carabinieri, le guardie regie, invece di conquistarli».

 

Il “Patto di Pacificazione”

Nella sua storia del PCI, Paolo Spriano ricorda come l’Avanti!, il 22 maggio 1921, sotto l’emblematico titolo, “Non Resistere!”, avesse pubblicato un brano della “Storia di Cristo” di Papini, in cui si esaltava la consegna cristiana del porgere l’altra guancia.

Erano passati appena sei mesi dal congresso di Livorno quando venne firmato, il 3 agosto, il famigerato “Patto di tregua” con i fascisti.

L’Avanti! del 18 giugno aveva scritto: «Noi non predichiamo la vendetta, come fanno i nostri avversari. Pensiamo alla ascesa maestosa dei popoli e delle classi con opera pacifica e feconda».

Poi, rivolgendosi ai fascisti, aggiungeva: «Sta a voi illuminare gli incoscienti e disarmare i criminali. Noi abbiamo già detto la nostra parola, abbiamo già compiuta la nostra opera».

E Mussolini, in Parlamento, il 21 giugno aveva dato questa risposta: «Finché i comunisti parleranno di dittatura proletaria, di repubbliche più o meno federative dei Soviet, e di simili più o meno preziose assurdità, fra noi e loro non ci potrà essere che il combattimento [...] La nostra posizione varia quando ci poniamo di fronte al partito socialista [...] Anche voi dovete [...] disarmare i criminali [...] Allora sarà possibile segnare la parola fine al triste capitolo della guerra civile in Italia» (dal resoconto stenografico).

Turati non si lasciò sfuggire la mano tesa del duce e alla Camera tenne quel discorso che lui stesso definì come “la predica di un buon pievano”. Ironizzava su sé stesso? Sentiamo la predica: «Nessuna rappresaglia mai, neanche la più legittima; spezzare il circolo vizioso [...] della violenza, che si espande e prolifera all’infinito; meglio, mille volte meglio, essere uccisi che uccidere. [...] Di queste dottrine non ho mai dubitato e non dubito ancora [...] Un partito come il nostro ha questo vanto supremo: [...] di aver fatto ogni sforzo per deviare gli odii, che istintivamente si avventano contro le persone e le classi [...] La violenza è un metodo di lotta inferiore, brutale illusorio soprattutto, figlio di debolezza, malgrado [...] i suoi effimeri trionfi. Chi saprà patirla e non renderla, domani sarà il più forte»

Dopo una premessa di questo tenore non avrebbe potuto far altro che dire: «Disarmiamo davvero da ambo le parti, dimenticando che, da parte nostra, c’è ben poco da disarmare. Ho invocato le reciproche amnistie; le invoco ancora». Turati continuava poi affermando che tutte le dittature si equivalgono, quella militare come quella bolscevica; ma questo non gli impediva di auspicare la formazione di «un governo forte [...] che saprà veramente avviarsi a rinnovare l’Italia [...] con la partecipazione nostra al governo». E chiudeva il suo intervento al grido di “Viva l’Italia” (dal resoconto stenografico, tornata del 24 giugno 1921).

Certamente incoraggiato dalla disponibilità dei socialisti, ancora pochi giorni prima della firma del Patto, Mussolini alla Camera aveva affermato: «Noi prendiamo atto con molto piacere del voto della Confederazione Generale del Lavoro, e soprattutto prendiamo atto che la Confederazione Generale del Lavoro in questo scinde nettamente la sua responsabilità dai comunisti [...] Prendiamo atto anche che la Direzione del Partito Socialista non è aliena e che si dichiara favorevole a continuare le trattative» (22 luglio).

Proprio in quei giorni, infatti, il Consiglio direttivo della CGL si augurava che i contatti per la “pacificazione” continuassero nell’interesse di tutto il paese «auspicando uno spontaneo ritorno ai metodi di civiltà» ed affidava «al CE l’incarico di mettere fuori del quadro della Confederazione quelle Organizzazioni e quei gruppi che agissero in contrasto alle direttive sindacali», cioè i comunisti.

Il 23 luglio Mussolini faceva una ulteriore e più esplicita dichiarazione: «Penso che si va o presto o tardi ad una nuova e grande coalizione e sarà quella delle tre forze efficienti in questo momento nella vita del Paese [...] Le grandi forze espresse dal paese in quest’ora sono tre: un socialismo che dovrà correggersi e già comincia: notevole il voto confederale contro i comunisti, soprattutto notevole il nuovo punto di vista della Confederazione Generale del Lavoro per ciò che riguarda lo sciopero dei servizi pubblici; la forza dei popolari che esiste, che è potente, anche perché si appoggia [...] alla forza immensa del cattolicismo; e finalmente non si può negare l’esistenza di un terzo movimento complesso formidabile eminentemente idealistico che raccoglie la parte migliore della gioventù italiana. Credo che a queste tre forze coalizzate sopra un programma che deve costituire il minimo comune denominatore, spetterà domani il compito di condurre la Patria a più prospere fortune» (dal resoconto stenografico).

Non si pensi che la prospettiva di un governo con partecipazione di socialisti e fascisti fosse stata una boutade estemporanea di Mussolini. Commentando il voto sul nuovo ministero presieduto da Bonomi, Mussolini scriveva: «Anche questo nuovo voto politico ha dimostrato che, in realtà, sole forze politiche dominanti l’assemblea sono i popolari, i socialisti, i fascisti, perché hanno forze imponenti al loro seguito nel Paese» (Il Popolo d’Italia, 28 giugno 1921). E, commentandone la nascita aveva ribadito: «Dal punto di vista delle forze reali del paese, esso è campato in aria, poiché fascismo e socialismo restano fuori della porta» (Il Popolo d’Italia, 5 luglio).

I contatti e gli abboccamenti, quelli di corridoio e quelli palesi, tra socialisti e fascisti, non avevano quindi il solo scopo della “pacificazione degli animi”, ma miravano addirittura ad una comune partecipazione alla guida del governo, e L’Ordine Nuovo, già il 5 luglio scriveva: «Contro l’avanzata della classe operaia avverrà la coalizione di tutti gli elementi reazionari, dai fascisti, ai popolari, ai socialisti: i socialisti diventeranno anzi l’avanguardia della reazione antiproletaria».

Lo stesso Togliatti ancora un anno dopo affermava: «Il tiranno bieco contro il quale dovranno insorgere tutte le energie che ancora vivono nelle moltitudini avrà un solo aspetto ed un solo nome. Esso si chiamerà, insieme, Turati, don Sturzo e Mussolini» (L’Ordine Nuovo, 27 luglio 1922)

Interessante è anche quello che il 29 luglio, pochissimi giorni prima della firma del “Patto”, Mussolini scrisse a proposito del futuro congresso socialista: «Nel prossimo congresso socialista si possono verificare i seguenti casi: o il partito rimane unito e parteciperà al Governo o si divide e allora ci saranno fra gli uomini della Confederazione alcuni ministri di domani. I quali avranno a sinistra avversari temibili in una eventuale frazione intransigente del partito, nei comunisti, nei sindacalisti e negli anarchici. Ragione per cui saranno abbastanza intelligenti per tenere nel debito conto la forza libera e non dogmatizzata del Fascismo».

Il precedente 30 marzo il nostro partito aveva scritto: «Se gli organi del fascismo oggi si mostrano avversi ad una eventualità simile (ad un esperimento socialdemocratico di governo) gli è perché i socialisti debbono ancora meglio chiarire la loro posizione, debbono rinnegare tutto il passato rivoluzionario, debbono scendere al piano comune e “civile” di competizione politica». Ci volle poco, qualche mese fu sufficiente a fare raggiungere tale “maturità” al partito socialista. Ora i fascisti potevano essere soddisfatti, e dichiararsi pronti a far parte di un governo di coalizione social-popolar-fascista; potevano, infine, nell’eventualità di un governo a direzione socialista, proporsi disponibili a mettere la loro organizzazione armata alle dipendenze di detto governo contro il proletariato rivoluzionario. Su questa ipotesi di governo di coalizione social-fascista dovremo tornare.

Come abbiamo detto, sotto gli auspici del presidente del Consiglio Ivanoe Bonomi e del presidente della Camera Enrico De Nicola, tra i rappresentanti del fascismo, del PSI e della Confederazione Generale del Lavoro, il 3 agosto 1921 veniva firmato il cosiddetto “Patto di tregua”. Mussolini, l’espulso per indegnità politica e morale in quella memorabile riunione del novembre 1914, ora sedeva da pari a pari con il segretario del partito socialista, con i rappresentanti del partito, del gruppo parlamentare e del sindacato. Nella bella compagnia di rinnegati si ritrovavano Bonomi, espulso da Mussolini nel 1912; Mussolini espulso nel 1914 e Bacci segretario del partito che lo aveva messo alla porta. Con quella firma i dirigenti socialisti e confederali si mettevano sullo stesso piano del rinnegato, guerrafondaio e reazionario Mussolini.

Attraverso quella che venne chiamata la pacificazione degli animi, le tre componenti politiche e sociali dichiaravano di abbandonare ogni reciproca animosità per poter poi combattere uniti contro i veri nemici del paese. Il Patto avrebbe permesso di farla finita con i comunisti, isolandoli anche “giuridicamente”. Bonomi, riferito ai comunisti, aveva dichiarato «Cerchiamo di isolarli e poi tutti insieme premeremo su di loro»

Di fatto il patto di pacificazione aveva per scopo quello di consegnare ogni «violento, cioè i proletari comunisti o anarchici o senza partito, non disposti comunque a subire l’oltraggio alle loro case e alle loro famiglie, alla giustizia borghese; peggio ancora, alla “mano libera” fascista» (Dal rapporto del PCd’I al CEIC, 19 settembre 1921).

Certo questo non sconvolgeva i comunisti che, sull’organo centrale del partito, scrivevano: «Che i comunisti siano perseguitati e colpiti è un fatto di logica ferrea e stringente, per fascisti e socialisti» (Il Comunista, 31 luglio 1921). Con molta chiarezza il PCd’I il 13 febbraio aveva affermato: «Fin da oggi facciamo comprendere al proletariato italiano la necessità di combattere fascisti e socialisti, i difensori di oggi e di domani della classe borghese, gli antilegalitari di oggi ed i legalitari di domani in casacche di guardie gialle».

     «Noi assisteremo – si legge su Il Comunista del 10 luglio – alla ratifica da parte dei rappresentanti fascisti e degli interpreti [...] socialisti di un trattato nel quale sarà fermata la clausola poliziesca che impegna i contraenti ad accoppare (e nelle migliori ipotesi ad affidare alla giustizia) i responsabili delle violenze individuali e sporadiche, o – come l’Avanti! li chiama – gli smobilitati affetti da psicosi di guerra. La guerra al comunismo, da parte della coalizione socialfascista, è virtualmente dichiarata. Attendiamo l’ultimatum? Macché! Noi non abbiamo nulla da attendere. Combattiamo socialisti italiani e borghesia coalizzati da parecchi mesi [...] Il fascismo, cioè la borghesia, ha vinto. E noi siamo soli, contro le forze dello Stato, contro l’armamento della classe avversa, contro il socialismo passato al nemico. Viva il Comunismo! Viva la Rivoluzione proletaria! Abbasso i rinnegati, i mercantucci da piccolo ghetto!» (Il Comunista, 10 luglio 1921).

Da L’Ordine Nuovo del 5 agosto, che riportava le impressioni della stampa italiana, si vede come tutti, dalla Tribuna al Corriere d’Italia, dal Tempo all’Osservatore Romano, se da un lato tiravano un sospiro di sollievo per il fatto che il PSI avesse ripudiato e sconfessato l’adozione dei metodi violenti, erano dall’altro oltremodo preoccupati per il fatto che il partito comunista ne avrebbe approfittato per allargare la propria influenza fra le masse dei lavoratori e dare il suo indirizzo programmatico alle azioni spontanee della classe. Mussolini stesso dichiarava che era naturale che «i comunisti ne approfittassero per rinnovare le accuse di tradimento e di panciafichismo [...] contro il partito socialista» (L’Ordine Nuovo, 5 luglio 1921).

I socialisti si adattarono con prontezza al loro nuovo compito: combattere il comunismo. Quelli di seguito riportati non sono che alcuni, pochi, esempi del connubio socialfascista, ma sono sufficienti per rendere l’idea di quella caccia al comunista che, nel nome della pace sociale e della democrazia, si era scatenata.

A seguito dell’uccisione di un giovane fascista nelle vicinanze di Cremona venne lanciato un manifesto congiunto contro il «malvagio agguato comunista», le firme in calce al manifesto erano quelle di Farinacci e di un sindaco socialista. Sempre nel cremonese venne stabilito un accordo secondo cui le due parti contraenti si impegnavano «ad arginare il movimento comunista, e formare una commissione mista nella quale devono essere denunciati tutti coloro che appartengono al movimento comunista». Furono sempre i socialisti della città farinacciana che in vista del congresso della Camera del Lavoro avvertirono i lavoratori che «i comunisti [...] tentano di impadronirsi della Camera del Lavoro», ammonendo: «ricordate che se la Camera del Lavoro cadrà in mano ai comunisti saranno purtroppo scritte anche nella nostra provincia le pagine di angoscia scritte in altre zone» (L’Ordine Nuovo, 9 agosto 1921). Nel milanese fascisti e socialisti firmavano un accordo in cui veniva stabilita l’espulsione dei comunisti dalle leghe.

Il Soviet del 10 luglio riportava una lettera del deputato socialista Giuseppe Ellero nella quale, oltre a precisare di non aver nulla a che fare con l’uccisione di un fascista di Pordenone, dava precise informazioni sul comunista autore dell’omicidio.

Fatti ed episodi di questo tipo si ripeterono in ogni parte d’Italia.

Ma i socialisti non avevano aspettato la firma del patto di pacificazione per mettersi al servizio del fascismo con la loro azione controrivoluzionaria. Ben 4 mesi prima di quella firma a Cerignola, in seguito a ripetuti sanguinosi scontri, socialisti e fascisti sottoscrivevano il seguente manifesto:

     «Cittadini! I disgustosi incidenti verificatisi dal 25 febbraio ad ieri hanno riempito l’animo dei buoni di disgusto e di dolore. La nostra bella città è stata teatro di scene selvagge che hanno creato un’aria di odio e di rancore, addirittura irrespirabile. Rileviamo che il danno è di tutti: chi vuol bene al nostro popolo non può tollerare questo stato di cose, anzi deve concorrere per eliminare ogni motivo di odio e deve spendere – come volentieri facciamo noi – la parola della pacificazione. Cittadini! Disarmiamo gli animi, sopprimiamo ogni scoria di risentimento, invochiamo la pace, dedichiamoci al lavoro fecondo che è la ricchezza per tutti.

     «Due gruppi preminenti di fascisti e socialisti stamane han dato l’esempio. Ognuno resti col suo bagaglio di idee, ma rispetti quelle degli altri. La violenza non è socialismo, né patriottismo. La civiltà deve rientrare nelle nostre abitudini: le competizioni economiche che indubbiamente si ripeteranno ulteriormente, dovranno svolgersi con reciproca tolleranza. Ci auguriamo che questo appello venga sinceramente e lealmente accolto da tutti i cittadini pel bene comune, pel buon nome del nostro Paese. Cerignola, 22 marzo 1921».

Il partito socialista giustificò di fronte ai suoi iscritti ed al proletariato questo palese tradimento. Il segretario, Giovanni Bacci, al congresso di Milano dell’ottobre 1921 ricostruiva in questo modo lo sviluppo delle trattative che erano scaturite nella firma della pacificazione. «I giornali di Roma pubblicano la notizia che due deputati socialisti si erano incontrati con due deputati fascisti ed avevano parlato, fra loro quattro [...] di addivenire ad una pacificazione. Nessuno di noi sapeva niente. Si legge la notizia. Sarà vera? [...] molte volte i giornali stampano tante cose non vere, e non abbiamo creduto alla notizia. Invece la notizia era vera [...] Il deputato Ellero venne dinanzi al Direttorio del Gruppo parlamentare a raccontarci questa sua privata iniziativa» (dal Resoconto stenografico del congresso).

Da quanto abbiamo appena visto risulta del tutto falsa la ricostruzione fatta al congresso di Milano, smentita nel corso del congresso stesso dal destro Modigliani: «Voglio cominciare con lo stabilire che i due reprobi non sono i soli reprobi: non è vero amico Bacci? Perché tentativi del genere [...] ne erano avvenuti [...] a più riprese [...] Un bel giorno si presentarono al Direttorio i due reprobi [...] e ci dissero: “È avvenuto quest’incontro. Dobbiamo continuare?”. Noi [...] dicemmo loro: [...] “sotto la vostra responsabilità personale discutete e riferite” [...] Ad un certo momento [...] la Direzione [...] entrò in mezzo e concluse» (dal resoconto stenografico).

Ma, ammesso che i due deputati socialisti, “i reprobi” Ellero e Zaniboni, avessero intrattenuto contatti ed intese con i fascisti, con il nemico, all’insaputa sia del partito sia del loro gruppo parlamentare, cosa avrebbero dovuto fare un gruppo parlamentare ed una direzione del partito di fronte ad un simile atto, non di semplice indisciplina ma di vero tradimento? Prendere severi provvedimenti o addirittura espellerli. Invece cosa accadde? Continuiamo la lettura della relazione del segretario: «La stampa aveva cominciato un’abile campagna a favore della pacificazione, stava preparando un ambiente favorevolissimo alla pace. La proposta era lanciata. Chi di voi in quel momento avrebbe potuto dire di no? [...] Giacché l’iniziativa era stata presa [...] e poiché non si poteva respingerla, entrammo direttamente sul terreno della contrattazione».

Quindi la linea politica del partito socialista veniva dettata dagli umori della stampa borghese e dalla iniziativa privata di un paio di parlamentari? Certo che no. Non fu l’ingenua speranza che gli assassinii e gli incendi ai danni del proletariato cessassero a spingere il PSI (e la CGL) a firmare il Patto. Lo scopo fu ben altro ed è lo stesso segretario del PSI a confessarlo: «Quando noi entrammo nelle trattative e sottoscrivemmo il concordato, non ci facemmo l’illusione che poteva finire la reazione fascista dalla sera alla mattina, non potevamo sperare che non si spargesse più sangue, non potevamo sperare che non si facessero più spedizioni punitive. La cancrena era penetrata tanto profondamente nel corpo sociale che tempo occorreva perché fosse curata e guarita».

Lo scopo, dunque, non era la salvezza del proletariato, perché con la firma del patto lo si consegnava disarmato alla reazione fascista, che non disarmava; lo scopo era un altro, ed è sempre il segretario del partito socialista ad ammetterlo: «Il concordato non ha fatto male al partito socialista: la pubblica opinione si è raddrizzata da quello che era. I socialisti non erano più i bevitori di sangue, conservavano nell’animo la civiltà [...] arditi pionieri della civiltà nuova [...] ma individui delinquenti no, no» (dal resoconto stenografico del congresso). Con la firma del patto il partito socialista aveva raggiunto il suo scopo (o almeno così credeva) che era quello di essere ammesso nella civile convivenza borghese.

In Parlamento la sceneggiata si svolse così:

«Bonomi, presidente del consiglio dei ministri, ministro dell’interno: Prima che la seduta abbia termine credo di interpretare il pensiero della Camera, rivolgendo un saluto al nostro Presidente, che oggi ha potuto definire l’accordo per la pacificazione (vivissimi prolungati applausi). È questo un fatto morale che avrà una grande ripercussione nel Paese, e dobbiamo essere grati all’illustre Presidente che lo ha compiuto. (Benissimo! - I deputati in piedi rinnovano all’indirizzo del Presidente i più calorosi applausi)

«Presidente [De Nicola – n.d.r.] - (sorge in piedi) Ringrazio l’onorevole presidente del Consiglio per le parole cortesi che ha voluto rivolgermi. Non ho compiuto che il mio dovere. Il comunicato oggi diramato finisce con queste parole: “Si obbedisca!”. È questo l’invito che noi rivolgiamo tutti al Paese! (Vivissimi, prolungati e reiterati applausi – Grida di: Viva De Nicola!)» (2° tornata del 3 agosto 1921).

Serrati, nella lettera che abbiamo riportato, ammetteva che il suo partito non aveva fatto il minimo tentativo di organizzare l’armamento e la difesa del proletariato, anzi aveva ammesso che il suo partito aveva solo abbaiato, mentre a mordere era stata la borghesia. Ora, al congresso di Milano il segretario del PSI, a proposito dell’armamento del proletariato dichiarava: «Noi cosa potevamo opporre? Armi alle armi? Spedizioni punitive a spedizioni punitive? Dovevamo suggerire l’incendio delle case, l’assalto dei palazzi, la distruzione delle officine? Quando tutto era contro di noi, quando avevamo purtroppo sperimentato in certi episodi che le bombe adoperate dai nostri compagni erano gettate per inesperienza, per ignoranza, contro i compagni stessi? Quando le bombe scoppiavano persino nelle mani dei compagni nostri? Quando nessuna preparazione militare avevamo? Ed eravamo inermi! Nulla potevamo opporre. Gli arrestati erano dalla parte dei nostri, i condannati erano dalla parte dei nostri, tutta la magistratura era contro di noi! [...] E allora? Allora consigliammo la resistenza passiva [...] Non raccogliete provocazioni, non provocate; difendetevi come partito che sa, perché noi non disperiamo mai della trasformazione cerebrale degli uomini, noi non crediamo alla impossibilità della conversione dinnanzi ad una, a due, a cento, a mille prove. Chissà che con questo sistema [...] molta opinione pubblica non si converta in nostro favore» (dal resoconto stenografico).

Poteva esserci ancora qualcuno che si meravigliava del fatto che a Livorno i cosiddetti “massimalisti” avessero preferito restare con Turati anziché andare con i comunisti?

Che le cose non andassero proprio nella maniera illustrata dal segretario Bacci era costretto ad ammetterlo pure quel nomade della politica che rispondeva al nome di Curzio Malaparte, all’epoca degli scontri fervente fascista. Lo abbiamo già visto: «Non bisogna credere che i fascisti non abbiano conosciuto rovesci molto gravi. Talvolta dei quartieri, dei paesi, delle regioni intiere insorgevano in armi. Lo sciopero generale dava il segnale dell’insurrezione. Le camicie nere erano assalite nelle loro case, le barricate sorgevano nelle strade, bande di operai e di contadini armati di fucili e di granate occupavano le campagne, marciavano sulle città, davano la caccia ai fascisti» (Tecnica del colpo di Stato).

Altro che bombe lanciate per errore sui compagni o addirittura scoppiate in mano! Ci ripromettiamo di documentare, in coda a questa serie di rapporti, come, in innumerevoli episodi, i proletari italiani seppero suonarle di santa ragione sia ai bravacci fascisti sia alle democratiche forze dell’ordine.

I socialisti non organizzarono la lotta armata perché il concetto di violenza rivoluzionaria era del tutto estraneo alla loro mentalità e non certo allo scopo di salvare il proletariato da sicura disfatta. L’unica arma sulla quale il PSI puntava era quella della scheda. È sempre Bacci che parla al congresso di Milano: «Vengono le elezioni: [...] la Direzione si ostinò e volle combattere: Ma come? Non possiamo combattere con la rivoltella, con le mitragliatrici? Il Governo ci offre un’altra arma di combattimento: l’arma della scheda, e noi dobbiamo respingere l’aiuto di questa arma per tentare di risollevare lo spirito del partito socialista? Per riguadagnare le posizioni che sembravano perdute? No, dicemmo [...] non condurremo il Partito ad un disastro» (dal resoconto stenografico).

I proletari venivano bastonati, banditi, uccisi; le sedi dei partiti, delle camere del lavoro, dei giornali, delle cooperative e delle case del popolo devastate ed incendiate; poco importa, si trattava di fenomeni passeggeri, i socialisti confidavano “nella trasformazione cerebrale degli uomini”. Il non partecipare alle elezioni, quello sì che sarebbe stato un disastro per il partito socialista! L’Avanti! del 12 aprile 1921 scriveva: «Se noi adoperiamo oggi il voto legale per rispondere all’illegalità dei partiti dell’ordine, ciò significa essere prossimo l’istante nel quale la legge saremo noi, noi tutori del nuovo ordine sociale, contro gli ultimi, imbelli conati di un’era morta e superata». Le parole d’ordine del partito socialista furono: «Alla violenza nemica i proletari oppongano la forza della scheda», «In difesa della vostra dignità calpestata, alle urne!» e tante altre di questo tipo che, per pudore, ci asteniamo dal riferire.

I socialisti puntarono sulle elezioni e vinsero, il PSI risultò ancora il primo partito con 123 eletti. Il PSI esultò per la vittoria schedaiola: «I proletari d’Italia hanno seppellito sotto una valanga di schede rosse la violenza fascista».

Scrivemmo nel rapporto del PCd’I al CEIC, del 19 settembre 1921, che da parte del partito socialista «si è opposta la scheda proletaria alla rivoltella borghese, si è promesso che una vittoria elettorale proletaria avrebbe disarmato il fascismo e ricondotto al “normale” e desiderabile regime della legalità capitalistica».

I fascisti, grazie all’ospitalità all’interno del democratico Blocco Nazionale, poterono mandare in Parlamento solo 35 deputati, un numero risibile rispetto alla “valanga socialista”. Con la differenza che i fascisti, giustamente, facevano poco affidamento sui risultati elettorali.

Come naturale larghissima parte dei proletari iscritti al partito socialista ritennero un tradimento quella resa incondizionata, sancita dalla firma del “patto”. Così il quotidiano socialista tentava di giustificarsi: «Nemmeno noi siamo largamente soddisfatti di questa tregua. Essa non è la pace perché non vi può essere pace fra il perseguitato ed il persecutore, fra il dominato ed il dominatore; non vi può essere cessazione della lotta di classe [...] Essa è semplicemente una sosta. Allo stesso modo che ad uno sciopero subentra il concordato [...] così nella lotta dei partiti politici vi possono essere i periodi di più intensa mischia e quelli di tregua e relativa sosta, durante i quali ognuno dei lottanti raccoglie le proprie energie. Nessuna bandiera è stata piegata [...] Il socialismo resta il socialismo allo stesso modo che il fascismo resta il fascismo» (Avanti!, 4 agosto 1921). Una grande verità è racchiusa in questa ultima frase. Il socialismo restava socialismo: imbelle, pacifista, antiproletario; il fascismo restava fascismo,con tutte le prerogative di guardia bianca della reazione. I comunisti, che avevano rifiutarono il loro concorso al mercimonio, intensificarono il loro attacco a fondo contro i socialisti, e, soli, continuarono la difesa, anche armata, del proletariato e delle sue organizzazioni.

Il Patto di Pacificazione venne poi unilateralmente denunciato dai fascisti, il 15 novembre, riprendendo su larga scala le loro, mai cessate, criminose azioni.

Mentre il partito socialista firmava il patto di pacificazione con i fascisti, una delegazione composta da Lazzari, Maffi e Riboldi, era stata inviata a Mosca a giurare che il PSI si trovava sulle posizioni dell’Internazionale.

