Partito Comunista Internazionale
Il Partito Comunista N. 380 - novembre-dicembre 2016
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Indice dei numeri
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organo del partito comunista internazionale
DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: – la linea da Marx a Lenin, alla fondazione della III Internazionale, a Livorno 1921, nascita del Partito Comunista d’Italia, alla lotta della Sinistra Comunista Italiana contro la degenerazione di Mosca, al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani – la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario, a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco
PAGINA 1 Non col voto si difende la classe operaia - La sua forza è nella organizzazione e nella lotta, non in una particolare forma costituzionale del dominio borghese
Il partigianesimo filoimperialista del Rojava
Dopo l’incubo del voto in Usa e la dissezione del suo cadavere
L’accordo di pace fra governo e le FARC in Colombia
PAGINA 2 Riunione generale del partito a Genova, 24-25 settembre: La successione dei modi di produzione: Roma - La questione militare: sul fronte orientale - Il PCd’I e la guerra civile in Italia: Gli Arditi del Popolo (continua)
Per
il sindacato
di classe
Roma, 12 novembre: Solidarietà, sindacato e lotta comune degli operai di tutte le razze e i Paesi – Solidarity, the trade union and the common struggle of the workers of all races and countries
La condizione dei braccianti
L’opposizione di facciata della Fiom spalleggia il corporativismo della Cgil - 8 anni di tradimento degli interessi operai (continua dal numero scorso) - La V Conferenza di Organizzazione della Cgil: “Il sindacato è un’altra cosa” - Dopo il Jobs Act - Lo scontro alla FIAT (continua)
Relazione dai nostri compagni in Venezuela: Crisi, inflazione e lotte operaie
Orari “europei”
PAGINA 5 La contesa fra militarismi nei mari della Cina: Il riarmo in Asia (continua dal numero scorso): Il riarmo australiano - Missili USA in Corea del Sud - Nel Mar Cinese Orientale
PAGINA 6 La classe operaia in India lotta contro la “riforma del lavoro”
– Grecia: Syriza bastona sui pensionati
  
 
 
  
 
PAGINA 1

Non col voto si difende la classe operaia
La sua forza è nella organizzazione e nella lotta, non in una particolare forma costituzionale del dominio borghese

USB e SI Cobas – coi più piccoli ADL Cobas, UNICobas ed USI – hanno indetto per venerdì 21 ottobre lo sciopero generale di tutte le categorie.

È giusto agitare fra i lavoratori – nell’assenza di mobilitazioni da parte del sindacalismo di regime – la necessità di una risposta generale in grado di respingere finalmente gli attacchi sempre più duri del padronato e del suo regime.

Ma questa mobilitazione purtroppo è stata preparata affrontando la questione in modo sbagliato.

La positiva convergenza nello sciopero di due fra le tre principali organizzazioni sindacali di base – la USB e il SI Cobas – è guastata dalla diserzione della CUB, che ha indetto lo sciopero in altra data, il 4 novembre, insieme a SGB e USI-AIT. La dirigenza di USB è responsabile perché si è limitata ad annunciare lo sciopero senza nemmeno tentare di coordinarsi con gli altri sindacati di base per prepararlo insieme. E la dirigenza della CUB, dimostrando analogo settarismo, ha preso a pretesto questo comportamento dell’USB per organizzare l’ennesimo sciopero separato e in concorrenza, pur subendo forti critiche dall’interno della sua stessa organizzazione. Atteggiamenti questi di autosufficienza che in oltre trent’anni hanno impedito il superamento del frazionamento del sindacalismo di base.

Il SI Cobas si è invece distinto per saper attenersi al vitale indirizzo dell’unità d’azione dei lavoratori, come già fece il 14 novembre 2014 scendendo in corteo a Milano insieme agli operai mobilitati dalla Fiom, il 18 marzo scorso promuovendo lo sciopero generale insieme alla CUB, che allora fu disertato dall’USB, e infine il 17 settembre scorso, partecipando alla manifestazione di Piacenza organizzata dall’USB in risposta alla uccisione durante un picchetto dell’operaio Abd Elsalam.

Bisogna battersi entro ciascun sindacato di base per l’unità nella lotta di tutti i lavoratori, per azioni unitarie di tutto il sindacalismo di base, ed anche coi lavoratori mobilitati dai sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil), quale strada maestra per la rinascita del Sindacato di Classe!

* * *

Lo sciopero generale, arma potente della classe operaia, deve essere usato nel modo corretto per non svilirne l’efficacia. Deve puntare a obiettivi delimitati, chiari e unificanti. Deve rinsaldare la convinzione che la vittoria dei lavoratori può essere opera solo dei lavoratori stessi.

Invece le rivendicazioni di questo sciopero generale sono troppo numerose e variegate, tali da farlo risultare come una manifestazione d’opinione anziché un passo concreto per ottenere davvero quel che chiede e per la costruzione di un movimento di lotta dei lavoratori.

La forza della classe operaia non si deve lasciar deviare verso falsi obbiettivi, che non sono i suoi ma quelli dei suoi padroni. Non si devono mischiare – e schierare – i lavoratori negli scontri fra le opposte fazioni della classe dominante. Il risultato è che gli obbiettivi della lotta operaia passano in secondo piano e sono sottomessi alle ipocrite e false idealità borghesi: sul piano nazionale le dispute fra governo e opposizioni, per la “libertà”, il “diritto costituzionale”, la “democrazia”...; sul piano internazionale, gli schieramenti oggi e le guerre imperialiste domani.

Oggi, il principale elemento che devia questo sciopero generale da quelli che dovrebbero essere i suoi scopi è il suo utilizzo a sostegno della battaglia per il NO al referendum sulla riforma costituzionale. Ciò vale principalmente per l’USB, che dà allo sciopero un minestrone di rivendicazioni che servono di contorno e sostegno a questa che è la vera finalità della sua mobilitazione, che infatti include il giorno successivo una manifestazione nazionale a Roma su questo tema. Ma anche il SI Cobas l’ha inserito fra i nove punti della piattaforma.

Fra l’altro, in questo modo si prepara il terreno alla campagna referendaria primaverile cui la Cgil, non a caso, sta facendo ricorso per nascondere la sua volontà di non indire alcuno sciopero.

A parte il metodo del referendum popolare, che è esattamente il contrario della lotta di classe, la riforma costituzionale non è un obbiettivo della classe operaia: i lavoratori sono trascinati nel pantano dello scontro fra le opposte bande di politicanti borghesi e la lotta di classe viene svilita e degradata a meccanismo elettorale. La maggioranza dei lavoratori vi si sentono, giustamente, indifferenti; altri possono propendere, influenzati dalle apparenti opposte propagande, da un lato o dall’altro: dare una indicazione di voto implica, su comando della politica borghese, dividere del tutto improduttivamente la classe.

Per la classe lavoratrice l’intera questione della riforma costituzionale è un problema falso e fuorviante. È forse servita la borghese democratica Costituzione a impedire le pesantissime sconfitte di questi ultimi decenni? Ricordiamo solo le principali:
     - l’abolizione della scala mobile e la politica dei redditi, introdotta con un accordo firmato da Cgil, Cisl e Uil nel 1992, che ha abbassato di anno in anno il salario reale;
     - le controriforme delle pensioni, da quella Dini (1994) a quella Fornero (2011);
     - l’introduzione e diffusione del lavoro precario – dalla legge Treu (1997), a quella Biagi (2003), al Jobs Act (2015), diventato la principale forma di assunzione;
     - la maggiore libertà di licenziamento con la riforma del lavoro Fornero (2012) e il Jobs Act;
     - i rinnovi a perdere dei contratti nazionali di categoria ormai da decenni;
     - le progressive deroghe dal contratto nazionale, attraverso leggi e accordi fra sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil) e associazioni padronali, ultimo il Testo Unico sulla Rappresentanza (TUR) del gennaio 2014 (firmato successivamente anche da Confederazione Cobas e USB);
     - la limitazione della libertà di sciopero attraverso leggi (146/1990 e 83/2000) e accordi fra Cgil, Cisl e Uil e associazioni padronali (ancora il TUR).

Tutte queste leggi e questi accordi antioperai sono stati approvati con la Costituzione che oggi i contrari alla riforma sostengono che i lavoratori dovrebbero difendere con le loro lotte e con il loro sacrificio.

Il fronte del NO sostiene che se la riforma passasse le cose andranno ancora peggio perché si rafforzerebbe il potere esecutivo – il Governo – a discapito di quello legislativo – il Parlamento – dando al primo mano più libera nel varare nuovi provvedimenti contro i lavoratori. Ma se il rafforzamento del potere esecutivo è certamente uno degli obiettivi del Capitale è altrettanto vero che a fermare i provvedimenti dei governi contro la classe operaia non sono mai state e mai saranno le schermaglie fra i partiti in parlamento, ma solo la lotta di classe, cioè un movimento di sciopero il più esteso e duraturo possibile.

Questo è il vero problema, il vero compito della classe lavoratrice: rafforzarsi con una organizzazione sindacale di classe in grado di dispiegare una lotta in difesa delle sue condizioni.

Certo, in passato il Parlamento ha promulgato leggi a tutela dei lavoratori. Ma quando ciò è avvenuto è stato in virtù di una forza operaia dispiegata prima nel campo sociale con la lotta e solo dopo sanzionata con la legge. Le conquiste passate la classe operaia le ha ottenute con battaglie costate licenziamenti, il carcere e la vita: sono stati più di 150 gli scioperanti uccisi dalla polizia in pieno regime democratico e vigendo la “Costituzione più bella del mondo”.

E nel fare le leggi, anche quando queste andavano a migliorare le condizioni dei lavoratori, governi e parlamenti sono sempre stati ben accorti a concedere il meno possibile e soprattutto a inserire elementi che indebolissero la lotta di classe. Il riconoscimento per legge dei cosiddetti “diritti sindacali in azienda”, ad esempio, stabilito dallo Statuto dei Lavoratori (maggio 1970), col quale, secondo i suoi fautori, “la Costituzione è entrata nelle fabbriche”, se da un lato ha dovuto riconoscere alcune tutele ai lavoratori – come quella dal licenziamento individuale (art. 18) – dall’altro è servito a corrompere l’azione di classe, a rinchiuderla nell’aziendalismo, a sottomettere il movimento operaio a quella che poi, più tardi, è stata chiamata concertazione. Non fu per caso che quella legge fu promossa e votata dalla DC e dal PSI (oltre che da PSDI, PRI e PLI), e che il PCI – che non la votò e si astenne – passò poi a incensarla con gli stessi argomenti.

Fu l’azione corruttrice dei partiti riformisti (il PCI e il PSI) a spezzare la forza del movimento operaio, riuscendo dove la violenza statale aveva fallito, sconfiggendo la tradizione sindacale di classe dentro la Cgil e concedendo al regime capitalista questi decenni di pace sociale, nei quali ha potuto mettere provvisoriamente da parte la sua congenita violenza antiproletaria, potendo infliggere continue sconfitte ai lavoratori col metodo concertativo.

A fronte della avanzata inesorabile della crisi economica mondiale del capitalismo, però, ai regimi borghesi di tutti i paesi – a prescindere dal colore della vernice con cui si coprono – non rimane, per rimandare il tracollo di questo modo di produzione moribondo, che aumentare lo sfruttamento della classe lavoratrice. Gli attacchi contro i lavoratori diventano sempre più duri. Le regole del gioco della concertazione vengono ricalibrate fino a farla apparire per quello che è sempre stata: collaborazionismo di classe.

Lo stesso accade alla democrazia che gradualmente lascia intravedere sempre più chiaramente il vero volto di questo regime, la dittatura del capitale, di cui è solo la maschera.

Sul piano internazionale matura una nuova guerra mondiale, unica soluzione generale del capitalismo alla sua crisi, come già fu per la prima e per la seconda.

Questo regime è contro la classe lavoratrice, lo è stato e lo sarà sempre qualunque sia la sua Costituzione e il suo sistema elettorale. Il potere politico della proprietà, industriale e fondiaria, e della finanza, cioè della borghesia nazionale ed internazionale, non passa più per il Parlamento. Parlamenti e governi sono burattini al servizio della classe dominante. I partiti che additano in uno o nell’altro di questi fantocci il solo nemico dei lavoratori servono a salvare i veri padroni. La “sovranità popolare” è una grande frottola con cui la classe capitalista nasconde il suo dominio, con il vantaggio di scaricare la responsabilità dei suoi governi su coloro che li avrebbero scelti col voto. È evidente che le elezioni sono facilmente pilotate dalla borghesia che, col suo dominio politico ed economico, attraverso i media e le mille leve corruttrici e ricattatorie, condiziona le scelte dell’elettorato, per altro composto anche dai membri delle classi che vivono tanto meglio quanto più sono sfruttati i lavoratori. Col voto è impossibile dare il potere a un partito che difenda gli interessi della classe lavoratrice.

Per questo lottare in un fronte interclassista di forze e di rivendicazioni per “la caduta del Governo” come obiettivo a sé è fuorviante e pericoloso. Bisognava e bisognerà lottare contro le riforme delle pensioni, del mercato del lavoro, contro le leggi antisciopero, per una legge per la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro. In questa lotta può essere che un governo cada ma mai deve diventare un obiettivo in sé perché in tal modo si darebbe adito a credere che nel capitalismo possa esistere un governo amico dei lavoratori. Si è visto, per fare l’esempio più recente, come la caduta dell’ultimo governo Berlusconi, additato per vent’anni dalla sinistra, riformista moderata o radicale, come il principale nemico dei lavoratori, abbia aperto la strada al governo Monti, poi all’attuale, ancora peggiori.

Tutti i partiti, anche sedicenti operai e rivoluzionari, che sostengono il fronte del NO alla riforma costituzionale, ambiscono a un ingresso in parlamento e sognano impossibili “governi operai” nel quadro di questo regime politico. Sono destinati a veder fallire i loro progetti e soprattutto a far cadere i lavoratori in nuove amare disfatte.

Queste illusioni vanno combattute e sconfitte: la classe operaia deve battersi nell’immediato solo per i suoi obiettivi sindacali e sul piano delle attuali istituzioni non ha nulla da difendere e deve solo lottare per abbatterle, per la conquista rivoluzionaria del potere politico, per l’instaurazione della sua dittatura di classe, sola via per la distruzione del capitalismo e per il Comunismo: una libera società perché senza classi, senza Costituzioni e senza Stato.

  

  

  

  

  

  


Il partigianesimo filoimperialista del Rojava

In tempi di tediosi dibattiti referendari, in cui si fa un gran parlare di concetti privi di ogni significato concreto quali “diritto”, “costituzione”, “democrazia”, c’è anche qualcuno che trova una patria d’elezione per simili retoriche scempiaggini: per la nostrana cosiddetta “sinistra radicale” quell’isola di Utopia sarebbe la regione del Nord della Siria, a prevalenza etnica curda, ultimamente chiamata col nome di Rojava, che nella lingua ivi parlata significa “occidente”.

In tale regione, negli ultimi anni segnata dalla guerra che dilania la Siria, è sorta un’entità politica autonoma, uno Stato di fatto. Questo, dovendo definirsi in rapporto ad altri Stati di diritto e de facto, quali la Turchia, l’Iraq, ciò che resta dello Stato siriano, il sedicente Stato Islamico e i territori in mano alle altre forze jihadiste siriane, ha dovuto ritagliarsi una identità, sia per cementare il fronte interno sia per contrapporsi ai concorrenti, mobilitando militarmente e ideologicamente la popolazione.

Il Rojava ha in effetti le caratteristiche di uno Stato, con costituzione, territorio e forza armata. Alla sua direzione c’è un partito, un fronte di partiti, a base etnica ma che si vogliono dipingere laici, progressisti e con tutta l’abusata mitologia democratica.

