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Il governo israeliano ha giustificato l’attacco all’Iran per impedire che si doti dell’arma nucleare. Una guerra difensiva dunque?
Ma il teatro della guerra e le sue cause non si trovano né in Iran né in Israele e nemmeno in tutto il Medio Oriente. È che la crisi irreversibile del capitalismo mondiale nella sua fase terminale ha bisogno della guerra per la sua sopravvivenza. L’attacco dello Stato di Israele contro l’Iran ne è solo un primo sperimento e anticipazione. Così come il massacro di Gaza.
È vero, tutti i capitalismi, tutti gli Stati si debbono oggi difendere. Si debbono difendere dalla crisi economica e finanziaria, dalla concorrenza sui mercati, dal riarmo forsennato dei rivali. Ma più che altro si devono difendere, sul piano storico generale, dal loro comune grande nemico, la internazionale classe operaia. Quella classe, oggi quasi invisibile, ma che è portatrice del Comunismo, della Rivoluzione.
Oggi non ne è cosciente, se non nel suo partito che ne custodisce il determinato futuro.
* * *
Ma il governo israeliano, come tutti gli altri al mondo, difende il Capitale, non il suo popolo. Netanyahu lo immola e consegna agli ordini dei capitalisti di Wall Street.
A questo serve provocare il collasso del regime degli ayatollah per sostituirlo con un altro, più rispondente agli interessi di Washington, nella loro lotta a morte con l’imperialismo rivale cinese: tagliare le sue vie del petrolio e in Asia centrale.
Questo progetto, per altro, mette in grave apprensione gli altri Stati della regione, soprattutto le monarchie del Golfo, che temono un vuoto di potere che è impossibile pronosticare come potrà essere colmato.
L’abbattimento del regime di Saddam Hussein in Iraq è stato un esempio di questa politica che semina caos e distruzione, con effetti devastanti per le popolazioni, ma anche per gli Stati. La caduta del regime iracheno, imposta dagli Stati Uniti, ha abbattuto uno Stato che contrastava l’espansionismo dell’Iran verso il Mediterraneo, e non ha certo favorito Israele. Ci sono voluti vent’anni di guerre continue e di massacri per distruggere la Siria, il Libano, Gaza, la Cisgiordania. E in che modo!
La guerra preventiva di Israele, che pure possiede la bomba atomica e non ha mai permesso ispezioni alle sue centrali, è stata approvata da tutti i Paesi occidentali, quegli stessi che hanno condannato l’attacco della Russia in Ucraina, la quale pure l’ha giustificato come difensivo contro l’allargamento a Oriente della NATO.
Il diritto internazionale è solo un inganno e una illusione. Ormai gli imperialismi non si confrontano che sul piano della forza dispiegata, del riarmo, della guerra.
Noi comunisti non abbiamo da schierarci né con Israele né con l’Iran e con nessuno dei fronti mondiali dell’imperialismo, ugualmente feroci, militaristi, antioperai e anticomunisti.
Il proletariato iraniano non ha motivo di solidarizzare con chi lo sfrutta e lo opprime, subendo da decenni l’oppressione spietata di un regime borghese che uccide e incarcera i capi operai più coraggiosi, che ha mandato milioni di giovani proletari a morire al fronte nella guerra contro l’Iraq.
In questa situazione il proletariato iraniano deve assumere una posizione anticapitalista, nella sua indipendenza politica da ogni partito della borghesia, di governo come di opposizione: nessuna inclinazione verso alternative democratiche, laiche o addirittura monarchiche al regime dei preti.
In tutti i paesi il dovere della classe operaia è rafforzare le sue organizzazioni di difesa economica, coinvolgere il proletariato femminile nella lotta per l’emancipazione dei lavoratori, rifiutare ogni richiamo alla solidarietà nazionale, religiosa, etnica con le classi padronali.
Solo la ricostituzione del Partito comunista rivoluzionario e il perseguimento della rivoluzione comunista internazionale, potrà mettere fine a sfruttamento, violenza, guerra.