Scriveva Rassegna Comunista del 15 luglio 1921: «Le brillanti esperienze che sulla funzione del “centrismo” presenta il partito socialdemocratico italiano dimostrano che si può nello stesso tempo promettere a Lenin per mezzo di una delegazione di accettare i canoni della azione rivoluzionaria contro la borghesia, e impegnarsi coi capi “bianchi” delle brigantesche bande del terrore borghese ad un disarmo definitivo che ha il valore di una complicità insuperabilmente vile e turpe. A Roma si sono adunati i fiduciari del fascismo e quelli del Partito Socialista per trattare una tregua. Sono state tracciate le basi di un eventuale concordato [...] preludio eloquente del fronte unico controrivoluzionario di domani».

E nel numero successivo si legge: «La crisi economica si esaspera e la disoccupazione infierisce. I comunisti investono colla loro rampogna l’attitudine imbelle dei dirigenti socialdemocratici: questi, in luogo di dire alle masse una parola di azione contro le iniziative capitalistiche per la riduzione dei salari, la cancellazione dei diritti acquisiti nella lotta sindacale, lo stroncamento del movimento di classe, si prefiggono di volgere il fronte contro i rivoluzionari, e nella ultima riunione del consiglio della Confederazione del Lavoro decidono di iniziare l’azione per escludere i comunisti dalle file dei Sindacati. La guerriglia civile divampa feroce, e mentre alcuni fortunati episodi segnano la gioiosa diana di una riscossa delle masse, in altri le bande bianche compiono altre stragi, e più orrende. Ebbene, la socialdemocrazia non escogita altro che la politica vile della “pacificazione”, tratta con gli avversari, propone come suo ultimo e massimo fine la “obbedienza alla legge”. Lavora, cioè, ad aggiogare le masse al carro della onnipotenza statale borghese.
     «Il Partito Socialista Italiano, dopo il distacco dei comunisti, si presenta in modo suggestivo come lo sbocco della politica difensiva borghese, il gerente della ultima opera conservatrice del capitalismo [...] Raggiunto, come abbiamo detto più volte, lo scopo di svuotarlo di ogni proposito rivoluzionario, il fascismo naviga verso l’intesa colla socialdemocrazia [...] Quando tutti i contorsionisti della politica borghese avranno preso il posto che loro spetta, le due grandi forze staranno di fronte: lo Stato ed il comunismo; la conservazione e la rivoluzione. Ma quel giorno, percorsa dalla socialdemocrazia tutta la sua parabola di ignominia, l’intera massa del proletariato starà tra le falangi assalitrici, ed il turpe edifizio dello Stato borghese travolgerà crollando i rinnegati che in esso elessero la propria sede» (30 luglio 1921).

Se i comunisti non possono non tacciare i socialisti di traditori, questo infamante appellativo non possiamo attribuirlo agli anarchici, anche se, di fatto, l’anarchismo, con la sua visione capovolta della realtà, idealista, libertaria, volontarista ed in definitiva democratica, non è in grado di comprendere le ragioni e la funzione dello scontro di classe. Per gli anarchici i partiti non rappresentano espressioni degli interessi di classe, e quindi la lotta politica potrebbe benissimo rimanere circoscritta all’interno di una sfera ideale ed individuale. Ad esempio Umanità Nova del 16 novembre 1921 scriveva: «Noi anarchici ci eravamo affrettati a sostenere anche per i fascisti, come l’avevamo sostenuto per i popolari, ampia libertà di riunione e manifestazione». Ma i fascisti, anche senza la benedizione anarchica, godevano già di “ampia libertà di riunione e manifestazione”. Questa sì che si chiama pacificazione, e senza bisogno di firme e trattati!

  

Contro il blocco di tutte le forze borghesi

«Il Gruppo parlamentare comunista, in conformità ed in consonanza con le dichiarazioni da tempo pubblicate dal Comitato esecutivo del Partito Comunista d’Italia, non partecipa alle trattative»

Questo è quanto venne risposto al presidente della Camera che aveva invitato il partito comunista a prendere parte agli ignobili maneggi in vista della “pacificazione”.

Alla vigilia della firma della “pacificazione” nell’organo teorico del partito si poteva leggere: «Il leader fascista Mussolini ha concluso il suo ultimo discorso preconizzando la collaborazione delle tre “forze vive” del paese: Partito Popolare, Socialismo e Fascismo. Dopo le ultime elezioni dicemmo scherzando che Milano aveva eletti a capolista i tre futuri componenti del Ministero borghese italiano: Turati pei socialisti, Meda pei popolari, Mussolini pei fascisti. Lo scherzo diverrebbe realtà. Un giornale giallo ha potuto scrivere parole che suggestivamente corrispondono al nostro modo di intendere la situazione italiana: Accordatisi fascisti e socialisti ragionevoli, se la sbrighi lo Stato coi comunisti. Perché ci sono i comunisti. Che danno un gran fastidio, che sono fonte di implacabile preoccupazione, perché rifiutano sdegnosamente ogni contatto pacificatore, invitano e inquadrano le folle per la santa violenza rivoluzionaria. Lo Stato avrà dai ministri fascisti e socialdemocratici l’incarico di sbrigarsela col comunismo. A meraviglia! Poiché proprio con lo Stato il comunismo vuole regolare i conti, proprio lo Stato esso si prefigge di assalire per la realizzazione delle sue finalità» (Rassegna Comunista, 30 luglio 1921).

Malgrado le chiare e nette prese di posizione comuniste, si cercò di disorientare il proletariato facendo circolare voci secondo cui anche il PCd’I avrebbe preso parte alle consultazioni ed aderito al “patto di pacificazione”. Perciò il Comitato Esecutivo a più riprese fu costretto ad emettere comunicati che smentivano categoricamente che una qualsiasi intesa fosse stata fatta con la sua partecipazione. Il Comunista del 10 luglio 1921 scriveva: «Il Partito Comunista d’Italia, coerente ai principii ed alla tattica comunista, non ha bisogno di dichiarare che nulla ha di comune con le intese tra socialisti e fascisti, dai primi ammesse e smentite soltanto in quanto si riferisce ai termini dell’accordo. Denunzia al proletariato il contegno dei socialisti, del quale si riserva d’illustrare il vergognoso significato. Poiché la Confederazione Generale del Lavoro, secondo voci corse e non smentite, s’assumerebbe di rappresentare, nelle trattative e negli impegni che ne seguiranno, anche i comunisti sindacalmente organizzati nelle sue file, il PC dichiara assurda la pretesa di dirigenti confederali di rappresentare sul terreno di un’azione nettamente e squisitamente politica la minoranza comunista, che milita nelle sue file con l’obbiettivo di debellare l’indirizzo opportunista e controrivoluzionario di essi dirigenti».

Dieci giorni più tardi il CE del partito ribadiva: «Sebbene debbano apparire superflue a chiunque conosca, anche lontanamente, le direttive programmatiche comuniste, pure il partito comunista tiene a fare le seguenti brevi ed esaurienti dichiarazioni intorno alla pubblicazione della stampa circa la cosiddetta pacificazione dei partiti. Né nazionalmente né localmente i comunisti accedono né accederanno ad iniziative per la “pacificazione” o il “disarmo”, siano esse provenienti dalle autorità governative o da qualunque partito politico. La comunicazione in tal senso fatta dal partito socialista è stata senz’altro respinta. L’affermazione di una corrente politica di non voler trattare coi comunisti cade nel ridicolo, poiché mai i comunisti hanno espresso l’assurda intenzione di scendere a patti con chicchessia su questo terreno. Ove ve ne fosse bisogno, serva anche questa comunicazione di norma alle organizzazioni locali del Partito» (Il Comunista, 21 luglio).

Nonostante queste smentite, mano a mano che le trattative proseguivano sempre più insistenti si diffondevano false notizie sulla presunta adesione dei comunisti. Anche allora non mancavano le fake news! Si arrivò perfino ad affermare, da parte di Battaglie Sindacali, organo della CGL, che «l’iniziativa del partito socialista (per la pacificazione con i fasci di combattimento) alla quale la Confederazione ha aderito impegnando le organizzazioni tutte a fare altrettanto, è stata stabilita d’accordo con la missione russa a Roma» (citato da L’Ordine Nuovo del 21 agosto).

Il C.E. del PCd’I, allo scopo di chiarire ogni equivoco derivante dalle notizie date dalla stampa intorno alle iniziative per la cosiddetta “pacificazione”, e a definire bene tutte le responsabilità politiche, il 27 luglio rendeva pubblico il telegramma inviato alla Direzione del PSI: «Per troncare uso arbitrario da vostra parte del nome del nostro partito diamovi comunicazione ufficiale diretta, chiedendone telegrafica conferma, che non parteciperemo ad alcuna riunione partiti avente scopo pacificazione o disarmo».

Secondo Mario Missiroli dall’alleanza tra fascisti e socialisti sarebbe rinata la democrazia, una democrazia nuova ed ispirata ai principi del socialismo e nello stesso tempo capace di salvare il concetto di nazione, che avrebbe risolto lo storico problema dell’adesione delle masse allo Stato. Era proprio questo il pericolo contro il quale il partito comunista si batteva con tenacia. Per il comunismo è impensabile che ci possano essere degli interessi comuni ai vari strati sociali, soprattutto trattandosi di pacificazione e disarmo.

In maniera netta il PCd’I chiariva l’atteggiamento del comunismo rivoluzionario nei confronti del “patto”, dello Stato borghese e dei suoi tirapiedi fascisti e socialisti:

 «I “capi” si sono dichiarati interpreti della volontà delle masse. I “capi” del socialismo e del fascismo hanno preso impegno di imporre il rispetto del trattato alle masse. Un impegno simile ha preso la Confederazione Generale del Lavoro, organismo che si spiffera stolidamente apolitico. Mussolini, d’altro canto, ha detto che imporrà al fascismo l’osservanza del patto o stroncherà il fascismo che è creatura “sua”, cosa sua [...] Intorno al tavolo di De Nicola, v’erano degli assenti... presenti in ispirito [ci si riferisce ai popolari e repubblicani che pur non prendendo parte alla firma del patto si erano dichiarati favorevoli all’accordo, n.d.r.]; ma vi fu un assente lontano. È questo assente che oggi diviene il perno della attività rivoluzionaria del proletariato italiano, ed il bersaglio della legge punitiva dello Stato borghese rafforzata dal richiamo solidale di tutti i partiti politici. Noi siamo l’Assente: il Partito Comunista. Siamo stati isolati perché volemmo isolarci. E non siamo in istupore [...] Noi non vogliamo chiosare il testo del trattato [...]
     «A noi importa fissare chiaramente il contenuto profondamente anticomunista del documento, quello che è stato rilevato dal Presidente del Consiglio, nella nota circolare ai Prefetti. Alla pubblicazione del testo del trattato ha fatto seguito la pubblicazione di tre comunicati ufficiali: uno della Direzione del P.S.I., uno della Confederazione Generale del Lavoro, uno del Presidente del Consiglio on. Bonomi. Mussolini ha scritto vari articoli sull’argomento [...] Ad ogni modo gli articoli di Mussolini ed i comunicati di cui sopra si integrano e si completano. Il concetto inspiratore degli appelli alle masse od... alle autorità politiche è in ciò: il patto firmato a Roma impegna i partiti alla pacificazione ed al disarmo. Qui... è l’errore. Ce ne duole per il signor Bonomi e per i suoi prefetti, ma noi abbiamo fatto a meno di recarci a Roma non già per evitare la noia o la spesa di un viaggio, bensì perché sappiamo che le classi né oggi né domani né mai potranno conciliarsi e pacificarsi, e che l’illusione di una tregua nella guerra di classe toglie al partito politico della classe lavoratrice il diritto di condurre il proletariato alla rivoluzione.
     «Noi siamo rimasti assenti perché i principii e la tattica dei comunisti non consentono tregue o temperamenti alla lotta delle classi, perché dobbiamo interpretare storicamente, anche a costo di momentanee impopolarità, la somma delle aspirazioni politiche ed economiche delle classi lavoratrici. È naturale che lo Stato veda con simpatia una campagna quale quella condotta dai socialisti per il ripristino della legalità, per il ritorno ed il rispetto alla legge. Ma noi che siamo contro la legge e sappiamo che il concetto di normalità in regime borghese equivale al rassodarsi dell’autorità della classe dominante a danno delle conquiste proletarie e della preparazione rivoluzionaria del proletariato, noi dobbiamo essere banditi dalla società borghese, nemici come le siamo, e dei suoi organi e dei suoi complici [...]
     «Ma l’Assente dice a socialisti ed a fascisti, al Governo e a tutti i partiti della borghesia, quanto segue: Il programma comunista e la tattica dei comunisti tanto nei confronti della classe borghese quanto verso i socialtraditori, restano immutati. Il Partito Comunista continua, legalmente ed illegalmente, la sua propaganda intesa alla preparazione rivoluzionaria del proletariato ed al suo inquadramento. L’azione dei partiti comunisti mira al rovesciamento dello Stato borghese, per mezzo della insurrezione della classe lavoratrice. Non è dimostrato che la soppressione dei capi comunisti nuoccia gravemente all’avvenire della rivoluzione. Socialisti e governo; fascisti e polizia facciano quanto loro più aggrada per toglierci la libertà di propaganda e di azione. Essi ne hanno il diritto, e – dal loro punto di vista – ne hanno il dovere. Sarebbe strano che lasciasse impunemente ad un partito la libertà di attentare alla vita dello Stato borghese.
     «Ma noi chiaramente dichiariamo ai traditori di ieri e di oggi della classe lavoratrice, a Bonomi, a Mussolini ed a Bacci, che noi ci infischiamo in modo superlativo delle loro imbecillità e delle loro sanzioni punitive. Essi si conoscono assai bene scambievolmente. Mussolini espulse nel 1912 Bonomi dal P.S.I., Bacci espulse nel 1914 Mussolini, noi abbiamo cacciato fuori Bacci dall’Internazionale comunista. Ciò che Mussolini disse a suo tempo di Bonomi, Bacci disse di Mussolini più tardi. Questi tre traditori di razza hanno oggi il compito di infierire contro il proletariato rivoluzionario d’Italia. Noi ce ne infischiamo delle leggi che essi valorizzano e di quelle che essi formulano. Noi siamo contro la loro legge. È per questo che siamo stati assenti dal turpe mercato. È per questo che rimaniamo soli, pochi e forti, fortissimi, invincibili. Perché non vogliamo la tregua dei vinti, perché noi non imporremmo la tregua ai vili. Così parla l’Assente. Il quale aspetta che le spie di via del Seminario [ossia, i socialisti, n.d.r.] lo additino al mercenario ed al poliziotto» (Il Comunista, 14 agosto 1921).

Questo ufficialmente il partito comunista affermava dopo l’accordo di “pacificazione”. Ma già due mesi prima, il 4 giugno 1921, prima della firma del famigerato “patto”, l’Azione Comunista, il battagliero settimanale fiorentino, spiegava in modo perfetto quale doveva essere l’atteggiamento del partito comunista:

«Tutti i partiti borghesi [...] domandano con la voce dei loro giornali che vanno dal Corriere al Paese, dal Giornale d’Italia all’Avanti! la pacificazione degli animi [...] Magnificanti le battaglie di idee combattute solo con la penna [...] magnificanti la cavalleria di quegli avversari che son sempre pronti a stringersi cordialmente la mano, ed hanno apposto la loro firma per un accordo secondo il quale le lotte politiche debbono essere contenute sul terreno delle “competizioni civili” [...]
     «I comunisti non hanno niente di comune con coloro che devastarono, incendiarono le case dei lavoratori, che uccisero centinaia dei nostri migliori compagni, con coloro che permisero, favorirono, predicando il “sopportate, perdonate, tacete”, queste violenze e perciò non devono avere nessun contatto con loro. I comunisti non hanno niente da nascondere, non devono sfuggire alcuna responsabilità dietro un patto che non può essere mantenuto da nessuna delle due classi contraenti [...]
     «La classe borghese adopera tutti i mezzi per la propria difesa, senza perdersi in tante sottigliezze sentimentali. E fa bene. Noi riconosciamo ad essa il diritto, come classe imperante, di usare quelle armi che crede necessarie per mantenersi al potere. La classe lavoratrice, che ha interessi antitetici a quella borghese, deve a sua volta mettere in azione tutti i suoi mezzi per colpire il nemico negli organi suoi vitali. La pacificazione degli animi predicata dalla borghesia per mezzo dei suoi giornali altro non è che una nuova arma contro il proletariato [...] La borghesia, da quando è salita al potere ha riconosciuto nei proletari i suoi nemici. I comunisti che sono l’avanguardia di questi proletari, hanno accettato la dichiarazione di guerra e lotteranno fino al raggiungimento completo delle loro aspirazioni [...]
     «Oggi la posta è il potere, senza il quale la classe lavoratrice non potrà mai essere soddisfatta nei suoi sacrosanti bisogni. I compagni non cadano nelle imboscate che loro tende la borghesia con i sentimentalismi di tutta la sua stampa, dalla nera alla rosea, ma seguano la linea tracciata dai congressi che comanda di non dar mai tregua alla classe dominante avendo di mira l’abbattimento dello Stato attuale [...] Fra noi e la borghesia, oggi, v’è un abisso più profondo di quello che ieri non fosse. La pacificazione non potrà mai esistere fino a che vi saranno sfruttati e sfruttatori».

(continua al prossimo numero)

 

 

 

 

 

 


Il marxismo e la questione militare
[Indice del lavoro]
Parte quarta - L’imperialismo

C. La Prima Guerra mondiale
(continua dal numero scorso)

V. La campagna austro‑serba
Capitolo esposto alla riunione generale di maggio 2016 a Cortona

 

1. Gli Imperi in urto nei Balcani

La questione della Serbia era complessa ed incandescente, come abbiamo descritto in un precedente capitolo. Il punto critico si era avuto quando nel 1908 l’Austria-Ungheria aveva dichiarato l’annessione della Bosnia-Erzegovina, che amministrava per conto dell’Impero Ottomano, al suo multietnico impero, composto da ben 11 nazionalità diverse, che si riflettevano sulla composizione e coesione del suo esercito. La Serbia ebbe da contestare che considerava le due province parte della più vasta nazione serba. Anche la Russia protestò energicamente contro Vienna, non solo a sostegno diplomatico della Serbia, sua alleata e membro del numeroso gruppo dei popoli slavi, ma soprattutto perché era suo interesse strategico una Serbia territorialmente più estesa e forte a contrastare da sud gli austro-ungheresi.

Allora solo una seria minaccia di un intervento tedesco contro la Russia a sostegno dell’Austria Ungheria bloccò le bellicose proteste dello Zar, che il 21 marzo del 1909 riconobbe la legittimità dell’annessione. Alcuni giorni dopo anche la Serbia, rimasta sola, dovette piegarsi.

Ma la soluzione di forza era solo rinviata. All’ambasciatore serbo a Pietrogrado fu promesso che in futuro ogni violenza portata alla Serbia avrebbe segnato l’inizio di un incendio europeo. Anche nelle capitali dell’altro fronte si sapeva bene come stavano le cose. L’ambasciatore tedesco a Belgrado nel giugno dello stesso anno riferì al cancelliere tedesco von Bülow riguardo ai serbi: «Il piccolo gruppo delle persone veramente colte o semicolte (...) non vuole rassegnarsi, per la sua boria nazionale offesa, ad accettare il fatto dell’annessione. Si starà perciò come il cacciatore alla posta, per cogliere l’istante giusto per sparare un colpo a segno».

Il riuscito, anche se maldestro, attentato del 28 giugno 1914 a Sarajevo fu considerato dagli Imperi Centrali l’occasione per attuare i loro piani. In soli 30 giorni si esaurì il balletto delle ipocrite mosse diplomatiche tra i due paesi e la politica continuò con altri mezzi, cioè con la guerra, segno che, principalmente dalla parte di Vienna, i piani strategici e gli schieramenti sul campo erano da tempo ritenuti validi e pronti per una rapida vittoria. Ma così non fu.
 

2. La prima campagna

Illustriamo brevemente la breve guerra tra Austria-Ungheria e Serbia non tanto per le relative questioni militari ma per considerazioni più generali.

Il conflitto, pretesto ed origine di quello più vasto della Prima Guerra mondiale, si ridusse ad un fronte secondario, ininfluente nello sviluppo sia del più esteso e prossimo fronte orientale sia dell’insieme del conflitto mondiale.

Si sviluppò in tre successive campagne tra l’agosto e il dicembre 1914 e fece emergere delle inefficienze di dimensioni insospettabili nella struttura dell’esercito austro-ungarico, che non fu in grado di chiudere positivamente e in breve la questione con il piccolo ma tenace esercito serbo.

La scelta politica e strategica di Vienna di impegnarsi contemporaneamente su due fronti: su quello serbo e su quello russo, decisivo questo sul futuro della duplice e precaria monarchia, si rivelò disastrosa producendo una sconfitta in entrambi i settori.

Se non fu disonorevole nell’agosto-settembre 1914 la sconfitta inflitta dai russi all’esercito austro ungarico nelle battaglie di Lemberg, quella contro i serbi nella prima campagna del 12-24 agosto fu particolarmente umiliante e dette alle incredule potenze mondiali la visione di un regime in profonda crisi. Da parte serba questo primo successo, frutto di decisione e coraggio, illuse quella nazione sulle reali proporzioni fra le forze.

La geografia del teatro di guerra la influenzò sensibilmente: la Serbia nord-occidentale è un territorio montuoso, aspro, a quel tempo semiselvaggio e privo di buone strade. Vi esisteva una sola linea ferroviaria, a binario unico, che da Šabac penetrava a sud per soli 65 chilometri. Il confine settentrionale del paese era segnato dal corso di due grandi fiumi, la Sava e il Danubio, quello occidentale dalla Drina che scorre impetuosa in una stretta e profonda valle boscosa. L’orografia della zona, benché di modesta altezza, presenta notevoli difficoltà logistiche per un esercito numeroso con artiglierie e carriaggi.

Vi si svolse un’aspra e difficile guerra di montagna. Si affrontarono due eserciti molto diversi per struttura, addestramento e armamento: quello austriaco, dedicato a guerre campali con azioni di stile napoleonico, che necessitano di ampi spazi di manovra, con appoggio di artiglieria campale, rifornimenti rapidi e consistenti, possibili solo con una rete stradale adeguata anche in territorio nemico; quello serbo, pur non adatto ad una guerra moderna, era composto di unità più piccole, con ridotta artiglieria, che si rivelarono più maneggevoli ed efficaci delle formazioni avversarie.

Lo stato maggiore austriaco in tempo di pace aveva predisposto due piani militari e di mobilitazione. Il piano “R” prevedeva la guerra contro Russia, Serbia e Montenegro, con la neutralità dell’Italia e della Romania: assegnava nove corpi d’armata in Galizia, tre nei Balcani, mentre altri 4 erano di riserva generale. Il piano “B”, come Balcani, prevedeva la neutralità della Russia ed assegnava 7 corpi d’armata contro la Serbia e il Montenegro. Il 26 luglio iniziò la mobilitazione parziale di 7 corpi perché pareva si fosse verificato il caso “B”, con un attacco di tutte le unità austriache su tre direttrici: da nord attraverso la Sava e il Danubio su Belgrado; da ovest lungo la Drina inferiore su Valjevo e da sud-ovest dalla Drina superiore su Užice.

Il 4 agosto la situazione era già cambiata perché era chiaro che la Russia sarebbe intervenuta a sostegno della Serbia. Di conseguenza si dovettero ritirare dai Balcani due armate mentre una terza, senza attraversare la Drina, avrebbe dovuto limitarsi ad azioni dimostrative per impegnare nel settore forze serbe, ma pronta al rapido trasferimento con le tradotte militari sul fronte della Galizia.

Il Comando Supremo austriaco approvò ugualmente il piano predisposto nonostante la riduzione delle armate a disposizione. Una logica impostazione strategica, ora che il fronte russo diventava prioritario, avrebbe suggerito di assumere un atteggiamento difensivo di fronte ai serbi, impegnandovi forze ridotte a contenere eventuali attacchi, per potenziare al massimo il fronte russo, rinviando ad una fase successiva la questione con Serbia e Montenegro. Così non fu e Potiorek, a cui ora mancava un lato della tenaglia offensiva, non volendo rinunciare all’affondo, organizzò un’avanzata in Serbia da nord verso Valjevo e una da ovest partendo dalla zona di Višegrad. Le due direttrici avrebbero poi puntato al centro della Serbia verso Užice, allo scopo anche di impedire un’irruzione in Bosnia dell’esercito serbo.

Ma qui la situazione era oltremodo pericolosa perché in alcuni distretti austriaci di confine la popolazione serba era insorta formando bande armate che sabotavano le già scarse vie di comunicazione. In più buona parte delle due armate austriache erano composte da truppe di nazionalità slava per cui, per non dar tempo a sollevazioni, ammutinamenti o addirittura passaggi al fronte nemico, si optò per una manovra rapida. Solo alcune brigate da montagna avrebbero tenuto sotto controllo lo scarso esercito montenegrino, da cui non si attendevano attacchi significativi.

 L’armamento delle truppe austriache era composto di fucili e buone mitragliatrici di produzione nazionale mentre l’artiglieria da campagna era di limitato valore; ottima invece quella pesante sia campale sia d’assedio. All’inizio della guerra era però estremamente scarso il munizionamento d’artiglieria: 500 colpi per pezzo rispetto ai 3.000 della Germania e ai 1.000 della Russia. La numerosa cavalleria austriaca in questa campagna ebbe un impiego limitato.

Ma le grandi unità austriache non poterono essere impiegate al meglio in queste regioni montuose e selvagge e quasi ovunque prive di ampi e liberi campi di vista, mentre le valide unità da montagna furono destinate a teatri secondari tra cui la protezione di Cattaro e la frontiera della Erzegovina.

Le forze austriache destinate a questo settore erano di 80.000 uomini sul fronte della Drina e 60.000 della Sesta Armata per complessivi 319 battaglioni, 60 squadroni con 142 batterie d’artiglieria e 342 mitragliatrici. Dopo la partenza della Seconda Armata si ridussero a 239 battaglioni, 37 squadroni, 101 batterie.

Il comando serbo, affidato al vojvoda Putnik, anziano generale vittorioso nelle due guerre balcaniche, nell’incertezza dei movimenti austriaci e delle ridotte possibilità di difendere l’intera frontiera austro-serba, lunga 550 chilometri, nella fase iniziale assunse un atteggiamento difensivo concentrando il grosso delle truppe in posizione centrale poco più a sud di Belgrado in modo da contrastare il prevedibile attacco austriaco attraverso la Sava e il Danubio.

La Serbia era divisa in 5 distretti militari, ciascuno dei quali doveva fornire un determinato numero di soldati, retaggio di non completamente estinte forme di servaggio feudale; le unità erano raggruppate in tre differenti livelli. Le divisioni di primo bando erano le migliori, meglio armate e indossavano un’uniforme grigio-verde, quelle di secondo bando erano più piccole con armamento di qualità e quantità inferiore, con uniforme azzurra. Quelle di terzo bando, prevalentemente allestite all’inizio della guerra, erano ridotte, con armamento antiquato, vestivano abiti civili senza bracciali o altri contrassegni. Questo contribuì a creare equivoci all’esercito austriaco, accusato di compiere atrocità verso la popolazione civile, a cui non lesinava esecuzioni sommarie.