Il suo territorio, che attualmente esorbita rispetto al tradizionale Kurdistan siriano, nacque nel 2012, l’anno successivo allo scoppio della guerra in Siria, quando le truppe del governo di Damasco, nell’impossibilità di controllare un’ampia area del territorio nazionale, si ritirarono. Il controllo della regione fu assunto da una coalizione di forze curde, il Supremo Comitato Curdo, un’estemporanea alleanza politica nata sotto gli auspici del leader curdo-iracheno Mas’ud Barzani e formato da due partiti: il PYD, Partito dell’Unione Democratica, e il KNC, Consiglio Nazionale Curdo. I partiti appartengono a due distinte correnti del nazionalismo curdo le quali si distinguono più per i loro legami internazionali che per differenti ideologie politiche: il KNC non è altro che la sezione del Partito Democratico del Kurdistan iracheno guidato dal summenzionato Barzani, mentre il PYD, che pure ha accolto al suo interno molti elementi formatisi all’interno del KNC come il suo leader Salih Muslim Mohamed, deve la sua formazione nel 2003 all’azione in territorio siriano del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) basato in Turchia e fondato e diretto da Abdullah Öcalan.

Col tempo la coalizione delle forze di etnia curda, la quale non è maggioritaria in tutte le regioni da essa controllate militarmente, si è estesa anche alle altre componenti etniche della regione. Attualmente nella regione del Rojava sono riconosciute ufficialmente le etnie: curdi, arabi, assiri, caldei, turcomanni, armeni e ceceni.

La relativa coesione sociale interna e l’estensione del territorio di questo staterello sono dovute a due diversi ordini di fattori. Da una parte agisce il terrore di cadere sotto la dominazione del sedicente Stato Islamico, e per le minoranze etniche e religiose di essere sottoposte a forme più o meno violente di pulizia etnica. In questo senso l’alleanza con altre componenti etniche ha avuto un certo successo, perché si trattava di minoranze perseguitate ferocemente dai jihadisti e, per cause storiche, ai limiti dell’estinzione. Questo è il caso della minoranza detta assiro-cristiana di Siria, di lingua aramaica, presente soprattutto nel governatorato di Al-Hasakah, la quale ha dato vita al Partito dell’Unione Siriaca in Siria che si è dotato di un’organizzazione militare chiamata Sutoro (Ufficio di Sicurezza Siriano) che a sua volta collabora con le YPG, cioè le Unità di Protezione del Popolo legate al PYD curdo.

Ma un altro elemento che ha contribuito all’affermazione del Rojava è stato l’appoggio accordato alternativamente dalle potenze imperialiste presenti sulla scena mediorientale, con l’obiettivo di impedire, con complesse manovre, l’affermarsi di entità territoriali e militari troppo forti, che potrebbero far pendere l’ago della bilancia a favore del fronte avverso. Se nella fase in cui le forze del Rojava contrastavano lo Stato Islamico nella lunga battaglia per il controllo della città di Kobane godevano prevalentemente dell’appoggio della Russia, in seguito hanno potuto contare sul sostegno dell’aviazione degli Stati Uniti la quale ha permesso alle truppe di terra significative conquiste territoriali. Dal gennaio del 2016 le forze statunitensi prendevano il controllo della base aerea di Rmeilan, nella provincia siriana di Al-Hasakah controllata dai curdi siriani, da dove potevano compiere raid aerei contro obiettivi dello Stato Islamico in appoggio alle milizie del Rojava.

Nelle zone strappate allo Stato Islamico dalle forze del Rojava si sono verificate pesanti persecuzioni ai danni della popolazione araba sunnita, del tutto simili a quelle subite in precedenza dai curdi ad opera della milizie jihadiste.

Non stupisce dunque che in una guerra fra fronti partigiani borghesi si ostentasse anche una forza con connotati laici e modernizzanti, da opporre all’oscurantismo religioso onnipresente in Medio Oriente in tutti gli schieramenti in lotta. Un fenomeno questo del frontismo “democratico e progressista” che rassomiglia alle “guerre di liberazione” nella fase finale del secondo conflitto mondiale in Italia e in Francia, partigianesimo che certamente si schiererà e appoggerà ai fianchi ogni futuro scontro imperialista in funzione antiproletaria e antirivoluzionaria.

Come la nostra corrente di Sinistra ha sempre sostenuto l’impraticabilità di equivoci fronti antifascisti con forze borghesi, parimenti siamo contrari a qualsiasi alleanza con Stati, partiti e fazioni borghesi laici e “progressisti” per contrastare l’oscurantismo religioso. In vista della realizzazione dei fini storici del comunismo, in pace il nostro indirizzo immediato è quello della difesa degli interessi immediati del proletariato e in guerra la consegna, nell’epoca dell’imperialismo imperante, è sempre quella di trasformare la guerra fra Stati e fazioni borghesi in guerra fra le classi.

Ma quello che più seduce il rincoglionito sinistrume occidentale sarebbe la nuova Costituzione del Rojava.

La cosiddetta Carta del Contratto Sociale del Rojava trae ispirazione dalle Costituzioni dei paesi europei, con non poche assonanze con quella italiana. Come vuole la dottrina dei costituzionalisti che nel secondo dopoguerra hanno redatto le leggi fondamentali degli Stati che avevano attraversato la “parentesi” di esperienze apertamente totalitarie, la costituzione deve essere “lunga”, cioè deve avere molti articoli che definiscano in maniera dettagliata l’articolazione e l’equilibrio reciproco delle istituzioni e dei poteri in modo da stabilire un “sistema di garanzie” tale da impedire che colpi di mano o forzature politiche ne stravolgano la natura democratica favorendo l’instaurazione della dittatura di un partito o di un individuo.

La Carta del Rojava con i suoi 96 articoli e con la separazione fra i poteri esecutivo, legislativo e giudiziario e la definizione delle istituzioni che a essi devono presiedere, risponde almeno al requisito della “lunghezza”, nonostante sia stato elaborato nelle condizioni di una guerra in corso e al quale si prevedono ulteriori elaborazioni a conflitto concluso.

Inoltre, come gli stessi costituzionalisti democratici hanno prescritto, la legge fondamentale dello Stato deve essere “rigida” nel senso che non può essere contraddetta dalle leggi ordinarie, di grado inferiore. Vi sono quindi prescritti compiti e struttura della Suprema Corte Costituzionale col compito di «verificare la costituzionalità delle leggi promulgate dall’Assemblea Legislativa e delle decisioni adottate dal Consiglio Esecutivo» e di «controllare leggi e regolamenti che potessero risultare in conflitto con la lettera e lo spirito della Carta e della Costituzione».

Dunque, come ogni Stato capitalista che si rispetti, la dittatura della classe borghese è inquadrata e abbellita in un meccanismo giuridico formale che solo serve a nascondere la natura di classe dello Stato sventolando davanti ai proletari e ai contadini poveri la logora bandiera dei “diritti”. Che il Rojava si sia dovuto dotare di una carta costituzionale e che inoltre sia così conforme ai principi sanciti dalle costituzioni dei paesi di vecchio decrepito capitalismo, per noi marxisti è immediata conferma del carattere borghese dell’entità statuale che si è creata nel Nord della Siria e delle finalità di dominazione di classe sul proletariato dello Stato che si intende strutturare in tale cornice giuridica.

Non a caso la Carta del Rojava sancisce la difesa della proprietà privata: «Ogni individuo ha il diritto alla proprietà e nessuno può essere privato di un bene se non in conformità con la legge se non per ragioni di pubblica utilità o interesse e in cambio di un giusto indennizzo».

Un merito possiamo riconoscerlo a tale Carta: non vi si fa mai in alcun luogo riferimento al termine “socialismo”.

E l’articolo 86 stabilisce la formula del giuramento dei membri dell’Assemblea Legislativa: «Giuro su Dio Onnipotente...». Questi deputati, che si suppongono tutti credenti nel Padreterno e certi della sua onnipotenza, legifereranno in nome della proprietà capitalistica esattamente come da più di due secoli si fa nei parlamenti democratici di tutto il mondo.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


Dopo l’incubo del voto in Usa e la dissezione del suo cadavere

È teorema base marxista ed evidenza storica che a qualunque degli attori tocchi il posto in scena diverrà l’uomo più impotente della Terra e non potrà deviare di un secondo di grado la segnata orbita catastrofica di quel capitalismo.

La democrazia, ovvero i sue orgiastici riti periodici, che da un secolo le sopravvivono e l’hanno sostituita, è solo ormai una parola mistificante che non significa nulla, se non un utilissimo diversivo per distogliere i lavoratori dai loro problemi reali.

Antifascismo e antipopulismo sono entrambe forme di fascismo e di populismo. L’unica alternativa storica reale è fra noi – partito comunista e movimento sindacato di classe – e tutti loro messi insieme: non c’è ormai che un solo partito della borghesia.

Se vediamo ricorrere il termine “postdemocrazia”, cogliamo questo come un segno dei tempi, ma dobbiamo prevedere che la borghesia continuerà ossessiva ad impegnare il suo apparato mediatico in false contrapposizioni e in una simulazione di scontro sociale, ad evitare quello reale di classe.

 
 
 
 
 
 
 
 
 


L’accordo di pace fra governo e le FARC in Colombia

Ancora contro i contadini poveri e i proletari delle città e delle campagneIn Colombia, indicendo un plebiscito per pronunciarsi a favore o contro l’accordo di pace fra il governo e le Forze Amate Rivoluzionarie della Colombia, la borghesia, i suoi mezzi di comunicazione e i suoi partiti (compreso quelli che di autodefiniscono di sinistra) si sono divisi fra chi spingeva per il Si e chi per il No, entrambi i fronti borghesi affermando quella scelta come a favore della qualità della vita e della pace per le generazioni future di colombiani. Mentre agli uni ripugna la impunità concessa ai guerriglieri smobilitati, gli altri si risentono per la stessa impunità ai paramilitari e ai politici che li hanno appoggiati. Quelli rimproverano alla guerriglia i legami col narcotraffico, questi muovono la stessa accusa ai paramilitari e ai politici loro associati. Fra i quali campeggia l’ex-presidente della Colombia Alvaro Uribe Vélez, che è stato uno dei principali promotori del No all’accordo di pace raggiunto fra il governo e la FARC (o FARC-EC) in quasi quattro anni di trattative a L’Avana, perché concederebbe la “impunità ai guerriglieri”.

In realtà i diversi fronti guerriglieri in Colombia, dei quali le FARC sono i più consistenti ed antichi, cercano da più di 30 anni di trattare un accordo di pace con il governo per darsi all’attività politica legale e parlamentare.

Ma entrambi i fronti borghesi mantengono il silenzio sugli effetti di 50 anni di guerra civile contro i contadini poveri che ha fatto 8 milioni di morti e che col terrore ha cacciato loro e le loro famiglie dalle terre, concentrate nelle mani dei latifondisti. Una massiccia deportazione forzata di rurali proletarizzati e messi a disposizione del sovrasfruttamento operaio nei campi e nelle fabbriche.

La guerra fra governo, paramilitari, narcotrafficanti e guerriglieri delle FARC e dello ELN, e un tempo degli oggi disciolti M19 ed EPL, ha coperto negli ultimi 35 anni anche una lotta per dividersi il mercato di smercio della droga. E a questo scontro per le quote di un mercato tanto redditizio hanno parteciparono anche gli Stati Uniti tramite la loro DEA. Questa guerra ha inoltre permesso al borghese Stato colombiano di rafforzare il suo apparato giuridico e la suo macchina repressiva politico-miltare per affrontare le lotte della classe operaia.

Dopo 50 anni di guerra tutte queste forze belligeranti dimostrano il loro comune carattere borghese unendosi in un accordo di pace; ed uniranno le loro forze e la loro influenza per frenare le lotte rivendicative avanzate dai salariati.

Il 2 ottobre si è tenuto quindi il plebiscito. Il risultato è stato una grande astensione: più del 60%. Dei voti espressi il No ha appena prevalso col 50,2%.

Il voto per il Si è stato evidentemente maggioritario nei paesi martoriati per decenni dal conflitto armato; nelle zone urbane e nei nuclei rurali maggiori, dove la violenza del conflitto da tempo ha cessato di colpire, ha dominato il voto per il No.

Ma alla grande maggioranza della popolazione il conflitto armato è ormai indifferente e tutta la campagna per il No e per il Si è quindi apparsa una manovra diversiva per allontanare i lavoratori dalla loro lotte rivendicative, come lo sono tutti i processi elettorali nella democrazia borghese.

Infatti il governo di Juan Manuel Santos ha convocato questo plebiscito benché non ne fosse obbligato, in quanto la costituzione colombiana concede al presidente di stipulare accordi di quello con le FARC. Anche lo ELN si è associato alle trattative di pace col governo. Nonostante il risultato del plebiscito, è previsto che l’accordo, sottoposto ad alcune modifiche convenute tra le parti, seguirà il suo corso e sarà applicato.

Il trattato stipulato tra le parti contempla, fra l’altro, che coloro che hanno compiuto crimini atroci saranno giudicati da un tribunale speciale, potranno evitare il carcere e ricevere pene alternative, oltre a consentire ai capi guerriglieri delle FARC di partecipare alle comuni elezioni come partito politico.

Dall’applicazione dell’accordo di pace trarrà beneficio l’insieme degli affari che per crescere e svilupparsi richiedono la smobilitazione della guerriglia e dei paramilitari. In particolare i contratti sulla produzione e il commercio delle materie prima (petrolio, gas, carbone, caffè, ecc) nei quali si sono inseriti capitalisti nazionali e transnazionali. A questi affari si sommano altri di contorno, fra i quali prima la logistica (trasporti terresti, fluviali e marittimi) e impianto di stazioni di immagazzinamento e vendita di gasolio e benzina. A conferma che dietro l’accordo di pace con le FARC sono presenti importanti interessi economici, che intendono recuperare le zone oggi sottoposte ad un conflitto militare che taglieggia gli investimenti capitalistici, arriva la sollecita approvazione del presidente degli Stati Uniti Barack Obama, che si è felicitato con Santos e per la conclusione delle trattative, sanzione del consenso imperialista all’accordo di pace.

Anche in seno alle FARC si sono presentati segni i dissidenza, che, affermano i media, sarebbero da individuare nella intenzione di mantenere un controllo sul narcotraffico. Però, anche se questo non fosse e, al contrario, si trattasse di un conflitto per motivi ideologici, non ci possiamo aspettare dalla FARC, dallo ELN e dai suoi dissidenti niente altro che il riformismo, cioè una politica borghese; avremo solo il richiamo a programmi interclassisti che mescolano alcune aspirazioni dei lavoratori con le esigenze dei piccolo, dei medi e dei grandi imprenditori agricoli e industriali, senza avvicinarsi nemmeno ad un programma veramente anticapitalista.

E di fatto il testo dell’accordo si riassume in un programma di rivendicazioni per i piccoli e i medi produttori agrari, al controllo del traffico della droghe, a garanzie giuridiche per il processo ai guerriglieri smobilitati e per il loro inserimento nell’attività politica legale e parlamentare. Nessuna preoccupazione nessuna delle parti ha espresso, nemmeno per politicantismo o demagogia, per le condizioni del grandissimo numero di famiglie proletarie sradicate a forza dalle campagne, per il loro alloggio, per il loro lavoro, per i loro salari.

Vedremo come dopo questo accordo si assesteranno i giri del commercio della droga, poiché la guerriglia (ma anche i paramilitari, i cartelli della droga e lo stesso governo in alleanza con gli Usa) erano arrivati a controllare ed occupavano zone strategiche, con corridoi di collegamento dove era impiantata la logistica del narcotraffico e delle miniere illegali. Ugualmente vedremo quale sarà il risultato degli accordi sulla eliminazione a breve termine della coltivazione della coca.

La economia capitalista sarà la principale beneficiaria degli accordi di pace. Sebbene il basso prezzo del petrolio diminuisca attualmente la pressione per l’applicazione dell’accordo, nel medio e lungo termine il redditizio traffico del petrolio e l’adeguarsi del commercio della droga alla nuova situazione obbligheranno a rendere effettiva la neutralizzazione del confronto militare per permettere la più libera crescita dell’attività economica e delle operazioni di produzione, logistica e commercializzazione delle merci e dei servizi. Il trionfo del No non sarà di ostacolo a questo processo nelle sue prospettive a medio e a lungo termine.

È evidente che il conflitto armato generava occupazione ed attività che mantenevano strutture all’interno del tessuto sociale colombiano, e questo spiega la reazione dei partiti e dei movimenti che hanno fatto resistenza all’accordo. D’altro lato il governo borghese colombiano e gli imprenditori dovranno risolvere la riconversione di buona parte dei loro investimenti in sicurezza e difesa. Resta da affrontare l’accordo con lo ELN, di smobilitare l’attività dei paramilitari e di reprimere i gruppi non pacificati delle FARC.