Di fronte agli attacchi al nostro tenore di vita, al super-sfruttamento e alle deportazioni dei nostri fratelli immigrati, avete scelto la strada dell’azione, della resistenza. Questa deve essere accompagnata da una lotta all’interno dei nostri sindacati e dei nostri luoghi di lavoro verso lo sciopero generale! Le rivolte e le proteste sono un ottimo primo passo, ma senza scioperi e organizzazioni operaie più forti sono destinate a fallire. Attenzione! La borghesia cerca di cooptare la vostra genuina rabbia proletaria per servire i propri fini e per rafforzare il sistema stesso che genera questi attacchi spietati: il capitalismo.
NON
LASCIATE CHE LA VOSTRA BELLA DISPONIBILITÀ ALLA LOTTA E AL
SACRIFICIO SIA INUTILE!
Democrazia e fascismo sono due facce del sistema capitalista che si rafforzano e dipendono l’una dall’altra. La democrazia liberale è la forma stabile della dittatura di classe dei capitalisti quando l’inevitabile crisi sociale è domata, mentre il fascismo è la stessa classe al potere ma con la centralizzazione dell’autorità e l’esposizione della violenza di Stato all’esterno per mantenere il capitalismo durante la crisi.
Lo Stato borghese, con la sua Costituzione, la sua Carta dei Diritti, i suoi tribunali, la sua legge e il suo parlamento, non è “nostro” né lo sarà mai, perché queste sono istituzioni che servono a difendere e a far rispettare il rabbioso sfruttamento del proletariato da parte della borghesia. Nello Stato borghese non c’è nulla da difendere! Né la democrazia, né la Costituzione, un tempo storicamente grande, né lo Stato di diritto borghese! La borghesia proclama “diritti inalienabili” di ogni tipo (umani, civili, naturali, ecc.), ma sono completamente falsi e non servono a voi, perché sono radicati nella emarginazione, nella concorrenza e nella proprietà. La recente esplosione di rabbia proletaria a Los Angeles dimostra la necessità dello Stato di aggirare le proprie leggi per sottomettere le agitazioni che minacciano la sua esistenza.
Secondo la borghesia, la libertà significa la libertà di sfruttare i lavoratori salariati per il profitto e l’uguaglianza significa l’uguaglianza legale formale dei cittadini in un mercato di potere ineguale. La borghesia e i suoi lacchè vogliono farvi credere che facendo semplicemente sentire la vostra voce e rivolgendovi ai politici, siano democratici o repubblicani, otterrete un cambiamento, ma nulla potrebbe essere più lontano dalla verità!
L’abolizione dell’ICE, della polizia o di qualsiasi altro cambiamento fondamentale nella società non è realistico senza una rivoluzione operaia internazionale. Il proletariato deve continuare a lottare per un aumento radicale dei salari, per la riduzione dell’orario, per migliori condizioni di lavoro e per l’allargamento di una solidarietà significativa che si estenda non solo tra le categorie e i sindacati, ma anche al di là delle divisioni razziali, facendo crescere la nostra capacità a livello internazionale di difendere attivamente i più sfruttati tra noi, compresi i lavoratori immigrati. Ciò significa organizzarsi in sindacati o coordinamenti di lavoratori e lottare per il sindacalismo di classe contro una dirigenza sindacale che collabora con i padroni e lo Stato, in modo che se un lavoratore viene arrestato dall’ICE sul posto di lavoro, il sindacato possa immediatamente indire uno sciopero generale in tutta la città.
Ci
vorranno i numeri e lo slancio impetuoso dei cuori, dieci volte
superiore a quello che abbiamo visto a Los Angeles, uniti come
lavoratori al di sopra di tutte le divisioni in un movimento
sindacale di classe, con la direzione del Partito Comunista
Internazionale in guerra contro il capitalismo stesso. La vera
liberazione può avvenire solo attraverso l’instaurazione della
dittatura proletaria e del comunismo mondiale con l’abolizione
del lavoro salariato, del denaro, della produzione di merci e dello
Stato.
