Partito Comunista Internazionale
Il Partito Comunista N. 390 - luglio-agosto 2018
Anno XLV - [ Pdf ]
Indice dei numeri
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organo del partito comunista internazionale
DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: – la linea da Marx a Lenin, alla fondazione della III Internazionale, a Livorno 1921, nascita del Partito Comunista d’Italia, alla lotta della Sinistra Comunista Italiana contro la degenerazione di Mosca, al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani – la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario, a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco
PAGINA 1 Contro il “sovranismo” di destra e di sinistra la solidarietà internazionale e la preparazione rivoluzionaria comunista
Il riarmo degli imperialismi
Grecia-Macedonia: Egoismi borghesi dietro ridicoli orgogli nazionali utili a stordire i proletari
PAGINA 2 Importante riunione generale a Genova - 25-27 maggio: I rapporti di forza tra i maggiori Stati imperialisti nel loro aspetto militare - Questione militare, fronte occidentale 1916-1917 - Concetto e pratica di dittatura prima di Marx, Blanqui nella Comune
Per il sindacato
di classe
La vicenda Embraco chiama alla lotta generalizzata di tutta la classe operaia
Insegnamenti da una lotta operaia in Venezuela - Per le lotte future
La lotta dei portuali in Israele
Il SI Cobas e le suggestioni della “politica” - Elenco degli scioperi diretti dal SI Cobas dal 28 maggio al 30 luglio
Il duro sciopero dei camionisti in Brasile e la difesa social-democratica dell’interesse nazionale
PAGINA 6 In Iraq Iran Giordania potrebbe esplodere il dopoguerra sociale
Immigrazione e deliri nazionalisti
Poche parole di Engels su democrazia, liberalismo e scienza “alla Facebook”
PAGINA 7 Il concetto di dittatura rivoluzionaria e la sua pratica - Prima di Marx (2 - segue dal numero scorso): 3. Denis Diderot - 4. Nella Rivoluzione francese (continua)
PAGINA 8 Partito Comunista d’Italia, 1921- Un esempio di parlamentarismo rivoluzionario: Intervento parlamentare del 24 giugno 1921

 

 

 

 

 

 


PAGINA 1
Contro il “sovranismo” di destra e di sinistra la solidarietà internazionale e la preparazione rivoluzionaria comunista

Le contraddizioni dell’economia capitalista erodono costantemente le fondamenta del dominio della classe borghese. Questa si vede costretta ad un’opera incessante per contenere gli effetti sociali della crisi. Se dal lato economico deve agire per intensificare lo sfruttamento del proletariato dall’altro deve impedire alle masse lavoratrici di riconquistare l’indipendenza di classe e di esprimere lotte difensive efficaci.

Tale contenimento del proletariato viene svolto in gran parte attraverso la coercizione materiale intrinseca al meccanismo economico di estrazione del plusvalore, ma un ruolo non secondario è assegnato al controllo ideologico sull’insieme del proletariato. La nostra scienza di classe, che vede un determinismo nel divenire sociale, non ha mai sottovalutato questo aspetto se già nella ”Ideologia tedesca”, un’opera di Carlo Marx e di Federico Engels del 1846, si affermava che l’ideologia dominante in ogni società è sempre e comunque quella della classe dominante, la quale non dispone soltanto del monopolio dei mezzi della produzione materiale ma anche dei mezzi della produzione intellettuale. Di qui il ruolo che viene affidato al gigantesco apparato di riproduzione dell’ideologia che comprende la stampa, le televisioni, le radio, la scuola, le chiese, le case editrici, ecc.

Non sorprende dunque che la stessa “politica” del mondo borghese sia divenuta da decenni oggetto di uno spettacolo mediatico tanto triviale quanto chiassoso e ridondante, al fine di mantenere confuso e paralizzato il proletariato. Così la incessante lotta politica fra le diversi sotto-classi borghesi, consumata fra manovre e intrighi di palazzo, oggi rimbalza nei pastoni vacui e insensati dei telegiornali e negli estenuanti starnazzamenti dei talk show. Non che mai la borghesia abbia offerto di sé uno spettacolo decente, se non eccezionalmente nella sua giovanile e rivoluzionaria stagione, una età dell’oro che in occidente è irrimediabilmente tramontata, e non saremo certo noi ad invocarne il ritorno.

Tuttavia negli ultimi tempi la scena “politica”, anche in Italia, ma il fenomeno è all’evidenza generale, offre uno spettacolo ancora più sguaiato e pacchiano. La borghesia nasconde la sua dittatura di classe e i suoi appartati reali centri di potere sotto una rutilante efflorescenza di partitini, di ideologie fatte solo di frasi ad effetto, di personaggi, tanto pubblicizzati quanto di crescente all’infinito inettitudine e nequizia, sia dentro sia fuori dei parlamenti.

Ne è un esempio il nuovo esecutivo italiano guidato dal prestanome Giuseppe Conte: grande novità! proclama sfacciatamente e “senza complessi” un nazionalismo aggressivo, xenofobo, “sovranista”, quello stesso che i governi precedenti avevano praticato fingendo un certo imbarazzo e in maniera malamente dissimulata. Poiché c’è il rischio che la classe operaia individui nel capitale il suo vero nemico, cosa di meglio che additargli gli immigrati, colpevoli di tutti i mali, con prese di posizione vilmente persecutorie nei confronti di questi proletari e delle minoranze etniche in nome di una pretesa purezza delle tradizioni nazionali, razziali, religiose...

E bene funziona alla conservazione anche la inevitabile reazione genericamente “umanitaria”, cristiana o laica che sia: “Prima gli italiani” o “Aiutiamoli a casa loro”?

Il “cambiamento” è solo nel codice del linguaggio di questi piazzisti della “politica”. Sovranismo. In primo luogo non è che un eufemismo del nazionalismo, termine che, almeno in Italia, per molti decenni, dopo la tragica esperienza dei due conflitti mondiali, non poteva essere agitato ad inquadrare un proletariato poco incline a genuflettersi di fronte all’idolo sanguinario della “patria” permanentemente in fregola di avventure militari. Dunque il sovranismo, già assente dall’uso e dai vocabolari, è stato introdotto in Italia dal francese insieme a una serie di termini coniati da certa politologia d’Oltralpe, sempre attenta a rivisitare e ribattezzare antiche e stantie categorie ogni qualvolta si prestino a rendere presentabili i fini inconfessabili della borghese ragion di Stato.

Insomma si sta tornando a sperimentare un nuovo oppiaceo, o allucinogeno, in un paese che parecchie volte nella storia moderna e contemporanea ha svolto il ruolo di laboratorio politico.

Del resto l’attuale panneggio “sovranista” della borghesia italiana, che ha fatto scaturire dalle elezioni politiche del 4 marzo scorso il “populismo di destra”, è il risultato del lavoro dei precedenti governi che spacciavano invece il “populismo di sinistra”, a preparare il terreno alla demagogia del suo infinito “cambiamento”, sempre esclusivamente mediatico. Fu il governo precedente che assecondò la mistificazione dell’”emergenza immigrazione” per orientare in senso reazionario e confondere le masse lavoratrici e sviarle dai problemi legati alle loro condizioni di vita in tempi di crisi economica. Non fu forse il governo Gentiloni a stabilire col governo di Tripoli che decine di migliaia di migranti finissero in campi di concentramento a scontare, fra orrende torture, la “colpa” di essere scampati alla guerra e alla fame?

Al regime del capitale serve il balletto delle false contrapposizioni fra schieramenti fittizi, espressione di forze politiche intercambiabili e tutte comunque confederate contro la classe lavoratrice. Come la democrazia nella fase imperialista del capitalismo è complementare e non contrapposta al fascismo, anche l’antifascismo si schiera soltanto a chiacchiere contro i fascisti, ammantandosi dello stesso totalitarismo, usando i suoi stessi metodi “post-democratici” e autoritari e condividendo lo stesso arrugginito arsenale ideologico sostanziato di pregiudizi e di triti luoghi comuni. Similmente anche le forze politiche che fanno della loro bandiera la lotta contro il populismo, rubano a quest’ultimo le parole d’ordine e scelgono gli stessi temi di propaganda elettorale e di diseducazione del proletariato.

Non scopriamo nulla di originale, né di nuovo nel sempre risorgente “trasformismo” italico. Elementi di fascismo erano presenti già nello Stato nei primi decenni successivi ad una Unità raggiunta dalla borghesia “liberale”, matura anzitempo e nella necessità di controllare le masse proletarie con una repressione la più brutale. Fu Francesco Saverio Nitti a dotare lo Stato sabaudo della famigerata Guardia Regia col compito precipuo della repressione antioperaia. Giovanni Amendola, campione dell’”irredentismo democratico” e interventista nella prima guerra mondiale, antifascista, fu poi famigerato ministro delle colonie del governo Facta fino alla Marcia su Roma. Lo stalinismo nella Seconda Guerra mondiale, schierandosi a fianco di uno dei due fronti imperialisti, sottomise l’organizzazione militare partigiana alla guida dei comandi alleati, che nel frattempo bombardavano i quartieri proletari delle città. Dopo la guerra il partito staliniano della cosiddetta “via italiana al socialismo”, quello dei governi di Unità Nazionale, ha seminato il germe dello sciovinismo in seno alla classe lavoratrice col costante richiamo agli “interessi generali della Nazione”. Intanto il PCI staliniano, con la sua politica collaborazionista piegò il sindacato da esso diretto, la CGIL, alle compatibilità economiche del capitalismo, assecondando con entusiasmo la sua progressiva sottomissione allo Stato. Dopo l’auto-scioglimento del PCI staliniano nel 1992 tutti i partiti che ne hanno preso il posto si sono alternati ai governi di destra nell’attuare politiche di attacco alle condizioni dei proletari: con varie leggi e con la concessione del precariato nei contratti, dalla “politica dei sacrifici” fino al Jobs Act del 2014, hanno visto la sinistra borghese svolgere gran parte del lavoro sporco, come e anche in misura maggiore dei governi di destra.

Da marxisti non neghiamo certo la funzione storica delle sovranità nazionali nel processo di affermazione della borghesia rivoluzionaria e dei suoi Stati. Ma, a differenza delle concezioni idealiste e romantiche con le quali la borghesia ha rappresentato ed esaltato il concetto di nazione, ne individuiamo la funzione essenzialmente economica volta all’unificazione e a protezione dei mercati.

Ma, come veniva sottolineato nel 1848 dal Manifesto del Partito Comunista già allora era assai alto il grado di interrelazione fra le differenti culture e aree geografiche del mondo al di sopra dei confini nazionali: «Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato un’impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi. Ha tolto di sotto i piedi dell’industria il suo terreno nazionale, con gran rammarico dei reazionari. Le antichissime industrie nazionali sono state distrutte, e ancora adesso vengono distrutte ogni giorno. Vengono soppiantate da industrie nuove, la cui introduzione diventa questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili, da industrie che non lavorano più soltanto le materie prime del luogo, ma delle zone più remote, e i cui prodotti non vengono consumati solo dal paese stesso, ma anche in tutte le parti del mondo. Ai vecchi bisogni, soddisfatti con i prodotti del paese, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani. All’antica autosufficienza e all’antico isolamento locale e nazionale subentra uno scambio universale, una interdipendenza universale fra le nazioni. E come per la produzione materiale, così per quella intellettuale. I prodotti intellettuali delle singole nazioni divengono bene comune. L’unilateralità e la ristrettezza nazionali divengono sempre più impossibili, e dalle molte letterature nazionali e locali si forma una letteratura mondiale (...)».

«La grande industria ha creato quel mercato mondiale, ch’era stato preparato dalla scoperta dell’America. Il mercato mondiale ha dato uno sviluppo immenso al commercio, alla navigazione, alle comunicazioni per via di terra. Questo sviluppo ha reagito a sua volta sull’espansione dell’industria, e nella stessa misura in cui si estendevano industria, commercio, navigazione, ferrovie».

Alla vigilia del grande sommovimento del 1848, che sconvolse i vecchi equilibri europei, il Manifesto riconosceva ancora un ruolo progressivo alle nazionalità che dovevano scuotere il giogo della dominazione straniera, come la Polonia, oppure dovevano ancora concludere il processo di unificazione statale come la Germania e l’Italia. La formazione di nuovi Stati da parte di quelle che allora venivano considerate “nazioni vitali”, in riferimento alle loro potenzialità economiche, era un indubbio passo avanti nella rimozione di quegli ostacoli feudali che impedivano il pieno sviluppo del capitalismo. Marx ed Engels scrivevano che il proletari dovevano combattere contro “i nemici dei loro nemici”, cioè in un’alleanza con la borghesia contro la decrepita nobiltà.

Ma già allora avvertivano i due estensori del Manifesto del Partito Comunista: il proletariato non ha patria. Dunque il sostegno del proletariato alla borghesia nella sua fase rivoluzionaria non implicava affatto l’identificazione con i destini della nazione: una volta raggiunto l’obiettivo del rovesciamento delle classi feudali, il processo di “rivoluzione in permanenza” avrebbe posto il proletariato in urto armato contro la borghesia.

Questo avvenne in Francia già nel giugno del 1848 con il cruento scontro armato di Parigi, quella che Marx definirà «la prima grande battaglia fra le due classi in cui è divisa la società moderna, in una lotta per la conservazione o per la distruzione dell’ordine borghese».

I massacri di operai ormai inermi del giugno del 1848 furono replicati su scala assai più ampia con le fucilazioni di massa nella repressione della Comune di Parigi del 1871. In questo caso un ruolo decisivo venne svolto dalla collaborazione fra il governo prussiano e quello versagliese, nemici fino al giorno prima. Come commentò Marx in quella occasione «il supremo slancio d’eroismo del quale la vecchia società fosse ancora capace era la guerra nazionale; la quale ora si rivela come un raggiro di governo e niente più; che non ha altro scopo se non quello di provocare la lotta di classe e che si mette in agguato non appena la lotta di classe divampa in guerra civile. Il predominio di classe non è più in condizioni di nascondersi sotto un’uniforme nazionale; i governi nazionali sono tutti confederati contro il proletariato!».

Oggi, giusto 150 anni dopo, quando è da considerare chiusa la fase delle rivoluzioni nazionali non nella sola Europa ma nel mondo intero, in un mondo economicamente e politicamente interconnesso come quello attuale, la sovranità di uno Stato significa all’interno solo guerra alla classe operaia, all’esterno guerra, in tutti i sensi, agli altri Stati.

Perché nemmeno ci convince il neologismo di “globalizzazione”, e ancor meno quello di “mondialismo”, intendendo il tentativo delle “élite” dell’alta finanza internazionale di svuotare gli Stati nazionali di ogni reale potere economico e politico, per poi assoggettarli tutti insieme a un’unica “cabina di regia”: quando i fautori del sovranismo devono additare i responsabili dei guasti prodotti dal regime del capitale non individuano la classe borghese nel suo complesso, ma si accaniscono con alcune “grandi famiglie” o singoli magnati del grande capitale, come i Rothschild o George Soros.

Quando parlare di “mondialismo” non serve ad attaccare l’internazionalismo proletario, che sarebbe al servizio dei piani di un “complotto”, magari quello giudaico e massonico, e dei suoi disegni di sradicamento e cancellazione delle peculiarità culturali nazionali.

Ma, a voler esser veramente “aggiornati”, la categoria del sovranismo è ora messa in opposizione a “concertazione multilaterale”. È questa necessità che inquieta i vari Trump, gli “euroscettici”, i sostenitori inglesi della Brexit. Cosa c’è di vero? Che nel profondo gonfia una immensa e reale tensione: l’imperialismo stringe sempre più, connette e stritola il pianeta; ma il super-imperialismo è uno stato limite incompatibile con il capitalismo e che non raggiungerà mai. Questo permanente avanti-indietro muove il ciclo mondiale della pace e della guerra, con l’infrangersi di vecchie alleanze fra Stati e l’effimero stringersi di nuove. Già le cannoniere hanno cominciato a sparare: grossi calibri, per ora commerciali, miliardari, su Volkswagen e Google.

La classe borghese è sì una classe internazionale, ad essa appartengono gli Stati nazionali di cui si avvale per assoggettare il proletariato e per dividerlo. Ma anche il proletariato è una classe per natura internazionale, che soltanto attraverso la sua lotta unitaria in tutti i paesi potrà dispiegare la sua straordinaria forza, rovesciando il marcio regime del capitale e imponendo la sua dittatura. Ai “sovranisti”, di destra, di sinistra e di centro, le discutibili letizie della patria economica, le patrie tradizioni culturali posticce e il feticismo del denaro; ai proletari di ogni lingua e colore un mondo intero da conquistare.

 

 

 

 

 

 


Il riarmo degli imperialismi

Le serie statistiche dello Stockholm International Peace Research Institute, aggiornate di anno in anno, riportano la spesa militare di oltre 100 Stati del mondo dal 1988. La spesa militare è calcolata in tre modalità: nella moneta corrente di ogni Stato, in dollari, prendendo a riferimento, per i dati del 2017, il valore del dollaro USA al 2016, e infine in percentuale sul prodotto interno lordo. L’analisi dell’evoluzione della spesa militare nel lungo periodo, il confronto della spesa dei singoli Stati fra di loro e riguardo al PIL, permettono di tracciare un quadro abbastanza realistico della evoluzione dei rapporti di forza a livello mondiale tra i vari gruppi imperialisti.

Un’altra serie si riferisce ai valori delle vendite e degli acquisti di sistemi d’arma da parte dei vari Stati, espressi in dollari costanti al 2016, ed è possibile anche risalire ad una generica tipologia delle armi scambiate (aerei, navi, mezzi corazzati, missili ecc.).

Il primo diagramma esaminato alla riunione riguardava l’andamento della spesa militare mondiale dal 1988 al 2017, da cui risulta che questa, dopo aver segnato una piccola diminuzione nel 2013, sia poi in costante aumento, nonostante la crisi economica abbia ridotto in generale le disponibilità di spesa degli Stati.

Il prolungarsi della crisi infatti determina un aumento della conflittualità tra i maggiori Stati imperialisti i cui rapporti tendono a diventare sempre più tesi rimettendo in gioco gli equilibri stabiliti alla fine della seconda guerra mondiale e poi faticosamente ritrovati dopo la caduta dell’impero russo.

Gli Stati Uniti sono lo Stato imperialista militarmente più forte, il vero gendarme del mondo, ma la loro potenza economica mostra segni di cedimento di fronte a concorrenti come la Cina e la Germania. Queste difficoltà dell’economia statunitense sono divenute evidenti quando la nuova amministrazione ha iniziato una guerra commerciale introducendo dazi su molti prodotti considerati strategici per quel Paese. Ma il fatto che gli Stati Uniti producano a prezzi più alti dei loro concorrenti, che importino più di quanto riescano ad esportare, che vivano al di sopra delle loro possibilità aumentando il loro debito estero, dimostra la loro debolezza economica e finanziaria e allo stesso tempo il fatto che solo tramite la loro potenza militare e diplomatica riescono ancora ad imporre il dollaro come moneta mondiale per la grande parte delle transazioni commerciali e finanziarie. La guerra dei dazi è solo all’inizio ma ha già determinato forti preoccupazioni in Europa ed anche in Cina.

Il governo cinese ha intrapreso da anni una decisa politica di riarmo con l’intento di portare le Forze armate di quello Stato a contrastare lo strapotere degli Stati Uniti e dei loro alleati nel Pacifico. Questo sforzo di Pechino è attestato non solo da una spesa militare crescente che è passata dai 108 miliardi di dollari del 2008 ai 228 del 2017, cioè il 13,4% dell’intera spesa mondiale, ma anche dai grandi progressi tecnologici soprattutto per quanto riguarda l’aviazione e la marina. La nuova politica cinese rivolta ad estendere il controllo sul Mar Cinese meridionale e a proteggere le rotte commerciali che uniscono il Paese all’Oceano Indiano e al Mediterraneo non manca di preoccupare le altre economie rivierasche come il Giappone e la Corea del Sud e anche l’India, che teme l’attivismo della flotta militare cinese nell’Oceano Indiano.

Il confine orientale dell’Ucraina e l’annessione della Crimea alla Russia, la guerra infinita in Medio Oriente con la sua estensione allo Yemen, lo scontro nel Mar Cinese Meridionale per il controllo di una serie di isolotti strategici e i relativi tratti di mare, i contrasti crescenti in varie zone dell’Africa per l’accesso alle zone di produzione di materie prime strategiche, sono solo le situazioni di conflitto più pesanti, ma anche tra gli Stati minori crescono le tensioni, come ad esempio tra gli Stati Baltici e la Russia o tra la Turchia e la Grecia per il controllo del Mar Egeo e delle sue risorse petrolifere.

A dominare il quadro delle spese per armamenti sono un “pugno di paesi”, come scriveva Lenin, infatti i 15 Stati che spendono di più si accaparrano ben l’80% dell’intera spesa mondiale e i primi due tra questi, gli Stati Uniti e la Cina, ne costituiscono da soli il 48,6%! È questo piccolo gruppo di Stati quindi che detiene la forza militare bastevole non solo per difendere i propri interessi economici, politici, diplomatici ma per imporli agli Stati militarmente ed economicamente più deboli.

Ma sono anche questi gli Stati, tranne rare eccezioni, che producono i maggiori sistemi d’arma in uso nei loro eserciti e che vengono anche venduti ad altri. È questo un settore del commercio mondiale che ha un andamento in forte crescita fin dal 2002 e che non ha subito i contraccolpi della crisi economica.