In generale l’esercito serbo possedeva un armamento antiquato. Attendeva rifornimenti dalla Russia e per le munizioni dalla Francia e dalla Gran Bretagna. L’artiglieria serba era dotata di cannoni a tiro rapido di costruzione francese con scarso munizionamento: 750 colpi per pezzo da campagna e 650 colpi per pezzo da montagna, comunque superiore a quello austriaco. I trasporti erano affidati a 75.000 cavalli e 46.000 buoi.

Con la mobilitazione generale le truppe serbe nel complesso ammontarono a 450.000 unità, raggruppate in 210 battaglioni, 47 squadroni, 118 batterie e 200 mitragliatrici subito disponibili, quindi in leggero svantaggio numerico anche dopo la partenza della Seconda Armata austro-ungarica, ma erano concentrate in un settore ristretto.

Nel complesso i serbi, al forte spirito nazionale nel difendere il proprio territorio, disponevano di un sensibile vantaggio tattico iniziale dovuto alle loro unità piccole e maneggevoli, composto da solidi soldati, veterani delle precedenti guerre balcaniche. In più i serbi godevano dell’appoggio della popolazione anche nel territorio austriaco prossimo alle frontiere della Bosnia, dove per tempo ufficiali di Belgrado avevano formato ed addestrato bande paramilitari, comitagi, con compiti di disturbo e di informazione alle spalle dell’esercito austriaco.

Il Montenegro, legato da un’alleanza militare con la Serbia stipulata al termine delle guerre balcaniche, mise subito a disposizione dei serbi 40.000 unità con 100 cannoni da campagna e 100 da montagna. Forse di scadente valore tecnico ma composte da uomini forti e coraggiosi che conoscevano bene il territorio. L’armamento era fornito in buona parte dalla Russia e dall’Italia per l’artiglieria. Per questo insieme di fattori all’esercito montenegrino era preclusa in questa guerra ogni possibilità offensiva.

Le truppe montenegrine furono concentrate in tre gruppi ai confini con l’Austria-Ungheria: nel Sangiaccato per cooperare con i serbi in direzione di Sarajevo, alla frontiera dell’Erzegovina protetta dalle fortezze austriache di Trebinje e Bileca, ed infine davanti alle Bocche di Cattaro. Qui erano favorevolmente piazzate sulle alture del monte Lovcén (1.749 m.) da cui potevano facilmente colpire con l’artiglieria il porto militare austriaco di Cattaro, il più importante nell’Adriatico dopo la base principale di Pola. L’Italia, il cui re Vittorio Emanuele III aveva sposato la principessa Elena, una figlia del Re del Montenegro, aveva legato il mantenimento della propria neutralità proprio all’intangibilità del Lovcén, ecco quindi la fornitura di valida artiglieria ai montenegrini!

Ai primi bombardamenti di Belgrado da parte di alcuni battelli fluviali corazzati che avevano disceso il Danubio, tutte le autorità statali serbe lasciarono la capitale per zone interne.

Le truppe austriache si mossero secondo i piani il 12 agosto con l’obiettivo di dirigersi e riunirsi poi a Valjevo a sud-ovest di Belgrado. Ma l’avanzata fu lenta e ostacolata dal fitto sottobosco. I comandi non avevano una chiara conoscenza dell’entità, delle posizioni e dei movimenti avversari; anche i ricognitori aerei fornivano informazioni imprecise a causa della fitta boscaglia; in sostanza i due eserciti si stavano “cercando”. Dopo varie scaramucce, gli scontri più importanti furono combattuti, con esiti alterni, nell’area intorno al monte Cer, le cui sommità erano saldamente tenute dai serbi.

Ma il centro dello schieramento austriaco sulla Drina fu colpito duramente dalle armate serbe, in quel momento in superiorità numerica, mentre le ali austriache troppo distanti, non potendo sostenersi vicendevolmente, furono sconfitte separatamente. A partire dal 19 agosto furono costrette ad una ritirata confusa e disordinata oltre la Drina, abbandonando molto materiale bellico. In questo settore gli scontri furono particolarmente violenti ma mai risolutivi e si attenuarono velocemente per la stanchezza delle truppe e i difficili rifornimenti; per lo stesso motivo l’inseguimento serbo fu breve e debole e non in grado di dare un colpo definitivo agli austriaci.

Gli ultimi violenti scontri avvennero presso la testa di ponte di Šabac che infine fu riconquistata dai serbi il 24 agosto 1914, ponendo fine all’occupazione austriaca della Serbia.

Le perdite austriache in soli 12 giorni di guerra furono di 22.000 tra morti e feriti e 25.000 prigionieri, oltre ad un grosso bottino di armi e munizioni recuperate dai serbi, le cui scorte di materiale bellico non erano ancora state ricostituite dopo le guerre balcaniche. Le perdite serbe furono di 16.000 unità.

In questa prima campagna l’Austria commise una serie di errori: era scesa in guerra contemporaneamente contro due nazioni slave, Russia e Serbia, pur avendo al suo interno milioni di sudditi slavi. Molti soldati di questa campagna erano slavi che avevano preferito gettare le armi piuttosto che combattere contro altri slavi. Sul fronte della Galizia le popolazioni locali davano aiuto e protezione ai disertori austroungarici di nazionalità slava.

Dal punto di vista strategico il Comando Supremo austriaco, avendo sottovalutato le forze serbe, decise di aprire due fronti contemporaneamente disperdendo importanti risorse. Il mantenimento ostinato della testa di ponte di Šabac costò inutili perdite e provocò un sensibile ritardo della partenza delle truppe che lo difendevano, già destinate al più importante fronte russo.

L’errore più grave dei generali austriaci, che avevano il vantaggio di muovere per primi scegliendo tempo e luogo, fu di disperdere le truppe su un fronte di 150 chilometri, per trovarsi poi in forte inferiorità numerica nel momento decisivo.

Le conseguenze della sconfitta furono più dannose sul piano morale che su quello pratico perché la perdita di 50.000 uomini poteva ben essere sopportata da un impero di 50 milioni di abitanti. Ma se i soldati si possono sostituire non così la coesione delle popolazioni slave comprese nel mosaico del vecchio impero, che mostrava ora crepe profonde. Il tentativo di mantenere l’antico prestigio di Vienna mediante vittorie militari si rivelò presto fallito quando i primi mesi di guerra annoverarono solo umilianti sconfitte, tanto di fronte ai deboli serbi quanto ai più potenti russi.

Da parte serba la vittoria fu il risultato di diversi fattori tra cui la maggior agilità delle unità serbe, la conoscenza del territorio e l’appoggio della popolazione, ma soprattutto una migliore lucidità strategica. Si attese con calma di individuare correttamente la direzione principale avversaria, senza lasciarsi distrarre dagli insuccessi delle ali, per lanciare poi tutte le forze verso il corpo centrale nemico.
 

3. La seconda campagna (settembre 1914)

La riorganizzazione a scopo offensivo dei due eserciti nemici iniziò immediatamente dopo la prima campagna perché entrambi i comandi furono sottoposti a forti pressioni dai rispettivi alleati.

Gli austriaci intendevano riscattarsi dall’umiliante sconfitta con una seconda campagna, necessaria più per considerazioni di carattere politico che militare, essendosi quello serbo rivelato un fronte secondario rispetto al russo. Si decise di ridurre il fronte d’attacco per concentrare meglio le forze e si ripropose la doppia manovra avvolgente sulle ali: un blocco centrale passando la Drina da ovest, una manovra a nord oltre la Sava e una da sud. Di fatto si attaccava nella stessa zona impervia della prima fallimentare campagna, e si scartava erroneamente l’invasione attraverso la valle della Morava, quello che era sempre stato il varco per tutte le invasioni della Serbia.

I russi chiesero ai serbi di condurre una limitata offensiva contro gli austriaci per bloccare, o almeno ritardare la completa partenza dell’armata destinata alla Galizia, dove ora essi erano sotto pressione dopo le due sconfitte subite nelle battaglie di Kraśnik e di Komarów. Ma, nonostante il successo ottenuto dall’esercito serbo nella difesa del proprio territorio, questo non era affatto adatto a compiti offensivi in territorio nemico sia per tipo di addestramento sia per lo scarso livello di mezzi e materiali a disposizione.

L’avanzata del moderno esercito austriaco fu ancora ostacolata dall’assenza di strade e ferrovie, dove invece il trasporto su carri a trazione animale dei serbi si rivelò più efficiente. Nelle manovre di attacco in territorio austriaco invece quel sistema di trasporto di viveri e munizioni si dimostrò di eccessiva lentezza. Portando i serbi un attacco in profondità a nord di Belgrado sarebbero penetrati in zone con centri molto importanti e politicamente significativi ma abitate da popolazioni croate, rumene e ungheresi sovente ostili ai serbi, mentre considerazioni di carattere puramente militare avrebbero consigliato un attacco attraverso la Drina, nella Bosnia.

Ciò nonostante i serbi iniziarono l’attacco a nord-ovest di Belgrado tentando di attraversare la Sava, ma furono contrastati dagli austriaci, subendo perdite significative.

Aiutati da questo passo falso serbo, gli austriaci la notte tra il 7 e l’8 settembre dettero via ad una forte controffensiva partendo dalla Bosnia attraversando la Drina. Nel corso di una dura battaglia l’armata serba riuscì a bloccare l’avanzata austriaca nel settore a nord, mentre a sud gli austriaci riuscirono a realizzare una valida testa di ponte e a respingere i serbi. La controffensiva serba partì il 17 settembre con un fronte centrale contro la testa di ponte e con una pericolosa manovra aggirante sul fianco meridionale austriaco oltre il confine bosniaco. A partire dal 25 settembre l’armata austroungarica dovette quindi ritirarsi sulle posizioni originali dove bloccò il contrattacco serbo con violenti scontri durati 4 giorni. Dal 4 ottobre, causa la stanchezza delle truppe, i seri problemi di munizionamento per entrambi i fronti e le forti piogge che ingrossavano i fiumi e riempivano di fango le strade, cessarono le operazioni su vasta scala e anche su questo fronte iniziò la guerra di trincea con sporadici attacchi di portata locale.
 

4. La terza campagna (ottobre-dicembre 1914)

L’offensiva austroungarica riprese a ottobre avendo ricevuto dei rinforzi; si sviluppò con durezza per circa un mese sull’altipiano di Valjevo con risultati incerti riuscendo infine il 6 novembre a cacciare i serbi dall’altopiano. Da notare che nella prima campagna l’occupazione di quell’altopiano era stata prevista in soli 5 giorni!

La situazione dei serbi era diventata oltremodo critica sia per la scarsità di munizioni sia per i disagi della guerra di trincea cui non erano abituati e addestrati. Anche gli austriaci avevano seri problemi di rifornimento in zone disagevoli e per il maltempo e non avrebbero potuto incalzare l’avversario trasformando il suo ripiegamento in una rotta.

I serbi dovettero infine ritirarsi a protezione di Belgrado, con le truppe che davano forti segni di stanchezza, diserzione e prossime alla disfatta. Ma furono salvati da un errore dei generali austriaci: invece di concentrare tutte le forze per dare il colpo finale all’avversario in grave crisi, si avventurarono nell’inutile conquista di Belgrado, più per motivi politici che militari. Convinti di aver di fronte un avversario privo di energie, distolsero consistenti forze dall’ala sinistra per conquistare la capitale. Errore in quanto la presa di Belgrado sarebbe stata la naturale conseguenza della caduta del fronte serbo, ed era inutile prima di averlo travolto.

Le truppe austriache entrarono in Belgrado, abbandonata dall’esercito serbo, il 12 dicembre, giorno del compleanno dell’imperatore Francesco Giuseppe, ma fu l’inizio del tracollo dell’esercito imperiale in Serbia.

I serbi, repressi duramente gli ammutinamenti e reclutate le riserve, anche tra gli studenti, riuscirono a riorganizzare l’esercito, grazie soprattutto all’arrivo delle munizioni francesi attraverso Salonicco. La controffensiva serba iniziò il 3 dicembre con un attacco su tutta la linea del fronte lunga ben 120 km, ottenendo subito buoni risultati. Il centro dello schieramento austriaco fu rotto e dovette arretrare dalle posizioni conquistate mentre le sue ali tenevano bene. I combattimenti furono intensi per alcuni giorni ed infine l’ala sinistra austriaca fu rigettata oltre il corso superiore della Kolubara, inseguita dai serbi che infine rioccuparono l’altopiano di Valjevo.

Nonostante il fronte austriaco avesse ceduto solo in parte, il 9 dicembre fu ordinato il ripiegamento generale oltre la Drina e la Sava, il che non si trasformò in una catastrofe solo perché le strade fangose impedirono l’inseguimento dei serbi i quali, pur duramente provati, cercavano una vittoria clamorosa.

Il settore nord austriaco, meno colpito da quella sconfitta, dovette comunque abbandonare Belgrado il 15 dicembre 1914, ponendo ingloriosamente fine al terzo tentativo d’invasione della Serbia.
 

5. Bilancio della guerra in Serbia

Le perdite austriache furono molto pesanti. Secondo i resoconti serbi rimasero nelle loro mani 300 ufficiali, 40.000 soldati, 142 cannoni e 70 mitragliatrici. La scarsa entità degli ufficiali austriaci catturata rispetto al totale dei prigionieri fu spiegata come evidenti segni di diserzione e passaggio al nemico delle truppe: si fa riferimento a circa 20.000 soldati di nazionalità ceca, serba, croata e slovena. L’esercito austro-ungherese, disciplinato e tenace nelle avanzate, aveva rivelato tutta la sua debolezza come entità plurinazionale nella ritirata.

La sconfitta della Kolubara ebbe importanza più emotiva che per le conseguenze pratiche. Ai serbi mancarono i mezzi per trasformare quel successo difensivo in una brillante vittoria strategica perché riuscirono ad effettuare solo una modesta penetrazione nella Bosnia, che non ebbe conseguenze sulla sicurezza delle frontiere dell’Impero asburgico. Ma qui vivevano 8 milioni tra cechi e slovacchi e 7 milioni di slavi del sud, ai quali la clamorosa vittoria della giovane e piccola Serbia pareva il segnale del riscatto del panslavismo contro l’egemonia politica austriaca e magiara.

Un’offensiva contro la Serbia avrebbe avuto senso solo all’inizio della guerra per concentrare poi tutte le risorse sul fronte della Galizia. Poiché all’esercito serbo mancavano i mezzi e le competenze per condurre una seria e grande offensiva contro l’impero viennese, dopo la prima avventata campagna, sarebbe bastata una modesta forza di contenimento alle frontiere e spostare ogni uomo contro la Russia.

La seconda offensiva di settembre avvenne proprio mentre sul fronte orientale divampava la gigantesca battaglia intorno a Leopoli dove erano in gioco i destini di tutto l’Impero asburgico, il cui esercito qui fu sconfitto e ricacciato verso Cracovia e i Carpazi. Per un breve periodo sembrò che la marea russa dovesse dilagare senza freni in tutta la pianura ungherese. L’esercito austriaco stava qui sopportando sforzi incredibili mentre ben 5 corpi d’armata erano impegnati in Serbia in una campagna insensata e per niente necessaria.

I serbi non seppero e non poterono fare di più e assunsero un atteggiamento difensivo delle loro frontiere, poiché avevano subito anche loro forti perdite. Nella sola battaglia della Kolubara avevano perso 69.000 uomini tra caduti in combattimento e morti per malattia, oltre 18.000 feriti e 15.000 prigionieri. In più nei primi mesi del 1915 scoppiò in Serbia una grave epidemia di tifo che causò 300.000 morti.

Vienna ritirò progressivamente delle truppe da quel settore spostandole su quello russo e su quello appena aperto sulle Alpi orientali contro gli italiani.

Con l’entrata in guerra della Bulgaria alleata degli Imperi Centrali, negli ultimi mesi del 1915 fu avviata un’offensiva finale contro la Serbia conquistando tutto il paese ed eliminando completamente il suo esercito. Questo, in pieno inverno, sotto violente tormente di neve e con scarso equipaggiamento, dovette valicare le montagne per giungere alle sponde dell’Adriatico dove la flotta dell’Intesa, per lo più navi italiane, ne raccolse i resti trasportandoli a Corfù, per essere poi impiegati a Salonicco sul fronte della Macedonia.

Così commenta lo storico inglese B.H. Liddell-Hart in La prima guerra mondiale, 1914-1918: «La conquista della Serbia liberò l’Austria dal pericolo incombente sulla sua frontiera meridionale e assicurò alla Germania libertà di movimento e pieno controllo di un’immensa fascia di territorio al centro dell’Europa, che si estendeva dal Mare del Nord al fiume Tigri».

 

   

VI. I complessi sviluppi sul fronte orientale
Capitolo esposto a Genova nel settembre 2016

1. Geografia e infrastrutture

Nel settore orientale si confrontavano, da una parte, gli Imperi Centrali – Germania e Austria-Ungheria, con truppe e flotta ottomana di appoggio nel settore del Mar Nero e nel Caucaso, a cui si aggiunse nel 1915 la Bulgaria – dall’altra l’Impero Russo, a cui si affiancò per breve tempo la Romania.

Il fronte orientale presentava significative differenze di conformazione geografica e politiche rispetto a quello occidentale, che condizionarono l’impostazione strategica e la conduzione della guerra. Il territorio presenta dense foreste in Lituania, pianure ed acquitrini in Polonia, Russia ed Ucraina, poi le pianure della Moldavia ai piedi dei Carpazi. Un territorio troppo esteso da saturare di uomini ed armi: durante il rallentamento delle operazioni militari nell’inverno 1916/17 le divisioni tedesche avevano ciascuna da controllare settori di 20-30 chilometri, mentre nelle Fiandre sulla stessa porzione di territorio stavano ben otto divisioni.

Gli stati maggiori territoriali di entrambe le parti ammisero di non avere le risorse necessarie a difendere i settori assegnati, anche per la scarsa rete stradale e ferroviaria esistente. Adottarono di conseguenza la tattica dell’ordine aperto, con manovre anche molto distanti le une dalle altre nei vasti territori, al contrario delle limitate avanzate della guerra di trincea ad occidente. Ne risultò, secondo le esigenze complessive del conflitto, una combinazione tra guerra di manovra e guerra di posizione.

Nel fronte occidentale invece si tentava di sfondare le linee nemiche con prolungati e concentrati bombardamenti preventivi dell’artiglieria pesante, con proiettili sempre più devastanti, seguiti dalla diffusione dei vari tipi di gas asfissianti, l’introduzione del carro armato e sempre nuove armi, tanto è che i tedeschi la denominarono la “guerra dei materiali”.

Sul piano politico due erano i principali obiettivi nel settore orientale: la conquista, o la spartizione, della Polonia e la tendenza panslavista della Serbia, la cui espansione manu militari sembrava inarrestabile.

La Polonia russa era un esteso cuneo di territori che penetrava dalla Russia attorniato su tre lati da territori tedeschi ed austriaci: a settentrione la Prussia orientale, affacciata sul mar Baltico, ad ovest la Slesia tedesca, a meridione la provincia austriaca della Galizia e la catena dei Carpazi che sbarravano l’accesso alla pianura ungherese.

Le boriose mire imperialiste del capitale austroungarico indussero il governo di Vienna, alcuni giorni dopo la dichiarazione di guerra della Gran Bretagna, il 12 agosto 1914, ad annunciare l’intenzione di annettersi le province russe in Polonia, inclusa Varsavia, dopo la vittoria contro la Russia, data per certa. A tal scopo il 16 agosto si autorizzò il capo polacco Józef Pilsudski a fondare a Cracovia, allora in  territorio austriaco, un Comitato Supremo Nazionale in attesa del giorno in cui polacchi e austriaci avrebbero marciato insieme nelle strade di Varsavia. Venne quindi formata una Legione Polacca di ben 10.000 uomini da impiegare contro le armate russe, nella promessa che dopo la vittoria sarebbe nata una Polonia indipendente. Lo stesso fece il governo dello Zar: con i polacchi dei suoi domini fu costituita una seconda Legione Polacca, la Pulawy, che avrebbe combattuto come entità distinta all’interno dell’esercito russo. I patrioti volontari polacchi si trovarono così schierati su fronti opposti a combattersi gli uni contro altri con le stesse motivazioni, illusi dalle promesse dei due opposti imperi.

Il 19 agosto il governo dello Zar fece pubblicare due manifesti: nel primo prometteva, a guerra conclusa, una Polonia “libera”, con suo governo, lingua e religione, e nel secondo incitava tutti i popoli soggetti all’Austria-Ungheria a sollevarsi e proclamare la loro indipendenza!

 

2. Gli opposti piani strategici

L’enorme estensione del fronte orientale, dalla Lituania, attraverso dense foreste, laghi, acquitrini, poi a sud grandi pianure, fino alla catena montuosa dei Carpazi, regioni poco abitate, soprattutto nei territori russi, aveva fortemente condizionato i piani strategici degli opposti Stati maggiori.

La guerra moderna, specialmente dopo il suo collaudo su scala sufficiente nella guerra russo-giapponese del 1904/1905, aveva confermato la necessità di efficienti vie e mezzi di trasporto necessari al rapido, massiccio e continuativo trasferimento di soldati e materiale bellico che l’impetuoso sistema produttivo capitalista metteva a disposizione per le guerre.

Qui si inaugura anche una nuova distribuzione della forza lavoro proletaria: mentre milioni di uomini partono per il fronte, nelle aree più industrializzate si aprono i cancelli delle fabbriche alle donne, chiamate a sostituirli alle macchine per fabbricare armi e munizioni.

Quanto ai trasporti stradali e ferroviari, dei quali la breve campagna austro-serba aveva appena dimostrato la necessità, la situazione era nettamente sbilanciata a favore degli Imperi Centrali: nelle provincie austriache e tedesche di confine la rete viaria era molto sviluppata e ben gestita, in Polonia e nei territori russi era invece rada ed in alcune zone assente. Nel caso di un’invasione russa le armate austro-tedesche avrebbero potuto con le tradotte spostare velocemente le truppe a contenere l’attacco ma, a parti invertite, un’offensiva degli Imperi Centrali in Polonia e Russia avrebbe ben presto dovuto rallentare facendo perdere agli attaccanti l’iniziale vantaggio per la difficoltà di far confluire i necessari rifornimenti.

Inoltre gli Imperi Centrali erano impegnati su due fronti opposti, nonostante i piani militari predisposti da tempo intendessero prima risolvere la questione con la Francia per solo dopo affrontare la Russia, spostandovi le truppe con trasporti efficienti. In più l’insensata quanto inutile campagna degli austroungarici contro la Serbia obbligò i comandi tedeschi a spostare rapidamente forti contingenti verso quel settore. Durante quasi tutto il conflitto vi fu un continuo e massiccio spostamento di truppe e relativo materiale da un fronte all’altro, tanto che fu anche chiamata “la guerra dei treni”.

Il comando austro-tedesco convenne quindi che la migliore strategia fosse attirare i russi in una regione che permettesse di sferrare un potente colpo di contrattacco, al posto di una offensiva in territorio nemico, nonostante questa soluzione concedesse alla Russia il tempo necessario per mettere in moto la sua immensa macchina da guerra invece che sorprenderla all’improvviso. Si voleva così tenere in scacco i russi le sei settimane previste dal piano Schlieffen-Moltke per la vittoria ad ovest, per poi batterli definitivamente.

I due alleati divergevano però nei metodi: il tedesco Moltke, per avere la massima potenza di fuoco ad ovest, intendeva lasciare il minimo delle forze tedesche ad est, impegnate in una manovra difensiva, combinata con un’offensiva austro-ungarica in Galizia tra i fiumi Vistola e Bug. L’austriaco Conrad invece era impaziente di battere rapidamente i russi con una violenta offensiva su larga scala.

Passò la linea di Conrad, che comunque teneva impegnati i russi in attesa della chiusura del fronte francese. Conrad organizzò un’offensiva a nord-est contro la Polonia, portata da due armate affiancate da altre due ad est, mentre in contemporanea i tedeschi avrebbero dovuto attaccare dalla Prussia orientale verso sud-est. Con questo avanzare i due eserciti avrebbero isolato le forze russe penetrate nella striscia polacca. Conrad però non riuscì a convincere Moltke ad assegnare a questa offensiva le forze che riteneva necessarie.

Il disaccordo non era solo inerente la conduzione della guerra ma rifletteva anche quello politico esistente tra i due governi, che individuavano differenti avversari primari: per la Germania era la Francia-Inghilterra, per l’Austria-Ungheria era la Russia. Questa diversità divenne ancor più evidente quando Berlino premette su Vienna perché offrisse all’Italia maggiori concessioni rispetto a quanto richiesto da Roma pur di non aprire un altro fronte, che avrebbe gravato pesantemente sull’equilibrio delle forze in campo.

Si può meglio comprendere questa situazione se si considera che l’impero tedesco, da pochi decenni conclusa la sua unità nazionale, era un’economia giovane e dinamica, subito divenuto un imperialismo in forte crescita, mentre il multietnico impero austro-ungarico proseguiva la sua traiettoria discendente sottoposto a tutte le pressioni dei movimenti separatisti e di indipendenza, ai quali rispondeva con una dura politica di conservazione ad oltranza dei suoi territori.

Il debole appoggio iniziale tedesco contro la Russia e l’avvio delle due offensive contemporanee in Serbia e in Galizia portarono alla sconfitta austriaca su entrambi i fronti; l’insensata campagna austro-serba finì per complicare e ingarbugliare il già difficile compromesso tra i due comandi e la gestione del conflitto.
 

3. Russi respinti dalla Prussia Orientale

I piani militari russi, elaborati nel periodo 1912/1913, erano meno precisi e più elastici di quelli tedeschi. Prevedevano l’azione principale contro l’Austria-Ungheria, pensando che, essendo la Germania impegnata contro la Francia, non avrebbe potuto aiutare l’alleato austriaco ad est; dopo averla sconfitta, raggiunto il massimo della sua mobilitazione, avrebbero attaccato la Germania. Questi piani dovettero poi essere modificati all’ultimo momento in seguito alla richiesta francese, secondo gli accordi bilaterali, di tenere impegnati i tedeschi sul confine polacco per ridurre la loro pressione ad occidente, spingendo la Russia ad un’offensiva a cui non era ancora pronta né sotto l’aspetto organizzativo né numerico.

La Russia, approntati nuovi piani, nonostante la nota inefficienza dell’esercito zarista riuscì a mobilitare e dislocare le truppe in soli 10 giorni! Era previsto un attacco a sud contro l’Austria-Ungheria con due armate, mentre altre due avrebbero invaso la Prussia orientale, prevedendo una facile vittoria contro le esigue forze tedesche.

Il comando generale russo del settore, a Volkovysk, quasi al centro dello schieramento, era affidato al generale Žilinskij, che disponeva di due armate di 150.000 effettivi per l’offensiva in Prussia, comandate una dal generale Samsonov e l’altra dal generale Rennenkampf, ma che, a fronte del grande numero di effettivi, avevano una seria carenza nell’intendenza, specialmente nel rifornimento di munizioni, dovuta anche all’insufficiente produzione interna, situazione che andò a peggiorare nel corso del conflitto, sempre più esteso e cruento, che necessitava di grande fornitura di armi e di munizioni.