Dal 6 giugno 2025, Los Angeles è diventata teatro di una significativa e spontanea rivolta proletaria. A seguito di un'escalation delle retate dell'ICE, parte di una direttiva federale volta ad aumentare gli arresti giornalieri a 3.000, le forze repressive dello Stato borghese hanno lanciato operazioni militari contro i quartieri proletari, abitati principalmente da lavoratori immigrati provenienti dall'America Latina. All'inizio di maggio erano già stati catturati 239 migranti privi di documenti.
Agenti dell'ICE (Servizio Immigrazione e Dogana) e del DHS (Dipartimento della sicurezza interna) hanno fatto irruzione nei cantieri, nei magazzini e in spazi pubblici come i parcheggi di Home Depot, prendendo di mira i lavoratori a giornata. In una sola retata, 44 lavoratori sono stati arrestati in un magazzino di abbigliamento. Nel corso della giornata, altri 77 sono stati catturati in tutta Los Angeles. Mentre gli arresti dividevano le famiglie, trascinando via madri terrorizzate dalle figlie, gettando i genitori in gabbie d'acciaio e lasciando molti bambini dimenticati per strada, amici, familiari e compagni di lavoro si sono spontaneamente sollevati. Sono scoppiate proteste, prima piccole, poi sempre più grandi. In un'esplosione di energia proletaria, giovani e lavoratori non organizzati, insieme a membri dei sindacati, sono scesi in strada.
A differenza delle proteste studentesche degli ultimi due anni contro la guerra a Gaza, che si sono svolte principalmente nelle università e si sono sempre rapidamente disperse di fronte alla repressione dello Stato, queste proteste hanno le loro radici nella resistenza spontanea del proletariato. Molte manifestazioni sono iniziate con gruppi di adolescenti non collegati ad alcuna ideologia politica che si sono scontrati con le forze dell'ordine ben armate ed equipaggiate.
All'inizio, il capo di Los Angeles del sindacato SEIU, David Huerta, è stato ferito e arrestato mentre bloccava l'ingresso di un luogo di lavoro per impedire ai veicoli dell'ICE di partire con i lavoratori sequestrati. In risposta a questo e ad altri scontri, le manifestazioni sono diventate rapidamente violente nei giorni successivi, con il Federal Building nel centro della città che è diventato uno dei punti caldi delle proteste, insieme all'Home Depot di Paramount. Il traffico sull'autostrada 101 è stato bloccato. I lavoratori hanno anche cercato di impedire fisicamente agli agenti dell'ICE di effettuare gli arresti lanciando oggetti e cercando di bloccare i veicoli che trasportavano gli immigrati. In un magazzino di abbigliamento, una folla ha circondato i SUV neri e gli altri veicoli, cercando di impedire loro di partire, costringendo gli agenti a usare granate stordenti per disperderli. Negli scontri che sono seguiti, molti veicoli della polizia e sistemi di sorveglianza sono stati distrutti.
Col crescere della rivolta, sabato il presidente Trump ha dispiegato 2.000 uomini della Guardia Nazionale a Los Angeles, seguiti da altri 2.000 lunedì, e 700 marines. Questa mossa ha aggirato il consueto protocollo della richiesta del governatore, con Trump che ha invocato una legge poco conosciuta, chiamata Titolo 10, sostenendo che le proteste costituivano “una forma di insurrezione”. Ma la giustificazione legale per lo schieramento dell'esercito non è ancora stata fornita, poiché probabilmente viola il Posse Comitatus Act, una legge federale del 1878 che in passato la borghesia non è stata disposta a calpestare. Il governatore della California e il sindaco di Los Angeles, entrambi del Partito Democratico, hanno condannato l'invio delle truppe e sono stati successivamente minacciati di arresto dal governo federale.
Mentre i marines e la Guardia Nazionale occupavano gli angoli delle strade di Los Angeles, è stato imposto il coprifuoco e una rigida regolamentazione dei movimenti proletari in tutta la città.
La spontaneità e la tenacia dei lavoratori di fronte alla repressione – coprifuoco, gas lacrimogeni, ulteriori dispiegamenti di forze di polizia e militari – testimoniano anche la loro sfiducia nei meccanismi della “giustizia” dello “Stato di diritto”.