Le FARC assicurano che la guerra non è più una alternativa in Colombia, che la guerra è terminata. La classe operaia colombiana, salariata nei campi e nelle officine, non ha invece alternativa che accettare la guerra di classe contro lo sfruttamento capitalista, che passa per la organizzazione alla base, in sindacati di classe, nella lotta per il salario e par la riduzione della giornata di lavoro. Né il riformismo guerrigliero né l’opportunismo parlamentare e democratico borghese sono mai stati né mai saranno alternative per il proletariato nel suo cammino storico verso la conquista del comunismo. Il proletariato colombiano non deve prender partito al alcuno fra i due fronti borghesi e piccolo borghesi che si disputano il controllo del governo e dello Stato, fra i quali sono da contare i fronti guerriglieri delle FARC-EP e dello ELN.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
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Riunione generale del partito a Genova

24-25 settembre 2016

[RG126]

Seduta del sabato
Il formarsi dell’India moderna
La successione dei modi di produzione - Roma Español ]
La crisi fra il Regno Unito e l’Unione Europea resoconto esteso ]
Attività sindacale del partito
La questione militare: sul fronte orientale Español ]
Evolversi della guerra in Siria
Relazione dei compagni venezuelani
Seduta della domenica
Il PCd’I e gli Arditi del Popolo Español ]
La rivoluzione comunista in Ungheria
Il concetto e la pratica della dittatura - Prima di Marx [ resoconto esteso ]

 

La riunione generale d’autunno del partito si è tenuta presso la nostra sede di Genova nei giorni dal 23 al 25 settembre. Anche stavolta abbiamo deciso di anticipare l’inizio della parte organizzativa al venerdì pomeriggio per lasciare più tempo all’esposizione delle relazioni, che sono assai cresciute di numero.

Tutti i lavori si sono svolti nel consueto nostro modo serrato ed ordinato e con soddisfazione nel riscontrare come le nostre piccole forze riescano, con modalità e in un ambiente sano e coerente, ad affrontare questioni anche le più difficili e complesse dell’aspra teoria rivoluzionaria marxista, nel fermo proposito della difesa integrale dell’originario dirompente programma del comunismo e nel solco ben segnato dai nostri grandi Maestri.

La nostra dialettica materialistica ci conforta nella serena certezza che non saranno le forze del partito a determinare la classe a disporsi in battaglia ed ad assalire e rovinare le fortezze del capitale, ma solo dobbiamo collettivamente saperci porre sulla esatta nostra linea del futuro, tracciata, suo malgrado, dal debordante gigantismo mondiale del capitale, che nel massimo innalzarlo e perfezionarlo lo strangola, ben sapendo che solo la viva presenza di quel concentrato di energia sociale che è il partito comunista renderà possibile, nell’incontro col movimento delle più vaste masse, la vittoria del comunismo.

Poiché la redazione definitiva dei rapporti richiede spesso ulteriore studio e lavoro da parte dei relatori, e poiché lo spazio dato per la loro pubblicazione ne provoca talvolta dei ritardi, diamo qui per i compagni e per i lettori una loro riassunto, schematico ma per quanto possibile completo.

 
 
La successione dei modi di produzione - Variante antico‑classica - Roma

È ripreso in questa riunione il lavoro sull’argomento, giunto a studiare l’evoluzione a Roma della variante antico-classica della forma di produzione secondaria.

Il relatore ha richiamato l’attenzione, più che sulla millenaria storia romana, sui caratteri fondamentali che il modo di produzione schiavista ha assunto in questo suo apogeo e collasso.

La proprietà privata, nata dalla dissoluzione della comunità originale, inizialmente non riguardò il mezzo di produzione principale delle forme pre-capitalistiche, la terra, ma i beni mobili.

Innescata dalle originarie diverse condizioni geofisiche, la variante antico-classica, a differenza dello “immobilismo” asiatico, già ai suoi albori si caratterizza per un forte dinamismo; una tensione intrinseca contraddistinta dal costante tentativo della proprietà privata di prevalere sulla collettiva. La struttura sociale diventa duplice: da un lato i membri della comunità sono proprietari-lavoratori, dall’altro i loro reciproci rapporti sono determinati dal fatto di essere membri di una comunità la cui esistenza è fondata sulla proprietà collettiva della terra. Con la separazione dalla comunità organica, la parcella è diventata proprietà privata individuale mentre le restanti terre restano di proprietà collettiva nell’agro pubblico. La preminenza statale fondata sull’ager publicus permette ai membri della comunità d’essere proprietari perché cittadini.

Questa contrapposizione tra proprietà collettiva e privata fin dal suo sorgere conduce allo schiavismo. La proprietà, infatti, racchiude in sé la propria negazione, la non-proprietà, che si generalizzerà nel capitalismo con l’estendersi della concentrazione della ricchezza. I grandi proprietari sottomisero progressivamente i lavoratori parcellari, il che consentì loro di impadronirsi dello Stato e di usarlo come arma a difesa dei propri interessi particolari di classe.

Per non diventare schiavo il cittadino rovinato doveva mettersi sotto la protezione di un ricco, il quale mediava la sua appartenenza alla comunità; la cittadinanza evolve verso un rapporto clientelare, annunciatore della forma terziaria. Se il plebeo non trovava un’accomandazione vedeva confiscati i propri beni in modo che l’espropriatore potesse accumulare le condizioni oggettive (strumenti e mezzi di produzione) e soggettive (i lavoratori) aumentando il suo potere sullo Stato proporzionalmente al numero degli espropriati.

Questo implica uno sviluppo impetuoso dell’economia monetaria e un mercato interno nazionale e un inizio di mercato internazionale. Per il produttore spogliato della proprietà della terra ed indebitato si apre il baratro della schiavitù per debiti. Tito Livio, narrando del periodo monarchico, racconta come la città ardesse «del reciproco odio fra patrizi e plebei, soprattutto a motivo della schiavitù per debiti» (Ab Urbe condita).

A conclusione del rapporto si è sentita ancora una volta comprovata la classica tesi marxista che cerca le cause delle guerre nel sostrato economico; le guerre romane cessano d’essere causate dagli urti tra comunità-tribù per problemi demografici ed iniziano a diventare intraprese di conquista per l’estensione dei rapporti produttivi superiori alle genti arretrate, assoggettando in questo modo in maniera più sicura non solo i vinti stranieri ma anche i plebei in patria in un processo progressivo d’espropriazione.

Conseguentemente anche la figura del combattente muta drasticamente; l’introduzione del soldo al soldato (attorno al 403 a.C.) fa del servizio una merce. Nei modi di produzione classisti la guerra è il più grosso affare per la classe dominante, in particolare per la sua frazione elevata; grazie alle espropriazioni riesce a risparmiare il costo di acquisto della terra; gli effetti della confisca di enormi territori a molte delle comunità dell’Italia centromeridionale e la loro trasformazione in ager publicus, in larghissima misura lasciato alla libera occupazione dei più ricchi fra i Romani, furono alla base dei più rilevanti fra i problemi economici e sociali nel corso del II secolo a.C.

 
 
La questione militare - Sul fronte orientale

L’enorme estensione del fronte orientale, dalle coste della Lituania fino alle pendici dei Carpazi, in territori di differente natura, boschi, laghi, acquitrini e vaste pianure, condizionò i piani strategici su entrambi i suoi lati, non disponendo di uomini e mezzi per saturarlo, come invece avveniva sul fronte occidentale. Ne derivò un misto di movimenti, con offensive in profondità, e guerra di trincea. La guerra moderna ora necessita di efficienti linee ferroviarie per il rapido trasporto di gran quantità di uomini e materiali e la scarsità di tali linee nei territori russi fu di serio impedimento ad una invasione tedesca in profondità.

La Russia fu fortemente pressata dalla Francia, con cui era legata da un trattato militare, ad aprire un vasto fronte ad oriente allo scopo di alleggerire la pressione tedesca su quello occidentale. In più Moltke, comandante supremo tedesco, che riteneva essenziale evitare un’invasione della Germania, a seconda delle necessità dispose il rapido spostamento di intere divisioni da un fronte all’altro, possibile in Germania per l’estesa ed efficiente rete ferroviaria; per questo fu anche chiamata la “guerra dei treni”. La strategia adottata dal comando austro-tedesco, scartata l’offensiva in territorio russo, era di attrarre le forze russe in un’area prescelta e lì bloccarle con forze ridotte, essendo prioritaria la vittoria sul fronte occidentale, cui erano destinate le unità migliori e più consistenti.

La Russia dovette così rapidamente intervenire in un conflitto al quale era impreparata sul piano strategico, degli armamenti, dei rifornimenti e della logistica. Datasi dapprima come obiettivo principale il fronte con l’Austria-Ungheria, cui erano state destinate le unità migliori e più numerose, dovette in breve tempo predisporre nuovi piani che prevedevano sia un attacco a sud sul fronte austriaco sia a nord con l’invasione della Prussia orientale, dove erano esigue forze tedesche prevalentemente di riservisti e gruppi secondari. Ma la gran quantità di uomini a disposizione del comando russo in Prussia era però scarsamente armata, scarso il munizionamento dell’artiglieria, la cavalleria non aveva adeguate scorte di foraggio; non disponendo di cavi telegrafici sovente comunicavano in chiaro via radio fornendo così importanti notizie ai tedeschi.

L’offensiva russa partì il 17 agosto 1914 nel settore settentrionale prussiano con ripetuti assalti alla baionetta, che furono bloccati, con significative perdite, dalle esigue forze tedesche, ma con precisa artiglieria, comandate dal valente ma indisciplinato generale François. Tre giorni dopo i russi avanzarono su due direttrici: a settentrione e più a meridione verso Berlino. Ma nel settore settentrionale non inseguirono i tedeschi in ritirata, così non occupando la Prussia; il comando tedesco territoriale ordinò il ripiegamento generale oltre la Vistola lasciando sguarnito l’intero settore. Entrambi i comandanti furono rimossi dall’incarico.

I russi il 26 agosto ripresero l’avanzata nel settore meridionale prussiano, ora considerata più facile, mentre arrivava al comando tedesco il vecchio Hindenburg, richiamato dalla pensione, e Ludendorf, il recente vincitore in Belgio. Moltke trasferì unità dal fronte occidentale tra cui una divisione di cavalleria qui più importante. La battaglia maggiore avvenne presso Tannemberg, durò quasi tre giorni e si trasformò in una vera catastrofe per i russi al punto che il generale Samsonov si suicidò sul campo dopo aver ordinato la ritirata generale nella generale confusione. Le perdite russe furono enormi: dei 192.000 russi 50.000 perirono in combattimento, i prigionieri furono 92.000; furono presi oltre 500 dei 624 cannoni della II Armata russa.

Dopo questo inatteso successo a sud i tedeschi diressero a nord, presso i laghi Masuri, dove pensavano di ripeterlo. L’attacco fu però ritardato dalle difese russe che iniziarono un controllato ripiegamento di 100 km, abbandonando la Prussia e fin oltre la frontiera lituana del fiume Niemen; dopo di che in quel settore non avvennero fatti d’arme significativi. L’offensiva russa in Prussia si era chiusa con un insuccesso e perdite enormi: circa un quarto di milione di uomini e ingenti quantità di armamenti.

Energica e positiva invece l’azione russa in Galizia contro gli austro-ungheresi. La vittoriosa VIII armata tedesca era stata trasferita a sud a difesa della pianura ungherese, il granaio dell’impero viennese. Bloccata una prima avanzata austriaca, il 18 agosto 1914 partì la prima e potente offensiva del generale russo Brusilov, mentre gli austriaci erano contemporaneamente impegnati nell’insensata e perdente campagna contro la Serbia. Il fronte, che si estendeva per 300 km, tra il 23 agosto e l’11 settembre avanzò fino alla conquista russa di Leopoli e ad assediare la fortezza di Przemyśl, guarnigione di 120.000 uomini e importante deposito di armamenti, infliggendo pesanti perdite agli austroungarici.

Mentre i tedeschi erano fermati ed inseguiti dai francesi sulla Marna, abbandonando ogni velleità di una rapida vittoria, riuscivano invece a penetrare nelle province polacche annesse dalla Russia dal ‘700. Gli austriaci invece erano ricacciati dalla Polonia russa in cui erano penetrati e più a sud si battevano per non essere respinti oltre la frontiera galiziana: una situazione strategica quanto mai complessa. Nel settore erano concentrati 1,2 milioni di soldati russi, che ebbero 225.000 perdite tra morti, feriti, prigionieri e dispersi, contro 1 milione di austroungarici, che accusarono perdite di 300.000 uomini e 100.000 prigionieri, molti dei quali di nazionalità slava che a decine di migliaia si consegnavano ai russi.

Gli attacchi di Hindenburg nella Slesia non ebbero l’effetto sperato ma impedirono l’invasione russa della Germania.

Nella prima decina di dicembre il comandante austriaco Conrad lanciò un’offensiva presso Cracovia, nella Polonia austriaca, per stabilizzare il fronte prima dell’arrivo dell’inverno, che riuscì anche per la penuria russa di armi e munizioni, specialmente d’artiglieria.

La Gran Bretagna mise a disposizione della Russia, dietro adeguate garanzie economiche, l’ingente quantità di materiale bellico necessario ai russi in attesa della primaverile ripresa dei combattimenti. Nell’aprile 1915 i russi ripresero la fortezza di Przemyśl e ricacciarono gli austroungarici dalle posizioni che avevano conquistato.

Il comando tedesco, vista la precaria situazione austriaca e l’imminente entrata in guerra dell’Italia a fianco dell’Intesa, decise per una potente offensiva con tutte le forze disponibili, iniziata il 2 maggio 1915 nel settore di Gorlice-Tarnow nella Galizia, concentrando in tutta fretta su un fronte di soli 40 km e in gran segreto 14 divisioni contro le 6 russe. La manovra tedesca fu travolgente penetrando, dopo aver spezzato in due le linee russe, per 150 km. Riprese Przemyśl e Leopoli, mentre una seconda offensiva più a nord intendeva chiudere i russi in una sacca, avanzare su Brest-Litovsk, la più importante piazzaforte del versante occidentale russo, e una terza, a luglio, sul fiume Bug e la Vistola, chiudendo tutta la partita.

Per evitare l’accerchiamento i russi dovettero arretrare di molto opponendo disastrose controffensive, perdendo Brest-Litovsk e Varsavia. Mentre i tedeschi più a nord si avvicinavano a Riga, gli austriaci, dopo l’entrata in guerra della Romania, a sud giunsero fino a Tarnopol a ridosso della frontiera russa.

In questa “Grande Ritirata” l’esercito zarista perse circa la metà degli effettivi, specialmente ufficiali esperti, abbandonarono circa 500.000 kmq di territorio; adottarono alle loro spalle la tattica della terra bruciata con l’evacuazione forzata di tutta la popolazione residente.

Con difficoltà giungevano i richiesti rifornimenti per cui i generali Alekseev e Brusilov impiegarono mesi a riorganizzare le truppe per una controffensiva generale. Questa impiegò 600.000 uomini in un attacco che partì il 4 giugno dalle zone paludose della Bucovina. Su un fronte di 350 km raggiunse gli obiettivi e in soli 8 giorni catturò circa 3.000 ufficiali austriaci, 190.000 soldati, centinaia di cannoni, 700.000 mitragliatrici: un terzo delle forze avversarie; alcuni giorni dopo i russi entrarono a Czernowitz, la città più orientale dell’Austria-Ungheria.

Ma i russi non poterono sfruttare a fondo questo successo nell’offensiva, una delle più sanguinose della guerra, perché anche loro avevano subito pesanti perdite e perché si sarebbero allontanati troppo dalle basi di rifornimento, male collegate per il pessimo stato delle ferrovie. L’ordine diretto dello zar obbligò gli altri generali a rifornire Brusilov con il loro materiale. L’avanzata russa si fermò alla catena dei Carpazi sia per la grave situazione nelle retrovie sia per le continue massicce diserzioni: dall’inizio del conflitto le perdite russe erano state di ben 5 milioni di uomini.