Diamo qui di seguito un breve resoconto della spesa militare dei primi dieci Stati che nel mondo più si armano.

Gli Stati Uniti restano la massima potenza imperialista mondiale, ma il solo mantenimento del loro apparato militare, come unica superpotenza globale, con decine e decine di basi sparse nel mondo e ben 7 flotte in azione, ha un costo enorme che nel 2010 aveva registrato un aumento del 4,7%, uno dei maggiori al mondo, che negli anni successivi si è ridotto per arrivare al 3,1% del 2017. Nel suo massimo del 2010 la spesa degli USA è stata di 768 miliardi di dollari, il 45,6% della spesa mondiale mentre nel 2017 è scesa a 597 miliardi, il 35,2%. Secondo il Sipri però «le spese militari americane dovrebbero aumentare sensibilmente nel 2018 per sostenere l’aumento del personale militare e la modernizzazione delle armi classiche e nucleari».

Per gli Stati Uniti la produzione di armamenti è comunque un grande affare economico visto che si accaparrano il 34% delle esportazioni mondiali. Sono aumentate del 25% tra il quinquennio 2008-2012 e il 2013-2017. Nel 2017 sono state di 12,4 miliardi di dollari, dirette verso decine di Paesi: tra i maggiori quelli di due delle regioni più “calde” del globo: in Medio Oriente l’Arabia Saudita (ben 3.425 milioni), l’Iraq (506), Israele (515), gli Emirati (499), il Qatar (496); in Asia orientale l’Australia (1.172), il Giappone (479), la Corea del Sud (456), Taiwan (493).

La Cina, indicata dagli Stati Uniti come una delle potenze “revisioniste”, insieme alla Russia e individuata come loro principale avversario a livello globale nel medio lungo periodo, prosegue nella politica di rafforzamento e modernizzazione delle sue forze armate, soprattutto dell’aviazione e della marina, allo scopo di spezzare l’accerchiamento che subisce attualmente da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati nell’Oceano Pacifico. Nel 2008 la spesa militare della Cina rappresentava il 7% della spesa mondiale; lo scorso anno è cresciuta al 13,4%. La sua spesa militare, che è passata da 108 a 228 miliardi di dollari nello stesso periodo, rappresenta solo l’1,9% del suo PIL. In compenso la bozza di bilancio di Pechino per il 2018 prevede ancora un aumento delle spese militari dell’8,1%, rispetto al 2017.

Pechino sta cercando di rendersi sempre più autonoma nella costruzione dei propri sistemi d’arma come è dimostrato dalla diminuzione costante delle sue importazioni, scese del 19% tra il quinquennio 2008-12 e il 2013-17. Mantiene comunque il quinto posto tra gli importatori di armamenti mentre accresce anche la quota delle esportazioni, soprattutto verso il Pakistan (514 milioni), il Bangladesh (204), la Thailandia (129) e il Myanmar (70) oltre che verso molti Stati dell’Africa.

L’Arabia Saudita risulta il terzo paese al mondo per bilancio militare e il secondo importatore di armi, subito dopo l’India. La sua spesa militare ha subito una brusca riduzione nel 2016 scendendo da 90 a 64 miliardi di dollari ma nel 2017 esso è risalito a circa 70. Riad destina al suo bilancio militare circa il 10% del PIL. È coinvolta apertamente, ormai da anni, nella guerra in Yemen e indirettamente nella guerra in Siria fornendo armi ed equipaggiamenti a vari gruppi islamisti. Attualmente ha stretto un’alleanza di fatto con Israele e gli Stati Uniti in funzione anti-iraniana.

Anche l’India partecipa attivamente a questa corsa al riarmo. È il quarto paese al mondo per spesa militare, passato da 41 miliardi nel 2008 a 60 nel 2017, e dal 2,6% al 3,5% della spesa mondiale. Destina al bilancio militare il 2,5% del PIL. L’India è il primo paese al mondo per importazioni di sistemi d’arma, spendendo il 12% della spesa mondiale in armamenti.

Nel quinquennio 2013-17 il primo fornitore di armi all’India, con ben il 62% del totale, è stato la Russia, ma gli Stati Uniti negli ultimi anni hanno aumentato di più di cinque volte le loro esportazioni verso il Paese. L’adesione dell’India al Patto QUAD, in funzione anti-cinese, insieme a Stati Uniti, Giappone e Australia, è probabile che continui a spostare la bilancia a favore degli Stati Uniti che, contemporaneamente, hanno ridotto le loro esportazioni di armi verso il Pakistan del 76% tra il quinquennio 2008-12 e quello 2013-17.

La Francia è fra i primi per spesa militare, superando persino la Russia nel decennio 2008-17, con 56 miliardi di spesa nel 2017. La sua percentuale di spesa sul mondo è passata dal 3,5 nel 2008 al 3,3 nel 2017. Anche sul fronte delle esportazioni la Francia occupa il terzo posto, subito dopo USA e Russia, col 7% nel 2017 del totale mondiale. Si rileva notevole interventismo francese nelle crisi internazionali. La Francia esporta un po’ in tutto il mondo, come gli USA, ma tra i suoi migliori clienti troviamo l’Egitto, dove ha esportato negli ultimi due anni per ben 1.676 milioni di dollari, l’India (446), la Cina (255), Singapore (213), l’Indonesia (160).

La Russia è indicata nel breve termine come il nemico principale degli USA. Ma, se può costituire un pericolo nell’immediato per la sua politica verso l’Ucraina, la Georgia ed altri Stati che hanno fatto parte dell’ex impero russo, non ha la struttura economica per elevarsi al rango di potenza globale, nonostante la sua estensione territoriale e la recente ristrutturazione e modernizzazione dell’apparato militare. La spesa militare della Russia negli ultimi dieci anni si posiziona al sesto posto, dopo USA, Cina, Arabia Saudita, India e Francia. Ha raggiunto un massimo nel 2016 con ben 69 miliardi di dollari ma l’anno scorso si è ridotta di circa il 20% rispetto all’anno precedente, scendendo da ben il 5,5% del PIL al 4,3%. Anche le esportazioni di armi di Mosca si sono ridotte del 7% tra il quinquennio 2008-12 e quello 2013-17 nonostante i successi ottenuti dalla sua politica estera sia con l’annessione della Crimea sia con l’appoggio al regime di Assad in Siria.

Le sue esportazioni sono dirette solo verso alcuni paesi tradizionalmente legati all’ex Unione Sovietica: negli ultimi due anni ha esportato in India (4.075 milioni), Algeria (2.348), Cina (1.499), Egitto (1.288), Viet Nam (1.167).

La spesa militare della Gran Bretagna segue da presso quella di Francia e Russia. Dopo aver raggiunto un massimo nel 2009 con 58 miliardi, ha segnato una continua riduzione attestandosi negli ultimi anni attorno ai 48 miliardi. Nel decennio 2008-17 essa assomma a 522 miliardi. La spesa rispetto al PIL si è ridotta dal 2,4% del 2009 all’1,8% del 2017. Anche la percentuale rispetto alla spesa mondiale si è ridotta dal 3,7% nel 2008 al 2,7% nel 2017.

Anche la Gran Bretagna esporta soprattutto verso gli Stati sui quali esercita una tradizionale influenza: l’Arabia Saudita, (1.279 milioni nell’ultimo biennio), l’Oman (540), l’India (143).

Il Giappone, che come molti altri Stati si sente minacciato dalla nuova strategia militare “revisionista” della Cina, ha la tendenza al riarmo. Nonostante non abbia ufficialmente un esercito ma solo una “Forza di autodifesa”, dispone della flotta più potente nel Pacifico, seconda solo a quella degli Stati Uniti. Il Giappone è infatti l’ottava potenza a livello mondiale per spesa militare nel decennio 2008-17. Da anni si attesta attorno ai 46 miliardi di dollari all’anno, circa l’1% del PNL, e nel 2017 ha costituito il 2,7 % della spesa militare mondiale. Recentemente il governo giapponese ha tolto gli impedimenti legislativi per le esportazioni di armi all’estero e si prevede che presto il Giappone potrà occupare un posto di primo piano anche come esportatore di sistemi d’arma visto l’alto livello tecnologico delle armi che produce, soprattutto nel settore aereo navale.

La Germania ha sempre tenuto relativamente bassa la spesa militare attestandola all’1,3% del PIL. Nel 1992 era di 54 miliardi, seconda solo a USA e Francia. Nel 2013 è scesa a 39 miliardi per poi risalire a 43, restando però sempre l’1,2% del PIL.

Negli ultimi due anni ha esportato soprattutto in Corea del Sud, (777 milioni), Algeria (613), Italia (560), Qatar (371), Egitto (340), Grecia (275), Indonesia (168), USA (150), Arabia Saudita (118). Nel periodo 2010-17 ha pareggiato la Francia con il 5,8% delle esportazioni mondiali, ma nell’ultimo anno, mentre la Francia è cresciuta al 7% la Germania è scesa al 5,3%.

La Corea del Sud è certamente uno dei paesi nell’occhio del ciclone in questo momento. Dalla fine della guerra civile il Paese è “protetto” da un forte contingente di truppe statunitensi, circa 35.000 uomini; recentemente vi è stato installato un sistema antimissile d’avanguardia, fornito dagli Stati Uniti, il Thaad, con la motivazione di proteggere il Paese da un attacco proveniente dalla Corea del Nord. In realtà quell’apparato consente di controllare i cieli della Cina meridionale e Pechino ha più volte mostrato la sua contrarietà al suo dispiegamento minacciando apertamente ritorsioni.

La Corea del Sud che nel 1992 spendeva 17 miliardi di dollari in armamenti, nel 2008 è arrivata a ben 29, cioè l’1,9% del totale mondiale, conquistando il decimo posto. La sua spesa è poi cresciuta regolarmente fino a raggiungere i 38 miliardi nel 2017, gravando per il 2,6% del PIL e rappresentando il 2,2% della spesa mondiale.

Questi investimenti sono stati dedicati soprattutto al completo rinnovamento della flotta con la sua trasformazione da marina di difesa costiera a navi in grado di difendere le linee di comunicazione marittime del Paese e, in prospettiva, di dotarsi di sottomarini a propulsione atomica.

La Corea nel 2017 risulta all’undicesimo posto tra i Paesi esportatori di armi con 587 milioni, ma le sue esportazioni sono in netto aumento e il suo attivismo nella realizzazione delle nuove navi inciderà positivamente nei prossimi anni anche sulle sue esportazioni. I tre contratti maggiori per la fornitura di navi nel 2017 sono stati quelli verso l’Indonesia (160 milioni), le Filippine (132) e la Gran Bretagna (133); nel 2016 ha venduto all’Iraq sistemi d’arma per ben 427 milioni di dollari.

 

 

 

 

  


Grecia-Macedonia
Egoismi borghesi dietro ridicoli orgogli nazionali utili a stordire i proletari

Dopo 23 anni di contenzioso diplomatico e di molte pagliacciate nazionaliste dalle due parti, di cui ha fatto le spese soprattutto la grande ombra di Alessandro Magno, soggetto di tante statue da far invidia al compianto Stalin, finalmente nel giugno di quest’anno il governo greco a guida Siryza e il nuovo governo macedone, che si autodefiniscono ambedue “di sinistra”, hanno raggiunto un’intesa sulla nuova denominazione della Macedonia, accordandosi, senza troppa fantasia, sul nome di Repubblica della Macedonia del Nord.

La questione sorse quando, alla fine della guerra che ha smembrato la Repubblica Federativa di Jugoslavia, dando origine a diversi Stati, nel 1993 si costituì al confine con la Grecia la Repubblica di Macedonia. Quello Stato fu riconosciuto, con quel nome, da 140 Paesi dell’ONU, tra cui Russia e Stati Uniti, ma non dalla Repubblica di Grecia che dichiarò che il nome di Macedonia poteva appartenere solo alla regione greca che storicamente così si chiama e che comprende Salonicco. Dunque dalla Grecia quel nuovo Paese fu denominato, ugualmente con poca fantasia, FYROM, Former Yugoslav Repubblic of Macedonia.

La cosa non ha avuto solo una valenza nominalistica: la Grecia, membro dell’Unione Europea e della Nato, denunciando le “mene irredentiste” di Skopje, si è successivamente sempre opposta a che la Macedonia fosse integrata nell’UE e anche nella NATO. L’intralcio non era gradito né alla UE né soprattutto agli Stati Uniti, che da anni stanno cercando di rafforzare la loro presenza nei Balcani in funzione antirussa attraverso l’allargamento della Nato.

L’accordo non ha quindi riguardato solo il nome, riconoscendo la Repubblica della Macedonia del Nord la Grecia si è impegnata a non ostacolare la sua integrazione nella Unione Europea e nella NATO, il che è stato accolto con soddisfazione dall’Unione Europa e dall’ONU, presenti alla cerimonia con loro rappresentanti e subito benedetto dal Dipartimento di Stato.

Ma, sia in Macedonia “del Nord” sia in Grecia, non ha mancato di provocare le proteste delle opposizioni di destra, e anche di “sinistra”. In Grecia il partito Nuova Democrazia, di centro-destra, ha espresso la sua netta contrarietà all’accordo, nonostante ne avesse proposto uno molto simile quando era al governo; il partito filo-nazista di Alba dorata ha chiesto addirittura all’esercito di intervenire arrestando il capo del governo e il presidente della Repubblica, colpevoli di alto tradimento. Lo stesso partitino di destra Anel, che con i suoi voti assicura la sopravvivenza del governo Tsipras, ha espresso contrarietà all’accordo (ma ha dichiarato che non farà cadere il governo per questo!).

Al richiamo di questi partiti, e di simili in Macedonia, in varie occasioni decine di migliaia di nullatenenti, non altrimenti mobilitati, sono scesi in piazza inebetiti dal nazionalismo più insensato.

La mossa del governo greco riteniamo sia stata dettata dalla necessità di ottenere in cambio un maggiore sostegno da parte della Nato e dell’Europa nel suo contenzioso con la Turchia nel Mar Egeo, che si sta facendo sempre più impegnativo. Lo testimonia la sua forte spesa militare, che in percentuale sul PIL (2,5%) è la più alta nella NATO dopo quella degli USA: cinque miliardi di dollari annui. Questa funzione di pungolo della Grecia contro la Turchia, che si è manifestata anche attraverso la collaborazione con Israele e con l’Egitto, è sfruttata dalla NATO come uno degli strumenti per contrastare i giri di valzer e le aperture dello Stato turco alla Russia.

Il capitale greco inoltre vorrebbe partecipare alla spartizione del petrolio e del gas del Mediterraneo orientale e sud-orientale, e l’appoggio della NATO sull’ancora aperta questione di Cipro.

Da parte sua il primo ministro turco Erdoğan ha contribuito a gettare petrolio sul fuoco: durante la recente visita ad Atene non ha esitato a chiedere una revisione del Trattato di Losanna, l’accordo con il quale nel 1923 furono definiti i confini della Turchia moderna e divise le isole del Dodecaneso tra Grecia ed Italia (che le aveva conquistate nel 1912 durante la guerra contro l’Impero Ottomano per la conquista della Libia). Il Trattato di Losanna fu riconfermato dal Trattato di pace firmato a Parigi nel 1947 al termine della Seconda Guerra mondiale, assegnando alla sovranità greca buona parte delle isole già appartenute all’Italia, probabilmente tenendo conto della partecipazione della Grecia alla guerra a fianco degli Alleati oltreché del fatto che la grande maggioranza della popolazione delle isole era greca.

Questo atteggiamento “revisionista” della Turchia ha alzato il livello dello scontro tra le due potenze regionali, che puntano sul nazionalismo e sulla politica estera per far dimenticare i gravi problemi sociali al loro interno, dimostra una volta di più che persistendo questo sistema economico basato sullo sfruttamento del lavoro salariato, sulla sopraffazione e sulla forza, nessun governo, si definisca esso di sinistra, operaio, socialista come è il caso di quello greco, può esimersi dal condurre una politica militarista e, in ultima analisi, guerrafondaia.

Ovviamente l’atteggiamento della diplomazia greca nella questione macedone non è piaciuto alla Russia, nonostante i due paesi siano legati storicamente da relazioni di simpatia fin dalla guerra d’indipendenza del 1821, anche a causa dell’influenza della chiesa ortodossa nei due Paesi. Il governo russo ha espresso contrarietà all’accordo e pare abbia cercato anche di ostacolare l’azione della diplomazia ateniese.

Su tutta la faccenda il Partito Comunista Greco (KKE) in un suo comunicato non ha trovato di meglio che condannare l’accordo tra Grecia e Macedonia per il fatto che esso apre la strada all’adesione della Macedonia alla NATO, e dunque al suo rafforzamento nella regione balcanica a scapito della Russia. Se è vero, come afferma il documento del KKE, che «le dichiarazioni del governo greco che questo accordo tende a garantire la pace, la cooperazione e la stabilità nei Balcani e nella regione sono assolutamente false, erronee e antistoriche», è altrettanto vero che la Russia con la sua azione nei Balcani, in Europa Orientale e in Medio oriente sta difendendo i suoi interessi imperialistici proprio come gli Stati Uniti e l’Unione Europea.

Continua il comunicato del KKE: «Il governo Syriza-Anel è diventato il miglior portabandiera dei piani della NATO e dell’UE nella regione, in favore di quelle parti del capitale greco che chiedono maggiori profitti dalla nuova divisione della regione, con la rapina e lo sfruttamento dei popoli». Evidentemente secondo questi pseudo-comunisti ci sarebbero altre “parti del capitale greco” che non vogliono aumentare i loro profitti! Ecco che il KKE si trova a fianco della destra. Ma, schierandosi con l’altro imperialismo, quello del Cremlino, accusa i destri di non opporsi alla NATO e alla UE!

Il proletariato greco come quello di tutta la regione, deve ben guardarsi dallo schierarsi su uno qualunque dei fronti dell’imperialismo. Il proletariato non ha nazione e non ha alleati. Il nazionalismo, l’irredentismo, il patriottismo, il razzismo sono bestie immonde usate dal politicantume borghese nella sua decadenza; sono l’ultimo appiglio di una classe dominante che non ha più niente di progressivo da proporre all’umanità ma solo instillare odio per impedire l’unità del proletariato come classe e per preparare nuove guerre.

Non si combattono contrapponendo ad esse le parole borghesi impotenti ed ipocrite della pace e della fratellanza universale perché sono prodotti necessari del regime del capitale e della sua democrazia: è solo abbattendo questo regime che il proletariato potrà davvero liberare sé stesso e l’umanità intera.

 

 

 

 

 

 

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Importante riunione generale,

Genova - 25-27 maggio 2018
 [RG131]

 

 

Seduta del sabato
Corso dell’economia mondiale
Il riarmarsi degli Stati [ Español ]
 La questione militare:
Il fronte occidentale nel 1916-1917 [resoconto esteso - Español ]
– Il contrattacco italiano dal Piave
La rivoluzione in Ungheria del 1919 [ Español ]
Seduta della domenica
Gli anni venti in Cina e l’indirizzo dell’IC [ Español ]
Resoconto circa la nostra attività sindacale
Rapporto della sezione venezuelana
Il concetto e la pratica di dittatura - Blanqui nella Comune [ Español ]


Come predisposto per tempo, un’ampia rappresentanza delle sezioni e gruppi si è ritrovata per la riunione generale del partito nella nostra bella sede genovese da venerdì 25 a domenica 27 maggio. Erano presenti compagni da Torino, la Francia, il Venezuela, la Gran Bretagna, il Friuli, Cortona, Roma, Bologna, Firenze, Parma.

Questo il molto denso ed articolato ordine dei lavori:
– Venerdì e sabato prima mattina: riunione organizzativa.
– Sabato seconda mattina: Corso dell’economia mondiale.
– Sabato pomeriggio: Il riarmarsi degli Stati; La questione militare, il fronte occidentale nel 1916-1917; La questione militare, il contrattacco italiano dal Piave; La rivoluzione in Ungheria del 1919, prime conclusioni;
– Domenica mattina: Situazione sociale all’inizio degli anni venti in Cina ed indirizzo dell’Internazionale; Resoconto circa la nostra attività sindacale; Rapporto della sezione venezuelana; Il concetto e la pratica di dittatura prima di Marx, Blanqui nella Comune.

Tutti questi difficili studi e relazioni, che non vogliono avere nulla di accademico o di meramente storiografico, sono necessari a dare sostanza e riprova al corpo delle tesi che il nostro movimento comunista ha allineate nel corso ormai di quasi due secoli, sondaggi nel passato che, al contrario, riteniamo premessa necessaria a mantenere il partito un rapporto diretto con le lotte operaie e sociali di oggi, dalle quali, in un complesso reciproco rapportarsi, trae la sua forza e ragione.

È da questo duro lavoro che attendiamo il dispiegarsi, naturale e spontaneo, dal piccolo partito di oggi, del rinato partito mondiale della classe operaia. Questo, come già fu per la Prima Internazionale, avrà un unico fine storico e dichiarato, il comunismo internazionale senza classi e senza Stato politico, ma che, per maturità storica, professerà anche, oltre che una sola dottrina, quella marxista, anche una sola strategia, nota e prevista per le aree a diverso sviluppo nel mondo.