L'imposizione di una legge quasi marziale rivela l'essenza della “democrazia” borghese: una dittura di classe che abbandona la sua maschera liberale quando la redditività del capitale è minacciata. Il grandioso dispiegamento di forze repressive da parte dello Stato non è un'aberrazione, ma una risposta calibrata alle esigenze di crisi del capitale, che colpisce i ghetti dove si concentra la manodopera per disciplinarla e ricollocare i suoi schiavi salariati sacrificabili in base alle mutevoli esigenze dell'accumulazione.
Sebbene lo scoppio della risposta spontanea dei proletari nelle strade abbia interrotto per un momento le attività repressive dello Stato borghese e distrutto la patina di pace sociale, tali proteste devono svilupparsi in una risposta collettiva e coordinata da parte dei lavoratori per rifiutare di prestare il loro lavoro al capitale e privarlo così della sua linfa vitale, il plusvalore, al fine di costringere la classe nemica a fare concessioni reali alle richieste dei lavoratori.
L’aggravarsi della crisi del capitalismo sta costringendo il regime del capitale a intensificare l’estrazione del plusvalore dal lavoro salariato, riducendo i settori più deboli del lavoro organizzato, come gli immigrati, a condizioni di iper-sfruttamento. Per amministrare questa brutalità, lo Stato borghese mobilita il suo apparato di forze coercitive, in linea con il suo ruolo storico di guardiano armato dell’accumulazione del capitale.
Il proletariato immigrato
I lavoratori immigrati privi di documenti sono la parte più sfruttata della classe operaia. Concentrati in settori in cui il lavoro è lungo, mal pagato e fisicamente estenuante, sono essenziali per il funzionamento del capitale, ma sono privati anche delle più elementari tutele sociali. La loro precarietà giuridica non è casuale, ma un meccanismo deliberato di disciplina di classe. La paura sempre presente delle retate dell’ICE e della detenzione a tempo indeterminato funge da strumento repressivo e preventivo contro gli scioperi, per impedire l’azione collettiva e mantenere bassi i salari.
Con l’aggravarsi della crisi del capitale, la borghesia ricorre quindi al terrore per gestire la classe operaia. Le campagne di espulsione, le retate e le detenzioni non mirano a ridurre la popolazione senza documenti ma ad impedire a questo settore della classe operaia di organizzarsi. L’arresto dei dirigenti sindacali dei lavoratori agricoli a New York, la detenzione di un sindacalista immigrato a Tacoma e il rastrellamento nei quartieri immigrati con operazioni come “Rimandare al mittente” fanno tutti parte di un’azione per spremere più plusvalore dai lavoratori immigrati, attaccando la loro capacità di organizzarsi e ottenere salari più alti e migliori condizioni di lavoro. Canalizzando i lavoratori privi di documenti in uno stato di non esistenza legale, la borghesia cerca di garantire la loro sottomissione al lavoro in condizioni di iper-sfruttamento.
Organizzarsi per difendere la condizione operaia
Nessun appello alle norme umanitarie difenderà i lavoratori immigrati dalle violente esigenze del capitale. L’intensificazione delle campagne di espulsione e l’arresto di attivisti sindacali non sono ingiustizie isolate, ma manifestazioni di un sistema capitalista in decomposizione. I tentativi di appellarsi ai “diritti umani”, alle riforme legali o alle coalizioni interclassiste servono solo a oscurare la vera natura del conflitto e a distogliere la classe operaia dai suoi compiti verso vie senza uscita.
Queste strategie liberali neutralizzano la forza proletaria legandola all’ordine borghese. Finché la dittatura del capitale rimane intatta, sostenuta dalle sue prigioni, dai suoi eserciti e dalle sue leggi, ogni riforma conquistata è sempre temporanea, ogni protezione legale è revocabile. Il proletariato immigrato è in prima linea in una repressione che alla fine raggiungerà tutti i settori della classe operaia.
Gli attacchi attuali – deportazioni, incarcerazioni, legge marziale nelle città – sono manovre preparatorie per crisi più gravi a venire: il collasso economico e la guerra interimperialista. In questo contesto, solo un’organizzazione sindacale di classe, che unisca i lavoratori autoctoni e immigrati, può offrire una vera via di difesa.