Hindenburg assunse il comando di tutte le forze degli Imperi Centrali dopo l’entrata in guerra della Bulgaria, mentre la Romania, con l’Intesa, nel 1916 fu sconfitta ed occupata in breve tempo dai tedeschi.

Cambia la guerra sui mari la cui priorità, soprattutto per i tedeschi, ora è di affondare i convogli di rifornimenti agli Stati dell’Intesa, principalmente dagli Usa e dal Canada. Gli Usa, finora neutrali, dopo il continuo affondamento tramite gli U-boat tedeschi delle loro navi, scelto il momento opportuno, dichiarano guerra alla Germania.

In tutti i paesi belligeranti la penuria di cibo si fa sentire, sui civili e sui militari, ed aumentano gli ammutinamenti e le diserzioni, punite con fucilazioni e decimazioni a migliaia, soprattutto nel 1917.

In Russia la situazione è più drammatica sia per la penuria di cibo, dovuta anche allo svuotamento nelle campagne della forza lavoro maschile, sia per la mancanza di materie prime e di pezzi di ricambio nell’industria. Il numero degli scioperi aumenta rapidamente; a Pietrogrado il 18 febbraio 1917 inizia un grande sciopero nelle officine militarizzate Putilov i cui partecipanti vengono colpiti da reparti della polizia e dell’esercito.

Il 27 febbraio un reparto di soldati si rifiuta di sparare sui manifestanti, passa dalla loro parte e spara sui comandanti: è l’inizio della rivoluzione. Il 15 marzo lo zar si dimette e nasce il governo borghese moderato di Kerenskij che, nonostante le promesse, continua la guerra e ordina a Brusilov un’offensiva in Galizia.

Questa, dopo un iniziale successo, si trasforma in fallimento. I russi non furono però inseguiti dagli austroungarici per timore che le truppe apprendessero lo spirito rivoluzionario. Aumenta il numero dei reparti russi che gettano le armi.

Il 7 novembre 1917 i bolscevichi assumono il potere e chiedono l’armistizio alla Germania; iniziano i complessi preparativi per la pace, firmata a Brest-Litovsk solo il 3 marzo 1918 con una consistente perdita russa di territori, popolazione e miniere di carbone.

Chiuso il fronte orientale, Luddendorf potè trasferire quelle truppe sul fronte occidentale e su quello italiano.

L’esercito zarista non fu sconfitto dal nemico esterno ma da quello interno della rivoluzione.

 
 
Il PCd’I e la guerra civile in Italia - Gli Arditi del Popolo

Proseguendo il rapporto sulla guerra civile nel primo dopoguerra in Italia e l’intervento in essa del Partito Comunista, il relatore ha affrontato l’argomento degli Arditi del Popolo riferendo dapprima della storia dell’arditismo, di guerra e del dopoguerra, tratteggiandone la composizione e l’estrema volubilità ideologica, propria delle mezze classi.

Quello degli Arditi fu un corpo speciale istituito nel 1917. Fin dall’entrata in guerra dell’Italia si era posto il problema di costituire reparti di soldati motivati, volontari, “sprezzanti del pericolo”, pronti a “gesta eroiche”, insomma dei fegatacci, o meglio degli “Arditi”. L’organizzazione degli Arditi venne sviluppata dando ai reparti d’assalto un carattere indipendente dal resto della fanteria che ne determinò un elevato spirito di corpo ed atteggiamenti di superiorità rispetto al resto dell’esercito.

Il Comando Supremo stabilì che l’aggregazione ai reparti degli Arditi fosse a carattere strettamente volontario e che si concedesse l’adesione solo in seguito a spontanea domanda del militare. La composizione di questi battaglioni era massimamente eterogenea: vi si trovava tutta la variopinta schiera di esaltati interventisti, dai più gretti reazionari ai sedicenti rivoluzionari convinti di partecipare ad una “guerra rivoluzionaria”. La vita e lo spirito dell’arditismo fecero sì che anche molti pregiudicati e delinquenti comuni vi si arruolassero.

Le indiscutibili azioni di coraggio ed una sapiente pubblicità svolta dai comandi determinarono il mito degli Arditi, invincibili eroi sprezzanti la morte.

Ma, finita la guerra, anche la vita “eroica” sarebbe terminata. Il 4 novembre 1918 fu un giorno di lutto per gli Arditi, la pace avrebbe rappresentato per loro un futuro di incertezza.

Vi era fra i suoi componenti la convinzione di rappresentare una aristocrazia militare che aveva conseguito la vittoria ed alla quale la nazione intera doveva considerarsi debitrice. Questa convinzione contribuì ad alimentare una serie di indistinti rancori un po’ contro tutti: in primo luogo contro il bolscevismo negatore della patria e contro i socialisti che si erano opposti alla “guerra rivoluzionaria”; per la stessa ragione contro i clericali, poi contro gli imboscati, i “panciafichisti”, i partiti democratici, i profittatori di guerra, il pescecanismo capitalista sfruttatore...

Nella convinzione di avere diritto a dei privilegi rispetto alla massa dei soldati smobilitati, il 1° gennaio 1919, a Roma, veniva fondata l’Associazione Arditi d’Italia ed il 19 nasceva la sezione di Milano.

Immediatamente lo Stato pensò che una simile organizzazione potesse continuare ad essergli utile per mantenere l’ordine sociale minacciato dal bolscevismo. Il generale Caviglia, allora ministro della guerra, scriverà: «Nei momenti politici torbidi, che stava attraversando l’Italia, essi costituivano una forza utile nelle mani del Governo, perché erano assai temuti per la loro tendenza all’azione rapida e violenta».

Ed anche il fondatore dell’Associazione aveva scritto: «Questo nemico non è solo tedesco [...] è anche italiano [...] Il nostro pugnale è fatto per uccidere i mostri esterni ed interni, che insidiano la nostra patria». E questo basta a delineare la funzione dell’arditismo post-bellico

Questa massa umana, proveniente da tutte le classi e sottoclassi, pur esprimendo un generalizzato e rancoroso malcontento, era impossibilitata a darsi un programma ed oscillava confusa fra parole d’ordine anche “estremiste” e pseudorivoluzionarie.

Il 10 novembre 1918, in occasione della celebrazione della Vittoria, si ebbe a Milano il primo incontro ufficiale tra gli Arditi e Mussolini durante il quale da ambo le parti venne espressa comunità di intenti. Quando, il 23 marzo 1919, Mussolini costituì i Fasci di Combattimento, l’adunata di Piazza San Sepolcro fu presieduta dal capitano degli Arditi Ferruccio Vecchi. Furono sempre gli Arditi che in numerose città d’Italia fondarono i primi Fasci.

Il 15 aprile 1919, a Milano, gli Arditi assaltarono e devastarono l’”Avanti!”. E, cosa che da quel momento in poi sempre si ripeterà, il cordone militare posto dallo Stato a difesa del quotidiano socialista lasciò libero accesso agli aggressori.

Mussolini sul “Popolo d’Italia” esaltò l’azione degli arditi ed il generale Caviglia, titolare dell’inchiesta sui fatti di Milano, si congratulò con i loro organizzatori.

Dopo il 15 aprile le violenze degli Arditi si moltiplicarono e si estesero in gran parte d’Italia: gli industriali avevano capito di poterli usare come guardie bianche contro il proletariato e gli Arditi compresero che, al servizio degli industriali, potevano mietere grana a volontà. Come ebbe a dire il prefetto di Milano: era «un continuo spillare denari alla borghesia, che, nella speranza di esser garantita, continuamente somministra i mezzi alla detta Associazione».

Grazie a questi aiuti generosi l’Associazione degli Arditi ebbe uno straordinario sviluppo e dopo appena 3 mesi dalla sua costituzione aveva raggiunto i 10.000 iscritti.

Contemporaneamente si veniva a rendere sempre più manifesta la spaccatura fra destra e sinistra di questo scompigliato e caotico movimento che, reazionario di fatto, abusava di frasi rivoluzionarie.

Alla Circolare di Caviglia che dichiarava l’intenzione di utilizzare gli Arditi «nei servizi in cui attualmente sono impiegate le truppe», ossia in aperta funzione di repressione antiproletaria, si oppose una consistente parte dell’organizzazione dichiarando di non volersi trasformare in poliziotti e sgherri governativi. Non solo, Mario Carli, il fondatore dell’Associazione, pubblicò un articolo in cui lanciava un esplicito invito alla collaborazione con il Partito Socialista per lottare «contro le attuali classi dirigenti, grette, incapaci, e disoneste, si chiamino borghesia o plutocrazia o pescecanismo o parlamentarismo». A questo seguivano altri scritti tendenti all’intesa e ad una comune lotta tra l’arditismo e quel socialismo che non fosse antinazionale.

In nome della “Vittoria mutilata”, era in pieno svolgimento la campagna per Fiume italiana. Nella notte del 12 settembre 1919 Gabriele D’Annunzio muoveva con circa mille “legionari”, trasportati su autocarri, alla volta di Fiume. Tutta la Venezia Giulia ed il contorno di Trieste erano tenuti da forze imponenti dell’esercito italiano; i “legionari” passarono senza difficoltà e, insieme al battaglione fiumano che loro era venuto incontro per fermarli sulla linea di armistizio, entrarono in Fiume prendendone possesso. L’avventura fiumana si chiuse poi nella notte tra il 24 ed il 25 dicembre 1920, quando la città fu attaccata dalle truppe regie. Ferito da alcuni calcinacci staccati da due cannonate della flotta italiana contro la facciata del palazzo governatorale, D’Annunzio lasciava Fiume ed a presidiare la città restava L’esercito italiano.

All’impresa di Fiume fu tentato di dare una connotazione di sinistra, o addirittura “soviettista”. L’anarco-sindacalista Alceste De Ambris, durante l’occupazione e dopo, rappresentò il braccio destro di D’Annunzio e D’Annunzio stesso non esitava a dichiararsi anarchico. Un altro fattore importante che contribuì al formarsi di questa leggenda fu dovuto alla stretta solidarietà e collaborazione che si era instaurata tra il “poeta soldato” ed il capo del sindacato dei lavoratori del mare Giulietti. Il progetto dannunziano di fare di Fiume la base di partenza per Roma oltre ad essere condiviso da Giulietti lo fu anche da parte di importanti settori anarchici, con l’adesione dello stesso Malatesta.

Mentre il fascismo, abbandonata la sua fraseologia pseudo-rivoluzionaria, si metteva apertamente al servizio della reazione, il movimento degli Arditi sembrava volersi collocare in una posizione di sinistra facendosi addirittura paladino delle “giuste” rivendicazioni operaie.

Una grave crisi però colpì il movimento dovuta alla diserzione dei suoi componenti che, a seconda di quelli che ritenevano essere i loro personali interessi, emigravano o nel fascismo o nel dannunzianesimo. Fu allora tentato di salvare le sorti del movimento sia associandogli il nome prestigioso di D’Annunzio, che venne nominato capo onorario, sia accettando l’aiuto finanziario proveniente da Mussolini. Questo aiutò molto a “ricomporre” i dissapori sorti tra fascismo ed arditismo: a fine maggio 1920, al 2° congresso nazionale dei Fasci, gli Arditi si schierarono con i fascisti.

Da parte sua D’Annunzio nel gennaio 1921 fondava la Federazione Nazionale dei Legionari Fiumani, vietava ai suoi iscritti di aderire ai Fasci e si presentava come difensore delle “giuste” rivendicazioni degli operai.

Il nostro partito non si fece sedurre da quelle posizioni altalenanti e di più che dubbia sincerità; sull’organo di partito, “Il Comunista” del 20 febbraio 1921, chiariva: «Noi vediamo nella polemica tra legionari e fascisti una preoccupazione solamente tattica. Gli uni e gli altri hanno il medesimo fine [...] Il proletariato comunista si troverà quindi a combattere contro un nemico di duplice aspetto [...] Il fascismo e il fiumanesimo sono l’organizzazione cellulare della controrivoluzione, anche attraverso l’apparente superficiale dissidio fra le due tendenze». Ed ancora il 3 marzo: «Domani noi avremo, nell’opposta trincea con i socialdemocratici, con i fascisti e con la guardia bianca, anche i legionari, i quali non potranno rimanere neutrali nel duello fra le classi nemiche per fare un dispetto alla borghesia della quale pure essi fanno parte e della quale pure sentiranno di difendere la vita e la storia».

Il 13 e 14 marzo 1921 gli Arditi tennero a Milano il loro primo congresso nazionale dove venne approvato un ordine del giorno in cui si affermava che gli Arditi nella loro azione si sarebbero attenuti ai «postulati fascisti che nel nuovo schieramento dei partiti politici del dopoguerra sono i più direttamente rivolti a rinnovare la Nazione ed a consolidarla contro gli attacchi di un internazionalismo di marca prettamente straniera».

In occasione delle elezioni del 1921, assieme ai fascisti, gli Arditi aderirono ai Blocchi Nazionali giolittiani. Al contrario D’Annunzio rifiutò le 30 candidature offertegli e, in più, proibì ai legionari di partecipare alle elezioni.

La crisi tra arditismo e fascismo si riprodusse nel corso del primo Consiglio Nazionale della Associazione Arditi d’Italia, che si aprì a Roma il 29 giugno. Il nuovo ordine del giorno approvato dal Convegno dichiarava di fare propria, come programma, la Costituzione del Carnaro e di non riconoscere altro capo all’infuori di Gabriele D’Annunzio. Si invitavano «pertanto gli arditi che fanno parte dei fasci italiani di combattimento a dimettersi entro un necessario limite di tempo onde non danneggiare la disciplina dell’Associazione».

Da questi cenni appare chiaro come l’arditismo – come movimento, per non parlare dei singoli aderenti –oscillasse perennemente tra i due demagoghi antagonisti, Mussolini e D’Annunzio, e tra una pratica di reazione antiproletaria e velleità “rivoluzionarie” di sinistra, assecondando l’impotenza programmatica delle mezze classi.

Possiamo qui anticipare che gli Arditi del Popolo, di cui tratteremo nel seguito del rapporto, non rappresentarono che una scissione di una scissione all’interno dell’Associazione Arditi e che la loro confusa ideologia non ebbe nulla né di nuovo, né di caratteristico e che nel brevissimo arco di tempo della loro esistenza furono senz’altro – anche se forse ad insaputa di alcuni dei suoi militanti – strumento del potere borghese.

(Fine del resoconto al prossimo numero)

 

 

 

 

 

 

Per il sindacato di classe Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale
Per la rinascita del sindacato di classe fuori e contro il sindacalismo di regime. Per unificare le rivendicazioni e le lotte operaie, contro la sottomissione all’interesse nazionale. Per l’affermazione del­l’in­dirizzo del partito comunista negli organi di difesa economica del proletariato, al fine della rivoluzionaria emancipazione dei lavoratori dal capitalismo

Solidarietà, sindacato e lotta comune degli operai di tutte le razze e i Paesi

Roma, 12 novembre

La migrazione umana si è susseguita nel corso della storia per diversi fattori. Da quando il modo di produzione capitalista si è consolidato, spazzando via i vecchi sistemi sociali, milioni di uomini sono costretti ad abbandonare le proprie case per non morire di fame, per sfuggire alle nuove guerre del Capitale, per cercare di sopravvivere vendendo la propria forza lavoro.

Interminabili viaggi, immense tragedie che si ripetono ogni giorno e non avranno mai fine con questo sistema sociale, perché il Capitale avrà sempre bisogno di manodopera a basso costo. Forza lavoro che, se da una parte è un’inevitabile necessità della produzione, dall’altra è un’utile strumento per spingere al ribasso i salari di tutta la classe lavoratrice. I flussi migratori, infatti, sono vitali al processo di accumulazione del Capitale, in particolar modo, nei paesi capitalistici avanzati.

Le città odierne, le metropoli, sono diventate inevitabilmente multietniche. In questo scenario è indispensabile al Capitale alimentare il fenomeno razzista, sia per far sfogare la piccola borghesia, oramai depressa dalla crisi, ma in particolar modo per tener ben diviso il suo nemico di classe, il proletariato internazionale. A questo scopo la classe dominate, di qualsiasi nazione, mentre diffonde il suo modo di produzione e i sui valori individualistici, alimenta con forza tutta una serie di distinzioni tra i proletari dividendoli, per nazionalità, religione, razza, genere, ma anche per differenza di salario.