Come nelle tesi: «Pure accettando che il partito abbia un perimetro ristretto, dobbiamo sentire che noi prepariamo il vero partito, sano ed efficiente al tempo stesso, per il periodo storico in cui le infamie del tessuto sociale contemporaneo faranno ritornare le masse insorgenti all’avanguardia della storia».

Al solito, in attesa del loro affinamento, stesura definitiva e pubblicazione, qui anticipiamo le sintesi delle diverse relazioni.


I rapporti di forza tra i maggiori Stati imperialisti nel loro aspetto militare

 Come ogni anno alla nostra riunione generale di primavera commentiamo i dati sulla spesa mondiale in armamenti e sul loro commercio. Ci basiamo sulle serie di dati dello Stockholm International Peace Research Institute, aggiornate ogni anno nel mese di aprile. Questa fonte, che riporta la spesa militare di quasi tutti gli Stati dal 1988, è ad oggi la più completa, coerente ed estesa tra quelle a noi disponibili. In altra parte del giornale riportiamo una sintesi dei dati numerici.

È interesse primario del Partito studiare, insieme all’andamento della crisi economica dei maggiori paesi imperialisti, anche i dati sul riarmo dei vari Stati e blocchi di alleanze, nella convinzione che questo sistema sociale ha un solo modo per uscire dalla crisi che lo attanaglia, una nuova guerra mondiale che distrugga buona parte dei mezzi di produzione e dello stesso proletariato, per poter iniziare un nuovo ciclo produttivo, così come è successo dopo la seconda guerra mondiale.

Recitano le nostre Tesi sulla guerra:
     «Da quando si è entrati nell’epoca dell’imperialismo guerre di usurpazione, di rapina, di brigantaggio da ambo le parti, per la spartizione dei mercati, per una suddivisione e nuova ripartizione delle sfere di influenza del capitale finanziario e conseguente sottomissione di Stati e nazioni alle grandi potenze, sono inevitabili.
     «Potrebbero i governi borghesi e i loro capi impedire la guerra? Essi non hanno la possibilità né di provocarla né di impedirla. Anche ammesso che, personalmente, non vogliano che la guerra scoppi o che non trovino opportuno affrettarla, le loro intenzioni hanno scarso effetto: la oligarchia dell’alto capitalismo che essi rappresentano e da cui dipendono è costretta ad operare nella produzione, nell’industria, nel commercio, nella finanza secondo inesorabili leggi economiche che conducono alla guerra. La guerra non è una “politica” di un certo strato o partito borghese, è una necessità economica».

In verità dopo la fine della Seconda guerra imperialista nel 1945, il mondo non ha mai conosciuto un periodo di pace anche relativa. I due maggiori blocchi imperialisti, gli Stati Uniti d’America e l’Unione Sovietica stalinizzata, si sono scontrati, anche se non direttamente, in conflitti gravissimi con milioni di morti, portando la devastazione in molti Paesi dell’Asia orientale, dell’Africa, del Medio Oriente.

Tutte le belle parole e i bei propositi espressi dalle classi dominanti del mondo intero alla fine di una guerra che avevano voluto, segnata da decine e decine di milioni di vittime e culminata nell’uso di due micidiali, terrificanti bombe atomiche, in pochi anni si sono rivelate solo propaganda mentre le fabbriche di armamenti continuavano con fervore la “corsa agli armamenti”, così contribuendo alla ripresa delle varie economie nazionali.

Già pochi anni dopo la fine del secondo macello mondiale, prendendo atto della cronicità della guerra nel periodo di decadenza del capitalismo, scrivevamo (Neutralità, in “Prometeo”, gennaio-marzo 1949):
     «Per il capitalismo la guerra non è stata fin qui che la valvola di sicurezza alle sue crisi di sviluppo: nell’attuale fase dell’imperialismo, e quindi del suo declino, in quanto esperienza storica di classe che non ha più nulla da dire all’umanità, la guerra ha assunto un carattere di permanenza per cui la pace non è più che una breve tregua d’armi, un momento strategicamente necessario e vitale della guerra che continua».

Negli ultimi anni queste guerre a carattere regionale si sono ancora intensificate aiutando il regime capitalistico a stemperare gli effetti della crisi di sovrapproduzione e allo stesso tempo spingendo ad aumentare la consistenza e l’efficienza degli apparati militari dei principali Paesi.

Le guerre, pur limitate ad alcune regioni del globo, ma sempre più vicine ai centri nodali del regime capitalistico, sono state così numerose e devastanti che dagli stessi borghesi sono definite come una già in atto “terza guerra mondiale a pezzi”. Una nuova guerra incombe sull’intera umanità.

Nessuno può prevedere oggi gli esiti di una guerra generalizzata in cui vengano utilizzate le cosiddette “armi di distruzione di massa” di cui questa società tanto tecnologicamente avanzata quanto umanamente arretrata si è saputa dotare, ma noi comunisti sappiamo che questa guerra potrà essere scongiurata. È la classe proletaria, ed essa sola, che potrà impedirne il deflagrare minacciando prima ed imponendo poi la sua rivoluzione comunista internazionale.

Citando nuovamente dalle nostre tesi:
     «Nell’ambito del modo di produzione capitalistico e con gli strumenti offerti dall’ordine politico che su di esso poggia, la guerra imperialista non può essere evitata. Solo una controforza storica che si opponga a tale ordine (...) quella della classe proletaria guidata dal suo partito, può costituire l’unica possibilità di impedimento (...) A questo fine sarà necessaria una radicata organizzazione nel proletariato e nell’esercito, emanante dal partito di classe esteso ed influente, basato su salde posizioni teoriche, programmatiche, tattiche, unico organismo che possa dirigere la presa proletaria del potere col fine di abbattere la putrida società del capitale (...) Infatti, solo se verrà rasa al suolo la struttura mondiale del potere capitalistico potranno essere risparmiati all’umanità i suoi orrori, primo fra tutti la guerra: in un mondo socialista, in una società non mercantile, non capitalista, non statale, primo vero inizio della storia umana, essa non avrà più ragione di essere».


Questione militare, fronte occidentale 1916-1917

 Il primo relatore riferiva delle manovre sul fronte occidentale negli anni 1916-1917. Il bilancio complessivo delle operazioni al 1916 era leggermente a favore delle forze dell’Intesa. Era fallito il piano tedesco di sbaragliare i francesi a Verdun; neppure l’esercito austroungarico era riuscito a sconfiggere l’italiano e le ripetute offensive russe sul fronte orientale avevano messo in difficoltà gli Imperi centrali.

Tramontava definitivamente il disegno tedesco di una guerra lampo, difficilmente realizzabile tra due schieramenti di queste dimensioni e potenza, che alla fine del 1916 opponevano 425 divisioni dell’Intesa alle 331 avversarie, aumentate ulteriormente nei mesi a venire.

Nelle prime fasi della guerra si erano persi i migliori e più esperti soldati e le nuove leve erano composte da riserve di età adulta e da giovani chiamati alle armi in anticipo, frettolosamente istruiti alle nuove tecniche militari e poco allenati fisicamente. Intanto si diffondevano nelle masse le idee della rivoluzione sociale, nonostante le terribili rappresaglie attuate da tutti i comandi per arrestarne il dilagare.

Ogni piano militare approntato per il 1917 fu scardinato da due importanti avvenimenti: la rivoluzione russa di Febbraio e l’entrata in guerra degli Stati Uniti d’America il 6 aprile.

Il nuovo comando tedesco puntava a sfiancare l’economia del principale avversario, l’Inghilterra, attraverso la guerra sottomarina per impedire l’enorme flusso di rifornimenti dal suo esteso impero e dagli Alleati. Nel solo mese di aprile gli u-boot tedeschi affondarono circa un milione di tonnellate di naviglio mercantile.

L’arruolamento negli Usa su base volontaria fornì un contingente di un milione di uomini, facilmente incrementabile a tre; quella efficiente macchina organizzativa necessitava però di almeno un anno per funzionare a pieno regime, ed era quello il lasso di tempo che restava ai tedeschi.

È all’interno di questa impellente strategia che il 9 aprile 1917, tre giorni dopo la dichiarazione di guerra degli Usa, dalla Svizzera, dopo una complessa e non facile trattativa diplomatica, parte il “vagone piombato” che porterà Lenin a Pietrogrado. Nei piani tedeschi (in questo coincidenti con quelli dei bolscevichi) il suo arrivo avrebbe esasperato le difficoltà o addirittura provocato la disgregazione del nuovo governo provvisorio russo, fedele all’Intesa, costituito dopo l’abdicazione dello zar il 15 marzo, portando alla sperata uscita dalla guerra della Russia.

In questa situazione il comando anglo-francese preparò un’altra potente offensiva tendente allo sfondamento delle linee tedesche, nonostante i pesanti fallimenti delle analoghe precedenti. Nella zona di Arras, dopo cinque giorni di pesanti bombardamenti contro le difese tedesche e scontri aerei iniziò uno “sbarramento mobile” con l’artiglieria che batteva solo un centinaio di metri davanti all’avanzata della fanteria e dei carri armati. Ma questa tattica riuscì solo in pochi casi per le perdite provocate dal fuoco amico e per la difficoltà a procedere dei carri armati e dei cannoni trainati da cavalli nel terreno sconvolto dai bombardamenti e fangoso. Dopo cinque giorni si sospese l’operazione per le gravi perdite e i pochi risultati.

Il 16 aprile iniziò un’altra grande offensiva francese sostenuta da un’azione diversiva nella Champagne utilizzando quasi un milione di soldati con 7.000 mitragliatrici e i primi carri armati francesi. Si risolse in un completo disastro e nessuno degli obiettivi fu raggiunto. Le perdite francesi furono quasi 100.000. Dei 128 carri armati entrati in azione ben 32 furono distrutti solo il primo giorno.

Con quell’ennesimo inutile bagno di sangue crollò il morale dei reparti di prima linea, esplose il risentimento contro la guerra e si intensificarono le sporadiche diserzioni che si trasformarono in veri ammutinamenti. Non bastò la sostituzione del duro generale Nivelle con Pétain, che infine concesse alle truppe periodi di riposo più lunghi, congedi frequenti e rancio migliore.

Il 27 maggio, mentre arrivavano i primi reparti americani in Francia, ben 30.000 soldati di prima linea abbandonarono le trincee sulla strategica via dello Chemin des Dames, teatro di sanguinosi scontri, per portarsi nelle retrovie. Le proteste continuarono ed un reparto si impadronì di un piccolo villaggio delle retrovie e vi nominò un governo pacifista e per una settimana in tutto il settore i soldati si rifiutarono di tornare a combattere.

La repressione dei comandi militari fu subitanea con arresti di massa; le corti marziali condannarono per ammutinamento 23.395 soldati a pene varie tra cui 400 a morte o ai lavori forzati nelle colonie. Pétain poi ridusse a 50 le fucilazioni. Ma durò sei settimane il periodo di crisi nel settore e quando cessò, l’Alto Comando francese si rese conto di non poter più contare completamente sulle truppe le quali non avrebbero più sopportato una nuova offensiva generale ma al più sarebbero state disposte a mantenere la difesa delle loro posizioni.

Il compito dell’offensiva generale passò allora al comando britannico sostenuto da quello americano. A giugno i britannici dettero inizio ad una seconda grande offensiva (seconda battaglia di Ypres). Nel corso di tutto l’anno precedente i genieri britannici avevano scavato sotto le linee tedesche 19 gallerie riempite di 500 tonnellate di esplosivo: fatte saltare contemporaneamente provocarono la morte all’istante di 10.000 tedeschi e diverse migliaia rimasero storditi. Seguì un massiccio bombardamento di 2.266 cannoni che permise di occupare alcuni obiettivi sulle alture e fare migliaia di prigionieri; ma l’offensiva si dovette arrestare il giorno stesso per il terreno fangoso e devastato.

A luglio un’altra grande offensiva britannica (terza battaglia di Ypres) consentì un iniziale avanzamento ma costato ingenti perdite. Le ben guarnite difese tedesche resistevano, l’offensiva da dinamica diventò di puro logoramento convincendo anche i comandanti inglesi dell’impossibilità di sfondare.

Ma, nonostante che le incessanti piogge avessero trasformato tutto in un mare di fango, i comandi continuarono ad ordinare altri inutili attacchi.

Intanto crollava il fronte italiano a Caporetto, che rese necessario inviarvi al più presto rinforzi anglo-francesi.

I britannici apportarono migliorie ai carri per lo sfondamento dei reticolati e ben presto questi sarebbero diventati un’arma strategica d’assalto e non solo tattica nella guerra di trincea.

I tedeschi da parte loro stavano perfezionando la formazione delle Stoßtruppen, battaglioni d’assalto composti dai migliori soldati raggruppati in piccole unità dinamiche con attrezzatura bellica adeguata e particolare addestramento. A loro il compito di risolvere la staticità della guerra di trincea con decise azioni mirate nella terra di nessuno e in determinati punti delle linee avversarie in cui dovevano aprire significativi varchi.

La situazione alla fine del 1917 si chiudeva con l’Intesa in difficoltà: sul fronte occidentale un precario stallo strategico con la Francia in crisi e l’Inghilterra che non riusciva ad ottenere una significativa vittoria; i tedeschi resistevano, anche con le truppe recuperate dal fronte orientale; il governo dei soviet russi aveva iniziato i contatti per un trattato di pace mentre in Italia gli austroungarici erano avanzati fino al Piave.

Era il momento propizio per l’entrata in guerra degli Stati Uniti d’America. Ma l’impiego in battaglia delle truppe americane avverrà solo il 23 febbraio 1918. Il costante flusso degli arrivi porterà il loro totale a 500.000 uomini nel maggio 1918, che raddoppiò nel luglio seguente.

La Germania, dopo la definitiva resa della Russia con il trattato di Brest-Litovsk del 3 marzo 1918, doveva sfruttare la momentanea superiorità numerica per chiudere rapidamente la guerra.

L’offensiva di primavera iniziò con il più devastante bombardamento d’artiglieria di tutta la guerra: 6.400 cannoni, la metà circa di tutti i pezzi d’artiglieria sul fronte occidentale, 3.500 mortai e 730 aerei in alcune ore scagliarono un volume di fuoco sulle linee britanniche da metterle fuori combattimento, permettendo alle truppe d’assalto tedesche di occupare solo nel primo giorno un territorio pari a quello conquistato dai britannici nei 140 giorni della Somme. Nella settimana seguente l’avanzata proseguì di altri 65 chilometri avvicinandosi a Parigi. 90.000 i prigionieri catturati, 1.300 i cannoni, 212.000 i soldati nemici morti o feriti e un’intera armata britannica messa fuori combattimento. Ma anche i tedeschi persero 240.000 tra soldati e ufficiali delle truppe scelte con alcune divisioni ridotte alla metà degli effettivi.

Però la strada verso nord e i porti della Manica non fu aperta. Il 29 aprile si ordinò la sospensione dell’offensiva, che si rivelò un fallimento. A maggio gli Alleati riuscirono a fermare i tedeschi alle porte di Reims e qui finì la lotta contro il tempo dei tedeschi per l’intervento poderoso delle forze americane.

All’alba del’8 agosto in una fitta nebbia gli anglo-francesi più 4 divisioni di fanteria canadese lanciarono un gigantesco e improvviso attacco con l’appoggio di 456 carri armati e blindati. Il fronte tedesco fu sfondato con 6 divisioni distrutte o accerchiate. Ludendorff definì questo “il giorno più nero per l’esercito tedesco” non solo per la perdita di 30.000 soldati più 13.000 prigionieri ma per il crollo del morale delle truppe che si erano arrese in massa e che, come riferì, gridavano agli ufficiali ”fatela finita con la guerra”, e “crumiri” alle riserve inviate in quel giorno al fronte!

Lo scontro tra carri armati degli opposti schieramenti riproponeva la guerra di movimento rispetto alla staticità della guerra di trincea.

In agosto britannici e americani attaccarono sulla Somme e in una settimana fecero ritirare i tedeschi da tutta l’area. A settembre il comando tedesco, vista anche la perdita di 230.000 uomini solo in quel mese, dovette ammettere che il fronte occidentale era prossimo al collasso e la guerra perduta. Il 29 Ludendorff si recò dal Kaiser Guglielmo II per chiedergli di avanzare una proposta di pace allo scopo di evitare una sconfitta militare sul campo. Incolpò della situazione “le idee spartachiste e socialiste che avevano avvelenato l’esercito tedesco”. Il 4 ottobre il nuovo cancelliere von Baden telegrafava a Washington per chiedere un armistizio sulla base dei “Quattordici punti” che il presidente americano Wilson aveva enunciato per la pace e una nuova sistemazione dei confini in Europa.

Il 3 novembre il fronte interno della Germania era in subbuglio e qui si spostò la guerra sociale. Quel giorno, dopo i vari tumulti del 29 e 30 ottobre, l’intera flotta tedesca si ammutinò a Kiel, fermamente opponendosi al piano degli ammiragli di organizzare un’ultima incursione suicida contro le coste britanniche. Quel giorno segnò l’inizio della “Rivoluzione di Novembre”; ed il giorno 6 la rivolta dei marinai si estese alla base navale militare di Wilhelmshaven.

Una nuova offensiva sulle Argonne dette il colpo finale all’esercito tedesco, dissanguato e demotivato con la crisi politica in patria che si rifletteva al fronte.

Ma, nonostante la molto maggior disponibilità di uomini e mezzi e il grande appoggio americano, gli Alleati in questa ultima offensiva non riuscirono a respingere dalla Francia e dal Belgio una Germania che nel frattempo era rimasta sola, dopo che il 30 ottobre l’Impero Ottomano aveva firmato l’armistizio di Mudros con gli Alleati ed il 4 novembre l’Austria-Ungheria aveva capitolato e firmato l’armistizio di Villa Giusti con l’Italia. L’arretramento tedesco non fu mai una rotta disordinata e la Germania non appariva sconfitta sul campo come invece avrebbe voluto il generale americano Pershing, facendo continuare la guerra per almeno una settimana. Molto credibilmente entrarono in gioco considerazioni di stabilità politica in tutta Europa, vista la vittoriosa rivoluzione bolscevica in Russia, i numerosi ammutinamenti su tutti i fronti della guerra, duramente repressi, mentre ora in Germania crollavano le vecchie istituzioni imperiali con la proclamazione della repubblica di Weimar. Si temeva che il vittorioso vento rivoluzionario russo spazzasse via tutti i loro putridi governi borghesi!

In solo questa offensiva “dei 100 giorni” il conto delle perdite alleate fu spaventoso: su un totale di 1.069.000 effettivi, le perdite della Francia furono 531.000, dell’Impero britannico 412.000 e degli Stati Uniti 127.000. Oltre a queste vanno conteggiate quelle di Belgio, Canada, Australia e Portogallo, che avevano truppe nel settore. Queste alte perdite sono dovute all’insistere, dopo 4 anni di guerra, sugli infruttuosi suicidi “attacchi frontali”. Le borghesie temevano il dopoguerra e la crisi della smobilitazione: preferivano che i proletari morissero a milioni piuttosto che ritrovarseli, inquadrati nei sindacati e nel bolscevismo, per le strade delle città in rivolta.

Onerose per la Germania furono le clausole del trattato di Versailles che comprendeva l’accettazione della sua “colpevolezza della guerra”. Le trattative durarono un anno dal 18 gennaio 1919 al 21 gennaio 1920: vi si ridisegnarono nuove frontiere e vi si crearono nuovi Stati, in particolare nell’Europa centrale contro la Russia bolscevica, ed altri degli slavi del sud, per contenere l’espansionismo italiano sulle coste adriatiche.

Da questa guerra l’Inghilterra, pur vincitrice, non uscirà più la prima potenza marittima del mondo, scalzata dagli Stati Uniti.

La guerra aveva anche mostrato il poderoso sviluppo dei sistemi industriali dei paesi belligeranti con la produzione di grandi masse di ogni tipo di sistemi d’arma, naviglio, aerei, apparati di comunicazione e strumentazione varia in continuo miglioramento, produzione possibile con l’utilizzo generalizzato nelle fabbriche del lavoro delle donne che sostituivano gli uomini al fronte.

Le statistiche generali su questa prima guerra mondiale sono tuttora approssimative. Per i militari morti indicano tra i 9 e 12 milioni, di cui quelle degli Alleati si collocano sui 6 milioni. In percentuale: Impero russo 30%; Francia 25%; Impero britannico 16%; Italia 12%; Serbia 8%; Romania 6% Stati Uniti 2% e altri paesi 1%. Gli Imperi Centrali ebbero sui 4 milioni di morti.

Si conviene che i morti civili siano stati tra 6 e 9 milioni, con esclusione di quelli risultanti dalla guerra civile russa e dal genocidio armeno. Fino ad ora le guerre avevano interessato prevalentemente i combattenti mentre ora veniva colpita anche la popolazione civile. Fra civili e militari il totale delle perdite del conflitto si stima a più di 37 milioni: 16 milioni di morti e più di 20 milioni di feriti e mutilati.


Concetto e pratica di dittatura Prima di Marx: Blanqui e la Comune

La guerra franco-prussiana e la sconfitta francese a Sedan del 2 settembre 1870 segnano la fine di Napoleone III e del Secondo Impero. Il 14 agosto un tentativo insurrezionale blanquista non ottiene nessun appoggio e si risolve in un nulla di fatto. Il 4 settembre si forma un governo di difesa nazionale che, il 28 febbraio successivo, chiede l’armistizio. Viene quindi eletta a suffragio universale un’assemblea nazionale a Bordeaux, dove si forma un governo presieduto dall’ex orleanista Thiers. Il 10 maggio, con il trattato di Francoforte, la Francia cede l’Alsazia e una parte della Lorena, e si impegna a pagare una forte indennità. Il 18 gennaio il re di Prussia Guglielmo I era stato proclamato dai principi tedeschi imperatore di una Germania unita.