Quando si verificano rivolte spontanee, che vanno accolte come espressioni positive della rabbia proletaria, la classe operaia deve cercare di elevarle al livello di un movimento organizzato di scioperi il più possibile diffuso.
In risposta alle retate nei luoghi di lavoro per arrestare e deportare i proletari immigrati e all’arresto dei militanti sindacali, il Partito Comunista Internazionale indica la via del movimento sindacale di classe e degli scioperi, non limitati al luogo di lavoro colpito, ma estesi il più possibile su tutto il territorio.
A Los Angeles, se ci fosse già stato un movimento sindacale di classe sufficientemente maturo e forte, le retate avrebbero dovuto essere accolte con uno sciopero generale a sostegno della rivolta. Noi comunisti lottiamo per questo obiettivo, per il quale invitiamo tutti i militanti del sindacalismo di classe a unirsi e lottare. I lavoratori che si trovano al di fuori dei sindacati tradizionali devono lavorare per costituire assemblee e consigli territoriali nel corso di tali rivolte, per organizzare e mobilitare la forza lavoro di ampi settori dei lavoratori in un’azione economica generalizzata che possa bloccare, anche se temporaneamente, gli organi di estrazione del plusvalore per il capitale, costringendo lo Stato a capitolare alla richiesta dei lavoratori di porre fine alle deportazioni.
Dalle rivolte disperse e occasionali allo sciopero, questo è l’obiettivo per cui lavorano i comunisti. I giovani proletari che sono scesi in piazza per combattere la polizia devono scoprire la grande forza del movimento operaio, e il movimento sindacale di classe deve attingere ancora una volta alle forze vitali del giovane proletariato.
La resistenza locale deve lasciare il posto a un sindacato di classe nazionale e internazionale, temprato dalla lotta, che non miri a cambiamenti parlamentari ma agli obiettivi concreti della classe operaia: aumenti salariali sostanziali, soprattutto per i lavoratori peggio pagati; riduzione della giornata lavorativa senza perdita di salario; salario pieno per i lavoratori licenziati a spese dei padroni e del loro Stato.
Rifiutiamo la “solidarietà nazionale” e innalziamo la bandiera dell’internazionalismo proletario: l’unica bandiera sotto la quale la classe operaia può vincere.
L’attentato terroristico
Il 22 aprile scorso, la valle di Baisaran, una località vicino alla cittadina montana di Pahalgam, nel Territorio indiano dello Jammu e Kashmir è stata teatro di un attacco terroristico. Un gruppo di cinque miliziani armati ha provocato 26 vittime civili e decine di feriti.
Il commando, munito di fucili d'assalto M4 e AK-47, avrebbe preso di mira alcuni gruppi di turisti di fede indù. Da quanto descritto da diversi testimoni, le vittime sarebbero state selezionate in base al genere (solo maschile) e alla loro religione (esclusivamente non musulmani); gli autoctoni kashmiri sarebbero stati risparmiati.
Un modus operandi che ricorda in parte quello impiegato da Hamas negli attacchi del 7 ottobre. Alcune vittime sarebbero state costrette a dimostrare la loro fede islamica recitando la Kalima, un atto di fede pronunciato per esprimere l'adesione all'Islam. L'unica vittima musulmana accertata è un lavoratore del luogo, un affitta-ponies, che avrebbe tentato di difendere i turisti.
L'attacco è stato rivendicato da un gruppo relativamente nuovo. noto come The Resistance Front (TRF), una formazione emersa nel 2019, poco dopo la decisione del governo centrale indiano di revocare la parziale autonomia del Kashmir.
Il TRF è considerato strettamente legato, o parte integrante, del gruppo jihadista Lashkar-e-Taiba (LeT), protagonista di numerosi attacchi in territorio indiano negli ultimi decenni, incluso l’assalto a Mumbai del 2008 che, durato tre giorni, causò 170 morti.
Però pochi giorni dopo l'attacco il TRF ha negato il proprio coinvolgimento sostenendo che la rivendicazione dell'attentato, inviata tramite Telegram, fosse il risultato di una violazione informatica orchestrata dall'intelligenza indiana.