Oggi in piazza vi sono lavoratori di diverse categorie, facchini della logistica, lavoratori stagionali e braccianti. Quest’ultimi sono una porzione di classe operaia tra le più sfruttate. Il loro salario è misero e mediamente raggiunge 20 euro al giorno. La giornata di lavoro inizia prima dell’alba e finisce dopo il tramonto. Si lavora anche 16 ore consecutive in condizioni pessime. Per i megafoni di regime la condizione bestiale dei braccianti immigrati è vista come una eccezione e non come la realtà naturale e inevitabile nel capitalismo. Questa porzione di classe sarebbe vittima delle mafie e non oppressa delle ineluttabili leggi del mercato, come se la malavita organizzata non fosse una parte integrante di questo sistema sociale basato esclusivamente sul profitto e sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

Combattere le mafie, in questa società, è un’illusione, una menzogna!

Ugualmente per il razzismo, la questione infatti non è di razza ma di classe ed è per questo che i proletari immigrati non devono illudersi di poter risolvere i loro problemi appoggiandosi su chi si basa su astratti ideali borghesi. Combattere il nauseante razzismo con l’anti-razzismo, sul piano della superficiale morale e del rispetto delle culture, non solo è impotente ma è dannoso, perché non colpisce nessuna delle profonde basi materiali di questa ideologia reazionaria. La vera ed unica lotta anti-razzista è e sarà la lotta di classe, perché unifica i lavoratori al di sopra delle razze e delle nazionalità, e perché li indirizza al superamento del capitalismo.

Mentre è una illusione per i proletari stranieri attendersi che il razzismo sia sconfitto dagli astratti ideali di uguaglianza borghese, il proletariato cosciente deve far propria e lottare sinceramente per la rivendicazione della totale estensione dei diritti civili e del lavoro a chiunque presti la sua opera al Capitale. Per conquistarli, gli immigrati così come i lavoratori autoctoni devono riconoscere la loro cittadinanza come quella di un’unica classe mondiale. Una lotta che avrà mille sfaccettature ma che potrà esser condotta solo all’interno di un forte movimento sindacale di classe, che dovrà tendere ad essere un unico fronte difensivo di lotta di tutta la classe operaia, indigena ed immigrata. Una organizzazione sindacale che dovrà battersi contro la minaccia della perdita del permesso di soggiorno da parte dei lavoratori immigrati in caso di licenziamento.

In tutto il mondo padroni e governi borghesi di ogni colore attaccano le condizioni di vita dei lavoratori, perché aumentare lo sfruttamento della classe operaia è l’unica reale soluzione che hanno a disposizione per tenere ancora in piedi l’economia capitalistica, inesorabilmente avviata al tracollo e alla guerra mondiale tra gli Stati.

Solo il movimento rivoluzionario dei proletari di tutti i paesi, uniti nella stessa lotta contro il comune nemico, la borghesia, risolverà, oltre alla questione dei flussi migratori forzati, anche quella dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, ponendo le necessarie basi della futura società comunista.

Proletari di tutti i Paesi unitevi !

 
 
 

Solidarity, the trade union and the common struggle of the workers of all races and countries

Rome, November 12

 

Human migration has been persistent throughout history for different reasons. Since the capitalist mode of production is consolidated, sweeping away the old social systems, millions of people are forced to flee their homes to avoid starvation, to escape capital’s new wars and to try to survive by selling their labour power.

These endless voyages, immense tragedies are repeated every day and will never end in this social system, because capital will always need cheap labour. labour power, on the one hand is an inevitable necessity of production, and on the other, is a useful tool to drive down the wages of the whole working class. Migration flows, in fact, are vital to the process of accumulation of capital, in particular, in the advanced capitalist countries.

Today’s metropolitan cities have inevitably become multiethnic. In this scenario it is indispensable for capitalists to foster racism, both to vent the petty bourgeoisie, now depressed by the crisis, and especially to keep divided its class enemy, the international proletariat. To this end the ruling class, of any nation, while spreading its mode of production and individualistic values, stokes all sorts of distinctions between proletarians by dividing them by nationality, religion, race, gender and also through different wages.

Today in the piazza there are workers of different industries, warehouse workers, seasonal workers and farmhands. The latter are a portion of the working class among the most exploited. Their miserable wages are on average 20 euros per day. Their working day starts before sunrise and ends after sunset. They work even for 16 consecutive hours in poor conditions. For capitalism’s loudspeakers blaring propaganda the cruel conditions of migrant labourers are seen as an exception rather than as the natural and inevitable reality in capitalism. This section of the class in their outlook are victims of the mafia and not exploited by the unavoidable laws of the market, as if organized crime was not an integrated part of this social system based exclusively on profit and on the exploitation of man by man.

Fighting the Mafia, in this society, is an illusion, a lie!

Likewise for racism, the question is not race but of class and that’s why the immigrant proletarians should not deluded that they can solve their problems by relying on abstract bourgeois ideals. To fight sickening racism with anti-racism, in terms of superficial moralism and respect of cultures, is not only helpless but is harmful because it does not challenge any of the profound material bases of this reactionary ideology. The only true anti-racist struggle is and will be the class struggle, because it unifies workers beyond races and nationalities, and it leads them to going beyond capitalism.

While it is an illusion for foreign workers to expect that racism is defeated through the abstract ideals of bourgeois equality, the class-conscious proletariat should embrace and sincerely welcome the struggle for total extension of civil and labour rights to anyone who sells its work force to Capital. To win this struggle, immigrants as well as native workers must recognize themselves as citizens of the single world class. As struggle that will have many facets but that can be pursued only within a strong class trade union movement, which must tend to be a single defensive front for the class struggle of the entire working class, either indigenous or migrant. A trade union organization that will fight against the threat of the loss of the migrant workers’ residence permit in case of dismissal.

All over the world bosses and bourgeois governments of all colours attack the living conditions of the working class, because an in increase in the exploitation of it is the only real option they have to keep the capitalist economy holding together, as it is inevitably heading towards a breakdown and a world war between the States.

Only the revolutionary movement of the proletarians of all countries, united in the same struggle against the common enemy, the bourgeoisie, will solve the problems of forced migration but also those of the exploitation of man by man, laying the necessary foundations for future Communist society.

Workers of all countries unite!

 

 

 
 
 
 


La condizione dei braccianti

Resta ovunque fondamentale il ruolo del bracciantato nella produzione di plusvalore, sul quale poggia l’industria agro-alimentare, parte di quella chimica e della cosiddetta Grande Distribuzione.

Secondo uno studio della Uila – la federazione dei lavoratori agro-alimentari della UIL – pubblicato a settembre del 2015, i braccianti in Italia sarebbero più di 900 mila, di cui il 64,8% italiani e il 35,2% stranieri. Questi numeri vanno corretti con le stime del lavoro nero, che riguarda maggiormente i lavoratori immigrati: uno studio del 2011 ne valuta addirittura il 25% del totale. Se ai 320 mila braccianti immigrati regolari aggiungiamo questa parte di lavoratori in nero arriviamo circa al mezzo milione, che è più della metà dei supposti 900 mila braccianti regolari.

Il reclutamento di braccianti immigrati da parte delle aziende è iniziato dai primi anni ‘80 e si è accresciuto insieme all’immigrazione, anche in virtù dell’allargamento dell’Unione Europea che dal 2000 ha condotto al forte afflusso di lavoratori dai paesi neocomunitari dell’Est, principalmente rumeni, che sono il gruppo maggiore dei braccianti immigrati regolari, seguiti da marocchini, indiani, albanesi, polacchi, bulgari, tunisini, macedoni e slovacchi.

Dei braccianti italiani, comunque numerosi, molte sono donne, meno pagate degli uomini. Una inchiesta de La Repubblica del 25 maggio titolava: “Sono italiane le nuove schiave nei campi”. A riprova, in tre mesi, da luglio a settembre, sono morti sul lavoro, uccisi dalla fatica, cinque braccianti, di cui due donne italiane di 39 e 49 anni, a Ginosa (Taranto) ed Andria. Gli altri tre operai deceduti erano un rumeno di 46 anni a Carmagnola (Torino), un sudanese di 47 anni a Nardò (Lecce), un italiano di 42 anni ancora ad Andria. A questi va aggiunto un bracciante del Burkina Faso ucciso a Foggia con una fucilata alle spalle perché colto a rubare un melone in un campo.

Questi episodi testimoniano la durezza delle condizioni di lavoro del bracciantato che poco si discostano da quelle di un secolo fa, quando costituiva una delle principali forze organizzate del movimento operaio.

La forza lavoro è procurata alle aziende dal caporalato. Il caporale generalmente coincide col proprietario del mezzo di trasporto che passa a raccogliere i braccianti per condurli ai campi. Il lavoratore deve sottrarre dal suo salario una parte per il trasporto ed un’altra per il caporale. L’orario di lavoro può raggiungere le dodici ore. Il caporalato è stato riconosciuto reato penale nell’agosto 2011, punibile con l’arresto da 5 a 8 anni, ma ciò non ha cambiato in nulla le condizioni dei lavoratori, a dimostrazione che la legge in regime capitalista non serve a difenderli, in assenza della loro forza organizzata, che è la sola che conta.

Lo stesso vale per i contratti di lavoro – comunque pessimi – siglati dai sindacati di regime: non servono a nulla se non vi è una forza operaia che li faccia rispettare. Il salario varia dai 2 ai 5 euro l’ora ed è legato al cottimo, che è stato persino reintrodotto dal contratto nazionale siglato nel 2012 dalle federazioni di mestiere di Cgil, Cisl e Uil! Ma quasi sempre il contratto non è rispettato e i lavoratori ricevono paghe ancor più basse.

I braccianti immigrati spesso sono fatti dormire in baracche e nei campi, divisi per nazionalità, il che contribuisce al loro isolamento. I braccianti italiani invece non vivono in campagna ma nelle città e non di rado sono approdati al lavoro agricolo a seguito alla perdita del lavoro nell’industria o nell’edilizia, colpiti dalla crisi.

Quando avvengono fatti eclatanti o cruenti, come una rivolta o la morte di un bracciante, la stampa borghese, che vive di sensazionalismo, finge di indignarsi e denuncia le condizioni da schiavitù del lavoro nei campi, puntando il dito contro la illegalità e la mancanza di controlli da parte dello Stato. Lo stesso fanno i sindacati confederali. Ma lo Stato, le sue istituzioni, sono conniventi con questo sistema di sfruttamento della manodopera, anzi lo tutelano perché garantisce i profitti dei capitalisti operanti nell’agricoltura e degli altri, tutti interessati a che i braccianti, e i lavoratori in genere, siano pagati il meno possibile. Di schiavitù si tratta, quindi, ma di moderna schiavitù salariale, non di un ritardo storico, come giustamente sottolinea un documento della Rete Campagne in Lotta.

 

  

  

  

  


L’opposizione di facciata della Fiom spalleggia il corporativismo della Cgil

8 anni di tradimento degli interessi operai

(continua dal numero scorso)


 La V Conferenza di Organizzazione della Cgil

Il XVII Congresso della Cgil, terminato a maggio 2014, aveva stabilito che entro il 2015 si sarebbe dovuta svolgere una Conferenza d’organizzazione del sindacato. Dopo il lavoro preparatorio di cinque commissioni, il Direttivo nazionale del 14 maggio 2015, svoltosi a Bologna, votò il regolamento e il documento per la Conferenza, che fu così formalmente avviata.

Questa si è svolta prima a livello territoriale, nel mese di giugno, con le riunioni delle Camere del Lavoro, per concludersi nell’assise generale del 17 e 18 settembre 2015 a Roma. È stata la V Conferenza organizzativa della Cgil “tricolore”, quella, non più “rossa”, ricostituita al termine della seconda guerra mondiale. Le precedenti quattro furono nel 1954, nel 1984, nel 1993 e nel 2008.

A Roma si sono riuniti 921 delegati. Delle correnti di sinistra, minoritarie, circa 150 erano dell’area “Democrazia e Lavoro”, 24 de “Il sindacato è un’altra cosa”. I primi – coi loro principali rappresentanti Nicolosi e Rinaldini – hanno votato contro il documento finale; e così pure Landini; i secondi si sono astenuti. Il documento finale è stato approvato con 587 voti favorevoli, 151 contrari, 8 astenuti, rispecchiando le proporzioni fra le varie aree dell’ultimo congresso.

La Conferenza – era legittimata a farlo anche se non era mai accaduto prima – ha introdotto alcune modifiche allo Statuto della Cgil.

1) Sono state ridotte le dimensioni dei Direttivi di categoria, locali e nazionali: per esempio il Comitato centrale Fiom, secondo quanto allora affermato da Landini, dovrebbe passare da 181 a 100 membri, cosa che però ad oggi, un anno dopo, non è ancora avvenuta; sia il segretario generale Fiom sia l’area “Democrazia e Lavoro” sia de “Il sindacato è un’altra cosa” hanno denunciato questa riduzione numerica dei Direttivi di categoria come volta a chiudere il sindacato a una maggiore partecipazione dei delegati sindacali di azienda.

2) La maggioranza ha sostenuto infondata questa critica in ragione di un’altra modifica statutaria che ha istituito un nuovo organismo interno denominato “Assemblea Generale” (riunitosi per la prima volta il 7 e l’8 settembre di quest’anno) presente a tutti i livelli territoriali, confederali e di categoria, con un numero di componenti non superiore al doppio del Comitato direttivo di riferimento, che ne fa parte, ed eletta dal Congresso garantendo ai diversi documenti congressuali le stesse percentuali dei direttivi. Secondo la Segreteria confederale questo nuovo organismo aprirebbe la Cgil ad una maggiore partecipazione della base del sindacato. Le aree di minoranza di sinistra invece hanno sostenuto – ci pare a ragione – che si tratti di un doppione dei Comitati direttivi di categoria privo però delle loro funzioni se non quella unica, concreta, di votare Segretario generale e Segreteria, di categoria e confederale.

La istituzione di questo nuovo organismo sarebbe quindi, da un lato una manovra propagandistica per mostrare un cambiamento nella vita interna della Cgil che in realtà non c’è, dall’altro per bloccare la proposta dell’area “landiniana” – avanzata fin dal settembre 2013 – di elezione del Segretario generale attraverso la votazione diretta degli iscritti, richiamandosi alle cosiddette “primarie”. Questa proposta è stata vista da molti come un espediente del Segretario generale della Fiom per arrivare al vertice della Cgil, succedendo alla Camusso, sfruttando la popolarità acquisita grazie all’ampio spazio concessogli dai media borghesi, lì accreditato quale “sindacalista duro”.

L’area landiniana e quella di “Democrazia e Lavoro” criticano la demagogia della politica renziana tesa a liquidare la concertazione – il che è falso – svilendo il ruolo di quelli che l’ideologia borghese chiama i corpi intermedi della società, fra i quali i sindacati. Ma una analoga demagogia è da costoro proposta all’interno del sindacato, proponendo l’elezione diretta del Segretario generale, esautorando di questa funzione il Congresso e quindi gli organismi intermedi dell’organizzazione, sostituendo quello che dovrebbe essere il dibattito al loro interno, in cui andrebbero coinvolti gli iscritti, con l’influenza che su di essi operano gli organi di propaganda della classe dominante.

3) Infine, aspetto non secondario, nel documento licenziato dalla Conferenza, sotto il capitolo intitolato “Sostenibilità”, sono stati definiti criteri volti al risparmio, accorpando ruoli e funzioni, per far fronte, si presume, a difficoltà finanziarie.

“Democrazia e Lavoro” ha denunciato la Conferenza come “inutile e dannosa”. Rinaldini ha affermato che essa ha determinato il carattere del futuro congresso, che non potrà che svolgersi su mozioni contrapposte, diventando perciò «decisiva la definizione delle regole congressuali che dovranno voltare pagina rispetto alle modalità di svolgimento dei congressi passati (...) È finita la storia di Congressi dove dall’inizio si conoscono i risultati finali e dove la democrazia è un optional in mano ai gruppi dirigenti». Un’affermazione molto grave. Se non fosse che di questa “storia di congressi dove la democrazia è un optional” i dirigenti di “Democrazia e Lavoro” sono pienamente corresponsabili. Infatti questa denuncia – come vedremo – tanto è stata tardiva quanto sarebbe stata facile ad essere revocata e dimenticata.