Sul governo nato il 4 settembre Blanqui scrive sul suo giornale: «Il governo provvisorio non è che una pallida contraffazione dell’impero. A sua volta, teme la rivoluzione più della Prussia, e si premunisce contro Parigi invece di armarsi contro Guglielmo (...) La parola Unità è divenuta l’arma di guerra di tutti i nemici della libertà. Si sappia bene che concordia, per i repubblicani, non significa che asservimento ai controrivoluzionari (...) I nostri padri del ’92 si stringevano intorno a un governo rivoluzionario che calpestava il nemico interno, la monarchia, e faceva sentire la spada al suo complice, l’invasore straniero (...) La repubblica del 1870 non conosce altri nemici che i repubblicani, è in ginocchio davanti agli aristocratici e al clero (...) Cosa ci vengono a dire del ’92, gridando: “Osanna al governo della difesa nazionale!” (...) È aiutato da tutti quei monarchici che urlano: “Viva la repubblica!”, dopo averla sgozzata (...) È la bandiera dei traditori e dei camaleonti».

Il 31 ottobre 1870 c’era stato un tentativo, fallito, di rovesciare il governo di difesa nazionale; per questo Blanqui fu arrestato nel marzo 1871, condannato a morte e poi alla deportazione nell’aprile 1872; tornerà in libertà solo nel giugno 1879. Il suo giornale del 1870 si titolava: “La Patria in pericolo”. La confusione insita in questo titolo non è solo una questione di terminologia: le parole a volte sono pietre. Blanqui in passato si era espresso contro la mitizzazione dei giacobini e della Grande Rivoluzione, riconoscendo i loro limiti e la necessità di andare oltre. Non riuscì però a liberarsene del tutto. Per lui, come già per Robespierre, Babeuf e Buonarroti, Nazione, Patria, Repubblica e Rivoluzione restano sinonimi. La sua posizione sui fatti della Comune non è errata, poiché l’alleanza tentata con la piccola borghesia parigina aveva la sua garanzia nel proletariato in armi in una prospettiva, per quanto confusa, di doppia rivoluzione. Purtroppo il suo parlare di patria e di nazione portava confusione nelle file del proletariato, proprio nel momento in cui era più necessario un indirizzo classista e internazionalista che rompesse con i forti elementi ideologici borghesi che i proletari inevitabilmente si portavano appresso.

Dal riassunto di una relazione tenuta da Lenin a Ginevra nel 1908 leggiamo: «L’idea patriottica risale alla Grande rivoluzione del XVIII secolo; essa dominò le menti dei socialisti della Comune, e Blanqui, per esempio, che fu indubbiamente un rivoluzionario e un ardente fautore del socialismo, non trovò per il suo giornale un titolo più appropriato del grido borghese: La patria è in pericolo! Nell’unione di compiti contraddittori – patriottismo e socialismo – consistette il fatale errore dei socialisti francesi (...) Due errori compromisero i frutti della brillante vittoria. Il proletariato si fermò a metà strada: invece di procedere alla ”espropriazione degli espropriatori”, si lasciò sedurre dai sogni dell’instaurazione di una giustizia superiore in un paese unito da un fine nazionale; non ci si impadronì, per esempio, di istituzioni come la Banca; le teorie dei proudhoniani sul “giusto scambio” ecc. dominavano ancora tra i socialisti. Il secondo errore fu l’eccessiva magnanimità del proletariato: avrebbe dovuto sterminare i suoi nemici, e si sforzò invece di agire moralmente su di essi, trascurò l’importanza delle azioni prettamente militari nella guerra civile e, invece di coronare la propria vittoria a Parigi con un’offensiva molto energica contro Versailles, temporeggiò e diede tempo al governo versagliese di raccogliere le forze reazionarie e di preparare la sanguinosa settimana di maggio».

Il 18 marzo 1871, prima della firma del trattato di pace, quando le truppe prussiane occupavano una parte dei sobborghi di Parigi, scoppiò un’insurrezione popolare, alla cui testa si pose un Comitato Centrale che chiese un’assemblea municipale eletta, con grandi poteri: la Comune. Il governo di Thiers a Versailles, per evitare che le truppe fossero contagiate dalle idee rivoluzionarie, le ritirò da Parigi, che rimase quindi nelle mani degli insorti. Il 26 marzo Blanqui, già agli arresti, viene eletto membro della Comune, insieme a molti suoi sostenitori. La Comune tentò di scambiare tutti i suoi ostaggi con Blanqui, ma la cosa non avvenne: Thiers era ben cosciente del pericolo costituito dal vecchio rivoluzionario. Blanqui verrà amnistiato il 10 giugno 1879; l’anno successivo fonda un giornale dal titolo “Né Dio né Padrone”. Muore il 1° gennaio 1881. Se i blanquisti nella Comune commisero molti errori, è anche vero che Vaillant e Eudes furono convinti, fin dal 18 marzo, della necessità di marciare contro Versailles. Le truppe versagliesi entrarono in città il 21 maggio e il 28, con la settimana di sangue, la Comune era distrutta.

Engels, nell’introduzione all’edizione tedesca del 1891 di “La guerra civile in Francia” di Marx, scrive: «I membri della Comune si dividevano in una maggioranza di blanquisti, i quali avevano predominato anche nel Comitato Centrale della Guardia nazionale, e in una minoranza composta di membri dell’Associazione Internazionale degli Operai, seguaci in prevalenza della scuola socialista di Proudhon. Nella maggioranza i blanquisti allora erano socialisti soltanto per istinto rivoluzionario, proletario; solo pochi erano arrivati a una maggior chiarezza di principi grazie a Vaillant, che conosceva il socialismo scientifico tedesco. Così si comprende come nel campo economico fossero trascurate parecchie cose che la Comune avrebbe dovuto fare secondo le nostre concezioni odierne.

«Certo, la cosa più difficile a capire è il sacro rispetto col quale ci si arrestò riverentemente davanti alle porte della Banca di Francia. Questo fu anche un grave errore politico. La banca in mano alla Comune valeva più di diecimila ostaggi. Significava la pressione di tutta la borghesia francese sul governo di Versailles per spingere alla pace con la Comune. Ma ciò che è ancor più mirabile sono le molte cose giuste che la Comune, composta di blanquisti e proudhoniani, ha compiuto malgrado tutto (...)

«L’ironia della storia volle – come avviene di solito quando dei dottrinari arrivano al potere – che gli uni e gli altri facessero precisamente il contrario di quello che prescriveva la dottrina della loro scuola. Proudhon, il socialista del piccolo contadino e del maestro artigiano, odiava l’associazione di odio positivo (...) Il più importante tra i decreti della Comune ordinava una organizzazione della grande industria e perfino della manifattura, la quale non doveva fondarsi soltanto sull’associazione degli operai in ogni fabbrica, ma doveva anche riunire tutte queste associazioni in una grande federazione; in breve, un’organizzazione la quale, come giustamente dice Marx nella “Guerra civile”, doveva alla fine condurre al comunismo, cioè all’opposto diretto della teoria proudhoniana. E perciò la Comune fu la tomba della scuola socialista proudhoniana (...)

«Né migliore fu la sorte dei blanquisti. Allevati alla scuola della cospirazione, tenuti assieme dalla rigida disciplina a questa corrispondente, essi partivano dall’idea che un numero relativamente piccolo di uomini risoluti e bene organizzati fosse in grado, in un dato momento favorevole, non solo di impadronirsi del potere, ma anche di mantenerlo, spiegando una grande energia, priva d’ogni riguardo, fino a che fosse loro riuscito di trascinare la massa del popolo nella rivoluzione e di raggrupparla intorno alla piccola schiera dei dirigenti. Per questo occorreva prima di tutto l’accentramento più rigoroso, dittatoriale, di ogni potere nelle mani del nuovo governo rivoluzionario. E che cosa fece la Comune, la quale era composta in maggioranza appunto di questi blanquisti? In tutti i suoi proclami ai francesi della provincia essa li chiamò a costituire una libera federazione di tutti i comuni francesi con Parigi; una organizzazione nazionale, che per la prima volta doveva essere creata dalla nazione stessa.

«Proprio l’opprimente potere del precedente governo centralizzato, il potere dell’esercito, della polizia politica, della burocrazia, che Napoleone aveva creato nel 1798 e che da allora in poi ogni nuovo governo aveva accettato come strumento ben gradito e aveva sfruttato contro i suoi avversari, proprio quel potere doveva cadere dappertutto, come già era caduto a Parigi. La Comune dovette riconoscere sin dal principio che la classe operaia, una volta giunta al potere, non può continuare ad amministrare con la vecchia macchina statale; che la classe operaia, per non perdere di nuovo il potere appena conquistato, da una parte deve eliminare tutto il vecchio macchinario repressivo già sfruttato contro di essa, e d’altra parte deve assicurarsi contro i propri deputati e impiegati, dichiarandoli revocabili senza alcuna eccezione e in ogni momento (...) Lo Stato non è in realtà che una macchina per l’oppressione di una classe da parte di un’altra, nella repubblica democratica non meno che nella monarchia; nel migliore dei casi è un male che viene lasciato in eredità al proletariato riuscito vincitore nella lotta per il dominio di classe, i cui lati peggiori il proletariato non potrà fare a meno di amputare subito, nella misura del possibile, come fece la Comune, finché una generazione, cresciuta in condizioni sociali nuove, libere, non sia in grado di scrollarsi dalle spalle tutto il ciarpame statale.

«Il filisteo socialdemocratico recentemente si è sentito preso ancora una volta da salutare terrore sentendo l’espressione: dittatura del proletariato. Ebbene, signori, volete sapere come è questa dittatura? Guardate la Comune di Parigi. Questa fu la dittatura del proletariato».

(Fine del resoconto al prossimo numero)

 

 

 

 

 

Per il sindacato di classe Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale
Per la rinascita del sindacato di classe fuori e contro il sindacalismo di regime. Per unificare le rivendicazioni e le lotte operaie, contro la sottomissione all’interesse nazionale. Per l’affermazione del­l’in­dirizzo del partito comunista negli organi di difesa economica del proletariato, al fine della rivoluzionaria emancipazione dei lavoratori dal capitalismo


La vicenda Embraco chiama alla lotta generalizzata di tutta la classe operaia

 La Embraco è una azienda brasiliana specializzata nella costruzione di motori per frigoriferi, nata nel 1974 si è espansa in vari paesi approdando in Italia nel 1994 acquisendo lo stabilimento di Riva di Chieri in provincia di Torino e cominciando la produzione di prodotti domestici. L’azienda decise di stabilire qui anche la sede centrale di Embraco Europa, che comprende oltre alla fabbrica italiana una controllata, lo stabilimento slovacco fondato nel 1999 e situato a Spisska Nova Vess dove si producono prodotti di refrigerazione di uso commerciale. Embraco è entrata poi a far parte della multinazionale Whirlpool.

Nel corso degli anni questa fabbrica ha passato momenti di crisi e di picchi di lavoro, in un caso o nell’altro sempre sulle spalle dei lavoratori come sempre in questo inumano sistema di produzione: quando c’è lavoro sono costretti a ritmi e condizioni sfiancanti, quando ce n’è poco si licenzia oppure si usano ammortizzatori sociali e contratti di solidarietà che nella stragrande maggioranza dei casi sono l’anticamera al licenziamento.

Alla Embraco sul finire degli anni novanta lavoravano circa 2.200 addetti. Allora, con l’avallo dei sindacati di regime, furono sperimentate turnazioni massacranti per aumentare la produttività e fu concessa una deroga per consentire la turnazione notturna fissa, etc, etc. Negli stessi anni vengono aperti stabilimenti dell’Embraco in Cina e in Slovacchia e, nonostante i sacrifici dei lavoratori dello stabilimento di Riva di Chieri, cominciò un progressivo smantellamento della fabbrica; la chiusura di linee di produzione portò alla cassa integrazione, alla mobilità e ai licenziamenti. Tutto questo perché i sacrifici richiesti non compensavano il vantaggio per l’azienda di spostare la produzione nello stabilimento Slovacco. Uno stillicidio durato 20 anni che ha portato alla situazione attuale, cioè di chiusura dell’azienda.

Ma oggi, alla fine di una estenuante vicenda, i lavoratori della ditta Embraco che, secondo i media nazionali, sarebbero tutti “salvi”. Titoli di quotidiani, telegiornali, istituzioni e sindacati (Fiom e Uilm) entusiasti, soddisfazione da parte della vecchia e della nuova proprietà, e per finire la benedizione del vescovo, hanno esaltato la risoluzione della “controversia” aziendale con un accordo che avrebbe soddisfatto tutti.

Ma è davvero così per i lavoratori? In realtà questa battaglia è stata persa.

L’accordo prevede che i 417 lavoratori rimasti presso lo stabilimento di Riva di Chieri passeranno dal 16 luglio al gruppo israeliano-cinese Ventures, che produrrà robot per pulire pannelli fotovoltaici e, in seguito, sistemi per la depurazione delle acque. Ma «la Ventures – si legge in una nota della Uilm Torino – richiederà 24 mesi di cassa integrazione straordinaria per riorganizzazione aziendale. Nella prima fase i rientri saranno circa 90, saliranno a 280 entro aprile 2019, 330 entro settembre dello stesso anno, 370 entro l’inizio del 2020, per raggiungere la piena ricollocazione entro luglio 2020».

Sempre secondo l’accordo ai lavoratori che si impegnano a firmare il verbale di conciliazione, Embraco corrisponderà il Tfr maturato fino a dicembre 2016 più un bonus economico di 9.000 euro lordi per il periodo di cassa integrazione da luglio a dicembre 2018. Non si capisce bene se il Tfr del 2017 e del 2018 sia incluso nei 9.000 euro, se lo pagherà l’Inps o semplicemente non sarà corrisposto.

La promessa data era una necessità del passato, la parola spezzata è una necessità del presente, così recita un adagio di Niccolò Machiavelli che bisognerebbe sempre tener conto anche nella lotta fra le classi.

La nuova società, di cui nessuno sa nulla perché neo costituita, avrà agevolazioni statali attraverso Invitalia, gestita direttamente dal Ministero della Economia. Che fine faranno questi sodi. Infatti oggi si contesta alla Embraco di aver beneficiato di fondi pubblici e agevolazioni fiscali, con due finanziamenti negli ultimi anni, il primo nel 2004 il secondo nel 2012. Queste accuse sono portate avanti dai più beceri riformisti di sinistra della politica borghese, nonché dai sindacati asserviti al capitale. Ugo Bolognesi, della Fiom di Torino, dichiarò a La Stampa del 27 ottobre 2017: «Noi non ci stiamo. Questa multinazionale ha ricevuto in questi anni molti fondi pubblici per rimanere sul nostro territorio. Il risultato? Dal 2004 siamo passati da 2.000 dipendenti a poco più di 500 e gli investimenti si sono azzerati. Non è giusto». Alle accuse si accoda opportunisticamente anche il belante populismo dall’attuale ministro del Lavoro, Luigi di Maio, che vuole inserire nel Decreto Dignità, multe e restituzioni dei fondi a quelle società che delocalizzano.

I lavoratori non devono lasciarsi illudere da queste manovrette, che vanno in direzione opposta ai reali interessi generali della loro classe. Oggi più che mai la rivendicazione del salario pieno ai disoccupati è di importanza basilare. Ma per ottenerlo è necessaria una determinazione da parte dei lavoratori che porti ad organizzarsi e addestrasi per tempo per non arrivare disuniti ed impreparati nel momento in cui le aziende sono costrette a licenziare. Oggi alla Embraco, come nella stragrande maggioranza dei casi, i lavoratori sono arrivati a questo appuntamento disarmati.

Altro insegnamento da questa vicenda è che sempre più i lavoratori dovranno uscire dall’orizzonte aziendale per la difesa delle proprie condizioni, passando ad una dimensione territoriale e poi nazionale e perfino internazionale dello scontro fra le classi. Oggi sembra impossibile, ma è l’unica strada percorribile.

 

 

 

  


Insegnamenti da una lotta operaia in Venezuela

In Venezuela, a Moròn, nello stato di Carabobo, nella regione costiera centro-settentrionale, negli anni ‘60, sull’onda del boom petrolifero, si è sviluppato un grande polo industriale con grandi aziende nelle quali si è concentrata gran parte della manodopera proveniente anche dagli Stati di Yaracuy e di Falcòn. Attualmente in queste aziende lavorano circa 8.000 lavoratori.

A partire dal 2016 nell’impresa Ferralca si è sviluppata una lotta nelle forme di organizzazione e di battaglia tipiche della classe operaia. Il 2016 e nel 2017 sono stati così ricchi di esperienze, frutto della lotta, nonostante un ambiente politico ostile, dominato non soltanto dalle correnti politiche opportunistiche ma anche dal sindacalismo padronale, disfattista e traditore, che ha fatto di tutto affinché i lavoratori restassero disorganizzati, divisi e sottomessi alla legalità borghese.

Le circostanze e gli eventi di questo periodo hanno confermato la giustezza del nostro indirizzo classista e da questa esperienza è uscita rafforzata la fiducia della classe operaia nella propria lotta e la riscoperta del valore della sua unità espressa in suoi autentici sindacati di classe.

Dal 2015 al 2017 il sindacato aziendale a Ferralca ha partecipato al coordinamento sindacale denominato “Fuerza Laboral del Eje Costero” (FLEC, Forza lavoro dell’asse costiero), formatosi come strumento di solidarietà, appoggio ed unità dei sindacati aziendali della zona di Puerto Cabello, Moròn e Tucacas. In questo fronte i compagni della Ferralca hanno sostenuto una linea classista contrastando le posizioni legalitarie e la tendenza ad impegnare i sindacati nelle elezioni parlamentari, presidenziali ed altre, a favore di candidati “amici”. Ugualmente ci si opponeva alla costituzione di un organismo comprendente esclusivamente rappresentanti ufficiali dei sindacati e che escludesse i semplici lavoratori, e alla politica di mantenere le lotte isolate all’interno di ciascuna impresa e senza rivendicazioni generali che unissero e mobilitassero tutti i lavoratori della regione.

Per quanto ci si sia impegnati in attività notevoli per il loro contenuto classista, non è stato infine possibile dare corpo e stabilità a un organismo unitario di coordinamento della lotta dei lavoratori, organizzato nei luoghi di lavoro attorno a rivendicazioni generali della classe operaia. La FLEC ha subìto un rapido processo di indebolimento, sopravvivendo soltanto con la sua sigla, mentre i sindacati che ne facevano parte sono regrediti a concentrarsi sulle situazioni specifiche nelle rispettive aree “di competenza”, abbandonando ogni iniziativa di lotta, di integrazione sindacale e di agitazione rivendicativa.

Nel 2016 erano venuti a scadere i contratti di lavoro aziendali delle imprese Tripoliven (180 lavoratori), Produven (60) e Ferralca (143). A marzo il sindacato di Ferralca convocò una riunione per definire un’unica piattaforma rivendicativa, arrivando ad un accordo fra i sindacati per avanzare le stesse rivendicazioni: aumento del 100% del salario medio; buono alimentare di 90.000 bolivar; 65 giornate di ferie pagate, con un minimo di 30 giorni usufruiti, indipendentemente dall’anzianità del lavoratore, con giornate aggiunte in base all’anzianità; premio di un minimo di 120 giorni di paga; assicurazione per degenza ospedaliera, operazioni chirurgiche e maternità di 1,5 milioni di bolivar.

Inoltre i compagni della Ferralca hanno proposto di tenere assemblee generali fra i lavoratori delle tre aziende e di accordarsi per azioni congiunte di blocco della produzione e per il coordinamento di azioni al fine di ottenere gli obiettivi prefissati.

Alla Ferralca il sindacato impostò un programma di assemblee permanenti al fine di contrastare le azioni ricattatorie del padrone il quale, con crumiri e delatori, tentava di boicottare le azioni di lotta. Uno di questi tentativi padronali è stato concedere un premio di produzione se i lavoratori rinunciavano al blocco della produzione: attraverso il meccanismo delle assemblee permanenti è stato facile spiegare perché era da rifiutare l’inganno di questa “elargizione”.

In occasione della fiera governativa “Expo Venezuela Potencia”, che si è svolta nel marzo del 2017, un evento in cui gli imprenditori espongono i loro prodotti e concludono affari fra loro e con il governo, il padronato privato ha ottenuto dal chavismo facilitazioni per potenziare l’apparato produttivo, a spese dei lavoratori. Il governo ha concesso crediti in dollari e in euro agli imprenditori, prezzi politici molto bassi per le materie prime di produzione nazionale, esenzione da alcune imposte e la concessione di una dilazione nei pagamenti dei contributi sociali. Ma senza alcun dubbio, la maggiore di queste concessioni è stata quella di semplificare le procedure per i licenziamenti, sia di quelli pendenti sia di quelli da avviare in futuro, e tanto per i lavoratori quanto per i rappresentanti sindacali.

Inoltre, non solo il Ministero del Lavoro ha così favorito economicamente gli imprenditori, ma è stata confermato che sono a loro disposizione i corpi della repressione dello Stato per soffocare ogni tentativo di sciopero e di manifestazione che tentassero di ottenere le autentiche rivendicazioni di classe.