Colpire i turisti non è una novità per questi gruppi, al contrario risponde a una precisa volontà di ottenere una risonanza internazionale e mediatica. L'obiettivo è duplice: minare la stabilità regionale e danneggiare l'economia del turismo indiana, un settore che nel Kashmir indiano ha conosciuto un significativo sviluppo negli ultimi anni.
Nel giugno 2024 un autobus che trasportava pellegrini indù di ritorno dal tempio di Shiv Khori, vicino a Ransoo, nel distretto di Reasi (Jammu e Kashmir), fu assalito e nove passeggeri furono uccisi. L’attacco fu rivendicato dai Kashmir Tigers, un gruppo anch'esso poco conosciuto che si distingue per le sue tattiche di imboscata con armi leggere. È ritenuto affiliato all’organizzazione islamista sunnita, fondata nel 2000, Jaish-e-Mohammed (JeM) che in urdu significa “l'esercito di Maometto” e che nel corso degli anni si è caratterizzata per l’uso di attentatori suicidi.
Nel tentativo di rafforzare un'immagine di normalità della regione, l'India aveva organizzato nel 2023 una tappa del G20 proprio a Srinagar, capoluogo dell'omonimo distretto nello Jammu e Kashmir. Evento che fu seguito da proteste da parte cinese e pakistana.
Gli attacchi sono spesso mirati contro civili, minoranze etniche e religiose, pellegrini, turisti, ma anche lavoratori come dimostra la vile azione sempre del TRF che nell’ottobre 2024 attaccò un cantiere di un tunnel nel distretto di Ganderbal, sempre in Kashmir, a seguito del quale morirono 7 lavoratori immigrati.
Secondo i dati del South Asia Terrorism Portal, tra il 2000 e il 2024, circa 15.000 civili sono stati uccisi in India a causa del terrorismo, non solo nel Jammu e Kashmir, ma in diverse regioni del paese, numeri che riflettono la complessità e la diffusione del fenomeno.
Dalle parole ai fatti: l'operazione Sindoor
I vertici indiani hanno immediatamente incolpato il Pakistan, accusandolo di sostenere e alimentare il terrorismo nella regione. Islamabad, pur ribadendo l'illegittimità della presenza indiana in Kashmir, ha respinto qualsiasi coinvolgimento, rimandando le accuse al mittente.
Il giorno seguente all'attacco Nuova Delhi ha risposto con ritorsioni significative: sospendendo il Trattato delle Acque dell'Indo (Indus Waters Treaty) e chiudendo il confine di Attari-Wagah, l'unico valico legale tra i due Paesi, situato non lontano da Amritsar, nel Punjab indiano.
Il Trattato delle Acque dell'Indo, firmato nel 1960 sotto la supervisione della Banca Mondiale, regola la spartizione delle acque del vasto bacino del fiume più lungo del subcontinente. L’Indo nasce nelle montagne del Tibet, attraversa una parte dell'India (principalmente il Ladakh e il Jammu e Kashmir) e scorre attraverso tutto il Pakistan, sfociando nel Mar Arabico a sud di Karachi.
Il Trattato assegna all'India l'uso esclusivo (usualmente per scopi agricoli ed idroelettrici) degli affluenti di sinistra : Ravi, Beas e Sutlej. L'Indo e quelli di destra: Chenab e Jhelum, sono invece ad uso pakistano. Tuttavia, il trattato consente all'India di costruire progetti idroelettrici anche su questi, ma non alterandone il deflusso verso il Pakistan.
Queste acque sono indispensabili al sostentamento dell'economia pakistana: usate principalmente per la produzione agricola, rappresentano circa l'80% di tutto il fabbisogno idrico del paese. Il Ministro dell'Energia pakistano, Awais Leghari, ha quindi definito la sospensione del trattato «un atto di guerra idrica; una mossa codarda e illegale», ribadendo che «ogni goccia è nostra di diritto e la difenderemo con tutta la forza».