Rinaldini ha concluso ammonendo: «Non saprei dire se tale irresponsabilità abbia messo in conto la possibilità di avere norme congressuali votate a maggioranza, che determinerebbe il deflagrare della Cgil stessa». Toni insolitamente minacciosi e agguerriti, per un’area che ha sempre oscillato fra una timida opposizione alla maggioranza e l’adesione alla sua linea e che, dopo il XVI congresso del 2010, ha marcato sempre più a fondo la sua distanza dall’area “Rete 28 Aprile/Il sindacato è un’altra cosa”.

Infatti, un anno dopo, nel numero 15 del 13 settembre 2016 di “Progetto Lavoro”, il periodico di “Democrazia e Lavoro”, nell’articolo di prima pagina a firma di Nicola Nicolosi, a commento della prima convocazione, il 7-8 settembre scorsi, dell’Assemblea Generale, quell’organismo creato nella “inutile e dannosa” V Conferenza organizzativa di un anno prima, leggiamo: «I giorni 7-8 settembre si è svolta la prima Assemblea Generale CGIL, nuovo organismo deciso dall’ultima Conferenza di Organizzazione (...) Non vorrei apparire retorico, ma i temi in questione hanno agitato gli animi e aperta una nuova fase di confronto dopo la frattura politica determinatasi con lo scorso congresso nazionale di Rimini [il XVII nel 2014; ndr]. Le scelte politiche dell’ultimo anno della CGIL [la raccolta delle firme per i referendum e per il nuovo Statuto dei lavoratori e l’indicazione di votare “no” al prossimo referendum sulle modifiche alla Costituzione; ndr] (...) hanno nei fatti archiviato il Congresso del 2014 compreso il suo corollario di polemiche! (...) Ancora, tra le decisioni dell’Assemblea Generale quella del superamento delle fratture del 2014 e l’avvio di una fase a più tappe per arrivare al governo unitario della CGIL dove rinnovamento si coniuga con pluralismo e esperienza (...) La CGIL recupera il suo ruolo di protagonista nella vita politica e sociale del Paese».

È significativo come questo riavvicinamento sia avvenuto nel corso di un anno durante il quale, come vedremo, si è consumata una piccola ma importante crisi all’interno della Fiom, che ha portato alla fuoriuscita dal sindacato di un gruppo di iscritti guidato da alcuni delegati RSA delle fabbriche FIAT di Melfi e Termoli nonché dal portavoce nazionale de “Il sindacato è un’altra cosa”, Sergio Bellavita, confluiti – in gran parte – nell’Unione Sindacale di Base.

 

“Il sindacato è un’altra cosa” dopo il Jobs Act

Facendo un passo indietro di sette mesi rispetto alla V Conferenza organizzativa della Cgil, tornando al periodo immediatamente successivo all’approvazione del Jobs Act – preso in esame nel numero scorso – il 25 febbraio 2015, a Roma, si svolse l’assemblea nazionale dell’area congressuale di minoranza “Il sindacato è un’altra cosa”.

Questa cadeva una settimana dopo il Direttivo nazionale Cgil del 18 febbraio, quello che definì l’indirizzo d’azione dopo l’approvazione del Jobs Act, e tre giorni prima dell’Assemblea nazionale dei delegati Fiom. Inoltre, in quei giorni, si andava consolidando lo scontro fra la Fiom, con le sue strutture territoriali e quella nazionale, che voleva porre fine agli scioperi contro gli straordinari comandati il sabato e la domenica, e parte dei suoi delegati nelle fabbriche FIAT di Melfi e Termoli, intenzionati a proseguirli, di cui abbiamo scritto nel numero 378 nel capitoletto intitolato “Pompieri a Melfi”.

Il documento conclusivo di questa assemblea de “Il sindacato è un’altra cosa” affermò che lo sciopero generale del 12 dicembre 2014 contro il Jobs Act – svoltosi a legge già approvata da 9 giorni – aveva rappresentato «la fine e non l’avvio della parabola di conflitto della Cgil» e che la Cgil non aveva avuto «il coraggio di fare sul serio» e ne usciva «pesantemente sconfitta».

Queste affermazioni, pur critiche, ancora una volta distorcevano la realtà nascondendo la reale natura della Cgil, al fine di giustificare l’impossibile battaglia al suo interno per riportarla su posizioni di classe.

Una manifestazione nazionale a ottobre ed uno sciopero generale a legge approvata non erano state una “parabola di conflitto” ma la consueta manovra per nascondere la ferma volontà di non organizzare la lotta e di contrastare chi, fuori dalla Cgil, vuole farlo. Questa condotta non è frutto della mancanza di “coraggio” della Cgil ma delle fondamenta della sua impostazione sindacale e della vita stessa dell’organizzazione, che escludono il ricorso alla lotta di classe. Infine, ad uscire sconfitta dall’approvazione del Jobs Act è stata la classe operaia e non la Cgil, che invece, almeno in parte, ha ottenuto il suo obiettivo, cioè la riapertura dei tavoli di confronto col governo, vantata dalla Camusso al Direttivo Confederale del 17 dicembre 2014, cinque giorni dopo lo sciopero.

Si ripeté quanto avvenuto con l’accordo di Pomigliano del giugno 2010, allorché il semplice rifiuto a firmarlo da parte della Fiom era bastato alla “Rete 28 Aprile” – che allora faceva parte dell’area “La Cgil che vogliamo” – per accreditare fra gli operai, per diversi decisivi mesi, la volontà di lotta della dirigenza di questo sindacato, quando i fatti parlarono chiaro subito, visto che essa non organizzò né uno sciopero generale della categoria né dei soli operai del gruppo FIAT, ma solo una manifestazione nazionale ben quattro mesi dopo, il 16 ottobre. Lo sciopero generale dei metalmeccanici arrivò passati altri tre mesi – il 28 gennaio 2011 – e persino due settimane dopo che il medesimo accordo era stato approvato con un nuovo referendum anche a Mirafiori. In ciò la Fiom anticipò la pratica dello sciopero a sconfitta avvenuta, praticato poi dalla Cgil in occasione del Jobs Act!

Anche questo ennesimo dato di fatto, nella sua semplicità e durezza, fu ignorato. Il giorno di quello sciopero il capo della “Rete 28 Aprile”, Giorgio Cremaschi, scrisse in un articolo intitolato “Uno sciopero generale costituente”: «Quella di oggi sarà una grande giornata (...) Il no della Fiom è diventato uno spartiacque sociale e politico: chi sta con Marchionne sta di là, chi sta contro Marchionne sta di qua. Così si è messo in moto un processo unitario di massa (...) Lo sciopero di oggi è dunque costituente di un grande movimento unitario». Abbiamo visto come invece le cose andarono in senso esattamente opposto: quello sciopero non servì a nulla perché l’accordo di Pomigliano era già stato esteso a Mirafiori e lo sarebbe stato, in pochi mesi, a tutti gli altri stabilimenti. Men che meno fu l’atto costituente di un “grande movimento unitario” bensì l’atto conclusivo con cui la dirigenza Fiom chiuse la sua mobilitazione farsesca contro l’attacco della FIAT. In questo modo la “Rete 28 Aprile” rafforzò quella dirigenza della Fiom che avrebbe vanificato la possibilità di costruzione di un vero movimento di lotta operaia nel corso di questa battaglia e che nel giro di breve tempo sarebbe passata a colpirla sempre più duramente, in combutta con la dirigenza confederale della Cgil.

Un mese dopo l’Assemblea Nazionale de “Il sindacato è un’altra cosa” – il 26 e il 27 marzo 2015 – si tenne a Bellaria (Rimini) un seminario dedicato alla discussione interna all’area congressuale. Nella sua “Traccia di discussione seminariale”, il portavoce nazionale dell’area, Sergio Bellavita – che ricordiamo era stato estromesso dalla segreteria nazionale Fiom nel settembre del 2012 – diede una lettura della condotta recente della Cgil diversa da quella del documento dell’assemblea di febbraio, più aderente al reale stato delle cose: «Lo sciopero generale di dicembre non ha spostato di una virgola l’orientamento del governo (...) Una debacle che con occhi attenti appariva inevitabile sin dall’ottobre per due ragioni. In primo luogo va considerato il carattere pressoché mediatico dello scontro ingaggiato tra i vertici della Cgil e Renzi. Mentre sui mass media volavano stracci, insulti, nel paese non si apriva nessun reale scontro sociale dentro e fuori i luoghi di lavoro. Nelle centinaia di aziende in crisi, nelle ristrutturazioni a suon di licenziamenti l’iniziativa della Cgil e di tutte le sue categorie, Fiom compresa, proseguiva unitaria e indisturbata nella contrattazione di restituzione di salari e diritti (...) In secondo luogo modalità, tempi e contenuti in una vertenza non sono variabili indipendenti. L’autunno di contrasto ad un provvedimento tra i più brutali della storia della repubblica sulla condizione di chi lavora è consistito in uno sciopero generale di otto ore e in una manifestazione di sabato».

Questo nuovo atteggiamento – dicendo “le cose come stanno” o quantomeno avvicinandovisi – da un lato mostrava come già ci fosse la consapevolezza del reale stato delle cose all’interno dell’area e che termini e linguaggio venivano piegati ad un dannoso tatticismo; dall’altro manifestava la volontà di una parte dell’area d’intraprendere una linea d’azione più risoluta, disposta ad andare fino in fondo nello scontro con la propria dirigenza non escludendo – gioco forza – la possibilità di uscire dalla Cgil; cosa che – come già abbiamo detto – sarebbe avvenuta 14 mesi dopo.

Si trattava di una decisione presa, presumibilmente, sulla base della previsione dell’approssimarsi dei due passi decisivi che andavano a chiudere il ciclo di falsa opposizione della Fiom: sul fronte del contratto nazionale metalmeccanico – in merito al quale l’Assemblea nazionale dei delegati del 28 febbraio precedente aveva confermato la ricerca dell’unità con Fim e Uilm quale perno dell’azione Fiom – e su quello della FIAT, come facevano presagire il plauso di Landini a Marchionne per le assunzioni a Melfi annunciate il gennaio precedente e il ritiro degli scioperi contro gli straordinari.

Il nuovo atteggiamento del portavoce dell’area congressuale provocò la divaricazione delle divisioni già presenti al suo interno. In un altro documento intitolato “Contributo di Iavazzi, Brini, Grassi per seminario di Bellaria” – dirigenti sindacali di uno dei tre gruppi politici trotskisti che controllano l’area, quello denominato “Sinistra Classe e Rivoluzione” – si affermava, riguardo ai rapporti dell’area col sindacalismo di base, che «in ogni caso (...) preferiamo (...) rivolgerci a (...) realtà (...) come il SI Cobas, piuttosto che a pezzi di burocrazia (...) sindacale rappresentati dall’apparato Usb, in cui recentemente si sono fatti strada anche riciclati dal vecchio apparato della Cgil, che dopo aver fatto i peggiori accordi in Cgil oggi si rivolgono a noi con critiche da super-rivoluzionari. Il crumiraggio attivo dell’Usb del 12 dicembre ha dimostrato per l’ennesima volta quanto il loro settarismo li tiene lontani dalla coscienza della classe». E più oltre: «La nostra alleanza coi sindacati di base deve essere rimessa in discussione in particolare per quanto riguarda l’Usb che sta assumendo posizioni sempre più settarie e puramente speculative». Critiche, condivisibili, che palesavano la volontà di mettere in guardia l’area congressuale di minoranza da un avvicinamento a quel sindacato che si individuava – a ragione – come il più probabile approdo nell’eventualità di una uscita dalla Cgil.

Questa divergenza di indirizzi si rifletté anche nella vicenda che vedeva coinvolti i delegati dell’area nelle fabbriche FIAT di Melfi e Termoli. Il documento conclusivo dell’Assemblea Nazionale dell’area del 25 febbraio a tal proposito aveva denunciato «la gravità della decisione della Fiom di non proclamare più sciopero contro sabati e domeniche comandate e contro la crescente fatica del lavoro negli stabilimenti FCA (ex Fiat) dopo la scarsissima adesione allo sciopero di Pomigliano» e si dichiarava al fianco dei «lavoratori che in questa settimane continuano a scioperare senza la proclamazione ufficiale dell’organizzazione», chiedendo la riapertura della «vertenza contro FCA, contro ritmi e carichi di lavoro, anche alla luce dei buoni risultati ottenuti in alcune elezioni RSA autorganizzate Fiom e di una sostanziosa ripresa dei volumi produttivi».

Come abbiamo scritto nel capitolo “Pompieri a Melfi”, sabato 14 marzo l’area congressuale “Il sindacato è un’altra cosa” aveva organizzato, a sostegno dei suoi delegati e di un nuovo sciopero contro lo straordinario, una manifestazione davanti ai cancelli della FIAT di Melfi. Vi parteciparono, oltre a delegati e militanti dell’area da tutta Italia, tutti i sindacati di base, nessuno escluso. Si distinsero invece, per la loro assenza, come denunciato in una nota a commento del seminario di Bellaria dalla principale delegata Fiom nello stabilimento di Termoli, i militanti dell’area del gruppo di “Sinistra Classe e Rivoluzione”.

 

Lo scontro alla FIAT

Una settimana dopo la manifestazione davanti ai cancelli di Melfi – con una lettera del primo aprile inviata al Segretario generale, al responsabile del settore auto, ai Segretari e alle Segreterie regionali, provinciali e territoriali della Fiom – 31 delegati e 27 componenti dei direttivi delle fabbriche di Melfi, Termoli, Atessa, Mirafiori, Pomigliano e dell’indotto dichiararono la loro contrarietà alla decisione di fermare gli scioperi contro gli straordinari comandati, denunciando la decisione come un passo verso la resa nella opposizione al peggioramento delle condizioni di lavoro imposto nel gruppo automobilistico dall’accordo di Pomigliano del giugno 2010. Una opposizione, ripetiamo, consistita nel rifiuto a firmare prima gli accordi aziendali di Pomigliano e Mirafiori e poi il Contratto nazionale per il gruppo separato dal contratto nazionale metalmeccanico, e in una battaglia legale, ma senza imbastire una reale azione di lotta.

Dall’avvio dell’offensiva aziendale – il 15 giugno 2010 a Pomigliano – gli scioperi nazionali proclamati dalla Fiom per i lavoratori del gruppo erano stati:
     - il 25 giugno successivo, rientrante in quello generale di tutte le categorie, deciso dal Direttivo nazionale Cgil i primi di giugno, quindi precedentemente all’esordio dell’offensiva FIAT, contro la manovra finanziaria del governo e che arrivava ad accordo già approvato;
     - il 23 luglio 2010, dei lavoratori del gruppo, ma per un altro obiettivo (il pagamento del premio di risultato);
     - il 28 gennaio 2011, di tutti i metalmeccanici, contro l’estensione dell’accordo di Pomigliano a Mirafiori proclamato, come detto, ad accordo già approvato da due settimane.

Tre scioperi in sette mesi, di cui solo uno convocato con lo specifico obiettivo di opporsi al nuovo regime aziendale. Se pure a quel punto solo due erano gli stabilimenti col nuovo contratto, restandone ancora un gran numero – fra quelli per i veicoli commerciali, per quelli industriali e per la componentistica – che permanevano con il contratto metalmeccanico, tuttavia sul piano emotivo, evidentemente importante nella lotta, la duplice sconfitta colpiva duramente il morale della reazione operaia che aveva consentito la grande manifestazione nazionale del 16 ottobre, apriva le porte alla rassegnazione ed alla sconfitta generale, complice la condotta della Fiom anche nel prosieguo dello scontro.

Dopo quello del 28 gennaio 2011, dovevano passare altri sei mesi per il successivo sciopero nazionale dei lavoratori del gruppo, il 15 luglio 2011, come l’estate precedente per il pagamento del premio di risultato – non più corrisposto – e questa volta anche contro l’estensione dell’accordo di Pomigliano.

Nel frattempo, però, a maggio 2011 l’accordo era stato esteso alla Maserati di Grugliasco (Torino) ma qui con l’approvazione della maggioranza della RSU FIOM. Lo stesso accadeva a settembre alla LEAR di Caivano (Napoli), azienda dell’indotto.