Nonostante ciò i lavoratori di Tripoliven, Produven e Ferralca (denominate “imprese miste” per essere state avviate in origine con capitale azionario parte del settore privato parte del pubblico), hanno mantenuto ferme le richieste originarie e, con alla testa i compagni della Ferralca, a dicembre dello stesso anno, il 2016, hanno organizzato picchetti agli ingressi impedendo l’ingresso e l’uscita delle materie prime e della produzione.

A questo punto il padronato non ha esitato a dare attuazione agli accordi dell’Expo. La Ferralca, centro della mobilitazione operaia, è stata militarizzata. L’impresa è stata occupata nientemeno che dall’esercito, dalla Guardia Nazionale Bolivariana, dal Servizio Bolivariano di Informazione (SEBIN), dalla Direzione di Controspionaggio Militare (DIGECIM), dal Ministero del Lavoro, e altri organismi statali, con il banale pretesto che il solfato di alluminio, prodotto dalla Ferralca, che serve alla potabilizzazione delle acque, è strategico per il paese. La realtà è che l’unificazione delle rivendicazioni e delle azioni portate avanti dai lavoratori di queste tre imprese ha provocato allarme fra i padroni perché trascendevano il piano elettorale, sul quale si svolge la lotta fra il chavismo e l’opposizione, e del sindacalismo opportunista.

Il governo di Maduro, fedele alla classe borghese che rappresenta, fece arrivare dei pacchi alimentari da consegnare quando i lavoratori avessero desistito da quanto deciso nelle loro assemblee. Inoltre furono sollecitati ad organizzarsi in “consigli operai”, o in varie altre organizzazioni controllate dal sindacato di regime, e ad accettare la “ottima proposta” dei premi offerti da Ferralca. La risposta dei lavoratori è stata un netto rifiuto: “si firmi il contratto; noi restiamo con e nel nostro sindacato”.

Per costringere il padrone ad accettare le richieste si decise quindi di andare a uno sciopero senza preavviso e per un giorno senza garanzia dei servizi minimi.

Questo acuì la repressione da parte dei corpi dello Stato che cominciarono a convocare uno per uno i dirigenti del movimento. Il Corpo di Investigazioni Scientifiche, Penali e Criminali (CICPC), l’Ispettorato del Lavoro, il SEBIM e il DIGESIM, interrogavano i compagni e li importunavano nei luoghi di lavoro. Inoltre gli automezzi di questi corpi repressivi sostavano davanti alle abitazioni dei dirigenti sindacali e davanti alla sede del sindacato. Alcuni crumiri, infiltratisi nelle assemblee, facevano registrazioni degli interventi e le consegnavano ai poliziotti.

Intanto la borghesia al governo e la fazione, sempre borghese, che si oppone al chavismo si affrontavano con manifestazioni di piazza, che coinvolgevano anche dei lavoratori, per propagandare, con il favore dei bonzi sindacali, le parole d’ordine che si allontanano sempre più dagli interessi della classe lavoratrice, come la richiesta di elezioni presidenziali anticipate, la liberazione dei prigionieri politici (non si trattava ovviamente di dirigenti sindacali o che fanno riferimento alla classe proletaria), l’apertura di corridoi umanitari, la difesa della patria, ecc.

Queste grandi adunate nelle piazze costrinsero comunque il governo di Nicolas Maduro a portare davanti alle corti marziali i manifestanti: a partire dallo Stato del Carabobo si dette il via a processi sommari davanti alle corti militari, specialmente dopo l’assalto al forte militare di Paramacay. Così le manifestazioni incominciarono a declinare, quando alla fine di giugno 2017 già una trentina di imputati attendevano il processo.

Ma il governo non aveva risolto il problema del fronte di lotta nelle imprese dove erano in discussione i contratti aziendali, come nel caso delle tre imprese miste. Occorreva chiuderli al più presto: si trattava, nelle parole del direttore del SEBIN, di “una situazione diversa” che bisognava trattare “in maniera differente”. Alla Ferralca si è concentrata l’azione repressiva e sono state aperte procedure amministrative e giudiziarie contro tre dirigenti del sindacato con accuse di terrorismo, per avere paralizzato un’impresa strategica, associazione a delinquere, per avere convocato assemblee con i lavoratori di diverse imprese, sabotaggio, tradimento della patria e cospirazione. Il governo intendeva così minacciare i lavoratori che rompevano con l’ordine borghese. Questo risultato a tutta prima l’ha ottenuto: i dirigenti sono stati sospesi dall’impiego e tolti loro tutti i benefici legati alla loro condizione lavorativa; nel frattempo ogni giorno arrivavano nuove citazioni giudiziarie e amministrative. I dirigenti sono stati isolati dal resto dei lavoratori affinché i padroni potessero riprendere il controllo della situazione, rinnovando le stesse minacce a chi si faceva portatore degli stessi metodi dei dirigenti allontanati.

Ciò ha prodotto nell’immediato il ripiego delle forze proletarie, che hanno constatato come i sindacati delle restanti imprese miste dell’Asse Costiero non hanno fatto nulla per difendere i dirigenti sindacali di Ferralca, licenziati, nel migliore dei casi, con metà delle liquidazioni loro spettanti.

Tuttavia alla Ferralca infine è stato firmato il contratto rispettando tutti i punti già concordati insieme ai sindacati di Tripoliven e Produven, mentre i lavoratori di queste ultime due aziende ne hanno avuti soddisfatti soltanto una parte.

Riassumendo il bilancio di questa vertenza è il seguente: dopo un conflitto protratto per 10 mesi con azioni continue; riscoperti i metodi tradizionali di lotta come lo sciopero senza preavviso e le assemblee permanenti; tornati alle assemblee generali senza distinzione di settore o di categoria; dopo aver avanzato rivendicazioni nettamente proletarie come la riduzione della giornata lavorativa, l’aumento generalizzato dei salari, una sola categoria, piano di pensionamento unico per i lavoratori delle tre imprese; dopo aver ottenuto l’unità d’azione fra i sindacati di imprese diverse, si è riusciti a costringere i padroni a discutere e a firmare i contratti collettivi.

Purtroppo è stato disperso il sindacato alla Ferralca, il quale dovrà rinascere domani per tornare a farsi promotore dell’unità e della mobilitazione dei lavoratori.


Per le lotte future

L’abitudine di organizzare assemblee con regolarità, non soltanto per informare ma anche per discutere temi riguardanti tanto l’interno dell’impresa quanto la situazione di altre imprese e di altri paesi è una pratica di grande importanza al fine di elevare il livello di coscienza, la volontà di lotta e di unità dei lavoratori. È molto importante discutere nelle assemblee altre esperienze vicine di lotta affinché i lavoratori possano identificare le posizioni sbagliate, conciliatrici e traditrici. Occorre discutere molto con i lavoratori delle manovre del padrone e delle contromisure per affrontarle. Alla Ferralca si è continuato a discutere e a sostenere i giusti atteggiamenti sindacali anche dopo i licenziamenti, nonostante l’azione di intimidazione di militari e polizia. I lavoratori hanno continuato a reagire affrontando come potevano i militari presenti in fabbrica e hanno continuato ad avanzare le richieste definite dal loro sindacato.

L’unificazione dei lavoratori di più imprese per esigere una piattaforma rivendicativa unica, anche se tali richieste vengono presentate a padroni diversi, è la strada maestra nella lotta rivendicativa e di classe.

Un altro passo da fare è che i sindacati di classe organizzino i lavoratori non per ogni singola impresa, ma su una dimensione territoriale, unendo le lotte dei salariati delle diverse categorie e dei diversi settori dell’industria. L’obiettivo è un sindacato di classe che inizi mettendo insieme i lavoratori di ogni distretto industriale, e anche di categorie non operaie, del commercio, del pubblico impiego, degli alberghi, dell’educazione, del trasporti, ecc.; un sindacato siffatto raggiungerebbe una notevole forza numerica che lo metterebbe in condizioni di affrontare il nemico di classe e il suo governo, presentando piattaforme rivendicative unificate, agevolando le riunioni dei coordinamenti sindacali sulla base dell’appartenenza territoriale.

Il sindacato di Ferralca ha tentato di promuovere questa visione in seno al FLEC (Fronte Lavorativo dell’Asse Costiero), senza tuttavia trovare ancora un’accoglienza positiva, né tanto meno la disponibilità a farla propria da parte degli altri sindacati che ne facevano parte. Nonostante ciò le posizione corrette di lotta sindacale si dovranno imporre per la loro giustezza e la loro evidente necessità pratica.

Nonostante quanto delle lotte fra le fazioni borghesi viene riferito dai mezzi di comunicazione, i fronti politici che lottano per il controllo del governo e del parlamento e che regolarmente chiamano a votare nelle elezioni della democrazia borghese, si uniscono sempre quando si tratta di fermare e di reprimere le lotte dei lavoratori. Nessuno dei partiti dell’opposizione si è pronunciato contro la repressione e i licenziamenti dei dirigenti di Ferralca. Nemmeno i partiti del Polo Patriottico che si è autodenominato “di sinistra”, come il Partito Comunista di Venezuela (PCV) si sono espressi in merito. Con il loro silenzio, tutti questi movimenti, compresa la direzione dei sindacati che in un determinato momento hanno fatto parte della FLEC, hanno avallato l’azione repressiva dello Stato.

Si è dimostrato per l’ennesima volta che il governo, il ministero del lavoro, l’esercito, la polizia e i padroni agiscono in maniera coordinata per frenare e schiacciare le lotte dei lavoratori. A questa azione antioperaia si uniscono tutti i partiti opportunisti e i sindacati traditori e padronali.

Quando i lavoratori sono decisi nella lotta e organizzati, accade di frequente che il padrone utilizzi i crumiri e i lavoratori arretrati che si vendono al padrone per costringere gli altri ad abbandonare la lotta, per fare accettare loro la conciliazione, per ribassare le loro richieste rivendicative e per andare contro le azioni di protesta decise dalle assemblee.

Il movimento operaio deve perseverare nella lotta rivendicativa unitaria, organizzandosi fin dal livello di base, recuperando la pratica delle assemblee, comunicando al di fuori della fabbrica con lavoratori di altre imprese. Si deve riprendere l’arma dello sciopero come principale forma di lotta, senza preavviso e senza servizi minimi.

È da segnalare la necessità di disporre, nella misura del possibile, di quadri sindacali di riserva che colmino l’assenza dei dirigenti allontanati dalla lotta a causa dell’azione repressiva del padrone e del governo. Per questo è importante che ogni lotta possa contare sulla massima partecipazione della base nelle assemblee e nelle varie commissioni in cui si articola e si struttura l’organizzazione sindacale durante le vertenze, perché questo permetterà al movimento di formare nuovi dirigenti che diano continuità all’azione dei lavoratori.

Si deve creare e tenere in funzione un organo informativo, così come meccanismi di diffusione dei conflitti sindacali a livello territoriale, per dare maggiore organizzazione alla risposta operaia di fronte agli attacchi dei padroni e del loro Stato. L’agitazione e la propaganda è attualmente quasi inesistente nei sindacati di regime e in futuro non dovrà dipendere dalla stampa borghese, che non informa o che distorce le informazioni. I lavoratori devono sviluppare la propria propaganda e agitazione.

Il movimento dei lavoratori in Venezuela deve superare la richiesta di incrementi dei Pacchi Alimentari o della Tessera Elettronica di Alimentazione (TEA). Queste due forme di pagamento si sono convertite in rivendicazioni di cui beneficiano più i padroni che i lavoratori. Il movimento operaio deve concentrarsi nell’esigenza di un salario che permetta di pagare i prodotti e i servizi di prima necessità, senza richiedere ore di lavoro straordinario. Il Pacco Alimentare e la TEA permettono al padrone di mantenere salari bassi e ridurre significativamente le prestazioni sociali e le altre provvidenze.

Ogni sindacato deve porre fra le proprie esigenze rivendicative aumenti delle pensioni per vecchiaia e anzianità e dei sussidi ai disoccupati. Riprendendo la lotta rivendicativa e di classe con nuove organizzazioni di lotta economica, veramente classiste e combattive, il proletariato è chiamato a occupare il suo posto nella storia, non soltanto nel reagire di fronte al supersfruttamento capitalista quotidiano, ma, sotto la direzione del suo vero partito comunista, dovrà intraprendere la strada che porta al rovesciamento della borghesia, all’instaurazione della dittatura del proletariato e all’adozione del programma di trasformazione comunista della società.

 

 

 

 

 


La lotta dei portuali in Israele

Da quasi cinque anni dura in Israele, senza alcun risultato, la trattativa sulla riforma dei porti, condotta dal sindacato dei portuali, federato alla confederazione sindacale Histadrut.

Mentre passava il tempo, è avanzata a grandi passi la costruzione di due nuovi porti gestiti da privati, la cui apertura è prevista per il 2021, a lato di quelli già esistenti di Haifa e di Ashdod, che sono di proprietà pubblica. Un investimento di cui la borghesia, nazionale ed estera, vuole servirsi anche per aumentare lo sfruttamento dei portuali.

La riforma dei porti prevederebbe una riduzione dei posti di lavoro, più competizione fra gli scali, una riorganizzazione di piloti, rimorchiatori ed ormeggiatori, il peggioramento delle condizioni salariali, maggiore libertà di licenziamento. Come spesso accade i padroni puntano a sfondare su tutti i fronti, nella speranza di avere successo in almeno alcuni di essi.

Il porto di Ashdod, uno dei settori più strategici per il capitalismo israeliano, ha riportato solo nell’ultimo anno guadagni per oltre i 200 milioni di Shekels israeliani. Ma è anche uno dei centri industriali con il più alto tasso di sindacalizzazione, vicino al 100%.

Il passato mese di aprile, stanchi della interminabile ed inconcludente trattativa, preoccupati dalle voci di anticipazione dell’apertura dei nuovi porti, la pazienza dei lavoratori è finita. Due fattori hanno dato luogo alla classica goccia che ha fatto traboccare il vaso. Il primo è stato la diffusione di una registrazione audio nella quale il segretario della Federazione sindacale dei trasporti – tale Avi Edri – faceva intendere la disponibilità dell’Histadrut a cedere anche se dalla trattativa non risultassero accolte le rivendicazioni del sindacato.

Il secondo è stato un decreto giudiziario emesso dal Tribunale del Lavoro che obbliga i portuali a recuperare determinate quote di quantità ed intensità del lavoro. Durante l’ultima settimana di aprile ed al principio di maggio, infatti, si sarebbe verificato un calo della produttività del 20% rispetto all’analogo periodo dell’anno scorso, un aumento del 39% nel tempo di trattamento della merce che arriva nel porto e quindi una diminuzione dei profitti. Questi dati, prodotti da un ufficio statistico pagato dalle aziende, sono stati presentati come prova di un sabotaggio della produzione da parte dei lavoratori e sulla loro base la Corte ha emesso un giudizio nel quale si sono accusati i portuali di attuare quello che, curiosamente, viene colà chiamato uno “sciopero alla italiana”, cioè un rallentamento volontario dell’attività lavorativa, si intimavano di recuperare la produttività perduta e li si ammoniva a non intraprendere azioni sindacali fintantoché il processo negoziale fosse stato in atto.

Così il 9 maggio, senza alcun preavviso e senza consultare l’Histadrut, i portuali di Ashdod e Haifa, guidati dai capi del loro sindacato di categoria, hanno abbandonato il posto di lavoro in modo organizzato, paralizzando completamente l’attività portuale, senza stabilire un termine allo sciopero e, quindi, calpestando il decreto giudiziario emesso dalla corte.

I padroni, come sempre accade in questi casi, hanno iniziato a strillare, tramite i loro potenti mezzi stampa, del danno all’economia del paese, di quantità enormi di merce danneggiata e irrecuperabile, di astronomiche perdite ogni giorno, di Stato di diritto, democrazia, e dell’Histadrut quale necessario sindacato collaboratore.

La magistratura ha prontamente dichiarato lo sciopero illegale, ordinando ai lavoratori di «interrompere immediatamente l’azione di forza» e intimando all’Histadrut di «applicare la sua forza organizzata per ricondurre i portuali al lavoro». Una preziosa dimostrazione circa la natura di questa confederazione sindacale.

I lavoratori, agendo coi metodi della lotta di classe, autonomamente e contro la volontà dei sindacati venduti al capitale, si sono trovati ad affrontare tutto l’armamentario ideologico e repressivo della classe dominante, che parte dai sindacati collaborazionisti, passa per i mezzi di comunicazione di massa, gli “esperti” della classe media, fino ad arrivare alla repressione bruta, si chiami magistratura, polizia, carcere e, se necessario, esercito.

Il giorno successivo, il 10 maggio, a fronte della prosecuzione dello sciopero il tribunale ha dato mandato alla polizia di cercare ed arrestare i capi del sindacato dei portuali. Il segretario della Federazione sindacale dei trasporti, confederata all’Histadrut, ha dichiarato che i dirigenti ricercati risultavano «introvabili» ma che la confederazione avrebbe per quanto possibile «collaborato con tutti i mezzi disponibili per riuscire ad ottenere un dialogo con loro» (dal giornale on line della Confederazione sindacale Histadrut “Davar Rishon”, dell’11 maggio).

Il potere giudiziario, che anche in Israele è vantato dalla sinistra borghese come un baluardo del mito controrivoluzionario della democrazia, ha mostrato la sua natura scagliandosi contro i lavoratori che hanno osato spezzare la gabbia legale costruita a difesa del borghese regime di sfruttamento, criminalizzando ed attaccando con la repressione la lotta di questi proletari. «Ciò che è accaduto – ha affermato al quotidiano economico borghese “Calcalist” il 13 maggio il giudice Ilan Atikh, vicepresidente del Tribunale Nazionale del Lavoro e firmatario del decreto giudiziario – è qualcosa di impensabile in uno Stato di diritto (...) è una questione non particolare ma d’ordine nazionale (...) è qualcosa che non può passare sotto silenzio». Siamo perfettamente d’accordo con questo eminente esponente del regime borghese. Ma crediamo di poter puntare ancora più in alto e con più precisione: si tratta di una questione di rilevanza non nazionale ma internazionale e, soprattutto, di classe. Che non deve passare sotto silenzio ma essere portata a conoscenza dei lavoratori al di sopra dei confini nazionali.

Che i lavoratori tornino ad utilizzare i metodi della lotta di classe, che oppongano il loro interesse di classe a quello della borghesia, da essa spacciato come generale, è qualcosa di impensabile per ogni regime capitalista, in quanto per esso ormai troppo pericoloso, insostenibile, tale da far subitaneamente cadere la maschera democratica e lasciar intravedere il volto reale della dittatura del capitale.

Il Tribunale Nazionale del Lavoro ha colpito i capi del sindacato dei portuali con multe smisurate dell’ordine di 25 mila Euro ciascuno, ha ordinato alla polizia di cercarli e di consegnare loro l’ordine giudiziario, minacciandoli con il carcere e con l’aumento della multa per ogni ora di prosecuzione dello sciopero.

Dal canto suo l’Histadrut per tutta la durata dello sciopero non ha mosso un dito in aiuto ai portuali, stendendo un cordone sanitario intorno alla loro lotta isolandola per aiutare il regime borghese a sconfiggerla, dimostrando in tal modo ancora una volta la sua natura di sindacato corrotto e venduto al Capitale. L’ha confermato la dichiarazione di un suo dirigente, in sintonia con quelle del magistrato: «Per l’Histadrut lo stato di diritto ed il rispetto della legge sono un principio fondamentale» (“Ynetnews”, 10 maggio), al quale subordinare le condizioni di vita e di lavoro dei proletari, aggiungiamo noi.

L’azione repressiva combinata a quella d’isolamento compiuta dal sindacato di regime israeliano hanno raggiunto lo scopo di soccorrere il padronato in difficoltà e il 12 maggio, dopo tre giorni consecutivi di blocco totale delle attività dei porti ed una manifestazione durata fino a notte inoltrata, con centinaia di lavoratori fuori dal tribunale, lo sciopero è stato sospeso.

Al di sopra di questo esito contingente, il ritorno all’impiego dei metodi di lotta classisti è una vittoria in sé per la classe lavoratrice che ha potuto saggiare come la democrazia sia solo una maschera del dominio politico della borghesia e come la centrale sindacale Histadrut sia un impedimento a delle lotte efficaci, invece che uno strumento utile a questo scopo.

Nei giorni immediatamente successivi i lavoratori hanno chiesto all’Histadrut di proclamare uno sciopero nei limiti di legge, minacciando in caso contrario di uscire dalla Confederazione, ed al segretario della Federazione dei trasporti – il sopracitato Avi Edri – di rassegnare le dimissioni. L’Histadrut, visto che ormai aveva ottenuto il suo reale scopo, ha avviato la procedura per la proclamazione dello sciopero per il 12 giugno, ma il 10 giugno il permesso è stato negato dall’organo statale competente.

Il padronato ha continuato a lamentare il calo della produzione e l’Histadrut, dal canto suo, di essere sull’orlo della perdita del controllo dei lavoratori. Cosa che ci auguriamo accada quanto prima, permettendo la costruzione di un’organizzazione sindacale che non rivendichi, come fanno i vari fantocci del regime capitalista, lo “stato di diritto” e la “legalità” ma l’impiego dei metodi di lotta classisti: scioperi senza preavviso, ad oltranza, senza servizi minimi.