Due giorni dopo l’attentato, entrambi gli Stati hanno annullato i visti e interrotto i legami commerciali. Il Pakistan ha chiuso il suo spazio aereo ai velivoli indiani e sospeso il fragile accordo di Simla, che stabilisce il rispetto della Linea di Controllo (LoC) e l'impegno a non modificarla unilateralmente. A dimostrazione di quanto valgono queste carte firmate tra predoni borghesi questo accordo dal 1972 è stato violato innumerevoli volte.
Il 29 aprile, il premier indiano Modi, durante una riunione con i vertici della difesa, ha concesso alle forze armate indiane la "completa libertà operativa".
Le tensioni aumentano: il 3 maggio il Pakistan mostra i muscoli e testa il missile balistico Abdali, con una portata di 450 chilometri. Lo stesso giorno l'India impone restrizioni marittime alle navi pakistane e taglia tutti i commerci via mare.
La notte tra il 6 e il 7 maggio segna l'inizio della Operazione Sindoor. Le forze armate indiane conducono attacchi in territorio pakistano contro nove siti, identificati come “infrastrutture terroristiche”. Secondo fonti indiane, questi obiettivi includevano campi di addestramento e quartier generali dei gruppi terroristici Jaish-e-Mohammed, Lashkar-e-Taiba e Hizbul Mujahideen (HM), quest'ultima un'organizzazione che vede al suo interno combattenti di etnia kashmira.
Islamabad risponde immediatamente con intensi bombardamenti di mortaio e artiglieria pesante lungo la Linea di Controllo. Nella notte tra il 7 e l'8 maggio il Pakistan colpisce con droni e missili diversi obiettivi militari nel nord e nell'ovest dell'India; alcuni di questi attacchi vengono neutralizzati dai sistemi di difesa aerea indiani.
L'8 maggio le forze armate indiane rispondono con missili e droni, prendendo di mira i sistemi radar di difesa aerea in diverse località pakistane, inclusa Lahore. Nella notte tra l'8 e il 9 maggio i raid di droni pakistani contro obiettivi indiani si susseguono, colpendo, tra gli altri, l'aeroporto di Srinagar e la base aerea di Awantipora. Si stima che Islamabad abbia utilizzato oltre 300 droni.
Il 9 maggio si registra un notevole aumento dell'intensità del fuoco lungo la LoC da entrambi i fronti, caratterizzato dall'uso di mortai e artiglieria di grosso calibro.
Il giorno successivo è negoziato un cessate il fuoco tra le due parti. Tuttavia, nonostante l’accordo si registrano ancora numerosi scontri lungo la linea di confine. Solo il 12 maggio, dopo quattro giorni di violenti scambi militari eseguiti con attacchi missilistici e intenso di droni, i due paesi annunciano una tregua, che risulterà stabile.
Come in ogni scontro tra Stati borghesi le dichiarazioni dei rappresentanti dei governi e dei vertici militari mostrano notevoli differenze riguardo alle vittime e all'esito dei reciproci attacchi. Il Pakistan ha accusato l'India di aver colpito aree civili causando la morte di 40 civili e 11 militari, e circa 200 feriti.
Nuova Delhi ha categoricamente smentito le affermazioni pakistane sulle vittime civili, ma sostenendo che le sue operazioni hanno portato all'uccisione di oltre 100 “terroristi” solo nella prima ondata di attacchi. Secondo le fonti indiane, le sue perdite militari sarebbero state di 5 soldati e 15 morti civili e 43 feriti a seguito degli scambi di artiglieria e armi leggere lungo la Linea di Controllo e dagli attacchi dei droni pakistani.
Il cessate il fuoco
L'annuncio dell’accordo del 10 maggio è stato dato dal presidente americano e solo in un secondo momento confermato dal Ministro degli Esteri pakistano e dal Segretario agli Affari Esteri indiano. Trump, con il ruolo da comico che gli hanno affidato, ha dichiarato: «Dopo una lunga notte di colloqui mediati dagli Stati Uniti, sono lieto di annunciare che India e Pakistan hanno accettato un cessate il fuoco completo e immediato. Congratulazioni a entrambi i Paesi per aver usato il buon senso e una grande intelligenza. Grazie per la vostra attenzione su questa questione!».