La grande massa di cavalleria aveva scarsità di foraggio per cui le operazioni di esplorazione e collegamento tra i vari comandi dovettero essere ridotte al minimo; dei 320 aeroplani a disposizione sulla carta dei russi, il solo centinaio efficiente fu dislocato sul fronte contro l’Austria-Ungheria.

Non disponevano di cavi telegrafici e comunicavano con Volkovysk via radio in codice elementare e, sovente, addirittura in chiaro. In seguito il comando tedesco ammise che tutti i messaggi radio russi erano stati quotidianamente intercettati e analizzati. Questa imprudenza fu causa di sconfitte e mancate vittorie russe, come il caso della mancata “Canne” di Leopoli (Lemberg nelle carte polacche): per la dovizia di particolari rivelati al comando austroungarico i russi persero l’occasione di piombare alle spalle del nemico, facendo loro mancare una schiacciante vittoria strategica che forse, secondo diversi storici, avrebbe potuto mettere in ginocchio la Bicefala Monarchia eliminandola dalla guerra già nell’autunno del 1914.

I 14.000 tedeschi, raggruppati in un’unica armata, erano sotto la guida del generale von Prittwitz. Questi, con le deboli forze a disposizione, riteneva indifendibile la Prussia orientale per cui aveva disposto una linea ben presidiata sul fiume Angerapp e nella piana di Insterburg (Černjachovsk). Nel complesso la struttura di comando era affidata a comandanti anziani, alcuni richiamati dalla pensione, le truppe erano in parte riservisti o quelle di stanza nelle fortezze.

Assai prima di quanto i tedeschi si aspettassero, partì l’offensiva russa. Prittwitz affidò all’intraprendente e valente generale François il compito di bloccare i russi. Questo poi decise di attaccare disubbidendo agli ordini. Radunando quanti più uomini poté raggiunse le 40.000 unità e diresse su Stallupönen, disponendoli in trincee disposte a mezzaluna su un’altura da dove potevano impiegare al meglio tutta la potenza di fuoco in attesa dei russi. La battaglia iniziò il 17 agosto con ripetuti assalti alla baionetta, facilmente fermati dai tedeschi le cui ali con manovre aggiranti catturarono 3.000 prigionieri. I tedeschi accusarono 1.200 morti contro i 5.000 dei russi. Questo scontro non ebbe carattere risolutivo ma raggiunse l’obiettivo di ritardare l’avanzata russa di qualche giorno permettendo ai tedeschi di organizzarsi al meglio.

Il primo vero scontro avvenne tre giorni dopo presso Gumbinnen. I tedeschi dovevano fronteggiare a nord la I Armata russa di Rennenkampf mentre a sud c’era il rischio di un’avanzata della II Armata di Samsonov, che avrebbero isolato tutte le forze tedesche sul fronte settentrionale e potuto addirittura dirigere ad ovest minacciando anche Berlino.

Nonostante questa situazione Prittwitz, uomo cauto di temperamento, dispose il grosso dell’armata in quattro gruppi, tre a nord contro la I Armata ed uno a sud di sole riserve contro la II Armata russa.

Nel settore nord, muovendo in forte anticipo sulle altre unità tedesche, alle 3,30 del mattino del 20 agosto, l’artiglieria di François dà la sveglia ai russi, i quali, dopo il comprensibile disorientamento, rispondono con l’artiglieria fino ad esaurimento delle munizioni; poiché non ricevono rifornimenti i superstiti arretrano, in parte si arrendono, altri si disperdono nei boschi.

Gli altri gruppi tedeschi si mossero più tardi, a battaglia iniziata, avendo difficoltà a raggiungere gli obiettivi assegnati in un fronte di 55 chilometri. Fu una battaglia confusa dove la disorganizzazione delle unità russe fu evidente, con unità che persero fino al 60% degli effettivi ed altre vicine che non intervennero. I piani tedeschi erano saltati fin dall’inizio per l’attacco anticipato di François che vanificava l’effetto sorpresa: gli altri tre settori furono costretti a retrocedere dopo aver subito anch’essi pesanti perdite.

Prittwitz interpretò il non chiaro risultato di Gumbinnen come una sconfitta, ordinò il ripiegamento generale ed informò Moltke che avrebbe ritirato l’intera armata al di qua della Vistola, asserendo inoltre di non garantire la tenuta nemmeno di quella posizione. La sua fu una decisione molto grave sia sul piano militare sia politico, con l’abbandono alla prima battaglia del suolo patrio, nonostante l’evidente inferiorità numerica e l’incerto risultato. Moltke quindi rimosse lui e buona parte del suo Stato maggiore sostituendolo con il generale Hindenburg, da tempo in pensione, e Ludendorff, il recente vincitore a Liegi.

Va menzionata anche l’errata valutazione della situazione del russo Rennenkampf, unita alla sua eccessiva prudenza, che non inseguì il nemico in ritirata, cosa che l’avrebbe trasformata in rotta definitiva e dato un chiaro esito alla battaglia e ai successivi equilibri strategici a favore dei russi. Anche Rennenkampf fu rimosso dal comando. Per indisciplina François fu più volte spostato in settori meno cruciali, anche se si dovette ammettere che spesso i suoi colpi di mano si rivelarono azzeccati, come capiterà poi a Verdun.

In ambito tedesco la mente strategica di valore fu l’allora colonnello Hoffmann, sottocapo dell’Ufficio Operazioni, rimasto sconosciuto ai più, che riuscì a gestire l’organizzazione strategica del settore in quella situazione di crisi impostando un contrattacco e l’accerchiamento delle truppe di Samsonov; la sua nomina a generale fu inizialmente rinviata perché, a 46 anni, era ritenuto troppo giovane.

I russi avanzavano ora illudendosi di poter proseguire facilmente mentre il nuovo comando tedesco secondo i piani di Hoffmann si preparava a bloccare con tutta l’VIII armata disponibile l’avanzata della II Armata di Samsonov. Questo, utilizzando tutte le sue unità, aveva disposto presso Tannenberg (Stębark) un forte blocco centrale con due consistenti ali. L’attacco russo partì all’alba del 26 agosto 1914 con l’ala destra che ignorava la presenza di due forti blocchi tedeschi, i quali in breve riuscirono ad aggirare alle spalle i russi isolandoli dal resto del fronte, mentre il centro resisteva bene.

Il giorno successivo Samsonov inviò il corpo d’armata del generale Artamonov all’attacco dell’ala destra tedesca, comandata da François, allo scopo di alleggerire la pressione sul suo centro. Il tedesco, che si aspettava una simile manovra, fin dal primo mattino colpì duramente con la sua potente ed efficiente artiglieria, poi con la fanteria avanzò decisamente occupando la sede del comando di Artamonov; alle 11 del mattino il corpo d’armata di Artamonov in fuga aveva abbandonato il campo.

La battaglia infuriò decisa anche il giorno 28 con attacchi e ritirate che si susseguivano su entrambi i fronti, con ingenti perdite russe. La mattina Ludendorff ordinò a François di spostarsi in appoggio al gruppo di Scholtz, ma a ragione François disubbidì perché gli era chiaro che stava tagliando la strada per la ritirata del fianco sinistro russo. Quando Hindenburg e Ludendorff, portatisi a tre chilometri dal fronte, videro che anche l’ala destra russa era sotto pesante attacco e quella destra tedesca era bloccata, ammisero la validità della disubbidienza del generale.

A quel punto Samsonov, con tre interi corpi d’armata fuori combattimento, poteva considerarsi sconfitto: i tedeschi lo avevano aggirato e solo due corpi continuavano a fatica a resistere. Giunto sulla prima linea la sera del 28 ordinò la ritirata generale, così accrescendo il disastro perché in quelle confuse manovre due corpi russi furono ulteriormente travolti dai tedeschi, fatti prigionieri dei generali mentre altre unità finirono nelle paludi. Il corpo d’attacco del generale Klyuev, fatto prigioniero, si fece annientare sul posto in una inutile ecatombe. Samsonov vista la tragedia della sua armata, riuscì ad isolarsi per qualche istante nel bosco giusto il tempo per spararsi un colpo di pistola alla testa.

La ritirata durò due giorni, il 29 e il 30 agosto, in una crescente tragedia dove i corpi d’armata del centro, che maggiormente avevano avanzato e si erano ritirati per ultimi, sfiniti, senza più munizioni, maggiormente furono esposti al duro attacco finale tedesco. Intere unità furono annientate. Molti si dispersero nelle paludi e nelle foreste in marce inutili e giri sbagliati nell’incerto tentativo di raggrupparsi e resistere all’accerchiamento che si stava chiudendo. «Nella zona paludosa, dove non si poteva fare un passo fuori delle strade sopraelevate, i tedeschi avevano posto delle pattuglie munite di mitragliatrici ad ogni incrocio. Negli ultimi quattro giorni gli uomini di Martos morirono letteralmente di fame. Il corpo d’armata di Klyuev nelle ultime quaranta ore fece settanta chilometri senza toccare cibo. I cavalli erano senza foraggio e senz’acqua» (Barbara Tuchman, “I cannoni d’agosto”).

Il quartier generale russo per due interi giorni non seppe della sorte dell’armata di Samsonov che apparve in tutta la sua gravità solo alla conta dei morti: sul totale di 192.000 russi, 50.000 risultarono uccisi in combattimento e ben 92.000 prigionieri; furono persi oltre 500 dei 624 cannoni della II Armata. I tedeschi erano 165.000 con 728 cannoni ed ebbero perdite complessive per 37.000 uomini.
 

4. Sui Laghi Masuri

Dopo questo successo i tedeschi organizzarono l’attacco alla I armata russa di Rennenkampf, attestata a nord nella zona dei laghi Masuri.

Moltke, sempre temendo un’invasione russa nella Prussia Orientale, aveva deciso per un massiccio trasferimento di truppe dal fronte francese, comprese 2 divisioni di cavalleria, qui più utili, truppe che vennero a mancare nella battaglia decisiva della Marna (avvenuta tra il 2 e il 9 settembre). Hindenburg disponeva ora di forze enormemente superiori all’avversario, soprattutto a sud, di fronte al lato sinistro russo. Pensava di ripetere la manovra avvolgente casualmente avvenuta a Tannenberg e stabilì anche di destinare consistenti forze al generale François allo scopo di bloccare un eventuale ritorno offensivo dei resti della II Armata. Anche ai russi giunsero rinforzi mentre una nuova loro armata era in fase di formazione a protezione della loro ala sinistra ritenuta particolarmente debole.

La battaglia iniziò il 7 settembre quando i tedeschi attaccarono con forza le ben organizzate difese russe nel settore nord dei laghi Masuri, che non riuscirono a superare.

Il giorno seguente si sviluppò con successo la manovra avvolgente tedesca su un fronte di una cinquantina di chilometri, pesantemente bombardato dall’artiglieria. Qui i tedeschi conseguirono buoni risultati, sì che la sera riuscirono a sfondare le linee russe. Insufficiente il contrattacco dei russi, che quindi iniziarono a cedere terreno su tutto il fronte mentre la cavalleria tedesca seminava panico e confusione. Fallito il contrattacco russo, che rallentò solo di poco l’avanzata tedesca, Rennenkampf, sfiduciato ordinò frettolosamente la ritirata generale verso la frontiera russa.

Il 10 settembre proseguirono le manovre di ritirata protetta da forti retroguardie che bloccavano con aspri combattimenti i tedeschi, i quali ormai dovettero rinunciare alla manovra avvolgente delle ali. L’inseguimento tedesco durò 5 giorni con la cattura di molti uomini e materiali tra cui ben 150 cannoni. Il 13 settembre la I Armata russa arretrando di oltre 100 chilometri abbandonava completamente la Prussia orientale e ripiegava in Lituania oltre il confine del fiume Niemen.

Nonostante non si fosse ripetuto lo strepitoso successo tedesco di Tannenberg, risultò molto compromesso il morale delle truppe russe che non furono più in grado di operare in quel settore. Žilinskij, ritenuto il principale responsabile della sconfitta, fu esonerato dal comando.

Anche il conto di questa battaglia è pesante, come saranno tutte quelle di questa guerra imperialista: l’VIII Armata tedesca composta di 16 divisioni di fanteria e due divisioni di cavalleria per un totale di 215.000 uomini, perse 40.000 uomini, tra morti, feriti e dispersi. La I Armata russa più la X disponevano complessivamente di 22 divisioni di fanteria e 6 di cavalleria per un totale di 490.000 uomini, persero 125.000 uomini effettivi tra morti, feriti e dispersi oltre a 45.000 prigionieri.

Complessivamente l’offensiva russa nella Prussia nord-occidentale, richiesta dalla Francia come alleggerimento sul suo fronte, si chiuse con un chiaro insuccesso e costò perdite enormi: circa un quarto di milione di soldati e la perdita di ingenti quantità di armamenti.
 

5. Contro l’Austria

Al successo tedesco contro i russi si contrappose l’energica e riuscita azione russa in Galizia. Infatti la vittoriosa VIII Armata tedesca, anziché gettarsi all’inseguimento della residuale I Armata di Rennenkampf, dovette correre in soccorso degli alleati austroungarici che, sotto tre imponenti offensive russe sul fronte sud-occidentale, non davano garanzie di poter resistere a lungo, con il rischio di perdere il controllo degli importanti passi sui Carpazi e della stessa Pianura Ungherese, il granaio dell’Impero viennese.

In Galizia, nel settore sud-est del fronte, l’iniziale avanzata austroungarica in Polonia sarà presto annullata da tre potenti offensive russe nel settembre, nell’ottobre-novembre 1914 e nel marzo-aprile 1915, ottenendo numerose vittorie, penetrando profondamente in territorio nemico, senza però riuscire a risolvere il conflitto.

Il 18 agosto 1914 le 35 divisioni di fanteria del generale russo Brusilov iniziarono i primi attacchi contro gli austriaci, contemporaneamente impegnati con i Serbi, che culminarono tra il 23 agosto e l’11 settembre in una gigantesca battaglia su un fronte di oltre 300 chilometri ma chiamata battaglia di Leopoli. Questa si concluse, dopo una serie di aspri combattimenti, con la netta vittoria dell’esercito russo che inflisse pesanti perdite alle truppe austroungariche. Inseguendo il nemico i russi penetrarono in profondità, conquistarono la grande città di Leopoli e misero sotto assedio l’importantissima fortezza di Przemyśl, al cui interno erano 120.000 soldati e grandi riserve di materiale.

Mentre i tedeschi erano fermati e inseguiti dai francesi sulla Marna, abbandonando ogni velleità di una rapida vittoria, gli austriaci erano ricacciati dalla Polonia russa e più a sud si battevano per non essere respinti oltre la frontiera della Galizia. Intanto a nord i tedeschi riuscivano a penetrare nelle provincie polacche annesse dalla Russia nel 1700: una situazione strategica quanto mai complessa.

In questo settore del fronte furono concentrati 1,2 milioni di soldati russi che ebbero 225.000 perdite tra morti, feriti, dispersi e prigionieri, contro un milione di austroungarici che accusarono perdite per ben 300.000 unità più 100.000 prigionieri.

Nella disfatta delle truppe austroungariche in misura più consistente che nella campagna austro-serba giocò un ruolo importante il fatto che i soldati delle nazionalità slave a decine di migliaia attraversavano il fronte per darsi prigionieri.

Hindenburg, nel tentativo di soccorrere gli alleati, portò un’offensiva nella Slesia, con una doppia manovra assieme agli austroungarici, cercando inoltre di accerchiare gli assedianti a Przemyśl. Tra il 17 e il 26 novembre attaccò le forze russe a protezione di Varsavia nella grande battaglia di Lódź, che ebbe esito incerto, vanificando i tentativi tedeschi di sfondare le linee russe, rischiando a loro volta l’accerchiamento. Ma i tedeschi ottennero l’importante risultato strategico di impedire l’invasione della Germania. Anche qui le truppe utilizzate furono in gran numero: 225.000 tra tedeschi e austroungarici che ebbero 160.000 perdite contro 400.000 russi con 120.000 perdite.

Il comandante in capo austriaco Conrad, nel tentativo di stabilizzare il fronte nella Polonia austriaca, che tutti davano sul punto di cedere, prima dell’arrivo del “generale inverno” organizzò un contrattacco che avvenne presso Limanowa, a poca distanza da Cracovia.

Iniziato il 1° dicembre durò 7 giorni e terminò definitivamente il 13 con un successo austroungarico che cacciò i russi da Bartfeld (Bardejov), nell’Ungheria settentrionale, allontanandoli dai Carpazi e in due settimane riconquistando il passo strategico di Dukla: al momento l’impero austro-ungarico non era più minacciato.

La Russia per far fronte alla forte carenza di armamento di ogni tipo si rivolse principalmente alla Gran Bretagna che in due anni le vendette ben un migliaio tra aeroplani e motori per l’aviazione, 250 cannoni pesanti, 27.000 mitragliatrici, un milione di fucili, 8 milioni di granate, 64.000 tonnellate di ferro e acciaio, 200.000 tonnellate di esplosivo e 2 miliardi e mezzo di proiettili, segno dell’enorme potenza produttiva bellica inglese.

Ma, nonostante questi consistenti aiuti, le armate zariste non si sarebbero più spinte in profondità in territorio nemico. La crisi di rifornimenti si sarebbe fatta sentire in maniera vistosa nella successiva primavera quando più intensi sarebbero ripresi i combattimenti. La guerra di movimento sul fronte orientale non era ancora finita, ma per l’esercito zarista era passato il momento migliore.

Durante tutto l’inverno, quando nelle tormente di neve le temperature scendevano anche a -15°, con i soldati che la notte morivano congelati, le operazioni militari rallentarono. Ma alla fine di gennaio e nel febbraio 1915 gli austroungarici portarono un’offensiva nei Carpazi accompagnata da una tedesca ai laghi Masuri, cercando di bloccare tra due fronti le forze russe, distruggendo ad Augusto la X Armata.

Ad aprile i russi conquistarono la fortezza di Przemyśl e con le forze liberate da quell’assedio ripresero l’offensiva nei Carpazi ricacciando gli austroungarici dalle posizioni precedentemente conquistate.

Vista la situazione critica degli alleati e la quasi certa ed imminente apertura del fronte con l’Italia, Hindenburg decise per una potente offensiva utilizzando tutte le riserve disponibili, iniziata il 2 maggio 1915 nel settore di Gorlice-Tarnów della Galizia. Su un fronte di 40 chilometri i tedeschi concentrarono in gran fretta e in segreto 14 divisioni per fronteggiare le 6 divisioni russe che presidiavano quel tratto. I tedeschi, dopo un violento bombardamento con 1.500 pezzi d’artiglieria, riuscirono ad aprire un varco nelle deboli difese russe penetrando nelle loro linee. Anziché ripiegare su un lato per chiudere alle spalle le residue difese zariste, proseguirono in una profonda avanzata nelle retrovie che, travolgente al di sopra di ogni aspettativa, penetrò per 150 chilometri, spezzando in due il fronte russo; ripresero Prezmyśl e Leopoli facendo retrocedere i russi sulla linea difensiva del fiume San.

Una seconda offensiva tedesca a nord, il 22 giugno, intendeva chiudere definitivamente i russi in una sacca, avanzando in direzione di Brest-Litovsk, la più importante piazzaforte del versante occidentale russo, e con quella del 13 luglio nell’alto Bug e la Vistola si doveva chiudere la partita. Per evitare l’accerchiamento i russi dovettero arretrare ulteriormente anche a nord.

I russi, ora guidati dal generale Alekseev, tentarono alcune disastrose controffensive frontali che non impedirono la caduta di Brest-Litovsk e la presa di Varsavia il 5 agosto, mentre a nord il fronte si avvicinava sempre più alla città di Riga. Gli austriaci a sud, dopo l’entrata in guerra della Romania, avanzavano fino a Tarnopol, a ridosso della frontiera russa. L’avanzata continuò fino al 25 settembre quando, in seguito ad una grande offensiva dell’Intesa sul fronte occidentale, i tedeschi furono costretti a sospendere l’avanzata e spostare velocemente le truppe sul quel fronte.

In questa “Grande ritirata russa” dalla Galizia e dalla Polonia l’esercito dello Zar aveva perso, tra morti, feriti e prigionieri, poco meno di un milione e mezzo di uomini, circa la metà degli effettivi, molto pesante fu la perdita di ufficiali esperti e di enormi quantità di materiale bellico. Fu necessario distogliere truppe dal fronte caucasico per rimpiazzare i ranghi. Dovettero abbandonare circa 500.000 chilometri quadrati di territorio adottando la tattica della “terra bruciata”, con l’evacuazione forzata delle popolazioni, così private di tutto, per evitare ogni sostegno agli occupanti.

All’interno della Russia iniziarono le prime proteste contro la guerra: dai riservisti, dai feriti e convalescenti che protestavano per il ritorno al fronte, ai marinai per il pessimo cibo e la severità degli ufficiali. La chiamata alle armi di tutti gli abili a portare un fucile, studenti compresi, portò all’interno dell’esercito le idee socialiste che già circolavano nel paese.

Il materiale bellico acquistato dall’estero e pagato con i nuovi prestiti dei francesi, che temevano l’uscita della Russia dalla guerra, con difficoltà raggiungeva i porti russi, e da lì la linea del fronte.

Nonostante questa situazione il comando russo stava preparando una nuova grandiosa controffensiva. I generali Alekseev e Brusilov impiegarono mesi a riorganizzare le truppe e a formulare nuovi piani. Ripartirono agli inizi di giugno con un’offensiva di 600.000 uomini su un fronte di 350 chilometri dalle paludi di Pripyat fino alla Bucovina. Mentre sul fronte tedesco i risultati furono scarsi, su quello meridionale l’offensiva ebbe un buon successo: il pesante bombardamento di circa 2.000 pezzi d’artiglieria riuscì a demolire le difese austroungariche, che non poterono rispondere adeguatamente perché numerosi reparti della loro artiglieria erano stati spostati sul fronte italiano. Il 12 giugno Brusilov annunciò che in soli 8 giorni aveva catturato 2.992 ufficiali austriaci, 190.000 soldati, 216 cannoni pesanti, 645 mitragliatrici, 196 obici e che un terzo delle forze avversarie erano state fatte prigioniere. Alcuni giorni dopo le truppe russe entrarono a Czernowitz (Černivci), la città più orientale dell’Austria-Ungheria.

Ma i russi non riuscirono a sfruttare a fondo il successo perché le truppe, che lamentavano anch’esse ingenti perdite in questa offensiva considerata una delle più sanguinose della guerra, erano troppo scarse rispetto alla vastità del fronte, anche perché la rapida avanzata aveva notevolmente allungato le linee di rifornimento ed il pessimo sistema ferroviario non era in grado di reggere alla richiesta, per cui Brusilov dovette rallentare notevolmente l’avanzata. Solo l’intervento dello Zar in persona costrinse gli altri generali ad inviare il loro materiale bellico in sostegno di Brusilov.

Hindenburg e Ludendorff assunsero il comando del settore austriaco e dovettero spostare truppe dal tranquillo fronte a nord per sostenere gli alleati, che in poco tempo avevano perso 700.000 uomini di cui 450.000 prigionieri. Anche ai turchi fu richiesto l’invio di rinforzi.

Quest’offensiva zarista, che ai primi di settembre raggiunse le pendici dei Carpazi, dove si arrestò per evidenti difficoltà geografiche, fu l’ultimo e più alto sforzo russo nel conflitto. Da quel momento l’esercito, al tempo il più grande del mondo, non sarà più così efficace, in rapida caduta, anche per i numerosi problemi al suo interno, come le diserzioni sempre più massicce spinte dal vento rivoluzionario. Dall’inizio del conflitto nel 1914 aveva già perso 5 milioni di uomini e possiamo ben affermare che le vittime dell’offensiva Brusilov furono le gocce di sangue che fecero traboccare il vaso!

La Bulgaria entrò in guerra a fianco degli Imperi centrali nell’ottobre del 1915, mentre la Grecia, pur sottoposta a forti pressioni da entrambi i fronti, restava neutrale. Dopo lunghe trattative e gli ultimi successi di Brusilov, la Romania entrò in guerra a fianco dell’Intesa nell’agosto del 1916 con lo scopo di liberare la Transilvania, duramente oppressa dalla dominazione austriaca. Ma i rumeni sbagliarono il tempo della decisione, troppo tardiva: avrebbero avuto maggiori possibilità agli inizi della guerra quando l’Austria-Ungheria era impegnata nella disastrosa campagna contro la Serbia. Il loro esercito di 360.000 uomini inizialmente riportò qualche successo in Transilvania, presidiata solo da 34.000 austriaci, che fu liberata in 18 giorni e in 3 modeste battaglie.

Le forze degli Imperi Centrali si riorganizzano formando un comando superiore comune, di fatto sotto controllo tedesco. A metà novembre iniziava la nuova campagna tedesca, sotto il comando diretto di Falkenhayn, per l’eliminazione definitiva della Romania con due blocchi militari in movimento da opposte direzioni, che avanzarono su un esercito obsoleto e mal guidato, fino a congiungersi ad Argeş agli inizi di dicembre 1916. Occuparono Bucarest il 6 dicembre, il 4 gennaio 1917 raggiunsero la Moldavia. I reparti rumeni superstiti si unirono all’esercito zarista. La maggior parte della Romania con i suoi sterminati campi di grano e giacimenti petroliferi erano ora a disposizione degli Imperi Centrali.
 

6. La guerra sui mari

La guerra sui mari era notevolmente cambiata nel volgere di pochi anni, superato lo scontro diretto tra flotte che, con complesse manovre ed evoluzioni di squadra, cercavano di distruggersi, come era avvenuto nella battaglia di Tsushima, nella fase finale della guerra russo giapponese del 1904/1905. Ora il principale obbiettivo strategico è affondare gli enormi carichi di rifornimenti che via mare, su mercantili, singoli o in convogli scortati, arrivavano ad alimentare i vari fronti. Inizialmente le navi tedesche, accertata la natura militare del carico, davano la possibilità all’equipaggio e ai passeggeri di mettersi in salvo sulle scialuppe prima di affondare la nave, poi non più. A tal scopo furono appunto costruiti i primi sommergibili, in grado di operare sia in superficie sia, per un tempo limitato, in immersione per avvicinarsi non visti al bersaglio.

Complessa era la normativa dei trattati internazionali sulla navigazione in tempo di guerra riguardo le navi passeggeri e i mercantili armati, che permetteva arbitrarie interpretazioni e la loro elusione.

Proseguendo la guerra, il 1° febbraio 1917 il Kaiser Guglielmo II ordinò la guerra sottomarina indiscriminata contro ogni nave, indipendentemente dalla bandiera, intercettata in una determinata zona attorno all’Irlanda e alla Gran Bretagna, in particolare quelle provenienti dagli Usa e dal Canada, che si riteneva portassero rifornimenti agli alleati. La Germania era forte della sua flotta dei nuovi sommergibili U-Boat, tecnicamente più avanzati di quelli francesi e britannici perché dotati di un nuovo tipo di motore diesel e di siluri che non lasciavano la scia e dei quali era anche possibile controllare la traiettoria. Ma solitamente il naviglio commerciale veniva affondato usando i cannoni di bordo i cui proiettili erano notevolmente più economici e con un tempo di ricarica del pezzo minore rispetto ad un tubo lancia siluri.