 

 

 

 

 

  


Il SI Cobas e le suggestioni della “politica”

Questi primi due mesi estivi del 2018, giugno e luglio, sono stati di intensa attività sindacale per il SI Cobas, soprattutto nel settore logistico ma non solo. Sul sito del partito, allegata a questa nota, ne diamo una rapida rassegna per rendere merito a questo sindacato che ha organizzato queste lotte e fornire un quadro di massima della combattività operaia nel settore. Abbiamo contato, in due mesi scarsi, 37 giornate di sciopero in altrettanti posti di lavoro, quasi tutte con picchetti e blocco delle merci. E certamente di alcuni scioperi non siamo venuti a conoscenza.

Il SI Cobas ha inoltre promosso sabato 7 luglio una manifestazione nazionale, a Milano, intitolata “Prima gli sfruttati! Contro razzismo e repressione”. Una giusta iniziativa: a fronte della propaganda razzista del regime borghese – nell’alternarsi dei vari attori e burattini al governo – il sindacato risponde:
     – ribadendo la necessità dell’unità della classe operaia, fra lavoratori italiani ed immigrati, e coi lavoratori degli altri paesi, quale unica via per poter contrastare il ribasso dei salari e il peggioramento delle condizioni di lavoro;
     – affermando che il problema per i lavoratori di ogni paese non è respingere gli immigrati ma accoglierli nel sindacato e sviluppare l’unione internazionale e la forza della classe lavoratrice;
     – ammonisce che non basta opporsi al razzismo sul piano dei “valori umani”, attitudine naturalmente meritoria ma insufficiente.

Il SI Cobas, più e meglio d’ogni altro sindacato in Italia, ha saputo mettere in pratica questo indirizzo, organizzando migliaia di operai immigrati, delle più svariate nazionalità, e dirigendone le lotte, quando se ne sono presentate le circostanze, insieme agli operai italiani.

Una manifestazione nazionale contro il razzismo dovrebbe servire a coronare queste fatiche, a marcare il punto a cui è giunto il sindacato, a potenziare queste parole d’ordine. Questo può esser fatto solo attenendosi ai punti sopra enunciati, restando sul terreno sindacale, senza spostarsi su quello dei partiti.

Per la dirigenza del SI Cobas invece non è così. Leggiamo nel comunicato del SI Cobas Nazionale “Sul corteo di Milano, per un fronte anticapitalista”: «La manifestazione di ieri è stata per noi un primo, importante banco di prova cittadino al fine di rilanciare e radicare anche a Milano quella proposta di fronte anticapitalista da noi lanciata a tutte le forze di classe a partire dal corteo nazionale a Roma dello scorso 24 febbraio».

Il giorno successivo la manifestazione, sabato 8, si svolgeva a Bologna un’assemblea nazionale “per la costruzione di un fronte di lotta anticapitalista” che, come scritto nel suo resoconto, è stata convocata «in continuità ideale con l’organizzazione a Roma, il 24 febbraio scorso, della manifestazione, insieme sindacale e politica». Quindi anche la manifestazione del 7 luglio, nelle volontà dei dirigenti del SI Cobas, “insieme sindacale e politica”, doveva servire a far fare un passo in avanti verso il loro obiettivo di fronte unico politico.

Ciò si denota già dal linguaggio usato nella convocazione della manifestazione, oltre che negli interventi dei dirigenti durante il corteo. Invece di richiamarsi all’unità dei lavoratori italiani ed immigrati, hanno preferito la formula più generica di “prima gli sfruttati”: essendo lo scopo della manifestazione non tanto lo sviluppo del sindacato di classe, ma quello di un fronte unico fra partiti; si vorrebbe “unire” il movimento operaio ai cosiddetti “movimenti sociali”, quali quello di lotta per la casa, quelli per le varie questioni ambientali, in futuro certamente quello studentesco, ecc.

Un dato che non deve essere ignorato è che in questi cosiddetti movimenti sociali i soggetti politici – gruppi, partiti, centri sociali – giocano un ruolo diverso e determinante rispetto a quanto accade nel movimento operaio, tanto che per la dirigenza di un sindacato cercare la “unità” coi movimenti sociali significa cercare una alleanza con i gruppi politici a sé affini.

Su questo piano il comportamento delle dirigenze del SI Cobas e dell’USB, e degli altri, è analogo: ciascuna sceglie, nel cosiddetto “movimento”, i gruppi politicamente a sé affini, e con essi promuove manifestazioni di carattere politico, ciascuna del proprio “fronte unico” fra partiti, mescolando gli indirizzi politici ed ideologici con le rivendicazioni sindacali solo per poter, tramite l’organizzazione e il prestigio del sindacato, garantirsi i numeri in piazza.

Più che affermare che questi metodi non sono onesti – il che è vero – a noi preme sottolineare che essi danneggiano lo sviluppo del movimento operaio e del sindacato di classe.

Per questa via si sta delineando una guerra fra sindacati-partiti – SI Cobas contro USB – a colpi di manifestazioni contrapposte, organizzate utilizzando la macchina organizzativa del sindacato: Usb ne ha indetta una il 16 giugno a Roma, agitando l’indirizzo del cartello politico Eurostop, di segno “sovranista”, per l’uscita dall’Unione Europea, dalla moneta unica e dalla NATO. Il SI Cobas ha risposto con la manifestazione del 7 luglio a Milano, anche polemizzando con l’ideologia sovranista.

È vero che ogni lavoratore cosciente detesta il nazionalismo, che oggi chiamano sovranismo. Ma non tutti i lavoratori sono altrettanto coscienti. Il sindacato lo può e deve combattere non sul terreno delle idee astratte, della “civiltà”, della “giustizia”, della “uguaglianza”, che a ben vedere sono concetti borghesi, ma sulla solidarietà pratica, effettiva, nella organizzazione e nella lotta operaia. È una questione di forza e del giusto indirizzo di battaglia, non di morale individuale o di gruppi.

Naturalmente bisogna intendersi: la separazione fra campo sindacale e politico non è assoluta, senza alcun rapporto. Ogni azione sindacale ha un valore politico. Per esempio affermare la necessità dell’unione nel sindacato fra lavoratori italiani ed immigrati e coi lavoratori degli altri paesi è già schierarsi “politicamente” contro ogni governo, quello attuale come quelli passati, e quindi contro l’intero regime borghese, a prescindere dai burattini che si agitano al governo. Ma a fare questa politica, grande politica, è un sindacato, una compagine di lavoratori che nel capitalismo si organizzano per la loro difesa, che sono costretti a farlo e a farlo in un certo modo.

La dirigenza del SI Cobas argomenta che, poiché il partito comunista rivoluzionario oggi non esisterebbe, il sindacato dovrebbe svolgere una funzione di “supplenza” ad esso. È una deviazione antica nel movimento operaio che a forza di volontà dei dirigenti pretenderebbe di dare una accelerata alla storia, ignorando i ruoli determinati sia del sindacato sia del partito, ed i loro necessari rapporti reciproci.

Non qui il luogo per la critica dei gruppi che dovrebbero formare il loro fronte unico politico, affetti tutti da opportunismo.

Un sindacato si giudica solo in parte riguardo all’orientamento politico della sua dirigenza, ma principalmente a come lo vedono e considerano gli operai, al suo seguito quantitativo, oltre che alla qualità della sua azione. Consideriamo l’indirizzo sindacale del SI Cobas più corretto rispetto a quello dell’Usb. Ma non per questo riteniamo che la strada da seguire sia quella della guerra a morte fra i due sindacati, e noi schierarci per il prevalere dell’uno sull’altro.

Non sappiamo come negli anni a venire maturerà la lotta e la riorganizzazione della classe operaia in Italia, se con una fusione dei diversi sindacati di base oggi esistenti o coll’imporsi di uno sugli altri o con la nascita di un nuovo organismo. Per adesso la strada che ancora la situazione impone è continuare a battersi in tutti i sindacati affinché al loro interno si affermi il corretto indirizzo classista. Ciò non vale per tutti i sindacati ma solo per quelli nei quali questo è praticamente possibile. Ad esempio, dalla fine degli anni settanta abbiamo ritenuto questa via preclusa per la Cgil.

L’unità d’azione del sindacalismo di base è una condizione più favorevole alla lotta per l’affermazione del sindacalismo autenticamente classista. Al contrario la guerricciuola fra sindacati fa buon gioco alle dirigenze con gli indirizzi sindacali più retrivi, che campano sulla debolezza del movimento di lotta.

I circa 10 mila organizzati del SI Cobas sono una forza di cui andare certamente orgogliosi. Ma è al complesso della classe operaia che si deve guardare: la prevalenza di lavoratori immigrati può costituire una negativa caratterizzazione settoriale rispetto al resto dei lavoratori. Persistere a rappresentare il SI Cobas in senso di partito “comunista” impone un ostacolo al superamento della sua condizione di marginalità perché viene a rafforzare il muro di diffidenza che già i lavoratori oggi hanno per la loro debolezza sindacale e per la loro arretratezza politica, certo risultato del lavoro infame compiuto dai sindacati di regime.


Riportiamo qui un elenco degli scioperi diretti dal SI Cobas dal 28 maggio al 30 luglio

Lunedì 28 maggio: sciopero provinciale a Modena in occasione dell’udienza del processo al coordinatore nazionale del sindacato nel tribunale della città.

Martedì 29 maggio: al nono giorno di sciopero (non consecutivo) presso le Ceramica Opera, a Modena, un crumiro esce dalla fabbrica puntando una pistola contro gli operai in sciopero. Il 7 maggio il picchetto era stato attaccato dalle forze dell’ordine con manganelli e gas lacrimogeni. Lo sciopero è contro il licenziamento ritorsivo del delegato del SI Cobas.

Lunedì 4 giugno: dalle 5 del mattino sciopero presso lo stabilimento XPO di Trezzano sul Naviglio (Milano) contro il licenziamento di due lavoratori iscritti al SI Cobas, uno dipendente diretto ed uno di una cooperativa. Alle 10,30 lo sciopero è interrotto ed il picchetto che bloccava i camion è sciolto visto l’impegno della controparte padronale ad un incontro il martedì successivo in prefettura.

Martedì 5 giugno: dalle 7 del mattino sciopero dei lavoratori della Immigration Point Srls presso la ditta “Da Gigi il salumificio” a Castel Rangone (Modena) contro l’inquadramento degli operai come apprendisti nonostante lavorino in quella fabbrica da circa 14 anni. Picchettano e lottano insieme operai immigrati ed italiani.

Giovedì 7 giugno
     - dalle 7 del mattino sciopero presso lo stabilimento EmilCeramica di Fiorano Modenese (Modena). Qui, diversamente dalla maggioranza dei posti di lavoro dove il SI Cobas organizza gruppi di lavoratori, la gran parte degli operai organizzati sono italiani;
     - sciopero presso i magazzini TNT di Orbassano (Torino) e Alessandria. Fra le rivendicazioni quella di un contratto unico per i i lavoratori di entrambe le filiali.

Venerdì 8 giugno:
     - secondo giorno di sciopero presso la EmilCeramiche;
     - secondo giorno di sciopero nei magazzini TNT di Orbassano e Alessandria;
     - sciopero degli operai metalmeccanici presso le aziende del gruppo GM Cataforesi e Carrozzeria Nuova GM di Camposanto (Modena), dove il SI Cobas, con oltre 50 iscritti, è il primo sindacato, contro la condotta antisindacale dell’azienda e i reiterati rinnovi dei contratti a tempo determinato oltre i limiti di legge.

Mercoledì 13 giugno: sciopero degli operai della Tutto Servizi, in appalto presso la tintoria GM Industry di Prato, contro il licenziamento di 4 iscritti al SI Cobas e la mancata applicazione del contratto nazionale di settore. In circa quaranta picchettano lo stabilimento. Lo sciopero si conclude con il ritiro dei licenziamenti e la programmazione di un incontro per discutere delle questioni contrattuali.

Giovedì 14 giugno: nuova giornata di sciopero alla XPO di Trezzano sul Naviglio (Milano).

Venerdì 15 giugno: sciopero presso la TNT di Bergamo.

Lunedì 18 giugno: scioperi nella provincia di Brescia in solidarietà coi circa trenta lavoratori del magazzino Penny Market di Desenzano del Garda a processo per gli scontri avvenuti durante lo sciopero del gennaio 2016, quando la forza pubblica aggredì il picchetto. Fermano l’attività i lavoratori di Fercam, Bartolini, Susa, Arco Spedizioni, Zust Ambrosetti, TNT, GLS, UPS, SDA.

Martedì 19 giugno: sciopero presso i magazzini ortofrutticoli Conor di Bologna dei lavoratori di una cooperativa aderente alla Legacoop contro i licenziamenti di iscritti al SI Cobas. Durante lo sciopero la polizia attacca e sgombera il picchetto e trae in arresto il Coordinatore provinciale del SI Cobas di Bologna e un lavoratore. Entrambi saranno poi rilasciati dopo alcune ore durante le quali gli scioperanti presidiano la questura.

Venerdì 22 giugno: terza giornata di sciopero alla XPO di Trezzano sul Naviglio (Milano).

Lunedì 25 giugno:
     - sciopero interno (cosiddetto sciopero bianco) nel magazzino XPO di Le Mose (Piacenza);
     - sciopero presso lo stabilimento Ceva di Stradella (Pavia) per la mancata erogazione degli stipendi.

Mercoledì 27 giugno:
     - sciopero presso il magazzino UPS a Lippo di Calderara (Bologna) che termina con l’impegno, per iscritto, da parte della cooperativa che gestisce un appalto all’interno del magazzino, di riconoscere le rivendicazioni dei lavoratori in un accordo che verrà firmato il 9 luglio presso la sede del SI Cobas di Bologna;
     - sciopero presso il magazzino di Logista Italia (Manifattura Tabacchi) all’interporto di Bentivoglio (Bologna) contro 24 licenziamenti. Anche qui scioperano insieme lavoratori italiani ed immigrati. Il picchetto è rinforzato da iscritti al SI Cobas di altri magazzini dell’interporto.

Giovedì 28 giugno:
     - sciopero nei magazzini XPO di Trezzano sul Naviglio (Milano) e Pontenure (Piacenza);
     - prosegue a oltranza lo sciopero nell’appalto Logista all’interporto di Bologna.

Venerdì 29 giugno: il picchetto all’interporto di Bologna per lo sciopero dei lavoratori nell’appalto Logista è attaccato da polizia e carabinieri. I lavoratori oppongono una robusta resistenza. Uno è ferito ed arrestato. La Filt CGIL si schiera contro lo sciopero: «La FILT CGIL di Bologna esprime la propria preoccupazione per la deriva violenta culminata negli scontri della giornata di ieri, e riteniamo assolutamente irresponsabile la condotta del sindacato SI Cobas» (comunicato del 30 giugno).

Sabato 30 giugno: il SI Cobas firma un importante accordo per i 400 operai del Magazzino Leroy Merlin di Castel San Giovanni (Piacenza). I lavoratori saranno inizialmente assunti dal Consorzio Ucsa ma già da settembre inizierà il percorso di assunzione diretta da parte della committente (Leroy Merlin appunto), quindi il superamento del sistema degli appalti.

Domenica 1 luglio:
     - alle 22 ritornano in sciopero i lavoratori dei magazzini ortofrutticoli Conor di Bologna. Il picchetto blocca i camion fino al pomeriggio del giorno successivo;
     - prosegue lo sciopero alla Logista all’interporto di Bentivoglio (Bologna);
     - sciopero spontaneo dei lavoratori di Rca, società per cui lavorano la maggioranza delle maestranze nel nuovo polo logistico GLS a Modena. Si uniscono allo sciopero in solidarietà facchini ed autisti della Palmeri, altra società che lavora in appalto per la GLS nel medesimo magazzino. Di questi ultimi, tre vengono licenziati.

Lunedì 2 luglio: inizia la trattativa in prefettura a Bologna per lo sciopero alla Logista Italia.

Martedì 3 luglio:
     - sciopero ai magazzini Zara di Reggello (Firenze) contro il licenziamento ritorsivo di un iscritto al SI Cobas e per il raggiungimento di un accordo con la nuova società appaltatrice subentrante nel magazzino. I lavoratori, una cinquantina in maggioranza pakistani, avevano già scioperato il 19 aprile ed il 3 maggio, picchettando il magazzino e manifestando dinanzi al negozio Zara in centro a Firenze, e un accordo era stato raggiunto il 7 maggio. Lo sciopero ottiene l’impegno della nuova cooperativa a riassumere tutti i lavoratori, stabilizzare a tempo indeterminato i facchini ancora con contratti a tempo determinato e a riassumere il lavoratore licenziato.
     - alle 23 inizio uno sciopero presso il magazzino Bartolini di Pisa.

Giovedì 5 luglio: dalle 14 sciopero presso il Salumificio Bellantani a Modena. Il blocco dei camion durerà fino al metà della giornata successiva.

Lunedì 9 luglio: sciopero al magazzino tessile (taglio dei tessuti) DS di Zhang Xiangguo di Montemurlo (Prato).

Giovedì 12 luglio: sciopero dei lavoratori di Hera a Modena.

Venerdì 13 luglio:
     - dopo circa una settimana di trattativa in prefettura a Bologna, con tavoli separati e comuni con la Filt Cgil, è raggiunto un accordo per i 24 lavoratori impiegati nell’appalto Logista Italia (Manifattura Tabacchi) all’interporto di Bentivoglio (Bologna), che il SI Cobas valuta positivamente. Il giudizio dei lavoratori sullo sciopero durato una settimana e sulla trattativa è indicato dal passaggio di vari iscritti della Cgil al SI Cobas;
     - ha invece esito negativo la trattativa per i due licenziati iscritti al SI Cobas alla XPO di Trezzano sul Naviglio (Milano).

Domenica 15 luglio: alle 21 inizia lo sciopero di autisti e facchini alla Lc3 di Piacenza.

Lunedì 16 luglio: sciopero delle lavoratrici della cooperativa Giaele presso lo stabilimento Violetta Cosmetics di Crema (Cremona) per effettuare l’assemblea sindacale negata dall’azienda.

Martedì 17 luglio: primo sciopero nel nuovo polo logistico della GLS a Modena organizzato dal SI Cobas, con rivendicazioni contrattuali e per il ritiro dei licenziamenti dei tre lavoratori della Palmeri.

Lunedì 23 luglio: dalla notte sciopero presso il Panificio Toscano a Prato che fornisce il pane alla cosiddetta grande distribuzione (supermercati Coop, Pam e Carrefour). Il picchetto dura fino a mattina ed ottiene un incontro in prefettura per il giorno successivo. Questo sciopero, quelli alla tintoria GM Industry di Prato, al magazzino Zara di Reggello (Firenze), alla Bartolini di Pisa e al magazzino tessile (taglio dei tessuti) DS di Zhang Xiangguo di Montemurlo (Prato) segnano l’insediamento del SI Cobas in Toscana.

Martedì 24 luglio:
     - dalle 4 di notte sciopero presso la ditta Bellentani Vignole (Modena) contro la mancata corresponsione del TFR, ad otto mesi dal cambio di appalto;
     - dalle 18 sciopero presso i principali centri logistici (hub) di UPS nel Nord Italia – Brescia, Bergamo, Mecenate (Milano), Bologna – contro la minaccia di licenziamento per 40 autisti (driver) della SDA di Bergamo. UPS, che si appoggiava alla SDA, impiegando allo scopo questi 40 lavoratori, per la distribuzione di parte della sua merce nella zona, decide di passare alla distribuzione in proprio. Il SI Cobas decide di bloccare UPS affinché assuma almeno parte dei driver della SDA rimasti senza lavoro. Contemporaneamente apre la vertenza con SDA e scendono in sciopero i lavoratori dell’hub SDA di Sala Bolognese (Bologna).

Giovedì 26 luglio: dalla mattina sciopero nei magazzini CEVA di Stradella (Piacenza) e Lazzate (Monza). Arrestati i vertici del consorzio cooperativo che gestisce il personale, i lavoratori e le lavoratrici sono minacciati di restare senza stipendio.

Sabato 28 luglio: manifestazione provinciale a Camposanto (Modena) a sostegno della lotta presso le industrie metalmeccaniche GM dove i 50 iscritti al SI Cobas sono minacciati di licenziamento ritorsivo.

Lunedì 30 luglio: quarto giorno di sciopero ad oltranza al magazzino CEVA di Stradella (Piacenza). Il magazzino è presidiato da un centinaio di lavoratori in picchetto organizzati dal SI Cobas, le cui bandiere sono issate su tutta la struttura. Un sindacalista della Cgil è cacciato via dai lavoratori al grido di “venduto”. È spalleggiato dalle forze dell’ordine – che data la forza del picchetto restano per ora a guardare – e da un gruppo di lavoratori di un’altra cooperativa, con condizioni contrattuali peggiori, che si vorrebbe far lavorare al posto degli scioperanti.

 

 

 

 

  


Il duro sciopero dei camionisti in Brasile e la difesa social-democratica dell’interesse nazionale

È iniziato il 21 maggio lo sciopero ad oltranza dei camionisti contro l’aumento del prezzo del gasolio ed oggi 11 giugno, non è ancora finito. Le trattative si sono interrotte.