Ai primi di ottobre Marchionne annunciò l’uscita – dal 1° gennaio 2012 – di tutta la FIAT da Confindustria, passo necessario all’estensione del nuovo contratto a tutte le fabbriche del gruppo. La Fiom rispose con quello che – sul piano degli scioperi nazionali – risulta essere il suo massimo sforzo di mobilitazione nell’arco di 18 mesi in questa battaglia: il 21 ottobre 2011 con lo sciopero dei lavoratori del gruppo esteso alle aziende di componentistica ed il 16 dicembre 2011, con quello di tutti i metalmeccanici. Reazione largamente insufficiente – 16 ore di sciopero in due mesi – e tardiva.

Tre giorni prima del secondo sciopero, il 13 dicembre, Fim-Cisl, Uilm-Uil, Fismic, Ugl-Metalmeccanici siglavano con l’azienda il Contratto collettivo specifico di primo livello per tutte le fabbriche del gruppo, valido per tutto il 2012, e il 22 dicembre con Federmeccanica un “Protocollo d’intesa sulla disciplina specifica per il comparto auto” per «poter organizzare le turnistiche e ricorrere alle flessibilità della prestazione in modo allineato e coerente a quello degli stabilimenti Fiat» (comunicato Uilm) nelle aziende dell’indotto.

L’uscita di FIAT da Confindustria e l’entrata in vigore del nuovo contratto specifico per il gruppo portarono all’automatica decadenza delle RSU e alla istituzione al loro posto delle RSA, come previsto dalle legge 300 del 1970 (lo “Statuto dei lavoratori”). La FIAT però riconobbe solo le RSA dei sindacati firmatari del nuovo contratto, non quelle della Fiom, che si vide così privata delle corrispettive agibilità sindacali: questa avviò una battaglia legale con una sessantina di ricorsi, per ottenerne il riconoscimento.

Nel 2012 si contarono due scioperi generali dei metalmeccanici: il 9 marzo e il 5 dicembre. Il secondo, a dimostrazione emblematica della inconsistenza della mobilitazione messa in campo, coincise con la firma del nuovo contratto separato dei metalmeccanici, che fu annunciata proprio mentre Landini teneva il comizio in Piazza del Duomo a Milano.

L’8 marzo 2013 il Contratto collettivo specifico di primo livello venne rinnovato per il triennio 2013-2015.

Il 28 giugno 2013, altri sei mesi dopo quello precedente, si tenne quello che sarebbe stato – ad oggi – l’ultimo sciopero nazionale dei lavoratori FIAT. La rivendicazione centrale – ribadita da Landini nella blanda manifestazione nazionale a Roma, in cui non rimaneva nulla del vigore di quella del 16 ottobre 2010 – non fu più la lotta contro il nuovo contratto separato del gruppo industriale ma la difesa della sua presenza produttiva sul territorio nazionale. Per il quale obiettivo, implicitamente, ci si dichiarava disponibili a cedere sul terreno delle condizioni di lavoro degli operai, come già si era constatato fin dal luglio 2010. Disse Landini: «siamo disposti a una turnistica massacrante e a una redistribuzione delle pause che aumenti la produzione» (“La Repubblica”, 2 luglio), come avrebbero confermato gli eventi successivi.

Cinque giorni dopo, il 3 luglio 2013, la Corte Costituzionale accolse il ricorso della FIOM, costringendo l’azienda automobilistica a riconoscere anche le sue RSA. La vittoria sul piano legale servì al sindacato metalmeccanico Cgil per “rientrare in fabbrica” – come usa dire il sindacalismo di regime – cioè per tornare a godere dei cosiddetti diritti sindacali in azienda. Ma non servì agli operai, i cui peggioramenti nelle condizioni d’impiego sarebbero rimasti immutati, anzi avrebbero continuato ad aggravarsi, mentre la Fiom avrebbe abbandonato anche quella parvenza di lotta, come la vicenda del passaggio dai 18 ai 20 turni a Melfi del febbraio 2015 avrebbe confermato emblematicamente.

Un mese dopo la lettera del 1° aprile 2015 sopra citata, il 1° maggio, delegati delle fabbriche FIAT di Cassino, Termoli, Melfi e Atessa, aderenti all’area di minoranza Cgil “Il sindacato è un’altra cosa”, all’USB, allo Slai Cobas e alla Flmu CUB, si riunirono a Termoli e costituirono un “Coordinamento lavoratrici e lavoratori della Fca nel Centro-Sud”. Questo organismo non avrà alcun seguito: non si svolgeranno ulteriori riunioni, non saranno organizzate azioni di lotta e nemmeno sarà prodotto alcuna documentazione (volantini, comunicati, ecc). Tuttavia alcuni mesi dopo la sua costituzione sarebbe stata presa a pretesto dalle dirigenze Cgil e Fiom per colpire con un provvedimento disciplinare i delegati FIOM della minoranza delle fabbriche FIAT di Melfi e Termoli.

A partire dalla seconda metà di maggio iniziarono nei vari stabilimenti del gruppo, per la prima volta dopo cinque anni, le elezioni dei Rappresentanti Sindacali per la Sicurezza (RLS), che si sarebbero svolte, a differenza di quelle per le RSA, con la presenza anche dei candidati della Fiom. Nello stabilimento di Termoli, avviato alla piena produzione, la Fiom risultava il primo sindacato e la delegata appartenente all’area congressuale “Il sindacato è un’altra cosa” fu quella più votata. A Pomigliano invece, con metà degli operai in cassa integrazione, i delegati più votati furono quelli della Fim, con 1192 preferenze, davanti alla Uilm (1161), alla Fismic (1059), alla Fiom (676) e all’Ugl (201). Nello stabilimento di Atessa, pienamente attivo, la Fiom era il primo sindacato con quasi il 40% dei voti. Il 3 luglio risultavano aver votato 52.000 lavoratori, quasi i 2/3 di tutto il gruppo. Mancavano i grandi stabilimenti di Cassino, Melfi e Mirafiori, nei quali a tutt’oggi le elezioni non si sono svolte. La Fiom risultava essere il primo sindacato in 27 stabilimenti su 43, con maggioranza assoluta in 12 fabbriche e nella media nazionale, con il 35,8% di voti, seguita da Fim (20,6%), Uilm (16,8%), Fismic (15,5%), Associazione quadri e capi Fiat 3.154 (8,8%) e Uglm 908 (2,5%). La Fim era il primo sindacato solo in due fabbriche – a Pomigliano e alla piccole Officine Brennero di Trento – e così pure la Uilm.

Nonostante questi ottimi risultati, a sostegno della trattativa per il rinnovo del contratto nazionale specifico del gruppo da cui era esclusa, la Fiom non organizzava alcuna mobilitazione. Il 7 luglio la FIAT – più precisamente Fiat Chrysler e Cnh Industrial – insieme alla Fim Cisl, alla Uilm Uil, alla Fismic, all’Ugl Metalmeccanici e all’Associazione Quadri e Capi Fiat (AQCF), firmavano il rinnovo del Contratto collettivo specifico di 1° livello (Ccs1l), valido dal 1° gennaio 2015 al 31 dicembre 2018, riguardante circa 85 mila lavoratori, che istituiva la possibilità di estendere a tutti gli altri stabilimenti il ciclo a 20 turni avviato da febbraio a Melfi, senza che nemmeno un’ora di sciopero nazionale fosse stata proclamata.

(contina al prossimo numero)

 
 
 
 
 


Relazione dai nostri compagni in Venezuela
Crisi, inflazione e lotte operaie

Riferiamo della situazione della costa di Carabobo (Puerto Cabello e Moron).

In molte aziende pubbliche e private sono in discussione i nuovi contratti collettivi e in altre sono stati già firmati. Prospettandosi un aumento dell’inflazione nel 2017, la maggior parte dei padroni è interessata a firmare il contratto prima della fine del 2016: è molto probabile che gli aumenti verranno ampiamente assorbiti dall’inflazione, così risultando per le imprese una riduzione dei costi di produzione.

In molti casi, nel corso delle trattative tra sindacati e datori di lavoro, i miglioramenti salariali e alcune gratifiche sono stati concessi alla condizione di ridurre l’organico. Questo tipo di accordo, possibile solo grazie al tradimento dei dirigenti sindacali, appoggiati da loro “consulenti del lavoro”, ha portato alla riduzione significativa di occupati in diverse aziende. Sono stati offerti ai lavoratori accattivanti incentivi economici per lasciare l’azienda.

Nel caso della Traylog, che fornisce servizi di logistica nel magazzino Nestlè a Moron, l’uscita dei lavoratori, che hanno accettato l’offerta di un bonus, è stata di tale portata che i pochi operai rimasti non raggiungono il numero minimo richiesto dalla legge perché possa essere riconosciuto il loro sindacato. Ora la situazione è tale che Nestlè può licenziare tutti i lavoratori e riprendere l’attività con nuovo personale.

Anche i lavoratori di Ferralca, Tripoliven e Produven si stanno riunendo per discutere del contratto collettivo. I nostri compagni vi proporranno una assemblea congiunta dei lavoratori di queste imprese per unificare le rivendicazioni e l’azione.

Intanto Ferralca ha rotto con il suo “consulente del lavoro”, quello della Traylog.

Alla Ferralca i padroni hanno cercato di far passare il pagamento di un premio associato alla produttività di ciascun lavoratore. La dirigenza sindacale e i lavoratori ne hanno discusso arrivando alla conclusione che il premio: a) genera divisione tra i lavoratori, per di più mentre ci si trova nel pieno della discussione per il nuovo contratto, b) incentiva l’intensificazione della giornata lavorativa e la disposizione di un lavoratore a rubare il lavoro agli altri, c) non rientra nella base previdenziale, d) frena l’assunzione di nuovi lavoratori poiché l’azienda produrrà di più con lo stesso numero di operai. L’assemblea ha approvato a maggioranza il rifiuto del premio e ne ha redatto un verbale da recapitare al padrone. Una minoranza dei lavoratori è rimasta tuttavia disponibile ad accettare il premio. Il sindacato ha esposto la necessità di mantenere l’unità e concentrarsi nella lotta per l’aumento salariale vista la imminente discussione sul contratto collettivo: questo indirizzo è stato condiviso da tutti i lavoratori.

I lavoratori di Ferralca, avvisati dell’arrivo del Servicio Bolivariano de Inteligencia, la polizia politica del governo, hanno fatto sapere ai rappresentanti del padrone che se fossero stati arrestati i loro dirigenti sindacali avrebbero bloccato il lavoro. L’azienda ha dichiarato di non aver niente a che fare con la visita della Sebin, benché era certo a tutti che se il Sebin si è presentato è perché il padrone lo aveva chiamato. L’intervento provocatorio del Sebin contro i dirigenti sindacali è infatti avvenuto dopo che i lavoratori di Ferralca avevano bloccato per un turno di lavoro le spedizioni a seguito di una rivendicazione sugli abiti da lavoro.

Per quanto riguarda i lavoratori di PDVSA le elezioni sindacali che erano previste per il 22 settembre sono state sospese e si terranno, se si terranno, nel 2017, dopo l’ipotetico referendum presidenziale. Questa proroga delle elezioni sindacali risponde alla necessità della frazione del PSUV nella Federazione Unitaria dei Lavoratori del Petrolio del Venezuela, rappresentata da Will Rangel, di guadagnare tempo per recuperare il perduto appoggio della maggioranza dei lavoratori del settore. La proroga delle elezioni è avvenuta anche con la complicità della corrente avversaria più importante, quella dei trotskisti di Joe Bodas.

Purtroppo i vari gruppi operai di base finiscono coll’interessarsi alle differenti opzioni presentate alle borghesi elezioni, trascurando la discussione su un programma di ripresa della lotta di operaia. I compagni stanno preparando un volantino in merito.

 
 
 
 
 
 


Orari “europei”

L’attuale Direttiva europea sull’orario di lavoro (2003/88/EC) impone:
     - Art.3 - Ogni lavoratore benefici, nel corso di ogni periodo di 24 ore, di un periodo minimo di riposo di 11 ore consecutive.
     - Art.4 - Ogni lavoratore benefici, qualora l’orario di lavoro giornaliero superi le 6 ore, di una pausa.
     - Art.5 - Ogni lavoratore benefici, per ogni periodo di 7 giorni, di un periodo minimo di riposo ininterrotto di 24 ore a cui si sommano le 11 ore di riposo giornaliero previste all’Art.3. Gli Stati membri possono prevedere un periodo di riferimento non superiore a 14 giorni.
     - Art.6.b - La durata media dell’orario di lavoro per ogni periodo di 7 giorni non superi 48 ore, comprese le ore di lavoro straordinario. Gli Stati membri possono prevedere un periodo di riferimento non superiore a quattro mesi.
     - Art.7.1 - Ogni lavoratore benefici di ferie annuali retribuite di almeno 4 settimane.
     - Art.8 - L’orario di lavoro normale dei lavoratori notturni non superi le 8 ore in media per periodo di 24 ore.

Forti di questa direttiva, un gruppo di lavoratori spagnoli installatori di sistemi di sicurezza ha ottenuto dalla Corte di Giustizia dell’UE una sentenza a loro tutela: il conteggio nell’orario di lavoro del tempo impiegato per gli spostamenti, che non può essere considerato “tempo di riposo”.

Ma tutti i lavoratori sanno bene che questi “diritti” restano soltanto sulla carta e lontani dalla realtà se non vi è la lotta o la minaccia di essa ad imporne il rispetto ai padroni. In ogni posto di lavoro il padrone può fare le sue regole se i lavoratori non trovano la forza per reagire.

Negli ultimi cinque anni però le organizzazioni padronali hanno provato a far peggiorare questa direttiva. La timida reazione delle corrottissime organizzazioni sindacali che siedono a questi incontri ha soltanto ottenuto di rimandare la “riforma” della Direttiva alla Commissione, che prossimamente dovrebbe prendere provvedimenti in merito.

Non è certo una questione che il movimento sindacale di classe può ignorare.

 

 

 

 

 

PAGINA 5


La contesa fra militarismi nei mari della Cina

Il riarmo in Asia

(continua dal numero scorso)

Il riarmo australiano

Anche l’Australia entra nella corsa al riarmo nella regione portando la sua spesa militare al 2% del PIL. Il Libro Bianco del 2016, presentato il 25 febbraio scorso, traccia un piano di rafforzamento di capacità e di equipaggiamenti fino al 2020, per una spesa totale di 195 miliardi di dollari australiani (127 miliardi di euro) e un aumento di personale militare a 62.400 unità, il più alto livello in un quarto di secolo. La decisione è stata motivata “dall’alta posta in gioco” e dai “tempi epocali” che stanno coinvolgendo l’intero continente asiatico.

Previsto l’acquisto di 12 sottomarini d’attacco, forniti dalla Francia, che andranno a rimpiazzare i 6 attualmente in servizio per un costo di oltre 50 miliardi di dollari. La Marina si aggiudica un quarto della nuova spesa, con nove fregate e 12 navi da pattugliamento.

L’aeronautica acquisirà sette droni e otto pattugliatori marittimi Boeing P8-A Poseidon e completerà l’acquisto dagli Usa di 72 caccia bombardieri F-35, dei 7 aerei radar E-7A Wedgetail e di 12 EA-18G Growler da guerra elettronica.

L’esercito disporrà del 18% dei nuovi stanziamenti per l’arruolamento di 2.500 militari, l’acquisto di oltre mille veicoli protetti per il trasporto di truppe, elicotteri leggeri per le forze speciali e da attacco per sostituire i Tiger dopo il 2020, nuovi sistemi d’artiglieria con lanciarazzi dotati di gittata di oltre 300 chilometri e l’ammodernamento dei carri Abrams in servizio.

Il Libro Bianco descrive un quadro in cui l’Australia ha bisogno di aumentare “la capacità e l’agilità” delle sue forze per affrontare la crescente potenza dei paesi asiatici, combinata con la tensione strategica che si va aggravando fra Cina e Usa.

L’Australia continuerà a coordinare l’impegno militare con gli Usa, ritenuta ancora la potenza globale preminente.

 

Missili USA in Corea del Sud

Le tensioni nella penisola coreana sono cresciute da quando a gennaio Pyeongyang ha eseguito il suo quarto test nucleare seguito da lanci di missili che dimostrano i progressi della Corea del Nord nella costruzione di ordigni in grado di colpire in territorio statunitense.