Il transatlantico Lusitania, della Cunard Line, battente bandiera inglese, fu affondato il 7 maggio 1915 dal sommergibile U-20 presso le coste irlandesi durante un viaggio da New York a Londra. Colpito da un siluro tedesco, affondò subito per una fortissima deflagrazione nella stiva, per la probabile presenza di una gran quantità di esplosivo. Sui due ponti superiori della nave, la più moderna e veloce degli inglesi, erano stati montati sostegni per cannoni a tiro rapido: quindi era una nave armata. La maggior parte dei passeggeri era però americana, che aveva intrapreso il viaggio il 1° maggio 1915 nonostante l’avviso pubblicato sui giornali americani dalle autorità tedesche, perché la Germania non intendeva provocare la rottura della neutralità degli Usa: «Ai viaggiatori che intendono intraprendere la traversata atlantica si ricorda che tra la Germania e la Gran Bretagna esiste uno Stato di guerra. Si ricorda che la zona di guerra comprende le acque adiacenti alla Gran Bretagna e che, in conformità di un preavviso formale da parte del Governo Tedesco, le imbarcazioni battenti la bandiera della Gran Bretagna o di uno qualsiasi dei suoi alleati sono passabili di distruzione una volta entrati in quelle stesse acque».

Il numeroso naviglio statunitense, carico di armi, affondato dagli U-boot tedeschi fu preso a giustificazione del rapido deteriorarsi dei rapporti tra gli Usa e la Germania: il 6 aprile il presidente W. Wilson, il quale aveva sempre sostenuto la neutralità americana, valutando ora la situazione strategicamente favorevole agli Usa dichiarò guerra alla Germania.
 

7. Il 1917: crisi, ammutinamenti, diserzioni

Dopo due anni e mezzo di feroci ed imponenti battaglie, la situazione sui fronti e nelle città era diventata particolarmente pesante. Terribili erano le condizioni di vita dei soldati, sotto la dura disciplina imposta da tutti i comandi. Il vitto era sempre più scarso, anche per i pessimi raccolti agricoli in Europa che non avevano ricostituito le scorte. La mancanza di materie prime bloccava la produzione industriale per la guerra. La protesta si espresse al fronte in ammutinamenti e diserzioni nelle trincee e in scioperi nelle città, in particolare in Francia e in Russia.

Secondo la storiografia ufficiale francese nel corso della guerra vennero emesse 3.427 condanne di cui il 10% per diserzioni. Sul totale furono emesse 554 condanne a morte e 49 esecuzioni. Ma un’inchiesta fatta nel 1934 dimostrò che tra il 1914 e il 1918 erano stati giustiziati 1.637 soldati di cui 528 solo nel 1917, dopo estesi episodi di rifiuto a combattere. Altre fonti parlano di 675 fucilazioni nelle file francesi, 330 in quelle inglesi e 750 in quelle italiane, senza contare i numerosi episodi di esecuzioni sommarie con i cadaveri dei fucilati lasciati insepolti a monito per le truppe. Dal gennaio 1916 al luglio 1917 il solo tribunale militare di Roma celebrò circa 10.000 processi contro soldati accusati di simulazione ed autolesionismo per evitare il servizio militare o l’assegnazione alla prima linea. Anche nella flotta tedesca avvennero significativi episodi di proteste contro la guerra e la dura disciplina, sfociati in ammutinamenti e temporaneo controllo di alcune unità navali, ma alla fine ogni sollevazione dei marinai fu duramente repressa nel sangue.

In Russia, partita da una situazione già difficile all’inizio del conflitto, quando già mancavano 400.000 fucili, alcuni mesi dopo quel deficit era raddoppiato e dopo due anni di guerra centinaia di migliaia di soldati operativi non erano armati. Catastrofica la situazione dell’artiglieria con le scorte di proiettili subito esaurite ed una produzione interna non in grado di rimpiazzarne il consumo, sia per mancanza di materie prime sia di combustibile. Nel 1916 dei 151 altiforni esistenti solo 36 erano in funzione e non era possibile provvedere alla loro manutenzione.

In cambio della fornitura di armi la Francia chiese ed ottenne l’invio di 400.000 soldati russi destinati al fronte francese e a Salonicco. Il governo inglese, che aveva il controllo della maggior parte delle commesse russe, richiese a garanzia il trasferimento di 140 milioni di rubli d’oro nelle banche di Londra. Le forniture di armi dall’America raggiunsero la cifra di 1 miliardo e 237 milioni di rubli, e ben presto gli Usa occuparono il primo posto nel commercio estero russo. Le spese totali della Russia, che nell’anteguerra erano di 15,6 miliardi di rubli, durante il conflitto raggiunsero la colossale somma di 41,4 miliardi, triplicate; il debito statale aumentò da 8,8 miliardi di rubli del 1913 ai 50 miliardi nel 1917, 6 volte tanto. Per la copertura di queste spese il governo intensificò l’emissione di moneta cartacea, sospendendo preventivamente la sua convertibilità in oro.

Le proteste contro la guerra, la fame e l’oppressione zarista generarono ondate di scioperi in continua crescita: nell’agosto-dicembre 1914 vi furono 78 scioperi con 34.000 partecipanti che diventarono più di mille nel 1915 con 540.000 scioperanti e più di 1.500 nel 1916 con oltre un milione di partecipanti. Anche nelle campagne e nelle aree più remote si avevano sollevazioni contro il reclutamento degli uomini validi il che riduceva la manodopera maschile nelle campagne, dove diminuiva continuamente l’area seminata, accrescendo il deficit alimentare. Il decreto dello Zar sulla mobilitazione delle popolazioni non russe per il servizio di retrovia, emesso nel giugno 1916, nel pieno dei lavori agricoli, generò sollevazioni armate nelle aree più lontane, in particolare in Kazakistan.

Mentre il potere centrale perdeva di autorità e prestigio scoppiavano faide al suo interno per il controllo del potere. Ben noto l’ “affare Rasputin”, il monaco sedicente guaritore, mistico veggente, consigliere privato dei Romanov tramite la zarina Alessandra; fu assassinato da una congiura di notabili il 17 dicembre 1916.

Su tutto il fronte i bolscevichi portavano la parola del disfattismo, incitavano i soldati a rifiutarsi di combattere e a formare comitati di soldati.

Nel gennaio-febbraio 1917 il numero degli scioperanti raggiunse le 700.000 unità soltanto nelle imprese sottoposte al controllo della produzione bellica; il 18 febbraio iniziò lo sciopero nelle officine Putilov di Pietrogrado, la principale fabbrica di armamenti e munizioni per l’esercito, che erano militarizzate per controllarne la produzione e combattere le agitazioni proletarie. Lo sciopero divenne ben presto generale in tutta la città assumendo un carattere politico contro la guerra e lo zarismo.

A Pietrogrado si intensificarono gli episodi di insubordinazione dei soldati, mandati a reprimere lo sciopero con le armi, che ebbero il punto di svolta il 27 febbraio quando un reparto della Guardia Imperiale del reggimento Volinia, che nei giorni precedenti aveva partecipato alla repressione operaia, decise di passare dalla loro parte: uccisero il comandante mentre altri ufficiali riuscirono a fuggire. Gli operai e i soldati in rivolta liberarono i prigionieri politici, arrestarono gendarmi, ministri e generali, devastarono gli uffici della polizia e abbatterono i simboli dell’autocrazia. Nel corso del 27 febbraio passarono dalla parte della rivoluzione 60.000 soldati che divennero 120.000 il giorno seguente e 170.000 il 1° marzo. Nei giorni successivi le azioni armate degli operai e dei soldati crebbero di numero ed intensità tanto che lo zar Nicola II fu costretto ad abdicare il 15 marzo.

Il governo provvisorio, di tendenze moderate, che assunse il potere non riuscì a controllare la situazione sì che a maggio gli succedette un governo di tendenze “socialiste” capeggiato da Kerensky. Questi, nonostante le forti e diffuse richieste di pace, non ritirò le truppe dal fronte, anzi ordinò a Brusilov, ora comandante in capo di tutte le forze russe, una ennesima grande offensiva contro gli austriaci nel settore di Stanislav (oggi Ivano-Frankivs) la quale, dopo un’iniziale successo, dovette retrocedere dietro i contrattacchi nemici. All’inizio d’agosto i russi furono cacciati dalla Galizia e dalla Bucovina e soltanto considerazioni politiche, principalmente la paura del diffondersi della rivoluzione anche tra le loro file, impedirono agli austro-tedeschi di penetrare in Russia, che ormai aveva minime possibilità di difesa.

Hindenburg e Ludendorff furono assegnati al fronte occidentale, sostituiti da Hoffmann, che con valida manovra e limitate truppe riuscì a bloccare le forze russe, rendendo disponibili truppe tedesche per il fronte occidentale e in parte per quello italiano.

Sperimentando una nuova tecnica di bombardamento, i tedeschi il 3 settembre conquistarono Riga senza quasi incontrare resistenza; ad ottobre sbarcarono nelle isole di Dagö e Ösel puntando su Tallin e in prospettiva su Pietrogrado.

Il 3 novembre le truppe russe del Baltico gettarono le armi non obbedendo più al governo Kerensky e fraternizzarono con i soldati tedeschi in nome della pace, della fine della guerra. La notizia a Pietrogrado accelerò gli eventi sì che il 7 novembre i bolscevichi poterono prendere il potere.

Il 26 dello stesso mese chiesero alla Germania un armistizio: firmato il 15 dicembre stabiliva la fine di ogni combattimento su tutto il fronte orientale; la Russia non era più nazione belligerante. Mentre le trattative di pace procedevano lentamente e tra mille difficoltà, i tedeschi, dopo che i bolscevichi il 21 febbraio 1918 avevano accettato le prime condizioni, avanzarono ulteriori richieste ancor più dure, considerando il difficile momento della rivoluzione russa e il probabile dissolvimento dell’entità territoriale dell’ex impero zarista. Il 24 febbraio, il comitato centrale del partito bolscevico, dopo una tumultuosa discussione, decise di accettare senza condizioni le richieste tedesche perché il primo obbiettivo, come spiegò Lenin, era la fine della guerra e la pace ad ogni costo, condizione necessaria non tanto per la difesa del potere comunista in Russia ma come segnale e invito al disfattismo e alla rivoluzione in Europa.

Nell’attesa della firma finale le truppe tedesche iniziarono ad avanzare ad est occupando alcune città sul Baltico; il 2 marzo entrarono in profondità in Ucraina occupando Kiev, mentre a nord parevano intenzionati ad arrivare a Pietrogrado. In due settimane, praticamente senza incontrare resistenza, i tedeschi catturarono 63.000 soldati russi, 2.600 pezzi di artiglieria e 5.000 mitragliatrici, prezioso materiale bellico che fu immediatamente destinato al fronte occidentale.

Il trattato di pace fu firmato dalla delegazione russa guidata da Trotski alle ore 17 del 3 marzo 1918: i russi rinunciavano ad ogni pretesa sulle province baltiche, sulla Polonia, la Russia bianca, la Finlandia, la Bessarabia, l’Ucraina ed il Caucaso, perdendo circa un terzo della popolazione dell’anteguerra, un terzo delle terre arabili e nove decimi delle miniere di carbone. Dovettero rinunciare anche a tutte le basi del Baltico eccetto Kronštadt, le navi da guerra della flotta del Mar Nero nella base di Odessa dovettero essere disarmate e furono liberati 630.000 prigionieri austriaci.

Il fronte orientale era così chiuso. Ludendorff ad occidente stava organizzando una poderosa offensiva. Erano in arrivo quasi un milione di soldati americani in appoggio agli alleati dell’Intesa, anche loro allo stremo.

(continua al prossimo numero)

 

 

 

 

 

 


La successione dei modi di produzione nella teoria marxista
3. La forma di produzione secondaria - variante antico‑classica - Roma
(continua dal numero scorso)

Capitolo esposto alla riunione generale di Torino nel maggio 2017

La potenza dello Stato

Due sono le grandi eredità della variante antico classica, che, come abbiamo visto nel numero precedente, ha toccato a Roma il suo apogeo, per altro divenute ormai due pesanti zavorre con cui dovrà fare i conti la dittatura proletaria nel lungo percorso di distruzione dei rapporti di produzione borghesi. Esse hanno infatti attraversato i secoli e le forme di produzione per giungere intatte nella piena fase capitalistica imperialista. Esse sono un potente Stato, che diverrà a Roma multinazionale e relativamente “universale”, ed i suoi propri apparati legali che possiamo genericamente riassumere sotto la denominazione di istituti giuridici.

Prima di ripercorrere il processo prima di sviluppo poi di decadenza dello Stato romano è necessario sgombrare il campo dalle vecchie teorie opportuniste, che hanno insterilita la teoria marxista rivoluzionaria e contribuito ad allontanare la classe dalla sua avanguardia comunista e che ancora pesano come un macigno sul percorso di quella ricongiunzione.

Nel suo grande lavoro di ristabilimento della purezza teorica, inquinata dal virus opportunistico, Lenin giunge, in Stato e Rivoluzione, a toccare quel tema fondamentale che è la natura dello Stato. A riprova della continuità e dell’ invarianza della dottrina assume la veste dello scolaro e copia dal maestro.

«Lo Stato – dice Engels arrivando alle conclusioni della sua analisi storica – non è affatto una potenza imposta alla società dall’esterno e nemmeno “la realtà dell’idea etica”, “l’immagine e la realtà della ragione”, come afferma Hegel. Esso è piuttosto un prodotto della società giunta a un determinato stadio di sviluppo, è la confessione che questa società si è avvolta in una contraddizione insolubile con se stessa, che si è scissa in antagonismi inconciliabili che è impotente a eliminare. Ma perché questi antagonismi, queste classi con interessi economici in conflitto, non distruggano se stessi e la società in una sterile lotta, sorge la necessità di una potenza che sia in apparenza al di sopra della società, che attenui il conflitto, lo mantenga nei limiti dell’ “ordine”; e questa potenza che emana dalla società, ma che si pone al di sopra di essa e che si estranea sempre più da essa, è lo Stato».

E Lenin così commenta questo formidabile passo di Engels tratto dall’Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato:

«Qui è espressa, in modo perfettamente chiaro, l’idea fondamentale del marxismo sulla funzione storica e sul significato dello Stato. Lo Stato è il prodotto e la manifestazione degli antagonismi inconciliabili [è Lenin che sottolinea in tutti questi passi] tra le classi. Lo Stato appare là, nel momento e in quanto, dove, quando e nella misura in cui gli antagonismi di classe non possono essere oggettivamente conciliati. E, per converso, l’esistenza dello Stato prova che gli antagonismi di classe sono inconciliabili».

 Lo Stato è pertanto un prodotto di una determinata era storica, quella caratterizzata da classi antagonistiche in lotta mortale, e scomparirà con esse.

Da ciò consegue che lo Stato, qualsiasi classe rappresenti, anche quella operaia, non può in nessun caso essere un organismo neutrale, con la funzione di mediare i rapporti tra attori con pari diritti, ma deve assumere le sembianze dell’organo di repressione per eccellenza.

«Secondo i professori e pubblicisti piccolo-borghesi e filistei – che molto spesso si riferiscono con compiacimento a Marx – è proprio lo Stato a conciliare le classi. Per Marx lo Stato è l’organo del dominio di classe, un organo di oppressione di una classe da parte di un’altra; è la creazione di un “ordine” che legalizza e consolida questa oppressione, moderando il conflitto fra le classi. Per gli uomini politici piccolo-borghesi l’ordine è precisamente la conciliazione delle classi e non l’oppressione di una classe da parte di un’altra; attenuare il conflitto vuol dire per essi conciliare e non già privare le classi oppresse di determinati strumenti e mezzi di lotta per rovesciare gli oppressori».

Ciò vale per il moderno Stato difensore del capitalismo monopolistico come per la res publica ed il principatus romano. Questo il tema del presente rapporto.

Non è per nulla semplice ricostruire nei dettagli la struttura statale del periodo arcaico di Roma, sia per la quasi totale assenza di fonti coeve sia perché gli autori posteriori tendono incessantemente a riversare sul passato i caratteri della propria epoca, a scopo di difesa delle istituzioni repubblicane dagli attacchi della plebe. Quel che è certo è che le istituzioni gentilizie, che unendosi costituirono il nucleo fondamentale dell’Urbe, andarono progressivamente disgregandosi e persero d’importanza per il divenire dei rapporti di produzione.

Lo Stato di classe va consolidandosi. Lo si può osservare nel meccanismo di attribuzione delle cariche pubbliche: la rotazione degli incarichi sarà limitata. Con apparente paradosso il consolidamento della gerarchia dominante avviene utilizzando il metodo democratico: le competizioni elettorali diventano lo strumento per procacciarsi le clientele e la demagogia diviene l’arte per eccellenza del politico di professione.

Nella sua Storia di Roma il Mommsen coglie perfettamente il fenomeno avutosi nel periodo dalla sottomissione di Cartagine a quella della Grecia.

     «Tra le innovazioni promosse dal governo, le quali, quantunque in generale non alterassero affatto la lettera della costituzione esistente, ne mutavano in pratica l’applicazione [...] si distinsero più recisamente le misure colle quali fu limitata la libertà delle elezioni; e la nomina ai posti di ufficiale ed agl’impieghi civili si fece dipendere dalla nascita e dall’anzianità, e non come voleva il tenore della costituzione e come esigeva il suo spirito, esclusivamente dal merito e dall’abilità.

«La nomina di ufficiali di stato maggiore era stata per la massima parte già prima d’allora trasferita dal generale alla borghesia; in quest’epoca fu stabilito che tutti gli ufficiali di stato maggiore della regolare leva annua, e i ventiquattro tribuni di guerra delle quattro legioni regolari fossero nominati nei comizi tributi. Sempre più insopportabile sorgeva quindi il distacco tra gli ufficiali subalterni, i quali guadagnavano le loro promozioni per mezzo del generale, servendo puntualmente e dando prove di valore, e gli ufficiali superiori, i quali si procacciavano i loro posti privilegiati col mezzo di brighe nei comizi. Per porre un freno, almeno ai più sfacciati abusi, e impedire che uffici di tanta importanza venissero affidati a giovani inesperti, fu necessario pretendere, per le nomine a posti di ufficiali di stato maggiore, la condizione di aver servito un certo numero di anni. Ciò nonostante, dacché ai giovani delle famiglie nobili fu imposto come primo gradino della carriera politica il tribunato di guerra – il vero perno dell’organizzazione dell’esercito romano – l’obbligo del servizio militare fu spesso eluso, e la nomina ai posti di ufficiale divenne dipendente da tutti gl’inconvenienti delle brighe democratiche e dell’esclusivismo aristocratico».

La differenza tra la variante antico classica a quella asiatica balza agli occhi se rivolgiamo lo sguardo al grande affare dei lavori pubblici, a Roma vera cuccagna privata; questi vengono infatti eseguiti a spese della plebe facendo in modo che la spirale debitoria si avvolga su se stessa fino a strozzare i produttori, come racconta Tito Livio nella sua Storia di Roma dalla fondazione descrivendo gli avvenimenti del IV secolo a.C. quando la plebe dovette contrarre nuovi debiti per pagare il tributo imposto per la costruzione delle mura in massi quadrati, opera che venne appaltata ai censori.

Questo tributum in periodo repubblicano era l’unica imposta diretta pagata dai cittadini romani ed era esatto saltuariamente per esigenze militari; si divideva in tributum simplex (pari all’uno per mille) e duplex. A segnare una svolta nella politica fiscale sarà la guerra annibalica che, per la sua ampiezza e durata impose infatti allo Stato di drenare risorse direttamente dai produttori.

«Il senato, il giorno in cui fu per la prima volta consultato in Campidoglio, decise che quell’anno [il 213 a.C.] si imponesse un tributo doppio, e subito se ne riscuotesse la metà, con cui fosse pagato in contanti lo stipendio a tutti i soldati, eccettuati quelli che erano stati soldati a Canne».

L’incessante processo di espansione territoriale di Roma contribuisce in maniera determinante alla distruzione delle antiche costituzioni gentilizie. Lo Stato è letteralmente comprato dai patrizi, che diventano creditori dell’erario, ottenendo così un doppio vantaggio: da una parte ne diventano i creditori, dall’altra scaricano il rischio sull’intera comunità, come direbbe Marx: solo i debiti sono pubblici, mentre i crediti sono privati.

«Il pretore Fulvio doveva presentarsi in assemblea, rivelare al popolo i bisogni urgenti dello Stato ed esortare coloro che avevano accresciuto i loro patrimoni con gli appalti (qui redempturis auxissent patrimonia) ad accordare allo Stato, al quale dovevano il loro arricchimento, il tempo necessario per pagare e ad assumersi l’incarico di fornire ciò di cui l’esercito di Spagna avesse bisogno, alla condizione di essere pagati per primi allorché l’erario avesse avuto il denaro. Allorché giunse quel giorno, erano presenti all’appalto tre società di diciannove persone, le cui richieste furono due: l’una, di essere dispensate dal servizio militare finché avessero avuto quell’appalto pubblico; l’altra, che la merce caricata sulle navi viaggiasse a rischio e pericolo dello Stato riguardo a danni provocati dai nemici o da burrasca».

L’erario, esausto per le spese della guerra, non riuscì neppure più a provvedere agli appalti relativi all’ordinaria amministrazione; i patrizi però ne sollecitarono la prosecuzione, in questo modo accrescendo il debito statale, cioè il loro credito verso i produttori immediati.

«Poiché i censori, a causa della povertà dell’erario (ob inopiam aerarii), si astenevano dal dare in appalto (locationibus) la manutenzione e la fornitura dei cavalli curuli e altre faccende di questo genere, si recarono da essi in gran numero persone che di solito intervenivano a tali pubbliche aste (hastae), ed invitarono i censori a procedere senz’altro a tutti gli appalti come se nell’erario ci fosse il denaro: nessuno, se non a guerra terminata, avrebbe chiesto denaro all’erario».

In epoca imperiale il controllo delle risorse finanziarie sarà affidato alla corte, che per far fronte alle aumentate spese dovute ai costi elevati derivanti dalla mastodontica macchina governativa, introdurrà nuovi prelievi fiscali; tra i quali annoveriamo: la manumissionum, il 5% del suo valore dovuto dal proprietario al momento della liberazione di uno schiavo; di uguale importo era la vicesima hereditatum (la ventesima parte quindi) dovuta sugli atti di successione ereditaria, che con l’imperatore Settimio Severo sarà raddoppiata; i vectigalia, l’1% sulle compravendite; ecc.

L’aumento dell’imposizione fiscale sarà anche accompagnato dal tentativo di razionalizzare il meccanismo di esazione delle imposte. L’impero sarà diviso amministrativamente in province senatorie, i cui tributi andranno ad alimentare l’erario oltre alle spese correnti, ed in province imperiali, le cui entrate confluiranno nel fisco, la cassa privata dell’imperatore.

A questo punto anche sul piano delle soprastrutture il processo di distacco dello Stato dalla società può dirsi completato: anche formalmente gli apparati economici e giuridici si identificano con la classe dominante.

 

La sottomissione di classe come diritto

Il processo di progressiva affermazione della proprietà privata può essere osservato magnificamente nelle modificazioni intervenute nelle strutture giuridiche, che da istituti che riflettono i rapporti tra le gentes nel loro complesso del periodo arcaico, assumono sempre più il carattere di istituzioni regolanti rapporti tra singoli individui.

Lo Stato arcaico era costituito da tre componenti fondamentali. I comitia curiata, assemblea politico religiosa di cui facevano parte tutti i patrizi di sesso maschile; erano privi di potere deliberante, che però dovevano essere messi a conoscenza degli atti promulgati dal Re. L’assemblea degli anziani, più ristretta e con poteri deliberanti, che prevedeva la partecipazione dei soli patres delle gentes e delle più importanti famiglie, che in epoca più tarda assumerà la denominazione di senatus. Il Re, eletto a vita dal senato, con il sistema dell’interrè nei periodi di vacanza regale.

La moltiplicazione delle guerre (contro gli Etruschi e le popolazioni campane) produsse la separazione del Re dal comando dell’esercito, che fu affidato ad un pretore massimo. Gli aumentati corpi militari centuriati, divisi in legioni, furono sottomessi al comando di due pretori. La plebe, accresciuta di importanza nei ranghi dell’esercito, e soprattutto dei capi delle famiglie più ricche, fece successivamente avanzare la pretesa che almeno un posto di pretore fosse riservato ad un candidato plebeo.

All’interno di questo ordinamento statale si andarono formando due sistemi giuridici, quello del ius quiritium, essenzialmente costituito dalle usanze tramandate dagli antenati e che, in virtù del loro prestigio, venivano solennemente rispettate (mos maiorum), regolanti i rapporti tra le genti patrizie prese complessivamente e solo eccezionalmente aperto a plebei e stranieri; e quello del ius legitimum vetus, principalmente costituito dalle Leggi delle Dodici Tavole e da qualche altro provvedimento normativo concesso unilateralmente dai rappresentanti del patriziato su pressione della plebe per estendere a quest’ultima i rapporti giuridici normati dal ius quiritium e per rinnovarlo accogliendo criteri moderni derivanti soprattutto dai crescenti rapporti di Roma con le colonie d’oltremare.

Nel successivo periodo repubblicano le antiche istituzioni non verranno formalmente abolite ma perderanno progressivamente d’importanza per effetto dell’affacciarsi degli istituti legati alla cosiddetta repubblica nazionale romana: organizzazione derivante dall’esercito centuriato caratterizzata dalla tendenziale equiparazione tra il patriziato e le famiglie plebee più ricche.

L’ambito territoriale d’applicazione del diritto romano preclassico si estese progressivamente fino a comprendere vaste zone dell’Italia peninsulare ed anche alcune colonie esterne grazie all’inserimento dei nuovi territori all’interno delle vecchie quattro tribù “urbane” e nelle 31 “rustiche”.

Il governo cittadino, formalmente democratico e poggiante sulla “volontà popolare”, era in pratica monopolio delle antiche famiglie patrizie (nobilitas) e del nuovo ceto emergente dei cavalieri (equites). Si potrebbe definire il governo repubblicano come essenzialmente oligarchico. È caratterizzato da scontri sempre più violenti, che sfoceranno poi nelle guerre civili, tra il partito sostenitore della nobiltà (gli optimates) e quello dei cavalieri (populares). L’intero sistema si reggeva sulle assemblee popolari cui era demandata l’elezione formale dei magistrati, l’approvazione di leggi e plebisciti; su una complessa gerarchia di magistrature (consolato, pretura, censura, ecc.) aventi per caratteri fondamentali la limitazione temporale del mandato, le più importanti delle quali dotate sia di potestà autoritative sia dell’importante comando militare. L’organo regolatore l’intera vita politica repubblicana può considerarsi il senato, composto da ex magistrati. Teoricamente era autorizzato ad emettere solamente pareri, la cui autorevolezza però li rendeva quasi vincolanti.