Buona parte dei camionisti in sciopero sono proprietari del mezzo, oppure sono associati in compagnie di trasporto: assumono quindi la doppia figura di lavoratori e di piccoli capitalisti. Del resto anche il proprietario spesso attraversa le medesime difficoltà e traversie degli altri lavoratori, ma i suoi interessi immediati sono in parte allineati con quelli della classe capitalista. Questo fattore si è manifestato nella iniziale collaborazione fra camionisti proprietari e sindacato degli autisti salariati. Questa fluidità di posizioni ed alleanze è una caratteristica di ogni movimento piccolo borghese.

Una classe operaia forte, ben inquadrata nei suoi sindacati di soli lavoratori salariati e diretta sulle sue proprie ed esclusive rivendicazioni, saprà portare dalla sua parte tutti i movimenti sociali degli sfruttati oppressi dal capitalismo ed ancora in via di proletarizzazione.

Lo sciopero ha determinato uno scontro fra diversi settori della borghesia, da un lato i sostenitori dell’attuale governo, dall’altro gli industriali del ramo dei trasporti e gli investitori internazionali.

La lotta dei camionisti è stata seguita dalla dichiarazione di uno sciopero di 72 ore dei lavoratori petroliferi, che si sono associati alla richiesta di riduzione del prezzo del carburante oltre ad esigere le dimissioni del presidente di Petrobras, l’azienda d’estrazione e raffinazione del petrolio a maggioranza di proprietà statale. Ne è seguita una piccola ondata di scioperi che ha visto unirsi e scendere in lotta anche gli insegnanti di Belo Horizonte e Sao Paolo e i macchinisti delle metropolitane.

È nell’ambito di queste lotte sindacali che possiamo meglio verificare le posizioni opportuniste dei socialdemocratici e dei sedicenti marxisti. La dirigenza del Partito dei Lavoratori (Partido dos Trabalhadores, PT) ha dichiarato il sostengo agli scioperi ma al solo scopo elettorale, in opposizione al governo di destra di Temer; infatti i sindacati diretti dai socialdemocratici non hanno esteso le mobilitazioni né tanto meno hanno chiamato ad uno sciopero generale.

Né i sedicenti marxisti hanno agito in modo sostanzialmente differente. Anche il Partito Comunista Brasiliano ha offerto il proprio sostegno, ma non per riorganizzare la classe e la lotta di classe bensì in difesa delle “nostre aziende”, dell’interesse nazionale, cioè della “nostra” dittatura borghese, e in nome della vecchia menzogna del “fronte unico” fra partiti.

Quindi, invece di raccogliere l’opportunità di questi scioperi per affermare le posizioni rivoluzionarie, assistiamo al ripetersi dei rappresentanti socialdemocratici e sedicenti comunisti in difesa della democrazia, delle aziende nazionali, dell’interesse nazionale e degli altri feticci della sinistra del capitale.

È in questa sostituzione della lotta di classe con la difesa di un “fronte unico” e della stabilità democratica che possiamo chiaramente vedere come l’impegno di costoro non sia al fianco del proletariato e della rivoluzione proletaria ma per la legittimazione della dittatura borghese sotto la quale viviamo.

Questa ondata di scioperi conferma la necessità di una risposta operaia ai continui attacchi della borghesia. Occorre organizzare un fronte unico dal basso, sindacale, per la lotta in difesa degli interessi immediati dei lavoratori, unendo i comitati di sciopero e i militanti sindacali combattivi, che rigetti il collaborazionismo sindacale ed affermi di voler costituire un vero sindacato di classe.

La lotta di classe non può essere diretta da vecchi o nuovi partiti elettorali ma solo da una organizzazione che sappia condurre la lotta economica dei lavoratori, rafforzandola fino a farla assurgere al livello politico della rivoluzione. Questo è il compito del Partito Comunista Internazionale.

 

 

 

 

 

 


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In Iraq-Iran-Giordania potrebbe esplodere il dopoguerra sociale

Il festival internazionale dei fiori di Damasco nella seconda metà di luglio è stata un’occasione per il regime siriano di cantare vittoria, ribadire che la guerra in gran parte della Siria è finita e che la vita può tornare alla normalità. Dopo sette anni di guerra sono tornati gli stand espositivi di altri paesi, anche se per ora soltanto di Iraq e Bulgaria!

Effettivamente se andiamo a vedere la situazione militare sul campo, nella primavera scorsa, a seguito di una lunga e cruenta offensiva, le forze fedeli al regime erano riuscite a debellare le ultime sacche di resistenza dei ribelli nei sobborghi della capitale. Successivamente i miliziani non disposti ad accettare il piano di “pacificazione” del governo erano stati fatti evacuare in direzione della città di Daraa, ultimo baluardo dell’opposizione armata ai confini della Giordania. Ma, una volta assicurato il controllo delle retrovie, l’esercito siriano lanciava un’ulteriore offensiva che il 12 luglio scorso sfociava nella riconquista di Daraa. Sempre entro la prima metà di luglio, dell’autostrada che attraversa tutto il paese da Damasco ad Aleppo veniva riaperto il tratto dal valico di frontiera di Nasib fino alla periferia nord di Hama. Infine il 22 luglio, con l’evacuazione delle ultime forze ribelli da Quneitra, nei pressi del confine con Israele nel Golan, il Sud del paese può considerarsi completamente sotto il controllo del governo.

Questo ultimo episodio ha visto il coinvolgimento diretto delle forze armate israeliane che hanno evacuato circa 800 “caschi bianchi”, una sorta di “difesa civile” attiva nelle zone controllate dai ribelli, la quale nei suoi comunicati presentava gli accadimenti dal punto di vista delle forze ribelli e dei loro padrini imperialisti.

L’intervento si inscrive in un accordo fra lo stesso Stato d’Israele e la Russia, che del regime siriano è il principale protettore. I termini dell’intesa prevedono l’istituzione di una zona cuscinetto al confine fra la Siria e Israele divisa in tre fasce: oltre dieci chilometri di “terra di nessuno” completamente smilitarizzati, addentrandosi in territorio siriano in una seconda striscia saranno dislocati 350 carri armati e 3.000 soldati di Damasco equipaggiati con armi leggere; infine in una terza fascia verranno dispiegati 650 carri armati e 450 uomini. Complessivamente questa zona si estende per 100 chilometri all’interno del territorio siriano. Scopo di questo accordo è evitare che gli Hezbollah e le altre milizie sciite legate all’Iran possano premere ai confini dello Stato d’Israele.

Vi si vede la disinvoltura con cui la Russia è disposta a contenere l’Iran, il suo alleato occasionale nella guerra in Siria, pur di mantenere un alto livello di interlocuzione con il governo israeliano. Infatti i rapporti fra Mosca e Teheran non sono così idilliaci come sembrano agli occhi di osservatori superficiali, oppure influenzati da schemi geopolitici “campisti” o “euroasiatici”. Di fatto l’aviazione israeliana durante gli ultimi anni ha effettuato oltre 120 raid contro obiettivi iraniani o dei loro alleati in territorio siriano senza che le forze russe ivi dislocate muovessero un dito.

Ma c’è dell’altro: se l’accordo da una parte riceve il placet dell’amministrazione statunitense e se Usa e Giordania hanno preso atto della sconfitta delle milizie ribelli da loro sostenute ad opera delle truppe di Damasco e dei suoi alleati, questo significa che Washington sta delegando a Mosca una parte del ruolo di mediazione nell’area mediorientale.

Ma c’è altro ancora. Mosca ha raggiunto importanti intese economiche col governo di Damasco, che di fatto piazzano la Russia in prima fila nel grande affare della ricostruzione della Siria e dello sfruttamento delle risorse naturali del paese: un quarto del petrolio estratto nelle zone riconquistate ai ribelli andrà ai russi, relegando in un ruolo di secondo piano l’Iran, e forse invertendo la tendenza alla crescita dell’influenza iraniana sull’economia siriana.

Durante la guerra l’interscambio commerciale fa Iran e Siria si è moltiplicato per tre passando dai 360 miliardi di dollari del 2010 agli 870 del 2014, compagnie iraniane hanno avuto importanti concessioni per lo sfruttamento dei fosfati, mentre secondo alcuni osservatori la Siria avrebbe contratto debiti con l’Iran per 35 miliardi di dollari in aiuti bellici, che potrebbero trasformarsi almeno in parte in colossali acquisizioni nel settore immobiliare. Dunque, come accade spesso a conclusione di una guerra borghese, la lotta per la spartizione del bottino pone in urto gli ex alleati e anche in questo caso ci sono tutte le premesse di nuove tensioni economiche e dunque anche politiche fra Russia e Iran.

Ma la gestione del dopoguerra deve fare i conti anche con l’esplosione di nuove tensioni sociali in almeno tre paesi, Iran, Iraq e Giordania, che sono stati coinvolti in diversa misura nel conflitto siriano.

In Giordania ai primi di giugno un movimento di massa ha scosso la capitale Amman. In decine di migliaia sono scesi in piazza per protestare contro una manovra economica governativa finalizzata ad ottenere l’apertura di nuove linee di credito da parte del Fondo Monetario Internazionale. Le misure adottate dal governo prevedevano la fine delle sovvenzioni statali per calmierare i prezzi e l’introduzione di 165 nuove accise su altrettanti prodotti, fra cui anche i prodotti energetici, col risultato di un aumento del 20 per cento dei prezzi. In seguito a una settimana di proteste e di scontri fra manifestanti e agenti in tenuta antisommossa il premier giordano ha rassegnato le dimissioni. Il fatto che gli scontri di piazza non siano sfociati tuttavia in nuove stragi, come avviene di solito nei paesi dell’area, deve fare pensare che la borghesia giordana sia consapevole dei rischi che correrebbe se affidasse la tenuta del regime sociale soltanto alla bruta repressione.

La maniera “blanda” in cui sono intervenute le forze di polizia ha suscitato l’ironico commento del quotidiano israeliano Haaretz, di orientamento ostile al governo guidato Benjamin Netanyahu, il quale ha scritto che oramai la Giordania è “l’unica democrazia del Medio Oriente”. Evidentemente la sinistra dello schieramento politico borghese in Israele è consapevole anch’essa della deriva apertamente fascista del governo di Gerusalemme e, pacifista com’è, dei pericoli di una politica fondata solo sul ricorrente massacro di decine di palestinesi alla frontiera con Gaza.

In Iran agli inizi di giugno uno sciopero degli autotrasportatori ha paralizzato gran parte del traffico delle merci in molte aree del paese. Al centro delle richieste dei lavoratori erano forti aumenti salariali. La crisi economica si aggrava anche in seguito alla rottura dell’accordo sul nucleare iraniano voluta da Trump e dallo spettro del ritorno delle sanzioni. Sempre a giugno violente proteste si sono svolte nel Sud-Est del paese, in particolare nella città di Khorramshahr, dove a causa della penuria d’acqua si sono verificati scontri e sparatorie. Intanto fratture significative si registrano anche nel rapporto fra il regime e alcuni settori della piccola e media borghesia. Il carovita, determinato anche dalla forte svalutazione della moneta nazionale, il rial, che ha perso in un anno oltre il 35 per cento nei confronti del dollaro, ha spinto i commercianti del gran bazar di Teheran a una serrata di tre giorni. Evidentemente il “sovranismo monetario” non è una panacea e la crisi economica va avanti indipendentemente dalle scelte dei governi. Se le richieste al governo iraniano da parte dei bazari, così si chiamano i commercianti del gran bazar, erano di lasciare la Siria al suo destino è perché i costi della guerra diventano sempre più insostenibili e dunque all’endemico malcontento dei lavoratori si aggiunge ora quello delle mezze classi, impaurite dalle prospettive di una rapida proletarizzazione.

Infine in Iraq, dalla seconda decade di luglio per oltre due settimane, si sono svolte ampie proteste di massa contro il carovita, il collasso dei servizi pubblici essenziali e una grave penuria di acqua. Le manifestazioni hanno interessato molte città del Sud del paese. In molti casi le proteste hanno dato luogo ad assalti alle sedi degli uffici e dei partiti governativi, ad occupazioni e saccheggi dei giacimenti petroliferi (prese di mira le installazioni della British Petroleum, della russa Lukoil e dell’italiana Eni), di aeroporti e di altre infrastrutture. La dura repressione da parte del governo ha provocato almeno 14 morti e centinaia di feriti. Ma le manifestazioni di piazza dilagano.

Alla luce di questi avvenimenti si spiega anche l’alleanza nelle elezioni politiche del maggio scorso fra la fazione sciita guidata dal leader religioso Muqtada al-Sadr e il Partito “Comunista” Iracheno. Evidentemente la temperatura sociale in Iraq sta crescendo rapidamente, evolvendo verso una rottura della pace fra le classi, alla quale la borghesia sta rispondendo facendo ricorso alla tattica sperimentata di utilizzare l’opportunismo per contenere il malcontento del proletariato. Attualmente la coalizione Sairooun, sciiti nazionalisti e anti-iraniani e “comunisti”, è il fronte di maggioranza relativa in parlamento. Nel corso della sua campagna elettorale ha tentato di deviare il malcontento dei lavoratori “contro la corruzione”, cercando di riproporre una forma di sciovinismo nazionalista attraverso l’altisonante parola d’ordine “fuori le potenze straniere dall’Iraq”. Evidentemente questa ricetta fatta di vuoti slogan non basta a sedare la collera proletaria e mentre stiamo per andare in stampa le proteste sono ancora in corso.

 

 

 

 

 

 


Immigrazione e deliri nazionalisti

Su “Il Primato Nazionale”, il quotidiano on line di Casapound, alcuni noti intellettuali pseudosinistri, presentati nei talk show addirittura come marxisti, attribuiscono le migrazioni a un progetto mondialista: «Coerente con la norma della competitività deregolamentata, l’obiettivo degli architetti del mondialismo deregolamentato è sempre il medesimo: il conseguimento della disponibilità di una forza lavoro da cui estrarre plusvalore a prezzi più vantaggiosi, ora andandola a sfruttare in aree del mondo a diritti limitati, ora introducendola in Occidente mediante deportazioni di nuovi schiavi senza tutele, senza diritti e senza radicamento».

Ecco dunque che le migrazioni, invece di essere il normale portato dell’accumulazione capitalistica, diventano un’opera di architettura. Il cruccio di tali critici, a chiacchiere, delle cosiddette élite mondialiste e del capitale, inteso soprattutto come capitale finanziario, non concepito come il risultato sulla scala storica della maturazione del capitale industriale e della tendenza connaturata alla sovrapproduzione, ma come frutto di un complotto, che si vuole guidato magari dai banchieri ebrei, non è certo quello di porre fine alla società borghese e alle sue infinite miserie, ma quello di avere un capitalismo sano e onesto.

Gli stessi pretesi filosofi ricordano anche la cosiddetta grande sostituzione, nota anche come piano Kalergi:

«La sostituzione programmata della popolazione europea con il nuovo esercito industriale di riserva dei migranti provenienti dall’altra sponda del Mediterraneo. Sembra così realizzarsi, mutatis mutandis, il perverso disegno del conte Richard Nikolaus Coudenhove-Kalergi, espresso nel suo Praktischer Idealismus (1925) con l’idea, a beneficio dei dominanti del tempo, di una sostituzione di massa dei popoli nazionali d’Europa con una massa seriale e indistinta, post identitaria e post nazionale di schiavi ideali, migranti e sradicati, gregge multietnico senza qualità e senza coscienza».

Il fatto che tali patologiche costruzioni tornino di moda è un segno dei tempi nell’epoca della post-verità e delle fake-news.

La classe dominante non può permettere che i lavoratori vedano nel normale funzionamento del modo di produzione capitalistico la causa degli immensi guasti inflitti al vivere associato e delle tragedie cui vengono condannati i proletari in ogni angolo del pianeta. Allora ecco la necessità di allarmare la piccola-borghesia e l’aristocrazia operaia ingigantendo i problemi della sicurezza, additando false emergenze, indicando facili capri espiatori che si pretenderebbero essere gli unici responsabili del radicamento del Male nell’ecumene terrestre. È più facile dire è tutta colpa degli immigrati, come 90 anni fa si diceva è tutta colpa degli ebrei, per orientare l’opinione pubblica nei suoi ignobili pregiudizi, piuttosto che spiegare che la crisi è dovuta alla sovrapproduzione di merci e di capitali.

Alle infamie e miserie, materiali e ideali, della morente borghesia, di destra e di sinistra, la internazionale classe operaia ha la sua risposta: solidarietà di tutti gli sfruttati contro i capitalisti del mondo intero, una comune organizzazione di lotta difensiva, un solo programma di emancipazione verso la società comunista.

 

 

 

 

 

  


Poche parole di Engels su democrazia, liberalismo e scienza “alla Facebook”

«Come nello Stato moderno si presume che ogni cittadino sia maturo per giudicare su tutte le questioni sulle quali egli deve votare; come in economia si suppone che ogni consumatore sia un conoscitore di tutte le merci che si trova a dovere acquistare per il suo sostentamento, analogamente ora ci si deve comportare anche nella scienza. Ognuno può scrivere su tutto, e la “libertà della scienza” significa proprio che ognuno scriva su ciò che non ha appreso e che questo sia spacciato per l’unico metodo rigorosamente scientifico» (Prima prefazione a “La scienza sovvertita del signor Eugen Dühring”, 1878).

 

 

 

 

 

 

 

PAGINA 7
Il concetto di dittatura rivoluzionaria e la sua pratica - Prima di Marx

(Segue dal numero scorso)

Capitoli esposti a Torino nel settembre 2014 e a Firenze nel gennaio 2015

3. Denis Diderot

Nella rivoluzione francese e nella sua ideologia Diderot ha un posto di primo piano quanto Rousseau. I rivoluzionari di allora non potevano rendersene conto perché alcune delle opere più importanti di Diderot erano stampate a firma di altri allo scopo di evitare la censura, ed altre ancora furono pubblicate decenni dopo. A Diderot venne invece attribuito il “Codice della natura”, di Morelly, edito senza firma nel 1755 e chiaramente comunista.

Inoltre i giacobini, apertamente seguaci di Rousseau, erano diffidenti verso gli enciclopedisti, considerati atei e materialisti, nonché ispiratori delle posizioni politiche più moderate, dai monarchici costituzionali ai girondini.

In Diderot non troviamo un sistema di pensiero più o meno concluso, come in Rousseau. Era un eclettico, ma nel senso migliore del termine: i suoi interessi e i suoi studi spaziavano in molti campi, pur rimanendo al centro la politica, vale a dire la lotta dei lumi contro il dispotismo e la religione, sua alleata. Nelle sue opere torna spesso sugli stessi argomenti: potremmo dire che fossero dei semi-lavorati a disposizione della lotta politica, tanto è vero che pur accarezzando l’idea di fare un edizione completa dei suoi numerosi e vari scritti, non ne fece nulla perché riteneva di avere cose più importanti da fare. Il suo materialismo ed ateismo dichiarati in questa sede non ci interessano, va però detto che nel suo caso si può parlare di materialismo dialettico, e questo l’ha portato a polemizzare duramente con altri illuministi pur materialisti come Helvetius e La Mettrie.

Il solo fatto di aver ideato e diretto, insieme a D’Alembert, l’Enciclopedia ne fa uno degli illuministi più importanti. Diderot fu autore di una piccola parte nella prima edizione, di una parte maggiore nella seconda, e di gran parte della terza, che fu mandata al rogo dalla censura. Il primo volume dell’Enciclopedia, edito nel 1751, contiene una sua voce, “Autorità politica”, che gli procurò molte critiche in quanto vi si può leggere che il potere pur legittimo della monarchia deve essere soggetto a limitazioni, di fatto chiedendo una costituzione e la fine dell’assolutismo.

Questa data, 1751, ci permette di dire che Diderot, pur in una lunga evoluzione del suo pensiero che lo porta negli ultimi anni su posizioni nettamente rivoluzionarie, non è mai stato un sostenitore del dispotismo illuminato. Quando ha dato consigli ai sovrani, a volte richiesti, ha detto loro di dare al paese una costituzione e quindi di abbandonare l’assolutismo e il dispotismo. In questi stessi anni prende le parti dei parlamenti cittadini in generale, e di quello parigino in particolare, minacciato nelle sue prerogative dalla monarchia. A Diderot non sfuggiva affatto il carattere reazionario di tale parlamento, ma ne difendeva la funzione di corpo intermedio, di bilanciamento dei poteri nei confronti dell’assolutismo. Lo ”Esprit des lois” di Montesquieu, del 1748, con la sua concezione di divisione dei poteri, aveva avuto una grande influenza su Diderot, come su quasi tutti gli illuministi.

Diderot è probabilmente l’autore della prefazione alle “Ricerche sull’origine del dispotismo orientale” di Boulanger del 1761. Tale prefazione si autodefiniva “Progetto di filosofia politica”, e proponeva, in nome della ragione, che lo Stato togliesse alla Chiesa la funzione di istituzione pubblica, e che il governo si alleasse con i philosophes. Va anche detto che l’acceso anticlericalismo dell’autore non era mai fine a sé stesso, ma parte integrante di una concezione di lotta all’assolutismo.

L’abate napoletano Ferdinando Galiani era invece sostenitore dell’assolutismo ma vicino alle idee di libertà del mercato del nascente capitalismo agrario proprie dei fisiocratici, e quindi bene accolto da questi. L’abate era però più sensibile ai rischi per la stabilità sociale che alle riforme nell’economia, e quando si accorse che la libertà di mercato non poteva evitare le carestie e la fame, con la conseguente instabilità, nel 1769 aveva scritto e pubblicato il “Dialogo sul commercio dei grani”, criticando le nuove idee dei fisiocratici. Molti illuministi, tra cui Turgot, Condorcet e Morellet, considerarono l’abate un traditore e lo attaccarono con decisione; Morellet scrisse una “Confutazione del Dialogo sul commercio dei grani”.