Washington, che considera la Corea del Sud un ulteriore tassello in chiave anti-cinese, vi schiererà un sistema di difesa missilistica avanzato, il nuovo sofisticato scudo THAAD, destinato a proteggere almeno i due terzi del territorio. Seul e Washington affermano di volersi proteggere dalla crescente minaccia militare nordcoreana, ma l’accordo va visto nel quadro asiatico di confronto tra Cina e Stati Uniti.

Tale decisione ha irritato, oltre che Pechino, che ha dichiarato che «nuocerà gravemente» alla sicurezza della Cina, anche Mosca, per la quale lo scudo antimissili in Corea del Sud rappresenterebbe «una minaccia per l’equilibrio della regione» e potrebbe avere «conseguenze irreparabili».

 

Nel Mar Cinese Orientale

Alle tensioni nel Mar Cinese Meridionale si aggiungono quelle nel Mar Cinese Orientale, che vedono coinvolte Cina e Giappone. Oggetto dello scontro è il controllo di un gruppo di isole chiamate Senkaku dai giapponesi e Diaoyu dai cinesi. L’arcipelago, lambito da importanti rotte marittime, include cinque isole e tre scogli per una superficie totale di 6,3 kmq; si trova a circa 220 chilometri a nord-est di Taiwan, 370 chilometri ad est della Cina ed a sud-est di Okinawa.

A seguito della sconfitta militare del 1945 e dell’occupazione del Giappone da parte statunitense le Senkaku erano state amministrate dagli USA fino al 1971 e riconsegnate ai nipponici nel 1972. Ma anche la Cina ne rivendica la sovranità. Dal punto di vista giuridico la contesa è estremamente complessa, entrambi gli Stati avrebbero le loro ragioni da portare innanzi ad un giudice. Ma è sempre la forza economica e alla fine militare quella che detta l’ultima parola.

L’interesse della Cina verso l’arcipelago è montato in conseguenza della crescita della sua potenza economica e della sua necessità di proiezione all’esterno: sostanzialmente solo dal 2010 le Diaoyu/Senkaku cominciano ad essere elemento di scontro tra Cina e Giappone. Il 9 settembre 2010 un peschereccio cinese non si ferma alle ingiunzioni di una vedetta giapponese e avviene una piccola collisione, il capitano cinese viene arrestato e successivamente rilasciato.

Tra agosto e settembre 2012 nazionalisti giapponesi vanno sulle isole a scopo dimostrativo; poi, per ritorsione, ci vanno i cinesi. Nei due paesi si svolgono manifestazioni nazionaliste di protesta. In questo contesto il governo giapponese acquista 3 delle 4 isole, di proprietà privata. La Cina, che considera il gesto una provocazione, nel novembre 2013 allarga la sua zona di difesa aerea includendovi le Diaoyu/Senkaku; per sorvolare l’area occorre un permesso e l’identificazione. Il 25 novembre due bombardieri USA entrano nell’aerea dichiarata esclusiva e non rispondono alle richieste di identificazione. Il confronto continua con sconfinamento di pescherecci e di navi da guerra cinesi.

L’ascesa della Cina comporta la necessità per Tokyo di riorientare verso sud il proprio dispositivo di sicurezza e di volgerlo là dove sono situate le sue arterie strategiche. Ciò spiega la necessità per l’imperialismo giapponese di procedere ad una revisione della Costituzione “pacifista” e di continuare col riarmo.

In seguito a quanto sancito dall’articolo 9 della Costituzione, il Giappone “rinuncia alla guerra” per risolvere le controversie internazionali. Ma, nonostante la natura di “autodifesa” delle forze armate giapponesi, esse sono tra le dieci più potenti del pianeta e hanno in dotazione armamenti tra i più moderni e sofisticati.

Le forze terrestri dispongono di carri armati da battaglia, veicoli corazzati, artiglieria rimorchiata e semovente, mortai, lanciamissili, contraerea, missili terra-terra, anticarro, elicotteri da trasporto e d’attacco. Le Forze marittime si avvalgono di sottomarini diesel, missili anti-missile, fregate con elicotteri, navi da pattugliamento e da combattimento costiero, posamine, anfibie, ausiliari, aerei ed elicotteri con base a terra. Dispongono di 124 navi di varia tipologia, da dragamine a cacciatorpediniere lanciamissili, a sei sottomarini d’attacco di ultima generazione classe Sōryū dal costo di mezzo miliardo di dollari l’uno. A tutto ciò si aggiungono due portaerei. Le forze aeree possono mettere in volo velivoli da attacco terrestre, da caccia, da ricognizione, AWACS, aerei da trasporto, missili di ogni tipologia, controllo dello spazio aereo. Negli ultimi anni sono stati acquistati dagli Usa 42 caccia F-35, che si sono uniti ai 50 aerei da combattimento già in servizio.

Ma, nonostante l’enorme potenziale delle Forze di autodifesa giapponesi, la Repubblica Popolare Cinese gode di una evidente superiorità militare rispetto al rivale.

In questa rincorsa il borghese governo giapponese ha previsto una spesa di circa 25 trilioni di Yen, (circa 250 miliardi di dollari) nel periodo 2014-2019. Le nuove acquisizioni includono droni, veicoli anfibi, sottomarini, unità navali con sistemi anti-missile e i nuovi caccia statunitensi F-35.

Di particolare importanza è il riamo navale. Ultimamente la Forza di Autodifesa marittima del Giappone ha un cacciatorpediniere portaelicotteri, la più grande nave da guerra della marina giapponese dalla fine della Seconda Guerra mondiale, costata 1 miliardo di dollari. Con una stazza a pieno carico di 24mila tonnellate e un ponte di volo di 248 metri la nave potrà imbarcare 14 elicotteri per la guerra anti-sottomarino e anti-mine. L’hanno chiamata come la portaerei nipponica che prese parte alle operazioni della seconda guerra sino-giapponese e alle prime fasi della guerra nel Pacifico.

È evidente il graduale tentativo del capitale giapponese di riacquistare un ruolo di primo piano sulla scena mondiale anche sul terreno militare. La difesa delle vie marittime ha una valenza decisiva per il Giappone: per esse passa l’80% del petrolio importato. Ma il riarmo del Giappone non ha solo lo scopo della difesa, bensì rientra in una strategia più ampia che dovrebbe consentire al Paese di uscire definitivamente dalla crisi economica di sovrapproduzione che lo attanaglia da decenni. Con la revisione dell’articolo 9 della Costituzione le imprese giapponesi potranno produrre liberamente armamenti, da vendere allo Stato e ad altri Paesi: come ovunque il rilancio del capitale richiede lo sviluppo del settore bellico.

La crisi del modo di produzione capitalistico non ha e non può avere altro sbocco che la guerra imperialista. I proletari saranno chiamati ancora una volta dai rispettivi Stati capitalisti a versare il loro sangue per la Patria. Tutte le borghesie nazionali vorrebbero tingere di rosso sangue proletario i mari e le terre teatro dei futuri scontri bellici. I proletari non hanno patria! Questa dovrà essere la risposta del proletariato internazionale alla propaganda nazionalista e bellicista degli Stati borghesi. Ai proletari delle metropoli asiatiche come ai loro compagni in Europa, America e di tutto il mondo il dovere di prendere in mano la bandiera dell’internazionalismo proletario, di opporsi con la loro mobilitazione di classe alla preparazione di un nuovo macello mondiale, di organizzarsi nel Partito Comunista Internazionale per trasformare la guerra tra Stati in guerra tra le classi.

 

 

 

 

 

PAGINA 6


La classe operaia in India lotta contro la “riforma del lavoro”

In questo giornale n. 373, nell’articolo “Anche in India è sempre più difficile scioperare” avevamo descritto uno sciopero generale che aveva coinvolto decine di milioni di lavoratori avvenuto il 2 settembre 2015 contro la riforma del lavoro attuata dall’attuale governo del primo ministro Modi, del Partito del Popolo Indiano (Bharatiya Janata Party), sostenuto da una coalizione di partiti di centro-destra chiamata Alleanza Nazionale Democratica.

Esattamente un anno dopo si è svolto un nuovo ed imponente sciopero. Secondo fonti sindacali oltre 100 milioni di lavoratori avrebbero incrociato le braccia. È il 4° sciopero generale dal 2009, e considerati i numeri, probabilmente tra i più partecipati che la classe operaia abbia mai effettuato, in India e in tutto il pianeta.

In tutti gli Stati indiani vi sono state partecipate manifestazioni. Al nord la maggiore è stata nel Bengala Occidentale, con la capitale Calcutta, a sud nel Kerala.

Anche questo sciopero era contro la riforma del lavoro. Da diverso tempo il Governo, per far aumentare la produzione industriale, ha proposto una serie di leggi, sotto lo slogan “Make of India”, che vanno a peggiorare le già precarie condizioni di vita e di lavoro dei salariati indiani: contratti a tempo determinato per molti settori, aumento delle ore di straordinario accresciute da 50 a 125 al trimestre, estrema facilità di licenziamenti, non obbligatorietà del versamento del salario di fine rapporto, esternalizzazione dei contratti di lavoro già esistenti, salario minimo abbassato, trasferimento del fondo di previdenza a fondi azionari, e diverse norme che escludono di fatto la stragrande maggioranza dei lavoratori indiani dalle già misere tutele della attuale legislazione.

Lo sciopero è stato indetto dal Comitato Sindacale Congiunto (JTUC), a cui hanno aderito dieci grandi Confederazioni sindacali, ma è stato appoggiato da numerose strutture sindacali indipendenti e di categoria. Tra le organizzazioni che non vi hanno partecipato la Bharatiya Mazdoor Sangh, legata al partito nazionalista hindu, e la Rashtriya Swayamsevak Sangh, vicina al partito di governo.

Queste alcune delle rivendicazioni: aumento del salario minimo giornaliero; aumento delle pensioni; concrete misure per l’occupazione; rigida applicazione e tutela di tutte le leggi sul lavoro; bloccare il disinvestimento nelle imprese pubbliche del governo centrale e degli Stati; blocco al lavoro interinale nei contratti a tempo indeterminato; salari uguali per uguali prestazioni; obbligo di riconoscimento dei nuovi sindacati entro 45 giorni; fermare le riforme della legge sul lavoro; blocco agli investimenti esteri nelle ferrovie, nelle assicurazioni e nella Difesa.

Non abbiamo un quadro chiaro delle diverse posizioni espresse dai vari sindacati, sappiamo che alcuni come lo Indian National Trade Union Congress, sono controllati dallo Indian National Congress, il più grande partito della borghesia indiana, oggi all’opposizione, mentre altri sono legati a quei partiti sedicenti comunisti, in realtà maoisti e stalinisti, che ancora hanno un forte seguito in tutto il subcontinente.

Lo All India Trade Union Congress invece è la più antica federazione sindacale indiana, tradizionalmente diretta dal Communist Party of India, nato nel 1925, mentre il Centre of Indian Trade Unions, è un’organizzazione controllata dal Communist Party of India (marxist), nato nel 1964 da una scissione del CPI, storicamente molto forte negli Stati del Kerala, del Bengala Occidentale e del Tripura, Stati in cui l’adesione allo sciopero è stata altissima. Infine lo All India Central Council of Trade Unions, politicamente legato al Communist Party of India (m-l) è nato da una delle numerose scissioni avvenute negli anni ’70, influenzate dai contemporanei eventi in Cina.

L’abbattimento del capitalismo è evidentemente un’esigenza mondiale in tutti i Paesi, compresa l’India, oggi dilaniata dalle contraddizioni di questo sistema sociale. In questo scenario il grande sciopero è indubbiamente significativo, una importante manifestazione di forza della classe salariata indiana e mondiale. Ma la forza dei lavoratori non sta solo nel numero che si riesce a far scendere sul campo di battaglia. Quelle forze devono essere ben organizzate e ben dirette al fine della lotta al padronato borghese e al suo Stato. Oggi in India, come altrove, su questo aspetto i lavoratori sono molto deboli, incatenati nei recinti istituzionali dai sindacati di regime e concertativi, e ben controllati da partiti falsamente proletari, votati ad un traditore “nazional-comunismo”.

Noi non sappiamo quando i lavoratori indiani riusciranno a spezzare queste catene attaccando frontalmente il capitale, ma questo avverrà solo quando una loro minoranza si sarà riconosciuta nell’autentico Partito comunista rivoluzionario mondiale.

 
 
 
 
 
 
 
 


Grecia
Syriza bastona sui pensionati

La crisi del capitalismo impone ai governi di arginare il malcontento che serpeggia fra i lavoratori. Non passa giorno che in qualche angolo del pianeta la polizia non ricorra al manganello e ai lacrimogeni, e talora al piombo, contro manifestazioni di protesta operaia o di proletari. Talora accade che gli eccessi della repressione arrivino ad imbarazzare gli stessi governi che l’hanno ordinata: allora ecco il pianto di coccodrillo governativo risuona nei media per scaricare la responsabilità sulla polizia.

Un caso particolarmente vergognoso, con successive pubbliche scuse governative, è stato quello delle dure cariche della polizia greca nei confronti dei pensionati che ai primi di ottobre hanno manifestato per le vie di Atene per protestare contro i nuovi tagli ai loro già miseri assegni.

Il governo guidato da Alexis Tsipras e dal suo partito Syriza, che significa Coalizione della Sinistra Radicale, proponeva una politica alternativa ai duri sacrifici imposti ai lavoratori greci dai precedenti governi in seguito all’esplodere della crisi economica mondiale nel 2008 e allo scandalo dei conti pubblici truccati nel 2009. Fu il malcontento dovuto ai drastici tagli alle pensioni, agli stipendi dei dipendenti pubblici, al severo peggioramento delle condizioni della classe operaia, stretta fra disoccupazione e ridimensionamento dei salari, a portare Syriza in sole tre tornate elettorali, due nel 2012 poi nel gennaio del 2015, a partito di maggioranza relativa.

Syriza, conquistata così la guida del governo, incominciava una lunga tornata di estenuanti trattative con la “Troika”, composta da Commissione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale, per rinegoziare il debito e allentare la morsa della rigida austerità, che aveva portato alla rovina i partiti alla guida dei precedenti governi. Chi non ricorda allora la “visibilità” data nei primi mesi del governo Tsipras all’allora ministro dell’economia Yanis Varufakis, questo “marxista” improbabile catapultato dal mondo accademico nello spettacolo triviale della politique politicienne?

A fine giugno del 2015 le trattative, da tanto tempo arenatesi, venivano interrotte e l’ultimatum alla Grecia di accettare il cosiddetto “memorandum” con nuove misure di austerità sfociava in una pantomima rivoltante. Tsipras convocava un referendum per i primi di luglio in cui si chiedeva ai greci di rifiutare le condizioni poste dalla Troika: oltre il 60 per cento degli elettori si pronunciò contro il “memorandum”, dando così carta bianca al governo, uscito rafforzato dal “voto popolare”, per resistere nel diniego alle istituzioni internazionali.

Pochi giorni dopo però il governo, dopo avere giubilato l’esuberante Varufakis, accettava un ultimatum delle Istituzioni internazionali che conteneva condizioni ancora più dure per i lavoratori e i pensionati.

Accreditatosi così sulla scena internazionale come “responsabile” governante borghese, consapevole della “necessità” di trasformare i salari e le pensioni dei lavoratori in profitti per i creditori del debito pubblico greco, Tsipras, insieme con il suo partito, ha dimostrato di cosa sono capaci i “radicali di sinistra” quando devono fare il lavoro sporco per il capitale.

Ulteriore segnale di svolta “realistica” di Syriza si è avuta con le elezioni del settembre del 2015 quando si è confermato primo partito, anche se perdendo qualche voto in percentuale, e ha dato vita a un governo di coalizione con il partito di destra dei Greci Indipendenti (Akel).

Ora questi estremi difensori degli interessi del grande capitale e della grande finanza scatenano la sbirraglia nelle piazze a manganellare anche le teste canute degli anziani pensionati, salvo poi chiedere scusa. Il tutto con buona pace dei gonzi “di sinistra” che, anche in Italia, continuano a inseguire la chimera di un “governo amico”.