Tra i sistemi normativi merita menzione lo ius gentium che scaturì dall’attività del pretore incaricato di regolare le liti private tra romani e stranieri o tra stranieri che si trovavano nell’Urbe, il tutto adottando una nuova procedura molto diversa dalla formalistica delle legis actiones, innovazione che permetterà ai magistrati giudicanti di tenere conto soprattutto delle regole “commerciali” delle civiltà più progredite presenti nel bacino Mediterraneo.

Il periodo classico della storia giuridica romana coincide con i primi secoli dell’Impero, nel quale le vecchie istituzioni persero la scarsa importanza residua a causa della prevalenza degli organismi legati direttamente all’imperatore, la cui rilevanza è dimostrata dalle attribuzioni eccezionali quali la potestà tribunizia (che garantiva l’inviolabilità della persona, a somiglianza dei tribuni della plebe repubblicani) e l’imperio proconsolare.

L’organizzazione militare e civile che l’impero creò permise al governo romano di irradiarsi fino ai lontani confini e la formazione di istituzioni che progressivamente andranno a rimpiazzare quelle repubblicane, ormai in piena decadenza. L’apice del processo si toccherà con la costituzione Antoniniana del 212 d.C. dell’imperatore Caracalla, che estenderà a tutti i sudditi la qualifica di cittadino.

Contemporaneamente andò approfondendosi la distinzione tra il diritto pubblico, regolante il funzionamento dell’apparato statale, e diritto tra privati.

Successivamente al periodo dei primi imperatori, caratterizzato da una tendenziale costanza del vecchio ordinamento giuridico, progressivamente la posteriore legislazione derivò essenzialmente da atti emanati dagli imperatori, sotto forma di richieste di pareri al senato, editti rivolti ai funzionari imperiali, pareri espressi direttamente dal princeps su richiesta di giudici o privati cittadini e infine decreti imperiali direttamente validi per la soluzione delle liti.

La crisi economica e sociale dell’Impero si riverberò sulla produzione giuridica, che andò costantemente accentrandosi presso la corte imperiale. L’Impero, prima unitario e diviso in una parte occidentale ed una orientale, fu organizzato secondo una complicata burocrazia civile e militare, facente capo all’imperatore che tuttavia manteneva la propria formale investitura come promanante dalla lex curiata de imperio.

L’ordinamento giuridico, non più sorretto da un’unitaria giurisprudenza, subì numerose modifiche e di varia provenienza: cristiana, occidentale e orientale, che raramente ne migliorarono i connotati. Un argine a questo processo di frammentazione si ebbe saltuariamente con vari tentativi di ritorno alle vecchie fonti del diritto classico; l’opera più imponente di restaurazione, e contemporaneamente di ammodernamento del patrimonio giuridico fu compiuta dall’imperatore Giustiniano I per mezzo di quell’immane lavoro di riorganizzazione che è passato alla storia col nome di Corpus iuris civilis.

Se il diritto romano ha potuto attraversare i secoli e le forme di produzione le più diverse, per essere adottato, con le sue contraddizioni e forme diverse, dal capitalismo moderno, è per aver saputo accogliere fin dalle origini il rapporto di proprietà privata così come si venne ad affermare sulla distruzione dei legami gentilizi e comunitari. Ciò comprova come le società di classe, benché distanti millenni, sono tra loro simili rispetto alla discontinuità storica operata dalla negazione comunistica del capitalismo.

 

I germi del feudalesimo

La crisi del III secolo dopo Cristo che investì il modo di produzione schiavista causò la decadenza della centralità della penisola italiana, e di Roma in particolare, rispetto alle zone periferiche dell’Impero. Alcuni dei provvedimenti attuati dalla classe dominante per contrastare, per quanto possibile, la decomposizione della società non solo non vi riuscirono, al contrario contribuirono a preparare il terreno alla forma di produzione terziaria.

Gli imperatori furono costretti a riconoscere svariati privilegi e relativa autonomia economica e giuridica alla classe sociale dei potentiores. Erano essenzialmente i rappresentanti dell’alta burocrazia imperiale o di famiglie economicamente agiate, che in pratica si comportavano come piccoli Stati all’interno dello Stato. Gli imperatori, mancando della forza e degli strumenti tecnici, specie repressivi, per contrastare questa nuova èlite, si videro spesso costretti a sanzionare il fatto compiuto di questa sottrazione di potere ai danni dello Stato romano. Cercarono di arginare le loro pretese più smodate e di dirottarle sulle popolazioni stanziate nei territori da loro controllati; era la degenerazione del sistema delle clientele.

Né mancarono reazioni anche aspre da parte delle popolazioni vessate dai nuovi signorotti. Comunità di villaggio composte di piccoli proprietari della parcella attorno all’abitazione si accordarono di non cedere ad estranei la terra rimasta comunitaria, boschi, pascoli, ecc.

La decadenza del sistema di produzione schiavistico, dovuta essenzialmente al costo eccessivo di quel tipo di manodopera, causato dalla riduzione della sua fonte di approvvigionamento, la guerra, e al suo basso rendimento, portò ad affermarsi la forma del lavoro libero. Ma, a causa degli abusi dei potentiores e della debolezza legislativa della corte imperiale, i lavoratori liberi fuggirono dalle città per riversarsi nelle campagne o tra le file del nuovo esercito professionale. Gli imperatori reagirono vincolando i lavoratori, col duplice principio della ereditarietà e della irrecusabilità della professione. Ereditario fu proclamato il lavoro nelle manifatture imperiali, in cui confluivano tutti i condannati; ereditaria fu proclamata l’appartenenza a certi corpora considerati di pubblica utilità come i battellieri, i panettieri, i macellai, ecc.

Soprattutto ereditario fu proclamato il lavoro nei campi, da cui deriverà la gleba, con l’istituto del colonatus. Ne conseguirono, nell’aggravarsi della situazione economica generale, limitazioni soggettive di carattere giuridico, che fecero di gran parte dei cittadini romani, liberi solo negli aspetti formali, sostanzialmente degli schiavi, sia pure al servizio della comunità.

La quasi totale sparizione della piccola proprietà contadina, nerbo dell’esercito repubblicano, costrinse i contadini, che prima erano emigrati nelle città ad accrescere la folla mantenuta a spese dell’erario, a mettersi sotto la protezione dei potentiores locali in cambio di un impiego nelle loro terre. La loro situazione li trasformò col tempo da coloni a vincolati in maniera perpetua al pezzo di terra assegnato. Decisiva fu in proposito una costituzione di Costantino del 332 d.C., che vietò ai coloni di abbandonare i loro terreni, pena la riduzione in schiavitù. I coloni non solo erano obbligati al pagamento del canone in favore del dominus fundi (il proprietario del fondo), in caso di fuga il proprietario terriero poteva reclamarli come fossero veri schiavi, che vendeva assieme al fondo se alienato.

Il sistema del colonato rimase in attesa delle nuove condizioni di produzione che lo avrebbero generalizzato come servitù della gleba.

 

La poetica del materialismo

Proseguendo nella ricerca di semi materialistici e dialettici sparsi nei millenni della storia del pensiero è doveroso, relativamente alla variante antico classica, soffermarsi sulla figura di Lucrezio.

L’unica opera che ci è rimasta, il De rerum natura, è un capolavoro, oltre che scientifico anche linguistico, di poesia; la grande narrazione dei principi della “filosofia naturalistica” di Lucrezio si avvia con la spiegazione dei principi fondamentali che regolano la “natura delle cose” per concludersi con una teoria evoluzionistica delle specie fino a quella umana. È espresso in un passo del primo libro il fondamento di ogni materialismo, che la materia è bastante a se stessa e non chiede interventi ad essa esterni: «Nessuna cosa mai nasce dal nulla per atto divino»

Tutto è creato dalla materia, senza intervento divino, e tutto ritorna alla materia in un costante fluire e rifluire: «Della suprema norma del cielo e degli dèi prenderò a parlarti, e ti svelerò i princìpi delle cose, dai quali la natura tutto crea, accresce e alimenta, e in cui la natura di nuovo risolve le cose dopo averle distrutte».

Il potenziale rivoluzionario della sua dottrina è evidente, e non sfuggì alle classi dominanti dell’epoca che riversarono sul poeta calunnie e critiche spietate. Lucrezio fu costretto a difendersi dall’accusa di propagandare una filosofia empia, negatrice della religione ufficiale; rispose ribaltando la critica su quella religione, meglio sullo scudo religioso utilizzato dai senatori per legittimare ogni loro crimine. Allora come oggi tutte le classi dominanti nascondono i loro delitti dietro gli opposti fanatismi di stampo religioso, sempre falsamente coperti da un manto di sacralità. «Qui un timore mi prende, che forse tu creda d’essere iniziato ai princìpi di un’empia dottrina e di metterti sulla via della colpa. Invece proprio essa, la religione, generò più volte atti scellerati ed empi, come in Aulide l’ara della vergine Trivia macchiarono turpemente col sangue d’Ifianassa gli eletti duci dei Danai, il fiore degli eroi».

È la paura dell’ignoto che contribuisce alla nascita delle convinzioni religiose, falsa spiegazione di fenomeni naturali che non si riescono ad interpretare: «Certo la paura tiene schiavi tutti gli uomini, perché molti fenomeni vedono svolgersi sulla terra e nel cielo dei quali in nessun modo possono discernere le cause, onde li credono avvenire per cenno divino».

Nulla nasce dal nulla, e «nulla si riduce al nulla», la materia, al termine del suoi cicli, si dissolve nuovamente nei propri elementi primi, gli atomi, e ne ricomincia di nuovi.

La stessa “anima” è ridotta e concepita come una particolare materia, solo formata da atomi “più piccoli” rispetto a quelli “corporei”: «In primo luogo affermo ch’è oltremodo sottile e sta insieme composta di minutissimi elementi». Essere e pensiero non possono che risultare uniti, pertanto l’”anima”, il pensiero, muore assieme al corpo e non è immortale: «Spirito ed anima lievi negli esseri sono soggetti a nascita e a morte. L’una e l’altra sostanza tu fa’ di comprendere in un unico nome; e se parlo, ad esempio, dell’anima spiegando com’essa è mortale, considera che intendo pure lo spirito, in quanto si tratta di cose congiunte fra loro ed unite (...) L’anima nasce insieme col corpo e cresce ed invecchia con lui».

Tesi da sempre reazionaria è il pensare che l’esistente sia fisso, eterno, immutabile, e che tutto sia stato creato da un essere divino ad uso e consumo dell’Uomo. «Dire poi che per causa degli uomini gli dèi vollero apprestare la splendida natura del mondo, e che dunque è giusto lodare la mirabile opera divina e crederla eterna e immortale; e che è cosa empia scuotere a forza dalle sue basi ciò che dall’antica sapienza dei numi fu per le genti umane edificato con destino eterno, o denigrarlo a parole e sovvertirlo dal fondo alla cima: immaginare e aggiungere altre ragioni simili a queste, o Memmio, è follia».

Se il creato è perfetto, il rivoluzionario non può essere che un empio.

Il materialismo di Lucrezio ha però risentito di influenze epicuree che l’hanno allontanato dalla grande tradizione deterministica proveniente da Democrito, specie nell’ambito di quelle che modernamente si chiamerebbero le scienze della società, e conseguentemente gli hanno fatto esaltare la famigerata “libertà del volere”. Democrito aveva previsto la nascita della materia organica dall’inorganica, l’organizzarsi della vita in forme sempre più complesse, la riproduzione degli esseri viventi prima semplice poi sessuata, quindi la selezione naturale e l’evoluzione delle singole specie.

«Prima le specie dell’erbe e il loro verde nitore la terra germinò intorno per tutti i colli e i piani, i floridi prati rifulsero di verde colore, e agli alberi diversi fu concessa poi gara immensa di crescere per l’aria a briglie abbandonate. Come da prima spuntano piume, setole e peli sulle membra dei quadrupedi e sul corpo dei pennuti, così allora la giovine terra germogliò prima erbe e cespugli, poi creò le specie animali, che sorsero numerose alla vita in molti modi e in forme diverse [...] Resta che a ragione la terra ha ricevuto il nome di madre poiché dalla terra traggono origine tutte le creature» (De Rerum Natura).

Per concludere questi brevi accenni sulle origini dei riflessi intellettuali delle contraddizioni della millenaria lotta di classe, proponiamo uno splendido passo in cui il poeta materialista caratterizza, staremmo per dire marxisticamente, il linguaggio come uno strumento di produzione nato dall’evoluzione dei rapporti sociali.

«La natura costrinse ad emettere i vari suoni del linguaggio, e il bisogno plasmò i nomi delle cose; in simil modo vediamo l’incapacità della lingua guidar da sola il gesto dei bambini, quando fa che mostrino a dito gli oggetti attorno. Ognuno infatti sente a quale uso può volgere le sue facoltà. Il vitello, ancor prima che le corna gli spuntino dalla fronte, con quelle assale nell’ira e minaccioso incalza. Ma i cuccioli delle pantere e i leoncelli già si rivoltano a unghiate, a colpi di zampa e a morsi, quando i denti e le unghie sono in essi appena formati. Tutte le specie di uccelli vediamo fidar nelle ali e chiedere alle penne un sostegno ancora tremante. Dunque è pazzia pensare che alcuno abbia allora assegnato i nomi alle cose, e da lui gli altri uomini abbiano appreso le prime parole».

(continua al prossimo numero)

 

 

 

 

 

 

  


La classe operaia e il nazionalismo irlandese
(continua dal numero scorso)

Parte terza
Lo sciopero di Belfast del 1907
Capitolo esposto a Torino nel settembre 2015

 

1. Collegamento

Nel capitolo precedente di questo studio abbiamo descritto il formasi di un partito indipendente del proletariato irlandese, separato dalla borghesia. A differenza del movimento socialista nell’isola maggiore, che stava conducendo una simile battaglia per la sua indipendenza politica, in Irlanda v’era anche da delimitarsi correttamente dalla montante forza nazionale indipendentista: il movimento operaio in Irlanda era alla ricerca della sua autonomia dalla borghesia nello stesso contesto in cui quella borghesia irlandese era alla ricerca della sua indipendenza dal borghesia inglese. In questa dinamica il nuovo partito, lo Irish Republican Socialist Party, avrebbe avuto il compito, sullo slancio del movimento nazionale, di scavalcarlo per muovere alla affermazione politica del comunismo.

In questa seconda parte seguiremo il progresso del nuovo reclutamento sindacale in Irlanda di lavoratori comuni da circa il 1907 in poi.

Per questo periodo siamo condizionati dalle fonti di cui disponiamo, che tendono, inconsapevolmente o meno, ad enfatizzare l’attività dei “grandi uomini”, spesso a detrimento dello studio dell’ambiente storico e sociale che produsse le loro azioni e pensieri. Dobbiamo superare questa ingenuità e pettegolezzo individuale per approfondire la nostra analisi ed arrivare ad una sufficiente conoscenza dei fatti individuando le diverse correnti scaturite dal combinarsi del movimento delle diverse classi sociali in Irlanda.

Il marxismo vede infatti l’attività degli individui determinata dagli interessi economici delle classi del loro tempo. Quindi anche qui, quando ci riferiamo ai nomi di James Connolly e di James Larkin, che si impongono nella storia di questo periodo, lo facciamo solo a fine esplicativo, come due fra le più fedeli espressioni del movimento, sindacale e politico, dell’insieme della classe operaia in Irlanda, nel suo sviluppo e nelle sue manifestazioni di forza e di debolezza, all’interno del quale entrambi furono attivi e dirigenti. Seguiamo la storia della loro milizia come un filo guida attraverso un trapasso complesso, simultaneamente espressione delle anonime e potenti forze storiche dell’anti-imperialismo e del nazionalismo insieme a quella di un nascente movimento indipendente della classe operaia.

 

2. La National Union of Dock Labourers

La National Union of Dock Labourers (NUDL) era una della new unions di manovali che si erano formate sotto l’impulso della grande ondata di scioperi degli anni 1889-90. Pur avendo base a Liverpool era chiamato “il sindacato irlandese” per la sua composizione e la sua dirigenza. Quest’ultima, con James Sexton, preferiva all’azione diretta i metodi legali, le inchieste parlamentari, l’estensione della legge sulle fabbriche, l’applicazione di regolamenti sulla sicurezza, ecc.

Però nel 1905 Sexton, l’anno nel quale divenne presidente del TUC, sarebbe stato costretto ad appoggiare uno sciopero non ufficiale indetto per mantenere il closed shop fra i capisquadra nell’azienda T & J Harrison. La Shipping Federation, l’associazione degli armatori, si affrettò a fornire i crumiri all’azienda e dopo dieci settimane lo sciopero finì in una sconfitta. Però Larkin durante la lotta era riuscito ad organizzare una nuova sezione della NUDL con 1.200 iscritti: l’esecutivo del sindacato lo assunse come organizzatore temporaneo.

In quell’anno Larkin lavorò alla campagna elettorale di Sexton, contribuendo alla sua elezione al consiglio comunale di Liverpool e l’anno seguente l’avrebbe appoggiato nella circoscrizione di Liverpool per l’elezione al parlamento, ma senza successo. Ma alle elezioni del 1906 il Labour Party ottenne il suo primo grande successo elettorale.

Larkin avrebbe presto ottenuto l’incarico permanente di organizzatore nazionale all’interno della Union; condusse poi con successo la campagna elettorale per il Labour Party in Scozia e nel Nord dell’Inghilterra.

 

3. Ancora la sirena parlamentare

In quegli anni in Irlanda fra i lavoratori la morale era alta, e nei porti sembrava il momento opportuno per riorganizzarsi.

Nel gennaio 1907 alla conferenza del British Labour Party (BLP) si ebbe uno scontro fra la due ali del partito. Per due o tre anni un numero di delegati diretti da Ben Tillett (un altro dei capi dei portuali dal 1889) avevano condotto una campagna per accogliere nel partito il Parliamentary Labour Party (PLP): i parlamentari si sarebbero così dovuti attenere alla politica del partito come decisa alla conferenza, che rappresentava il partito fuori del parlamento. Ma i deputati rigettarono questa posizione come impraticabile, col pretesto delle necessità dei quotidiani tatticismi parlamentari. Alla fine si arrivò ad una soluzione di compromesso secondo la quale il PLP avrebbe discusso con il Comitato Esecutivo Nazionale (NEC) su come le decisioni della conferenza si sarebbero dovute applicare in parlamento. Ma da allora in poi, dato che sia la NEC sia il PLP erano per focalizzare l’attività nel parlamento, lo scivolare verso il corrompimento di destra dei rappresentati del partito dei lavoratori poté procedere senza alcuna remora da parte della conferenza del partito.

William Morris aveva avuto ragione nel sollevare la sua preoccupazione in merito, alcuni anni prima. Ma a molti lavoratori e militanti l’alternativa a questa sottomissione alla democrazia e all’elettoralismo sembrò allora essere l’anarchia, gravemente errando si credette di potersi volgere ad un nuovo tipo di sindacalismo e ad una politica apparentemente estremista per evitare di chiudere il movimento nell’orizzonte leguleio e parlamentare. Questa ricerca, come vedremo, sarebbe finita nel sindacalismo, con De Leon a massimo esponente.

 

4. I portuali di Belfast

Nell’ultimo decennio del XIX secolo la popolazione di Belfast era aumentata più che ovunque altrove, da 256.000 a 349.000, e partendo da 19.000 abitanti nel 1801. Nel 1907 era cresciuta ancora a circa 400.000. Era l’area più industrializzata di Irlanda, con i maggiori cantieri navali e le tessiture del lino. Qui, come gli scritti di James Connolly descrivono, regnava un terribile sfruttamento, migliaia di manovali, del tutto disorganizzati, lavoravano 16 ore al giorno per una misera paga.

Ma l’anno precedente aveva visto un aumento della combattività operaia favorita da una risalita del ciclo economico e in maggio 17.000 filatori, tessitori ed altri si battevano per aumenti salariali.

Il sistema delle paghe all’interno del porto era caotico con paghe diverse talvolta per lo stesso lavoro sulla stessa nave. All’epoca il porto dava impiego a 3.100 lavoratori, dei quali 1.000 erano fissi e il resto spell-men, a chiamata, pagati ad ore. Sulle banchine erano impegnati anche 1.500 carriolanti ingaggiati dalle compagnie di navigazione e dai corrieri.

Entro aprile a Belfast il sindacato aveva reclutato 2.900 portuali e carriolanti ed altri 1.000 a Derry.

Dopo la fine della guerra ai boeri le tensioni religiose si erano affievolite, tanto che due dei dirigenti, insieme a Larkin, della sezione locale della NUDL erano rispettivamente Michael McKeown, un nazionalista, ed Alex Boyd, esponente dello Independent Orange Order, una scissione dello Orthodox Orange Order del 1903. Le divisioni religiose però rimanevano. Sul porto-canale di Belfast i portuali erano prevalentemente protestanti e con posto fisso mentre erano lasciati ai cattolici gli ingaggi avventizi sulle navi d’alto mare. Le rispettive riunioni erano fissate in locali diversi.

La NUDL si sarebbe affiliata al Belfast Trade’ Council, al quale Larkin si affrettò ad iscriversi premendo per una politica indipendente del lavoro, vicina allo Independent Labour Party piuttosto che ai liberali o ai tories. Larkin avrebbe anche fatto la campagna elettorale a North Belfast per William Walker, noto sindacalista di Belfast e membro dello ILP, e più tardi antagonista di James Connolly, come vedremo (vedi più avanti in “Archivio della Sinistra”). In questioni sindacali Larkin, come Sexton, avrebbe evitato scontri non necessari, specialmente sulle questioni del riconoscimento del sindacato e sul closed shop, preferendo lo strumento legale. Ma, come con Sexton nel 1905, la combattività della base, provocata dalla intransigenza padronale, ce l’avrebbe costretto.

 

5. Lo sciopero del 1907

Il 1907 vide un risorgere degli scioperi nelle industrie di Belfast provocati ad un aumento dei prezzi al dettaglio del 10%. Ce ne furono 34 in città quell’anno, cominciando con una serie di fermate degli operai tessili a febbraio e successivamente interessando i meccanici, il settore dei servizi, il commercio, gli sterratori ed altri.

Il 26 aprile, alcuni scaricatori di carbone erano stati licenziati dalla Samuel Kelly Ltd e 400 loro compagni si fermarono per protesta; il 6 maggio 70 portuali avventizi della Belfast Steamship Company si batterono contro l’assunzione di due non sindacalizzati; Larkin si oppose ad entrambi gli scioperi, preferendo affidarsi ai mezzi legali e alle trattative. Nella prima vertenza ebbe successo, e Kelly accettò le condizioni. Ma quando i giornalieri tornarono al lavoro, spinti a questo dal sindacato per far continuare le trattative, trovarono che il loro posto era stato occupato da lavoratori inglesi importati tramite la Shipping Federation e in 160 restarono fuori.

Benché questa fosse una vertenza relativamente minore, la Belfast Steamship Company non aveva fretta di arrivare ad un accordo perché aveva un altro obbiettivo: sentendosi minacciata dalla bassa forza organizzata pretendeva distruggere il NUDL.

Partì lo sciopero, ed il fatto che Sexton non autorizzasse il pagamento dei contributi dimostra che non era certo per la volontà della dirigenza del sindacato. Furono indette riunioni notturne, cortei e raccolta di fondi per le strade in aiuto dei licenziati. Il 16 maggio un raduno vide 6.000 partecipanti, seguito da scontri con la polizia. Il 31 maggio Larkin fu arrestato in un tafferuglio con un gruppo di crumiri, ma più tardi rilasciato.

Il 20 giugno il sindacato estese lo sciopero chiedendo un aumento delle paghe per tutti i portuali del canale interno: allo sciopero, che non aveva più carattere settoriale, il 26 giugno si aggiunsero altri 300 uomini. Il giorno dopo in solidarietà cessarono il lavoro 200 carriolanti che trasportavano le merci dai moli, avanzando proprie richieste salariali. In molti lasciarono la addomesticata Carters’ Association per aderire alla NUDL.

La Shipping Federation fece arrivare molti crumiri e contro i picchetti 500 soldati sbarravano i moli.

La lotta dei carriolanti pose un’altra questione: il diritto di rifiutare di lavorare con i crumiri o di maneggiare le merci da essi “contaminate”. Quando la maggioranza dei carriolanti appoggiò Larkin su questo punto ed i corrieri rifiutarono di trattare con il NUDL, lo sciopero si estese ulteriormente e prese ancora vigore.

Si cercò allora di dividere la lotta facendo appello all’appartenenza religiosa. La stampa unionista si domandava se fosse lecito per un cattolico aderire ad uno sciopero condotto in maggioranza da operai protestanti. Larkin opportunamente offrì allora di passare la direzione dello sciopero ad Alexander Boyd, il quale dichiarò che il tentativo delle istituzioni di dividere i lavoratori sulla base di pretesti religiosi «non riuscirà perché uomini di tutte le fedi sono determinati a stare fianco a fianco nel combattere il comune nemico, il padrone, che nega il diritto dei lavoratori ad una degna paga».

Il sindacato allora pubblicò un manifesto minacciando lo sciopero generale al porto. Le maggiori ditte di facchinaggio e di commercio del carbone risposero in blocco ed il 15 luglio avevano messo fuori 1.680 fra carriolanti e facchini. Circa 2.340 uomini erano ora coinvolti, dei quali solo 570 in sciopero.

Il 19 luglio Sexton arrivò con due funzionari della British General Federation of Trade Unions, che era un fondo di sciopero mutuo di alcuni TUC. Benché portasse un aiuto finanziario molto richiesto, la loro prima preoccupazione era far finire presto la lotta. Il 25 luglio fu contrattata da Sexton e dagli agenti della Federation la fine della serrata padronale. Secondo lo storico Emmett O’Connor: «Gli uomini accettarono i livelli salariali che erano stati offerti sei settimane prima e di lavorare con i non sindacalizzati. Non era chiaro se il sindacato fosse ufficialmente riconosciuto o meno. Larkin disciplinatamente accolse quel risultato come una via d’uscita ma dopo due settimane si sarebbe lamentato che tutto era stato rovinato, in sua assenza, “da tre inglesi che non sapevano nulla della situazione”».

Il giorno successivo all’accordo, il 26 luglio, la classe operaia di Belfast si raccolse in una grandiosa manifestazione indetta dal Trades’ Council, da Est Belfast fino a Falls e a Shankill Roads. Marciarono in 100.000, dietro a Larkin, McKeown, Boyd e Lindsay Crawford, presidente dello Independent Orange Order, che aveva fatto una colletta per lo sciopero durante la marcia del Venti di Luglio.

 

6. Ammutinamento di poliziotti

Se il giorno prima si era arrivati ad un accordo con i commercianti di carbone, lo scontento scoppiò in un’altra inattesa categoria. Pochi giorni prima nei bassi ranghi della polizia, la Royal Irish Constabulary (RIC), uno scontento da lungo maturato sulle paghe e sulle condizioni di servizio era scoppiato in forme particolarmente rabbiose. Ritenendo le loro richieste simili a quelle che stavano avanzando gli scioperanti, denunciarono la “ingiustizia” del loro trattamento, visto che erano considerati il braccio armato dei padroni e controllavano ogni movimento a Belfast.