Parole che non sono piaciute alla classe dominante indiana: attribuire il merito della mediazione agli Stati Uniti suggerisce che l'India abbia ceduto a pressioni esterne mentre, nell’immaginario nazionalista, la questione del Kashmir e le relazioni con il nemico pakistano sarebbero affari interni ai due Stati. Inoltre Trump avrebbe messo sullo stesso piano i due paesi, non individuando l'India vittima del terrorismo.
È evidente invece che siamo in una fase storica dove le questioni locali si inseriscono in una squilibrio mondiale, né possano essere affrontate in totale autonomia.
In questa crisi i due più maggiori imperialismi, americano e cinese, hanno mantenuto una posizione cauta, invitando alla moderazione entrambi gli Stati contendenti, dopo averli armati per decenni. Certamente gli Stati Uniti, seppur legati storicamente al Pakistan, sono orientati a rafforzare i legami strategici con l'India in funzione anti-cinese. Pechino è invece tradizionalmente un avversario di Delhi e un un alleato di Islamabad, con cui ha costruito legami economici e commerciali sempre più stretti.
Inoltre per l’India un conflitto armato minerebbe le già scosse catene di approvvigionamento globale e spaventerebbe il capitale internazionale che oggi vi trova una terra fertile per investire. Una guerra di lunga durata potrebbe mettere a dura prova la capacità indiana di contenere, anche solo in parte, l'influenza cinese.
La posizione del comunismo rivoluzionario
Gli innumerevoli conflitti, più o meno estesi, che caratterizzano l’attuale fase del modo di produzione capitalistico sono manifestazioni inesorabili della marcia del capitale verso una nuova carneficina mondiale, dettata in primo luogo dalla generale crisi economica di sovrapproduzione. La guerra è una ineluttabile necessità per le classi dominanti, esiste alternativa al nostro “o guerra capitalistica mondiale o rivoluzione proletaria”. Diventa fondamentale per i padroni, per i loro governi di ogni colore, incanalare i lavoratori, di tutte le nazioni, al massacro fratricida.
Tutte le borghesie, e in questo scenario quella indiana e la sua gemella pakistana, continueranno a soffiare sul fuoco del conflitto, alimentando, quando e quanto serve, i molteplici gruppi di “terroristi”, espressione ed utili servitori delle diverse fazioni borghesi che li allevano e li sovvenzionano e che, al di là della loro presunta ideologia, si porranno sempre contro la rivoluzione e contro i lavoratori.
Le contese territoriali come quella del Kashmir saranno un utile pretesto per spingere sul nazionalismo, così come i conflitti religiosi che verranno inaspriti per rafforzare lo Stato borghese e scagliarlo contro il movimento proletario.
Ma la guerra ha anche il merito di smascherare l’opportunismo in ogni sua forma. In India, i due grandi partiti sedicenti comunisti, il Partito Comunista dell’India, e la sua scissione del 1964 il Partito Comunista dell'India (Marxista), hanno di nuovo mostrato la loro vera natura reazionaria sostenendo apertamente l'Operazione Sindoor, sottolineando l’importanza dell’unità nazionale in risposta al “terrorismo”. I proletari indiani dovranno rigettare tali consegne e far proprio, insieme ai loro fratelli di classe pakistani, il motto Il nemico è in casa nostra, contro l’unità nazionale per l’internazionale unità nella lotta della classe lavoratrice.
Altre organizzazioni di sinistra indiane e pakistane, apparentemente più radicali, oggi schierate contro entrambe le borghesie nazionali, sostengono lotte di liberazione di nazionalità, dal Tibet al Belucistan al Kashmir. In un mondo del presente generale grado di sviluppo storico le parole di denuncia di queste oppressioni di minoranze sono utilizzate come strumenti della guerra tra gli imperialismi, così come nello scenario ucraino rispetto alle repubbliche del Donbass, o nella carneficina palestinese.
Un terzo macello mondiale potrà essere fermato solo dal proletariato mondiale, unito al di sopra delle nazionalità, etnie, religioni e che, guidato dal partito comunista internazionale, trasformi la guerra tra gli Stati in guerra tra le classi per l’affermazione del Comunismo.