Finché un poliziotto, Barrett, rifiutò di scortare un carro trasportato dai crumiri: un’azione che gli significò il licenziamento. Capeggiati da Barret, e con il sostegno del sindacato, i poliziotti presentarono le loro richieste. Gli ufficiali cercarono di far arrestare Barrett ma il 24 luglio la polizia si ammutinò. Il 27 luglio 600 poliziotti occuparono la caserma di Musgrave Street e Barrett fu scortato fino alla scalinata della Dogana per parlare insieme agli operai e ai poliziotti.

All’inizio di agosto l’ammutinamento fu appianato; più di 270 poliziotti furono allontanati dalla città e nuovi 6.000 uomini di truppa li sostituirono; fu messa in allarme anche la marina che mise navi da guerra all’ancora nel Belfast Logh.

Ma, continuando lo sciopero al porto, le autorità tentarono ancora di infiammare le passioni religiose facendo stazionare alcune delle truppe recentemente arrivate nell’area della cattolica Falls Road. La violenza prese fuoco e l’11 di agosto scoppiarono rivolte, un soldato sparò, uccise un uomo e una ragazza e fece cinque feriti.

Davanti alla possibilità che rivolte religiose e politiche venissero a rompere l’atteggiamento unitario del lavoratori di Belfast, Larkin proclamò: «Né come cattolici né come protestanti, come nazionalisti od unionisti, ma come uomini e lavoratori di Belfast stiamo insieme e non siamo sviati dal gioco dei padroni di dividerci fra cattolici e protestanti».

Intervenne allora il governo inglese che mandò un conciliatore della Camera di Commercio. Questa, lavorando insieme a Sexton e agli altri funzionari della Federation, scelse la strada degli accordi separati, con lo sciopero dei carriolanti che sarebbe finito per primo. Il 15 agosto Sexton persuase i carriolanti ad accettare i termini dell’offerta: i padroni concessero un aumento delle paghe e minori ore di lavoro, non ci sarebbero state ritorsioni, ma nessuna garanzia di riassunzione né di riconoscimento del sindacato.

Dopo che il Board of Trade, la Camera di Commercio, la cui lealtà dalla parte dei padroni era scontata, aveva rifiutato di fare concessioni, lo sciopero dei portuali avrebbe ceduto un pezzo alla volta e a condizioni molto peggiori di quelle dei carriolanti.

Per Sexton e compagnia lo sciopero era finito, ma Larkin un mese dopo disse al Trade Council di Belfast che non c’era stato alcun accordo e che gli uomini erano stati costretti a tornare al lavoro per il rifiuto del sindacato di continuare a pagare il contributo di sciopero.

L’atto finale del grande sciopero di Belfast si sarebbe avuto a metà novembre quando 300 scaricatori di carbone sciopereranno contro il reclutamento da un sindacato a base religiosa. 30 carriolanti e 50 gruisti si fermeranno in solidarietà, con le navi carboniere bloccate nei vari porti d’Irlanda. Dopo che già alcuni dei gruisti e degli scaricatori erano tornati al lavoro, «Sexton incontrò i padroni da solo e invitò gli uomini a tornare al lavoro, con l’assicurazione che “nessun vantaggio sarebbe stato ottenuto da nessuno”, che ci sarebbe stato un arbitrato del Board of Trade, e la sera stessa partì sul traghetto per Liverpool; il giorno dopo, la maggioranza degli scioperanti fu informata che la loro questione era risolta; l’arbitrato del Board of Trade non arrivò mai». (O’Connor).

I due opposti metodi di lotta economica, esemplificati in quello di Sexton da una parte e di Larkin dall’altro, rappresentante questo un approccio più generale e coerente di classe, erano chiaramente incompatibili ed una scissione organizzativa non sarebbe tardata.

 

7. Le lezioni dello sciopero

La prima è che la classe può raggiungere il massimo dispiegamento della sua forza quando riesce a mobilitarsi unita al di sopra delle sue molteplici divisioni. E lo conferma il grande sforzo fatto del movimento sindacale ufficiale per minare questa solidarietà. Oltre alle categorie direttamente coinvolte nello sciopero altre avrebbero fatto grandi sacrifici per sostenerlo finanziariamente.

La NUDL sarebbe sopravvissuta a Belfast dopo lo sciopero e Larkin avrebbe continuato a ricevere lo entusiastico appoggio degli iscritti di base; per contro James Sexton, alla conferenza annuale del sindacato nel maggio 1908, più di sei mesi dopo, vi ebbe un’accoglienza assai rude.

Lo sciopero dimostrò anche che la classe operaia irlandese poteva arrivare a respingere il cuneo religioso con il quale le classi dominanti la volevano fratturare. In ottobre il Trades’ Council rintuzzò le denunce del Belfast Evening Telegraph che i cattolici avrebbero ricevuto paghe superiori ai protestanti, e che lo sciopero avrebbe preso a bersaglio le aziende che davano lavoro ai protestanti. Alex Boyd e il Trades’ Council di Belfast, rappresentanti principalmente iscritti protestanti, dichiararono che sarebbero ben volentieri rimasti al fianco di Larkin.

Lo sciopero del 1907 aveva imposto a Belfast un tale senso di solidarietà di classe che la borghesia, prevalentemente protestante, poté cercare di distruggere solo montando un regime di totale apartheid a base religiosa. Nel 1912 la serie di dimostrazioni orchestrate degli Northern Industrialists contro la Home Rule sarebbero finite in violenti attacchi ai lavoratori cattolici, e nel luglio 1912, 2.200 operai cattolici sarebbero stati licenziati dai cantieri di Belfast.

Molto più tardi, nel luglio 1920, nel mezzo della guerra civile e con la incombente prospettiva della partizione del paese, le elezioni mostrarono che lo Ulster supposto “unionista” nella sua stragrande maggioranza sosteneva la repubblica. I capi unionisti si rivolsero allora ai lavoratori protestanti dei cantieri di Belfast per chiamarli alla “guerra santa” contro i “traditori cattolici”. Nell’agosto di quell’anno non era rimasto un solo cattolico dei 5.000 precedentemente occupati nei cantieri. La morte incombeva su uomini, donne e bambini, cacciati al Sud dalla esaltata plebaglia orangista, incoraggiata a tutta forza dalla propaganda dei capitalisti del Nord. Si ebbe così una grande redistribuzione demografica, una pulizia etnica, a solo vantaggio dei capitalisti del più industrializzato Nord.

Definire i capitalisti del Nord di allora unionisti è certo più appropriato che lealisti perché, quando ce ne fu bisogno e al momento opportuno dimostrarono di essere pronti ad una “unione” anche con la Germania. Nell’agosto 1913 il capo degli unionisti, Sir Edward Carson, avrebbe pranzato con il Kaiser tedesco ad Amburgo dove fu discusso di come aiutare l’Ulster. Perché la “unione” con la Germania, Carson avrebbe chiarito, era preferibile, nella opinione degli industriali del Nord, all’unione con il sottosviluppato e agrario Sud e con il relativamente piccolo mercato che rappresentava. I loro interessi non corrispondevano alla creazione di un piccolo mercato interno, chiuso nel protezionismo, che era quanto invece interessava ai nazionalisti del Sud. Carson aveva mandato un chiaro messaggio alle classi dominanti inglesi su ciò che avrebbe potuto accadere se avessero cercato di imporre lo Home Rule al Nord.

I numerosi operai protestanti sarebbero stati persuasi che i loro interessi, e il loro accesso privilegiato al mercato del lavoro, erano legati agli interessi dei padroni loro correligionari. Divide et impera: questa la strategia che le classi dominati inglesi avevano perfezionato nei secoli nelle loro numerose colonie, mettendo l’una contro l’altra tribù, religioni, o sètte all’interno delle religioni, secondo il bisogno del momento. Nel Nord dell’Irlanda la tecnica sarebbe stata applicata sui lavoratori cattolici e protestanti, spinti ad azzannarsi gli uni contro gli altri ancora per molti anni al fine di prevenire che individuassero i loro comuni interessi e il loro comune nemico.

La terza lezione che possiamo trarre dallo sciopero di Belfast è la dimostrazione della necessità per la classe della sua espressione politica: cioè un partito capace di superare la inevitabile tendenza dei capi sindacali di risolvere i problemi all’interno del modo di produzione capitalistico e del suo mercato del lavoro; un partito capace di fornire una prospettiva alternativa, costruita sì sulla solidarietà di classe, ma sulla coscienza che tutte le lotte economiche sono infine destinate a fallire a meno che si elevino alla prospettiva storica della abolizione del lavoro salariato; un partito, solo capace di esaltare la forza distruttiva dell’azione di massa della classe piuttosto che condannarla; un partito con la prospettiva del comunismo internazionale.

Che la nozione di questa necessità si stesse diffondendo è testimoniato dal fatto che cinque nuove sezioni del Belfast Independent Labour Party (ILP) furono fondate quell’anno in città. Ed era anche all’ordine del giorno quando il TUC irlandese vi si riunì nel 1908, dove un membro dello ILP, John Murphy, del Trade Council di Belfast, fece il suo primo discorso presidenziale perorando una “alleanza” fra sindacati e socialisti.

 

8. L’espansione fuori Belfast

Una fiorente nuova sezione della NUDL era stata fondata a Dublino, dalla quale erano arrivati fondi per gli scioperanti a Belfast. Ma in città aprì anche una sezione dello ILP, che Larkin avrebbe rappresentato alla conferenza annuale del partito nell’aprile 1908. Larking non escluse mai per principio l’utilizzo degli arbitrati e dei mezzi legali, e la conciliazione e l’arbitraggio del Board of Trade, come approvato dal governo all’epoca della legge del 1906 sulle Trade Disputes, che nel contempo aveva ripristinato le immunità sindacali negli scioperi legali e garantito il diritto al picchettaggio pacifico. Inoltre ogni settimana fra gennaio e marzo 1908 avrebbe attraversato il canale per partecipare ad una commissione governativa sulle retribuzioni dei portuali. Ma mai perse la consapevolezza che ogni accordo e ogni conquista legislativa non era altro che il risultato del bilancio delle forze fra gli interessi reciprocamente incompatibili del capitale e del lavoro e che ogni contesa era decisa dalla forza, o dalla minaccia del suo impiego.

Ma presto la Dublin Coal Master’ Association cercò di spezzare il sindacato con una serrata. Una volta ancora i padroni si appellarono direttamente all’Esecutivo del sindacato in Inghilterra, che, scavalcato localmente il sindacato, tornò a mandare Sexton a riprendere le trattative: concesse che gli iscritti potessero non mostrare il distintivo del sindacato durante le ore di lavoro, com’era nelle regole della NUDL.

La scissione sembrava sempre più inevitabile.

A Cork nel novembre 800 portuali si costituirono in sezione del sindacato: non avevano ricevuto aumenti di paga da venti anni. Dopo che le trattative per degli aumenti erano fallite il 9 novembre 150 di loro scesero in sciopero. La Shipping Federation tentò la solita tattica di importare crumiri; i padroni, pronti ad investire molto per spezzare lo sciopero, offrivano ai crumiri 30 scellini la settimana più alloggio, vitto e bevande, mentre il portuale regolarmente assunto dalla Compagnia riceveva 22 scellini in tutto.

Larkin il 12 novembre contrattò un ritorno al lavoro in attesa dell’arbitrato. L’8 dicembre i portuali si ritrovarono le rivendicazioni accolte, tranne aspetti minori, nonostante che il sindacato avesse sconfessato lo sciopero e rifiutato una sottoscrizione di sostegno.

Verso la fine di settembre i carriolanti di Dublino si misero in agitazione per un aumento delle paghe. I padroni rifiutarono di riconosce il sindacato e il 16 novembre i lavoratori di quattro aziende interruppero il lavoro. Il sindacato rifiutò ogni aiuto ma il Trade Council locale invece l’appoggiò, insieme a gran parte dell’opinione pubblica, compreso perfino il sindaco di Dublino, che anche contribuì al fondo di sciopero!

Il giorno seguente lo sciopero si estese a 320 uomini e il giorno dipoi si unirono i lavoratori sul porto-canale. Nelle successive cinque settimane i due scioperi crebbero fino a coinvolgere 1.000 operai. Mentre le trattative erano in corso Larkin proclamò che non vi sarebbe stato alcun accordo finché i padroni non avessero riconosciuto il diritto degli uomini ad associarsi. Il 20 novembre questo sembrava vicino, con il ritorno degli uomini al lavoro. Ma pochi giorni dopo i padroni interruppero le trattative, e lo sciopero riprese. Il sindacato accettò la sfida e rilanciò l’azione, allargando la lotta in quel modo intransigente e ostinato che si finì di chiamare “larkinismo”. Furono riprese le trattative che si interruppero di nuovo l’11 dicembre.

Ci furono minacce di sciopero fra i conduttori degli autobus e dei tram. Arrivarono contributi in denaro ed in azioni di solidarietà, nell’intento di radunare un numero sufficiente di lavoratori da poter affrontare la polizia e i padroni. In realtà il 3 dicembre si formeranno a Dublino gruppi di scioperanti armati per pattugliare i quartieri dai quali la Polizia Metropolitana si era ritirata, sollevando un dibattito all’interno del movimento se questi gruppi avrebbero dovuto essere armati o no.

Nel frattempo il 12 dicembre erano scesi in lotta i lavoratori del malto, terza vertenza che si aggiungeva a quelle in corso facendo salire gli scioperanti a 2.500. L’esecutivo nazionale del sindacato informò che riguardo al fondo di sciopero avrebbero dovuto contare solo su di sé. La situazione appariva disperata; ma una settimana dopo i padroni cedettero ed il 21 dicembre la vertenza tornava all’arbitrato: il risultato fu buono, particolarmente considerata l’alta disoccupazione e l’ostilità della Federation.

A fine novembre, a seguito del rifiuto di Larkin di ubbidire ad un ordine di trasferimento mossogli dal sindacato, per allontanarlo dallo sciopero, l’esecutivo conferì a Sexton la facoltà di sospenderlo: il 7 dicembre fu sollevato dalla funzione e subito dopo il consiglio esecutivo lo licenziò senz’altro.

 

9. La frattura nella National Union of Dock Labourers

Larkin rispose: «È possibile organizzare tutti i lavoratori non qualificati di Irlanda», nel senso che, pur favorevole alla International Federation of Labour, sosteneva che prima occorresse organizzare separatamente gli operai irlandesi in quanto tali, per poi federarli. Questo segna un cambiamento rispetto alla posizione dello ILP di mantenere stretti legami organici fra i sindacati ed i partiti laburisti inglesi ed irlandesi, un atteggiamento che, benché giustificato in nome dello “internazionalismo” dallo ILP dell’Ulster, era di fatto utilizzato per opporsi la lotta di indipendenza irlandese (anche per questo vedasi in Archivio della Sinistra).

La spaccatura fra la linea “di Larkin” e quella “di Sexton” divideva due opposti metodi. Il primo puntava a far leva sull’unità della classe nella conduzione delle lotte economiche, enfatizzava la solidarietà operaia e tendeva ad allargare gli scioperi da una categoria all’altra; con ciò meglio rivela la loro vera natura, che il nemico dei lavoratori impegnati in una lotta economica è la classe padronale come un tutto, è il capitalismo.

Questo metodo conduce i lavoratori attraverso una serie di esperienze pratiche che dimostrano non solo che c’è molto maggiore possibilità di vincere nelle lotte immediate se gli operai di diverse categorie si appoggiano a vicenda, ma che tutti si trovano di fronte allo stesso nemico, e che le loro lotte economiche in ultima istanza sollevano la questione politica degli interessi generali e del potere di classe.

L’orizzonte della politica dell’esecutivo della NUDL vuole invece essere molto più ristretto. Il sindacato, per essa, è una associazione autonoma, una “borsa del lavoro”, anche con le sue finanze, il cui compito è difendere i suoi iscritti, principalmente tramite le trattative, secondariamente tramite le leggi. Chiuso nella logica della sua auto-conservazione, quando le finanze scarseggiano l’appoggio ad uno sciopero deve essere ritirato. Così in molte occasioni la funzionalità della NUDL contrastava con scioperi senza limite di estensione e di tempo, e con la necessità, per la solidarietà della classe operaia, di sacrifici da parte dei relativamente forti a favore dei più deboli, quando la forma e l’estensione della lotta diventano più importanti degli obbiettivi immediati della lotta stessa.

La NUDL non intendeva quindi impegnarsi a metter su sezioni irlandesi, il che avrebbe significato spese extra. Di fatto una visione miope anche per l’angustia di pensiero della NUDL: lo sciopero di Belfast, con l’esempio del suo alto potenziale, aveva fatto aumentare il seguito della NUDL anche fra i lavoratori inglesi e con esso pure un miglioramento delle finanze del sindacato!

Infatti l’opposizione dei due metodi cela non la preoccupazione per la custodia delle finanze del sindacato, ma due programmi sociali sempre più incompatibili circa la previsione del rivolgimento e resa dei conti fra le classi: un cambiamento graduale e rispettoso del governo costituzionale da una parte, la via comunista e rivoluzionaria dall’altra. 

(continua al prossimo numero)

 

 

 

 

 

  


Dall’Archivio della Sinistra

A corredo dello studio che andiamo svolgendo sulla storia del movimento operaio e comunista in Irlanda, del quale in queste pagine è riportato il terzo capitolo, continuiamo qui a presentare la traduzione di alcuni documenti fra i più suggestivi e utili a ricostruire la realtà di una condizione storica e della lotta fra le classi e fra i partiti dell’epoca.

Trattasi di un ambiente e di una tradizione sociale, che indichiamo genericamente come anglosassone, in parte diversa da quella del continente europeo, che quindi chiede al partito un ulteriore lavoro di studio, approfondimento e giudizio.

I primi due testi, del 1911, devono essere ben collocati in una situazione locale di doppia rivoluzione.

James Connolly, dirigente del Socialist Party of Ireland, perora la causa della formazione di un unico partito socialista in Irlanda, che inserisca nel suo programma almeno l’autonomia nazionale e che si separi come organizzazione dal movimento socialista britannico.

A differenza della Prima Internazionale la Seconda aveva visto, e si era fondata, sulla enorme crescita di partiti socialisti a scala nazionale in tutti i maggiori paesi di Europa. Certo un grande progresso della internazionale classe operaia, che faceva suo il marxismo ad esclusiva dottrina, che poi però tradirà nelle gravi derive verso il nazionalismo e il federalismo.

Ma, al 1911, se esiste un Partito Socialista Francese, uno Italiano, un Partito Socialdemocratico Tedesco, perché non ne deve esistere uno in Irlanda, chiede giustamente Connolly? Dietro il suo rifiuto, anche se mascherato di “internazionalismo”, di fatto, in realtà c’è solo la sottomissione al grandeggiante, brutale e opprimente imperialismo britannico.

Si noti, inoltre, come viene impostata la questione del movimento laburista. Connolly, e con lui tutti i socialisti delle isole inglesi all’epoca, è favorevole al formarsi anche in Irlanda di un Labour Party (anch’esso da rendersi autonomo da quello inglese). Si trattava, nella loro visione, della necessaria rappresentanza parlamentare delle Trade Unions, dei sindacati, i loro delegati in parlamento, là inviati dal voto militante dei lavoratori, col mandato esecutivo di far approvare leggi favorevoli alla classe operaia. Connolly quindi non vede contraddizione nella presenza contemporanea di un partito socialista e un partito laburista. Ancora oggi, dopo infinite prove di tradimento del Partito Laburista, divenuto pienamente ed irreversibilmente un lercio partito borghese, c’è chi vede la classe operaia britannica strutturata su tre livelli: Unions-Labour-Partito politico.

Riportiamo poi uno scritto di Lenin sull’Irlanda, “I liberali inglesi e l’Irlanda”, del 1914. Dopo aver riassunto la situazione di dominio imperiale sull’isola, denuncia la sottomissione dei liberali inglesi alla classe dei proprietari fondiari, e che quindi rimanderanno all’infinito ogni concessione di autonomia.

  

  


James Connolly
Appello per l’unità socialista in Irlanda
Da Forward, 27 maggio 1911

Chi osserva con attenzione la situazione politica dei propri paesi si deve render conto che l’Irlanda è sull’orlo di uno dei cambiamenti costituzionali più importanti della sua storia. Una qualche forma di autogoverno sembrerebbe davvero prossima a realizzarsi, non per effetto di un accresciuto fervore nella rivendicazione nazionale, né tanto meno, come vorrebbero i proclami di quei bigotti dei Tory, a seguito della posizione presa dal Mr. Redmond, quanto invece a causa del fatto che non vi è alcuna classe economica in Irlanda i cui interessi siano legati ancora a quelli dell’Unione. I proprietari fondiari irlandesi, che nel passato in effetti avrebbero avuto qualcosa da temere da un Parlamento Home Rule eletto in larga parte dai fittavoli, oggi hanno fatto i loro accordi con i vari Land Purchase Acts [provvedimenti sugli acquisti delle terre] ed essendo al sicuro economicamente, sono adesso politicamente indifferenti. Soltanto la forza della bigotteria religiosa rimane una risorsa per chi vuol mantenere l’Unione con l’Inghilterra.

Si può prevedere che la parata del 12 luglio di quest’anno a Belfast sarà eccezionalmente partecipata; infatti ogni sforzo sarà fatto, senza badare a spese, al fine di garantire, alla fine, i numeri per scongiurare l’Home Rule; ma la parata sarà soltanto l’ultima scintilla di un fuoco morente che divamperà un’ultima volta prima di estinguersi del tutto.

Nel passato un momento di crisi commerciale a Belfast può avere consentito agli oratori dell’ordine di Orange di fomentare la rivolta di folle assopite, ma il vento di ripresa di cui si gode oggi elimina ogni possibilità che queste futili esibizioni si ripetano. I membri dell’ordine di Orange di oggi possono anche odiare il Papa, ma odiano ancora di più perdere tempo con rivolte, quando potrebbero fare soldi lavorando, e in questo dimostrano il «buon senso che distingue preminentemente la gente di città da quella del fiume Lagan [Belfast, sul fiume Lagan]».

L’Home Rule, quindi, è quasi una certezza per il futuro.

Cosa fanno i socialisti irlandesi in queste circostanze? Stanno forse mettendo in mostra le loro analisi da grandi statisti, o stanno ancora spacciando agli angoli delle strade le loro teorizzazioni senza fare alcuno sforzo per rafforzarsi in vista delle grandi opportunità che si stanno dispiegando dinanzi a loro?

Lasciatemi formulare una risposta a questa domanda.

Oggi ci sono in Irlanda due organizzazioni socialiste: lo Independent Labour Party e il Socialist Party of Ireland. Il primo è più forte nel Nord, il secondo nel Sud, benché abbia anche una sezione attiva a Belfast. La domanda sorge spontanea: quali sono le differenze politiche e tattiche fra questi due partiti? Per rispondere al meglio a questa domanda, è bene evidenziare l’atteggiamento del Socialist Party of Ireland (SPI) nei confronti delle sezioni irlandesi dello Independent Labour Party (ILP). Il SPI, è talmente convinto della necessità di unire le forze socialiste in Irlanda che si è reso disponibile ad incontrarsi in qualsiasi momento con lo ILP, dando ai delegati di tal convegno il potere di dibattere e accordarsi su questioni tattiche, politiche, e sul nome della nuova organizzazione che raccoglierebbe tutte le sezioni del movimento in Irlanda. Ritiene che le questioni che dividono i socialisti non siano talmente gravi da giustificare due organizzazioni separate in uno stesso paese, e che tali questioni possono essere dibattute all’interno di un’unica organizzazione; afferma che i punti su cui vi è disaccordo non sono tanto gravi quanto quelli di accordo, e che vi sono più gravi motivi di disaccordo fra le stesse sezioni dello ILP (o del SPI) di quante ve ne siano fra lo ILP e il SPI come organizzazioni nel loro insieme.

Allora cos’è che tiene divise le due organizzazioni? Mettendo da parte ogni questione di carattere, le ambizioni personali e le gelosie in quanto cose accidentali e inessenziali, potremmo dire, in verità, che l’unico punto di differenza è dato dal fatto che lo ILP di Belfast ritiene che il movimento socialista in Irlanda debba per forza di cose rimanere socio pagante, parte organica del movimento socialista britannico, che altrimenti rinuncerebbe a far parte del socialismo internazionale; mentre il SPI sostiene che le relazioni fra il socialismo in Irlanda e quello in Gran Bretagna debbano essere fraterne e di mutuo sostegno, ma non col pagamento di quote, fraterne ma non organiche e debbano realizzarsi con lo scambio della stampa e di oratori; quindi non cercando di trattare come un popolo unico due, di cui uno ha subito un interminabile martirio durato 700 anni per non aver accettato l’unità e rinunciato all’identità nazionale.

Il Partito Socialista d’Irlanda si ritiene l’unico Partito Internazionale in Irlanda, poiché la sua concezione di internazionalismo è quella di una federazione di popoli liberi, mentre quella delle sezioni di Belfast dello ILP sembra poco distinguibile dall’imperialismo, ossia la fusione dei popoli sottomessi in seno al sistema politico dei loro conquistatori. Per la diffusione universale del nostro ideale di un vero internazionalismo l’unica cosa necessaria è la diffusione della ragione e del lume della razionalità tra i popoli della Terra, mentre l’affermazione della concezione di internazionalismo tacitamente accettata dai compagni dello ILP di Belfast richiede il lampeggiare della spada del militarismo ed il rombo del cannone britannico da 80 tonnellate.

Noi non riusciamo a comprendere perché i nostri Compagni debbano continuare a ripetere che noi non siamo internazionalisti, e che non lo potremo essere sinché non tratteremo i Socialisti della Gran Bretagna meglio di quanto trattiamo i Socialisti del Continente, o d’America o d’Australia. Questa è una concezione singolare di internazionalismo, singolare e peculiare di Belfast. Non esiste alcuna “clausola sulla nazionalità prediletta” nella diplomazia socialista, e noi, come Socialisti in Irlanda, non possiamo permettere il consolidarsi di un simile precedente.

Notate come questo particolare atteggiamento di Belfast influenzi lo sviluppo del Socialismo in Irlanda. Come sa chiunque abbia dimestichezza con l’Irlanda, il nazionalismo irlandese esprime tutte le manifestazioni della lotta sociale e di strampalate teorie politiche. La lotta del proprietario terriero contro il fittavolo, e del capitalista contro l’operaio, e viceversa, in Irlanda s’è sempre combattuta tanto ferocemente quanto altrove. Nelle file del nazionalismo tutti combattono la loro battaglia, i democratici e gli aristocratici, i rivoluzionari e gli opportunisti, e, sebbene più deboli degli altri, i Socialisti la loro, e ne rilanciano il messaggio.

Ma in tutto questo conflitto le sezioni avanzate del nazionalismo irlandese hanno cercato inutilmente aiuto presso la “solida democrazia protestante del Nord”.

Alla fine, comunque, è sorto a Belfast lo Independent Labour Party, e la speranza di un aiuto è divampata nei cuori di chi lotta nel Sud. Finalmente, si pensa, i rinforzi stanno per arrivare, lavoratori e lavoratrici Protestanti e Cattolici possono ora unirsi, come non hanno mai fatto in un secolo, in una comune guerra contro il nostro comune nemico.

Ma piano piano ci arriva la notizia che Belfast oppone un rifiuto a riconoscere l’Irlanda. I suoi esponenti nel Labour sono così impegnati a rallegrarsi delle vittorie del Labour in Inghilterra che non possono dare né tempo né speranza e nemmeno incoraggiamento agli uomini e alle donne di avanguardia in Irlanda. Infine, Belfast sostiene un candidato del Labour che dichiara pubblicamente che voterà contro la Home Rule o la National Freedom. Per cui si sta diffondendo in Irlanda la convinzione che il rafforzamento dello ILP a Belfast non significherà nulla per la socialdemocrazia in Irlanda, ma che sia soltanto il segno di una bega in famiglia tra gli Unionisti.

Infine, uomini dello ILP, delegati allo Irish Trades’ Congress, hanno colà votato contro la fondazione di un Partito Laburista in Irlanda. E questo crimine contro la nascita di un movimento laburista locale viene compiuto proprio nel nome dell’Internazionalismo!!!

Ho grande ammirazione per il compagno Walker, di Belfast, e provo rammarico per il manifesto pubblicato contro di lui dai Socialisti Irlandesi durante la sfida elettorale a Leith, ma sono contento che sia stato sconfitto a Nord Belfast. Tale vittoria avrebbe soffocato le speranze di socialismo fra i nazionalisti irlandesi in tutto il mondo. Non solo in Irlanda, ma in tutto il continente americano e in Australia, ovunque lavorano e vivono dei lavoratori irlandesi, un voto al compagno Walker nella House of Commons contro l’Home Rule avrebbe riempito gli irlandesi di un tale odio irrazionale e inveterato per la causa socialista da provocarne l’abbandono da parte di una intera generazione.

Ma immaginate quale sarebbe stata la situazione nel resto dell’Irlanda se l’unico parlamentare socialista irlandese avesse votato contro l’Home Rule. La causa in Irlanda avrebbe perso ogni credibilità e sarebbe stata maledetta per sempre. Per contro la sua opposizione all’Home Rule non avrebbe attenuato l’avversione né ridotto l’odio dei lealisti. I lealisti considerano lo ILP in Irlanda a favore dell’Home Rule, ma poiché si rifiuta di organizzarsi su base irlandese, fra i sostenitori dell’Home Rule i militanti dello ILP sono visti come unionisti o al più come unionisti-laburisti, certo, ma pur sempre unionisti. E l’unionismo in Irlanda è considerato a tutti gli effetti conservatorismo tory.

Ora vedete cosa si sta per fare! Un altro Congresso delle organizzazioni sindacali irlandesi è alle porte, e già vedo dall’ordine del giorno che lo stesso crimine è in programma contro l’idea di un Labour Party in Irlanda. Il Trades’ Council di Dublino [camera del lavoro] ha presentato una mozione per la costituzione di un Labour Party in Irlanda; mentre quella di Belfast presenta una mozione raccomandando ai sindacati di Irlanda, come miglior modo per garantire una adeguata rappresentanza laburista, di unirsi al Labour Party (in Inghilterra).

La mozione di Dublino offre un esempio che ogni Trades’ Council dell’Irlanda nazionalista dovrebbe seguire: che la mozione di Belfast limiti la sua efficacia a Belfast. In tal modo il movimento socialista eviterà il pericolo (?) dell’ascesa di un movimento politico laburista in Irlanda, secondo i desideri del capitalismo e del clericalismo irlandese.

È troppo tardi per appellarci ai compagni di Belfast dello ILP perché ritirino questa insostenibile posizione? Perché sacrificare tutta l’Irlanda in nome di una parte di Belfast? Il Socialist Party of Ireland chiede loro quale male possa risultare dall’organizzarsi in base alla vita politica irlandese, dal momento che fra qualche anno una qualche forma di indipendenza legislativa sarà sicuramente stabilita in Irlanda.

Si vuole forse attendere finché questo accada, per poi correre a risolvere a colpi di riunioni e comizi quanto andava preparato con largo anticipo, paziente organizzazione e tessitura dei rapporti? Se le prime elezioni in Irlanda per un parlamento autodeterminato troverà le forze del socialismo impreparate a scendere in campo, molte delle responsabilità saranno da attribuirsi a un certo partito, ma non saranno affatto da addossare al Socialist Party of Ireland.

Noi, ripeto, siamo disponibili ed ansiosi di sederci ad un tavolo con i nostri compagni dello ILP per delineare un programma, e convenire intorno a una politica e ad un nome per un’organizzazione socialista in Irlanda, purché si conceda che tale organizzazione abbia la sua direzione in Irlanda; che sia riconosciuto il diritto dell’Irlanda all’autogoverno, e si mantengano paritarie relazioni amichevoli con i Socialisti di tutte le nazioni, indipendentemente dal Governo sotto il quale vivono.

È chiedere troppo?

 

* * *

 

 
James Connolly
Irlanda, Karl Marx e William
Da Forward, 10 giugno 1911

Alcuni giorni fa, mentre conversavo con un acuto osservatore di tutto ciò che riguarda il socialismo in Irlanda, siccome egli non è né di Dublino né di Belfast, gli chiesi cosa pensava del mio appello per l’Unità Socialista in Irlanda. Con mia grande sorpresa rispose che avevo frainteso la natura della vera obiezione che alcuni personaggi di rilievo a Belfast muovevano nei confronti di questa iniziativa. “Scoprirai – disse – che la loro vera obiezione non riguarda l’internazionalismo, ma piuttosto il parrocchialismo».

Nel leggere il sorprendente articolo del compagno Walker compresi quanto in effetti fosse condivisibile quella opinione. Per cominciare, è del tutto falsa l’affermazione che avevo «dedicato i primi due paragrafi del mio articolo ad attaccare Belfast e tutto quanto si trova all’interno dei suoi confini» (per confutare questa affermazione basta leggersi l’articolo in questione). Poi era passato a sommergerci con un’alluvione di miserabile retorica, irrilevanti chiacchiere infantili e filosofia politica mal digerita, tutto permeato da un ben calcolato appello al pregiudizio religioso e alla segregazione civile, tutto studiato con precisione affinché Belfast si richiuda in sé stessa in una coperta di autogiustificazione e virtù, guardando con disprezzo ai presunti deboli fratelli irlandesi. Tutto naturalmente nel rinomato stile di Walker. Ma ciò non sfiora nemmeno la reale questione. Che, come sicuramente i lettori di Forward ricorderanno, ho affrontato come segue.

In Irlanda ci sono due partiti socialisti; ce ne dovrebbe essere solo uno. Il solo problema in discussione, a parte questioni personali, è quello del riconoscere che l’Irlanda ha diritto all’autogoverno. Ogni socialista irlandese che ritiene che il Paese abbia diritto all’autogoverno dovrebbe secondo logica condurre la sua attività politica all’interno di un’organizzazione basata sul principio dell’autogoverno irlandese. Ho quindi proposto che le due organizzazioni socialiste dovrebbero riconoscere questa base comune, e quindi riunirsi per stilare un programma generale e d’azione per un tale partito, adatto alla attuale e futura situazione politica del Paese.

Inoltre ho sottolineato che, mentre il movimento sindacale in Irlanda sta considerando la possibilità di creare un Labour Party, gli stessi elementi che impediscono allo ILP di Belfast di riconoscere ufficialmente il diritto dell’Irlanda all’autogoverno hanno agito e votato l’anno scorso nell’Irish Trades Congress contro una proposta per la creazione di un Labour Party in Irlanda, e stanno per ripetersi quest’anno. Questo, io ho affermato e affermo ancora, è stato ed è un crimine contro il movimento operaio internazionale – un crimine commesso in nome dell’internazionalismo – svendendone il nome nel momento in cui lo si invoca.

LORD CHARLEMON: UN DEMOCRATICO

Ora, come si regola il compagno Walker nei confronti dell’appello amichevole per l’Unità Socialista? Per cominciare dichiara che io sono ossessionato da una “antipatia verso Belfast e il Nero Nord”; quindi si diffonde in una prolungata difesa dei protestanti e nella glorificazione dei ribelli protestanti in Irlanda. Il primo “incrollabile protestante democratico” sarebbe Lord Charlemont, un aristocratico pusillanime che ha abbandonato, denunciato e tradito gli Irish Volunteers quando questi hanno proposto di utilizzare la loro organizzazione per ottenere un’estensione democratica del suffragio e della tolleranza religiosa. Il fatto che il compagno Walker lo citi come democratico dimostra solo che c’è qualcosa che non torna, o nella concezione che il compagno Walker ha della democrazia, o nella sua conoscenza della storia dell’Irlanda.

Ma l’amico William continua a incespicare, passando da un’assurdità all’altra. Mentre ricordiamo che si oppone all’autogoverno in Irlanda, ammiriamo il suo colossale coraggio nel citare il glorioso esempio di “poderosi protestanti democratici”, che donarono la vita combattendo, soffrendo e sacrificandosi per la causa della Libertà Nazionale, che il compagno Walker rifiuta. Cita Theobald Wolfe Tone. Wolfe Tone riconosceva che l’indipendenza nazionale era un elemento essenziale della democrazia, e dichiarava che il suo scopo era “spezzare questo legame con l’Inghilterra, perenne causa di tutti i nostri mali”. Cita anche James Fintan Lalor. Il quale sosteneva che il popolo irlandese doveva combattere per “la piena e assoluta indipendenza per questa isola, e per ogni uomo su di essa”. Lalor non era un protestante, ma il nostro compagno cita anche un contemporaneo di Lalor, Mitchell, che erroneamente classifica come presbiteriano. Era invece unitario. Mitchell riassumeva il suo ideale politico in queste parole: “Noi vogliamo l’Irlanda, non per i Pari, o per i loro rappresentanti nel Parlamento di College Green, ma l’Irlanda per il popolo irlandese – la Repubblica Irlandese, una e indivisa”.

Il compagno Walker cita anche Joseph Gillies Biggar, un conseguente e indefettibile partigiano dell’Irish Home Rule, dell’autogoverno. Di fatto tutti gli “incrollabili protestanti democratici” che lui chiama in causa avrebbero trattato con disprezzo le miserabili acrobazie di Walker nella politica irlandese. Tutti uomini che lui avrebbe combattuto se fosse vissuto al loro tempo. Tra i nomi di “ribelli” irlandesi cita Grattan, Butt e Shaw, citazione che non può che far sogghignare chiunque legga ed abbia una benché minima familiarità con la storia d’Irlanda.

LA STORIA DEL NERO ULSTER

Consentitemi di notare, en passant, che i nomi citati dal compagno Walker non fanno che confermare quanto sostengo. Ma non è tanto importante quello che hanno fatto alcuni uomini, rispetto a quanto è stato fatto dalla massa dei loro correligionari. La stragrande maggioranza dei protestanti dell’Ulster, con l’eccezione del periodo del 1798, furono aspri avversari degli uomini che lui ha nominato, e durante la dura lotta della Land League, quando il contadiname delle altre province combatteva per la vita e per la morte contro i latifondisti, l’incrollabile democrazia del Nord eleggeva i latifondisti, e i loro deputati, a tutte le cariche dell’Ulster. Quando il compagno Walker fa propaganda a Belfast non manca di ricordare all’uditorio la loro negligenza nella politica. Ma allora perché cambia livrea nella sua lettera a Forward?

Tutti quegli uomini passeranno alla storia perché hanno messo in gioco tutto quello che avevano, con le altre province, in una lotta comune per la libertà politica. Tanto quanto noi ammiriamo loro altrettanto dobbiamo deplorare e condannare l’attività antiunitaria e parrocchiale del compagno Walker.

Nella sua concione scrive: «il luogo della mia nascita è stato casuale, ma il mio dovere verso la mia classe è mondiale». Bello, ragazzi! Eccezionale!! In una piattaforma redatta nello stile più aulico suonerebbe eroico, ma letto a freddo odora di nonsenso. Se il tuo luogo di nascita è stato casuale, non potrebbe essere stata casuale anche la nascita all’interno della classe operaia? Potresti anche essere nato a Buckingham Palace, come principe (o principessa) di sangue reale, e ciò non significherebbe molto. A me non interessa dove sei nato – abbiamo avuto nel partito ebrei, russi, tedeschi, lituani, scozzesi e inglesi – mi interessa invece come ti guadagni la vita, e ritengo che ogni operaio con coscienza di classe dovrebbe battersi per la libertà del paese in cui vive, se vuole affrettare il potere politico della sua classe in quel paese.

Il nostro compagno dice, nel suo stile ammirevole, che queste sono «dottrine reazionarie estranee a qualsiasi tipo di socialismo» di cui abbia mai sentito parlare. Evidentemente è stranamente ignorante della classica letteratura socialista. Karl Marx non era un reazionario, e sapeva un paio di cose sul socialismo. Mi permetto quindi di citare, ad uso del compagno Walker, l’opinione di Karl Marx sul socialismo in Irlanda.

KARL MARX SUL SOCIALISMO E L’IRLANDA

Cito da una lettera inviata all’amico Kugelmann il 29 novembre 1869, da Londra, e ristampata nella Die Neue Zeit del 1902.

     «Io mi sono vieppiù convinto – e si tratta ora soltanto di inculcare questa convinzione nella classe operaia inglese – che qui in Inghilterra essa non potrà mai fare qualche cosa di decisivo, fintanto che non separerà la sua politica riguardo all’Irlanda, nel modo più categorico, dalla politica delle classi dominanti, fino a quando non solo farà causa comune con gli irlandesi, ma prenderà perfino l’iniziativa per lo scioglimento dell’Unione fondata nel 1801, e per la sua sostituzione con un libero rapporto federale. E questo anzi deve essere fatto non come cosa sorta dalla simpatia per l’Irlanda, ma come una rivendicazione fondata sull’interesse del proletariato inglese (...) Ogni suo movimento nella stessa Inghilterra rimane paralizzato dal dissidio con gli irlandesi che nell’Inghilterra stessa formano una parte assai considerevole della classe operaia (...) E non solo lo sviluppo sociale interno dell’Inghilterra rimane paralizzato dall’attuale rapporto verso l’Irlanda, ma anche la sua politica estera, particolarmente la sua politica per quanto riguarda la Russia e gli Stati Uniti d’America».

Scritto nel 1869, compagno Walker, ma sembra scritto per quanto sta succedendo oggi.

A ogni Congresso Socialista Internazionale viene concesso riconoscimento e voto separato a nazioni assoggettate come la Finlandia, la Polonia, e le varie altre nazionalità all’interno dell’Impero Russo; a Stoccarda un messaggio di simpatia ha accolto un delegato dell’India che interveniva non a favore degli operai indiani, ma principalmente del nazionalismo indiano; e al congresso di Parigi del 1900 i delegati dell’Irish Socialist Party ebbero il loro posto, con diritto di voto al pari dei delegati di nazioni indipendenti come la Germania o l’Inghilterra. A Stoccarda il compagno Bebel affermò che una conseguenza della crescita del socialismo sarebbe stata una rinascita della cultura e del sentimento nazionale in paesi al momento oppressi politicamente; ed apprezzava tale rinascita in quanto la civiltà del futuro si sarebbe arricchita con tante forme di crescita intellettuale sorte da diversi sviluppi razziali e nazionali.

Questa, in breve, è la vera posizione del socialismo internazionale nei confronti delle nazioni assoggettate. È basata sulla convinzione che la civiltà richiede nazioni libere, come le nazioni hanno bisogno di singoli cittadini liberi, che l’internazionalismo del futuro sarà basato sulla libera federazione di popoli liberi, e non può essere basato sull’assoggettamento del piccolo da parte dell’entità politica più grande.

Ma il compagno Walker dice che queste parole implicano che il Socialist Party of Ireland desidera che gli irlandesi si separino da tutti i sindacati, dalle Friendly Societies, e dalle Cooperative Societies al di là del mare [in Gran Bretagna]. Non necessariamente. Se prendiamo ad esempio i due paesi dall’altra parte dell’Atlantico, notiamo che ogni sindacato e ogni Friendly Society operante negli Stati Uniti è presente anche in Canada, e viceversa, ciononostante le due nazioni sono indipendenti politicamente. Perché Inghilterra e Irlanda non possono essere altrettanto legate sul piano dell’organizzazione dei lavoratori, ma politicamente separate?

WALKER E IL RE

Il nostro compagno non è contento del mio atteggiamento sulla sua campagna a Nord Belfast. Ma avrebbe dovuto ricordare ai lettori di Forward il suo comportamento in quella campagna. Avrebbe dovuto dire loro che si era impegnato a combattere lo Irish Home Rule [l’autogoverno] e l’uguaglianza religiosa. Che si era impegnato a combattere qualsiasi cambiamento nel Giuramento dell’Incoronazione – il giuramento che il Re d’Inghilterra ha recentemente rifiutato di pronunciare perché intollerante e stupidamente reazionario. Quel Giuramento era troppo anche per uno stomaco reale, ma il compagno Walker si è battuto per mantenerlo. Avrebbe dovuto ricordare ai suoi lettori che nei secoli XVII e XVIII la bigotteria feroce delle classi dominanti inserì nello Statute Book of Ireland, contro i cattolici, leggi così atroci che oggi sono ritenute dalla comune morale come la vera incarnazione del male settario, e che lui ha promesso di conservarle nel rispondere a questa domanda: «Resisterai a tutti gli attacchi alla legislazione creata dai nostri antenati, come salvaguardia necessaria contro l’intromissione del papato?»

Risposta di W. Walker: «Sì.»

Progresso significa allontanarsi dalla bigotteria dei nostri antenati, ma il compagno Walker intenderebbe porre la loro bigotteria a fondamento delle leggi.

In un paese nella stragrande maggioranza della nostra fede religiosa, si è impegnato ad impedire l’accesso di aderenti a questa fede a certe posizioni politiche e legali; si è impegnato a «fare in modo di ottenere una redistribuzione dei seggi parlamentari allo scopo di ridurre la dispendiosa rappresentanza dell’Irlanda attraverso la quale i cattolici romani e il loro sleale partito hanno ostacolato il lavoro della House of Commons», e ha dichiarato che «il protestantesimo significa protestare contro la superstizione; quindi il vero protestantesimo è sinonimo di Labour [del Partito del Lavoro]», dando quindi per scontato che se un cattolico diviene laburista allo stesso tempo si fa protestante.

Bene, il compagno Walker può sentirsi offeso dalla mia affermazione che sono felice della sua sconfitta, ma mi rifiuto di dare credito all’idea che solo perché una persona si definisce “Independent Labour”, o addirittura “socialista”, abbia il diritto di rinnegare qualsiasi altro principio progressista. Quando si sarà depurato da quelle idee reazionarie, come altri hanno fatto dopo le elezioni, sarò felice di sostenerlo nella sua campagna per un seggio parlamentare in una House of Commons irlandese.

Infine, rimane il fatto che potremmo comunque doverci appellare al tribunale del movimento operaio internazionale per il fatto che il compagno William, componente dell’Esecutivo del Labour Party, è fieramente avverso alla formazione di un Labour Party in Irlanda. Potremmo chiedere a detto tribunale se il compagno Walker, così facendo, ha il sostegno del suo Esecutivo, o se addirittura parla con il loro mandato, così facendo il gioco del nemico, del bigotto orangista, e in particolare dell’egualmente bigotto Mr. Redmond [leader dell’Home Rule Party], per frustrare l’aspirazione della parte più combattiva della classe operaia irlandese ad un proprio partito, per combattere le sue battaglie contro il comune nemico.

Per quanto mi riguarda, credo che nessuno degli uomini il cui genio ha fatto diventare il movimento socialista quello che è oggi, saluterebbe senza gioia e soddisfazione il sorgere di un Labour Party in Irlanda, e il consolidarsi delle nostre forze socialiste.

 

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Lenin
I liberali inglesi e l’Irlanda
Put Pravdy, n.34, 12 marzo 1914

Ciò che sta accadendo oggi al parlamento inglese in relazione al progetto di legge sul home rule irlandese (autogoverno o più esattamente, autonomia per l’Irlanda) presenta grande interesse non solo sotto il profilo dei rapporti di classe, ma anche al fine di chiarire le questioni nazionale e agraria.

L’Inghilterra ha asservito per secoli l’Irlanda, sottoponendo i contadini irlandesi alle incredibili torture della fame e della morte per fame, espellendoli dalla terra, costringendo centinaia di migliaia e milioni d’irlandesi a lasciare la patria e a trasferirsi in America. All’inizio del secolo XIX l’Irlanda aveva cinque milioni e mezzo di abitanti, oggi ne ha solo quattro milioni e trecentomila. L’Irlanda si è spopolata. Nel corso del secolo XIX oltre cinque milioni di irlandesi sono emigrati in America, e oggi ci sono più irlandesi negli Stati Uniti che non in Irlanda!

Le incredibili sventure e sofferenze dei contadini irlandesi sono un esempio istruttivo delle cose di cui sono capaci i grandi proprietari terrieri e i borghesi liberali di una nazione “dominante”. L’Inghilterra ha costruito il suo “splendido” sviluppo economico, la “prosperità” della sua industria e del suo commercio, fondandosi in gran parte su azioni, nei confronti dei contadini irlandesi, che ricordano la Saltycikha, la proprietaria terriera nobile russa.

L’Inghilterra “prosperava”, mentre l’Irlanda deperiva e continuava ad essere un paese puramente agricolo, arretrato e semiselvaggio, un paese di miseri contadini fittavoli. Ma, per quanto la borghesia “illuminata e liberale” d’Inghilterra volesse perpetuare l’asservimento dell’Irlanda e la sua miseria, tuttavia una riforma si faceva imminente e inevitabile, tanto più che le esplosioni rivoluzionarie del popolo irlandese in lotta per la libertà e la terra diventavano sempre più minacciose. Nel 1861 si costituì l’organizzazione rivoluzionaria irlandese dei feniani. Gli irlandesi emigrati in America l’aiutarono con ogni mezzo.

Con il 1868, con il governo di Gladstone, eroe dei borghesi liberali e dei piccoli borghesi ottusi, incominciò l’epoca delle riforme in Irlanda, un’epoca che si è felicemente prolungata fino ai giorni nostri, cioè per quasi mezzo secolo. Oh, i saggi uomini di Stato della borghesia liberale sanno “affrettarsi” molto “lentamente” con le loro “riforme”!

A quel tempo Karl Marx viveva ormai da più di quindici anni a Londra e seguiva con eccezionale interesse, con straordinaria simpatia la lotta degli irlandesi. Il 2 novembre 1867, egli scrisse a Friedrich Engels: «Ho tentato con ogni mezzo di indurre gli operai inglesi a manifestare a favore della lotta degli irlandesi». Il 2 novembre 1867 così scriveva a Friedrich Engels: «Ho cercato in tutti i modi di suscitare questa dimostrazione in favore del fenianismo (...) Dapprima avevo ritenuto cosa impossibile la separazione dell’Irlanda dall’Inghilterra. Adesso la ritengo inevitabile, anche se dopo la separazione potrà venire la federation...». Nella lettera del 30 novembre dello stesso anno Marx ritornava sull’argomento: «...Che cosa dobbiamo consigliare noi agli operai inglesi? A mio parere essi devono fare del repeal [scioglimento] dell’unione [dell’Irlanda con l’Inghilterra] (in breve, lo spirito del 1783, ma democratizzato e reso adatto alle condizioni attuali) un articolo del loro pronunziamento. È questa l’unica forma legale e perciò anche l’unica possibile, dell’emancipazione irlandese che possa entrare nel programma d’un partito inglese». Marx dimostrava poi che gli irlandesi avevano bisogno dell’autonomia amministrativa e dell’indipendenza dall’Inghilterra, di una rivoluzione agraria e di imposte doganali che la difendessero dall’Inghilterra.

Ecco il programma che Marx proponeva agli operai inglesi nell’interesse della libertà dell’Irlanda, per accelerare lo sviluppo sociale e l’emancipazione degli operai inglesi; perché gli operai inglesi non potevano conquistare la libertà fino a che avessero favorito (o anche solo tollerato) l’asservimento di un altro popolo.

Ma, ahimè, per una serie di circostanze storiche particolari, nell’ultimo terzo del secolo scorso, gli operai inglesi si sono trovati a dipendere dai liberali e si sono imbevuti dello spirito della politica operaia liberale. Non si sono posti alla testa dei popoli e delle classi che lottavano per la libertà, ma alla coda degli spregevoli lacchè del sacco di denaro, alla coda dei signori liberali inglesi.

E i liberali hanno procrastinato per mezzo secolo la liberazione dell’Irlanda, che è tuttora incompiuta! Solo nel XX secolo il contadino irlandese ha cominciato a trasformarsi da fittavolo in libero proprietario della terra, ma i signori liberali gli hanno imposto il riscatto a un “equo” prezzo! Così, egli paga e pagherà ancora per molti anni milioni e milioni di tributi ai grandi proprietari terrieri inglesi, per premiarli di averlo derubato per alcuni secoli e di averlo ridotto alla fame perenne. I liberali borghesi d’Inghilterra hanno costretto i contadini irlandesi a ripagare in contanti i grandi proprietari terrieri...

Il parlamento sta oggi esaminando una legge sul home rule (autogoverno) dell’Irlanda. Ma in Irlanda c’è la provincia settentrionale di Ulster, che è popolata in parte di oriundi inglesi, i quali, a differenza degli irlandesi che sono cattolici, sono di religione protestante. Ed ecco che i conservatori inglesi, con il grande proprietario fondiario centonero Purisckevic... no, Carson... alla testa, si sono messi a urlare furiosamente contro l’autonomia dell’Irlanda. Concedere l’autonomia sarebbe come asservire gli abitanti dell’Ulster agli infedeli e agli allogeni! Lord Carson ha minacciato l’insurrezione e organizzato bande armate di centoneri.
Naturalmente, egli minaccia a vuoto. Dell’insurrezione di un pugno di teppisti non è nemmeno il caso di parlare. Lo stesso si dica dell’”oppressione” dei protestanti da parte del parlamento irlandese (il cui potere sarà definito da una legge inglese).

I grandi proprietari fondiari centoneri vogliono solo far paura ai liberali.

E i liberali hanno paura, s’inchinano davanti ai centoneri, fanno loro concessioni, propongono di effettuare una votazione speciale (il cosiddetto referendum) nell’Ulster e di rimandare di sei anni la riforma per l’Ulster!

Il mercanteggiamento fra i liberali e i centoneri continua. La riforma aspetterà: gli irlandesi hanno atteso per mezzo secolo, aspetteranno ancora; non si può “recare offesa” ai grandi proprietari fondiari!

Beninteso, se i liberali si rivolgessero al popolo d’Inghilterra, al proletariato, la banda centonera di Carson si scioglierebbe e svanirebbe di colpo. La pacifica e completa libertà dell’Irlanda sarebbe garantita.

Ma è forse concepibile che i borghesi liberali chiedano aiuto al proletariato contro i grandi proprietari fondiari? Anche in Inghilterra i liberali sono i lacchè del sacco di denaro, capaci soltanto di strisciare servilmente dinanzi ai Carson.