Diderot, pur condividendo le idee dei fisiocratici sul libero mercato, apportatore di modernizzazione e di ricchezza per la nazione, prese allora, assieme a d’Holbach e Grimm, le parti dell’abate, scrivendo nel 1770 la ”Apologia dell’abate Galiani”. La teoria dei fisiocratici, e quindi la libertà borghese, sperimentata e portata nella Storia, sembrava non risolvere tutti i problemi e non assicurare la felicità pubblica. Diderot rispondendo a Morellet, che anteponeva il sacro diritto della proprietà ai diritti umani, scriveva: «Questo principio è un principio da tartaro, da cannibale e non da uomo civile. Forse il senso di umanità non è più sacro del diritto di proprietà, il quale viene infranto in pace, in guerra, in una infinità di circostanze, e per il quale il signor abate ci predica il rispetto fino ad esporci ad ucciderci, a scannarci, a morir di fame?». È qui evidente la grandezza di Diderot, che accetta e sostiene l’importanza e la necessità dello sviluppo capitalistico, ma riesce anche ad intuire i limiti di un sistema economico e sociale ancora ai primi passi.

Questo non significa che i fisiocratici fossero degli ingenui, o non vedessero i problemi sollevati da Galiani, ma a differenza di Diderot li accettavano come inevitabili o secondari rispetto agli interessi della nuova classe di proprietari agrari capitalisti che essi rappresentavano.

C’è un passo di Turgot molto chiaro, in uno scritto titolato “Riflessioni sulla formazione e la distribuzione delle ricchezze”, del 1770, riportato da Marx nel 1° Libro de “Il Capitale”: «Il semplice operaio, che non ha altro che le sue braccia e la sua laboriosità, non possiede nulla finché non riesce a vendere ad altri la sua fatica. La vende più o meno cara, ma questo prezzo più o meno caro non dipende soltanto da lui: risulta dall’accordo che conclude con chi paga il suo lavoro. Questo lo paga meno caro che può: poiché può scegliere tra un gran numero di operai, preferisce chi lavora più a buon mercato. Gli operai dunque sono costretti a gareggiare fra di loro per abbassare il prezzo. In ogni genere di lavoro deve accadere, e in effetti accade, che il salario dell’operaio si limiti a quanto gli è necessario per procurare la propria sussistenza».

Nell’ottobre del 1773 Diderot andò a Pietroburgo e vi restò 5 mesi, invitato dalla zarina Caterina II, interessata a modernizzare la Russia proseguendo nel tentativo realizzato in piccola parte da Pietro il Grande quasi un secolo prima. Vi furono diversi colloqui tra l’ormai famoso illuminista e la zarina, ma quando questa sentì ripetersi la necessità di dare al paese una costituzione, di creare dei corpi intermedi e quindi porre fine all’assolutismo e alla servitù della gleba, perse ogni interesse a proseguire i colloqui. Nel 1774 Diderot, tornando in Francia, fece tappa in Olanda dove scrisse alcuni appunti titolati “Viaggio in Olanda”. Apprezzava una repubblica in cui v’era una divisione dei poteri e in cui camminando per le strade non vedeva né una grande ricchezza né una grande povertà. Non gli sfuggivano però i limiti di una repubblica dominata dalla borghesia mercantile: «Il commerciante è un cattivo patriota, lascerà morire di fame i suoi concittadini per guadagnare un terreno in più». «Non c’è patria per chi non ha nulla, e può portare con sé tutto quello che ha». Il suo amico e collaboratore barone d’Holbach scrive: «Morire per la patria, versare il proprio sangue per chi l’opprime, o per vili interessi, estranei alla patria, condurre al massacro i concittadini?».

Nel 1774 Turgot divenne Controllore Generale, suscitando l’entusiasmo di tutti i philosophes che videro ora possibile una vera riforma dello Stato ispirata ai loro principi. Ma con le sue dimissioni nel 1776 subentrò una grande delusione, e Diderot cominciò a considerare la rottura rivoluzionaria come unica soluzione. Altro evento fondamentale fu la rivoluzione americana, dimostrazione pratica della possibilità di una repubblica democratica anche in un paese di grandi dimensioni. Ora anche Montesquieu e Rousseau potevano essere visti in un’ottica diversa, e posti alla base di una nuova concezione rivoluzionaria, come poi avvenne.

Sempre nel 1774 in Olanda Diderot scrisse una Confutazione sull’opera “L’homme” di Helvetius, dove leggiamo: «Supponete che gli inglesi abbiano tre Elisabette di seguito, sarebbero gli ultimi schiavi d’Europa». La condanna dell’assolutismo è quindi totale indipendentemente dalle qualità e virtù del monarca.

Dal 1781 Diderot dette alla luce scritti apertamente rivoluzionari. Nel 1782 fu pubblicato il “Saggio sui regni di Claudio e Nerone”, edizione corretta e ampliata della sua “Vita di Seneca” del 1778. Leggiamo: «Mi fu chiesto una volta come si possano restituire i costumi a un popolo corrotto. Risposi: nel modo in cui Medea restituì la gioventù al padre, facendolo a pezzi e mettendolo a bollire». Ancora: «Lo schiavo ha il diritto di vita e di morte sul suo padrone? Chi ne può dubitare? Possano un giorno tutti questi infelici, rapiti, venduti, comprati, rivenduti e condannati al ruolo di bestie da soma esserne altrettanto convinti quanto lo sono io». L’autore parlava della schiavitù dei negri, ma i suoi lettori capivano benissimo che si riferiva alla Francia, poiché schiavo è anche un popolo che non si governa da solo.

Questa edizione del 1782 contiene anche una “Apostrofe agli insorti d’America” da cui leggiamo: «Mille uomini che non temono per la propria vita, sono più temibili di diecimila che temono per la loro fortuna. Ciascuno di essi abbia nella propria casa, in fondo al campo, vicino al telaio, vicino all’aratro, il proprio fucile, la spada e la baionetta. Siano tutti soldati. Pensino che, se nelle circostanze che permettono di deliberare il consiglio dei vecchi è il migliore, nei momenti di crisi la gioventù è di solito più avveduta della vecchiaia». Anche queste parole, insieme ad altre che invitavano ad un controllo sul governo e vedevano un pericolo nell’ineguale ripartizione delle ricchezze, erano evidentemente dirette non solo all’America ma anche alla Francia.

Grande importanza ebbe la “Storia delle Indie” (in realtà il titolo era molto più lungo) dell’abate Raynal, collaboratore di secondo piano dell’Enciclopedia e tutto tranne che un rivoluzionario, con una prima edizione nel 1772, una seconda nel 1774, una terza nel 1781, in gran parte opera di Diderot, e negli anni successivi varie altre edizioni ed anche falsificazioni. Nel 1781 il sostituto Procuratore Generale Séguier definì l’Histoire un libro «che aspira a sollevare i popoli». Vi leggiamo infatti: «È necessario che prima o poi giustizia sia fatta. Se accadesse diversamente mi rivolgerei al volgo e gli direi: Popoli, i vostri ruggiti hanno fatto tremare tante volte i vostri padroni, cosa aspettate? Per quale momento riservate le vostre torce e le pietre che lastricano le vostre strade? Afferratele».

Possiamo parlare di un materialismo dialettico dell’autore, che comprende che una rivoluzione nasce innanzitutto da spinte fisiche e rigetta quindi l’illusione, tipicamente illuminista, che per porre fine al vecchio mondo basti erudire i popoli, squarciando le nebbie dell’ignoranza e della superstizione. «Se i popoli sono felici sotto la loro forma di governo la conserveranno. Se sono infelici, non saranno le mie opinioni, né le vostre, ma l’impossibilità di soffrire di più e più a lungo che li indurrà a cambiarla. Sarà un moto salutare che l’oppressore chiama rivolta, sebbene si tratti dell’esercizio legittimo di un diritto inalienabile e naturale dell’uomo che è oppresso e anche di chi non lo è».

Il libro ebbe ovviamente critiche feroci, tra cui quella di Grimm, collaboratore ed amico di Diderot, che ruppe un’amicizia trentennale con un uomo che ora considerava un traditore in quanto sarebbe passato dalla parte della conservazione dell’esistente. Per difendersi dagli attacchi Diderot scrisse una “Apologia di Raynal”, in cui leggiamo: «Il libro che amo è il libro che fa nascere i Bruto». Questo scritto fu molto letto e conosciuto da i rivoluzionari dell’89 e del ’93.

Robespierre disse degli enciclopedisti, nel discorso sull’Essere Supremo del 18 floreale dell’anno II: «Questa setta, in politica, restò sempre al di sotto dei diritti del popolo». Egli non poteva sapere che, attraverso l’Histoire di Raynal, la parte migliore dell’enciclopedismo, rappresentata da Diderot, era entrata a costituire, insieme a Rousseau, il perno della sua ideologia come di quella di gran parte dei rivoluzionari.

 

4. Nella Rivoluzione francese

Tra i primi a parlare della necessità di una dittatura rivoluzionaria fu sicuramente Marat.

Tale concezione è invece assente tra gli “arrabbiati” e tra gli “esagerati”, o hébertisti. I primi sono interessanti per un innegabile istinto di classe, per cui è difficile definirli giacobini: pur frequentando il Club, non condividendone la concezione, maturata con gli eventi, di una alleanza tra la piccola e media borghesia, da cui i giacobini in gran parte provenivano, e i sanculotti, vale a dire le masse urbane composte da artigiani anche con dipendenti, e in misura minore ma importante da operai salariati, in gran parte di quelle stesse botteghe artigiane. Gli arrabbiati condividevano con i giacobini la base ideologica di Rousseau, per cui non volevano affatto eliminare la proprietà privata ma arrivare ad una società di piccoli contadini e di artigiani indipendenti sul modello dell’antica Sparta e di Roma repubblicana. Essi sostenevano che all’antica aristocrazia nobiliare si era sostituita la nuova aristocrazia della ricchezza, e contribuendo quindi alla nascita della repubblica dell’anno II chiedevano, come Hébert, la requisizione di tutto ciò che serve a sfamare il popolo e la ghigliottina per gli accaparratori, gli speculatori e i borghesi indifferenti alle sofferenze dei sanculotti e degli operai. Senza aver alcuna simpatia per il passato monarchico, come tutti i sanculotti vedevano nell’antica regolamentazione, nell’organizzazione corporativa e nei diritti comuni l’unica salvaguardia per l’esistenza della gran parte della popolazione.

Essi furono attaccati duramente da Marat e da Hébert, che, pur condividendone molte posizioni, li consideravano un pericolo per l’unità dei rivoluzionari. Per Hébert, che ad un certo punto si trovò a dirigere il Comune rivoluzionario di Parigi, diventarono di conseguenza anche un pericolo per la propria autorità.

Dalle dichiarazioni e dagli articoli degli “arrabbiati” emerge la consapevolezza della necessità di misure straordinarie e dittatoriali, ma non si capisce chi dovrebbe prenderle, se non il popolo, inteso come la parte sana della nazione in cui risiede e risplende la Virtù repubblicana. La stessa concezione troviamo in Marat e nei giacobini in generale.

Tra i più importanti esponenti degli “arrabbiati” c’è una prete parigino, Jacques Roux, da cui leggiamo: «I re meritano la morte fin dal momento in cui vedono la luce. Non c’è uguaglianza quando una classe di uomini ne opprime e ne tradisce impunemente l’altra. Si sarà lottato per spezzare lo scettro dei re con l’unico risultato di gemere sotto l’opprimente giogo dell’aristocrazia della ricchezza?». «Certo non mi stupisco più che ci siano state tante persone apparentemente entusiaste della rivoluzione. Essa ha fornito loro un pretesto per ammassare, patriotticamente e in poco tempo, tesori su tesori e per nascondere i propri furti sotto un velo impenetrabile».

«Denuncio i moderati che, parlando di pace e giustizia, proteggono gli assassini della nazione, mentre incitano il popolo alla rivolta». «Popolo troppo credulo (...) fino a quando lascerai ai tuoi nemici naturali gli strumenti per tradirti, incatenarti e pugnalarti?». «Volete dunque metter fine ai tradimenti, all’anarchia, al terrore, ristabilire le finanze, lo spirito pubblico, restituire l’anima e la vita al corpo civile? Imitate l’esempio datovi dal Senato romano, sospendete le leggi nei riguardi di chiunque si sia dichiarato contrario alla causa del popolo». «Ebbene, riflettete sul fatto che quasi tutti i ricchi sono per principio i fautori del crimine e per abitudine i complici del re; che, nemici giurati del popolo, di cui divorano la sostanza, non possono nutrire in nessun caso sentimenti diversi da quelli degli schiavi; che essi cospirano sempre per incatenare di nuovo le nazioni. Dovete colpire con fierezza gli uomini feroci che hanno violato di generazione in generazione i diritti della natura, appropriandosi il sangue dei cittadini; obbligateli a restituire i tesori di cui si sono impadroniti». «Sareste tanto impolitici da costringere i ricchi a unirsi alle vostre falangi repubblicane? Che ve ne fareste di un esercito effeminato, composto di egoisti, traditori e spergiuri? Che aiuto potreste trovare nel mercante inchiodato al suo bancone, nel banchiere che combatte unicamente con la penna, nel moderato che tende le braccia solo alla voluttà? (...) Non sarebbe il colmo della follia mettere delle tigri accanto agli agnelli e incorporare gli amici dei re nelle legioni degli uomini liberi?».

Queste citazioni, ad eccezione delle prime due, sono tratte dal discorso scritto tra maggio e giugno 1793 e mai pronunciato, dal titolo:”Sulle cause delle sventure della repubblica francese”.

(continua al prossimo numero)

 

 

 

 

 

 


PAGINA 8
Partito Comunista d’Italia, 1921
Un esempio di parlamentarismo rivoluzionario

Non c’è piccolo borghese che non sia affascinato dal mito democratico, e politicante dalla prospettiva di poter entrare un giorno in Parlamento: in fondo si tratta di un lavoro che non richiede poi tanto impegno e la paga non è male.

Ma se il piccolo borghese avido di farsi una posizione può essere da noi marxisti compreso, riteniamo estremamente infantile e sciocco chi pensa che, una volta entrato nel Sancta Sanctorum della democrazia, possa determinare mutamenti della politica dello Stato per, magari, restituire il “potere al popolo”.

Anche dei nostri cugini, un tempo, furono attratti dalle sirene parlamentari e, dopo essere stati non sconfitti ma semplicemente ignorati, si sono rifugiati in un silenzioso a-parlamentarismo, che non significa anti-parlamentarismo.

Nel numero precedente di questo giornale abbiamo riaffermato il nostro antiparlamentarismo rivoluzionario di principio e ci siamo pure presi la soddisfazione di schernire quella eterogenea accozzaglia di illusi opportunisti che si sono presentati al torneo elettorale con il motto interclassista ed insignificante di Potere al Popolo. Quindi non torneremo sull’argomento, tanto che possiamo benissimo comportarci noi come se “il 4 marzo” non fosse mai esistito.

Invece, ad insegnamento dei compagni, e non certo dell’accozzaglia dei “cretini parlamentari” che non sarebbero in grado di capire, riproponiamo il testo di un intervento del partito alla Camera nel 1921. Questo a documentazione di una azione di effettivo parlamentarismo rivoluzionario comunista, svolto dal PCd’I nella disciplina piena ed assoluta alle direttive dell’Internazionale Comunista, che pure non condividevamo.

Nella situazione di allora, sebbene quegli anni vedessero divampare un forte scontro di classe, possiamo trovare alcune similitudini con l’attuale.

* * *

Nelle elezioni politiche del novembre 1919, quando per la prima volta si votava con una legge proporzionale, schiacciante era stata la vittoria del Partito Socialista che aveva ottenuto oltre il 32% dei consensi e 156 seggi in parlamento. Staccato di ben 56 deputati era stato il secondo arrivato: il Partito Popolare con il 20,56% e 100 seggi.

Si verificò così che i due partiti “antisistema” detenessero la maggioranza parlamentare: 256 deputati su un totale di 508. Questo determinava una situazione di estrema debolezza per il governo dove frazioni e fazioni lo tenevano in un equilibrio estremamente instabile e nella necessità di destreggiarsi per mantenersi in vita. Il governo si trovava sotto il ricatto di uno o più gruppi, reggendosi su una maggioranza ondeggiante, composita ed infida.

Questo fino al 1921, quando il governo, Giolitti, ritenne che nuove elezioni avrebbero potuto modificare sostanzialmente la composizione parlamentare, ed il re, con regio decreto, n.345 del 7 aprile, sciolse la Camera indicendo nuove elezioni per il successivo 15 maggio.

Giolitti con le nuove elezioni si riprometteva un triplice risultato: innanzi tutto usare la lotta elettorale come sfogatoio in cui incanalare le rivendicazioni di un proletariato non ancora sconfitto; e su questo punto vi era piena convergenza di intenti, anche se non dichiarati, con il Partito Socialista. Il secondo obiettivo era di ridimensionare drasticamente la componente del Partito Socialista, in un momento di debolezza dovuta sia alla scissione di Livorno, sia all’azione terroristica del fascismo. Il terzo obiettivo era “legalizzare” il fascismo; il che non significava ricondurlo al rispetto della legge, ma, al contrario, riconoscergli piena cittadinanza nel consesso parlamentare borghese. I Blocchi Nazionali, che come simbolo avevano adottato il fascio littorio, comprendevano assieme i gruppi della destra e della sinistra storica del liberalismo, i nazionalisti, i fascisti e, in certi casi, anche i popolari.

Il responso delle urne fu nettamente contrario alle aspettative di Giolitti: il Partito Socialista perse 34 seggi, conservandone però 122, risultando ancora il primo partito; i popolari aumentarono passando da 100 a 107 deputati; i Blocchi Nazionali riuscirono soltanto ad arrivare terzi, ma permisero l’entrata in parlamento a 35 fascisti e 20 nazionalisti. Il Partito Comunista con 305.000 voti otteneva 15 deputati.

Se i risultati, intesi come conta dei voti, delusero Giolitti, la borghesia italiana a ragione poteva essere soddisfatta, due dei tre suoi scopi erano stati pienamente raggiunti: con la vittoria del Partito Socialista era stato ottenuto lo sfogatoio delle energie del proletariato nella competizione elettorale, ed il fascismo riceveva la legittimazione borghese e democratica al suo ingresso in parlamento.

* * *

Non staremo ad enumerare i concetti sviluppati dal Partito Comunista, per bocca di Gnudi, nel suo discorso di insediamento, ma due sono da rimarcare.

Con la lettura, nel tempio borghese della menzogna democratica, della dichiarazione pregiudiziale della direzione del partito viene evidenziato che gli eletti comunisti non sono altro che dei portavoce del partito, ossia della Sezione italiana dell’Internazionale Comunista. In quanto rappresentanti di una organizzazione rivoluzionaria internazionale, i comunisti non hanno nessun programma di governo parlamentare o nazionale.

Altro aspetto importante dell’intervento è aver ribadito il concetto dell’incessante lotta di classe, che non può ricomporsi in un pacifico ritorno alla normalità democratica borghese, ma dovrà portare alla dittatura del proletariato. Entrando nell’argomento della guerra civile: «Questa guerriglia noi non la deploriamo, con animo diverso da quello con cui deploriamo che non sia ancora esaurita la vita storica delle forme parlamentari, e della menzogna democratica inseparabile dalla dittatura borghese».


Intervento parlamentare del 24 giugno 1921
 
(Dal resoconto stenografico, confrontato con il testo pubblicato sull’ “Ordine Nuovo” del 25 giugno 1921).

Presidente: Ha facoltà di parlare l’onorevole Gnudi, il quale ha presentato il seguente ordine del giorno: «La Camera, riconoscendo nell’attuale Governo un apparato di dominazione posto nelle mani della classe privilegiata, ne disapprova la politica e passa all’ordine del giorno».

Gnudi: II mio compito sarà molto breve e molto semplice. Il partito comunista, a cui mi onoro altamente di appartenere, pur contando, nel piccolo gruppo parlamentare dei suoi aderenti, uomini di indiscutibile valore (Interruzioni), ha voluto dare a me l’onore di leggere in questa Assemblea la sua prima dichiarazione pregiudiziale: dico a me, semplice e autentico operaio, onde maggiormente palese rendere qui e fuori di qui che noi senza spavalderie, ma con fede, con tenacia, a prezzo di qualsiasi sacrificio saremo militi disciplinati dell’internazionale comunista.

Torre Edoardo: Assassinaste i consiglieri a Bologna!

Gnudi: Le dichiarazioni che il partito comunista fa in quest’Aula non possono non essere separate da una precisa barriera programmatica da quelle di tutti gli altri partiti che vi sono rappresentati.

Per incarico del partito comunista esporrò dunque brevemente i termini della sua posizione politica dinanzi ai programmi di Governo qui enunciati. Parlando a nome della sezione italiana dell’internazionale comunista... (Oh! oh! – Interruzioni – Rumori prolungati.)

Presidente: Facciano silenzio!

Gnudi:... si deve anzitutto porre innanzi che, per diretta conseguenza delle fondamentali nostre dottrine, noi non abbiamo e non vogliamo avere alcun programma di Governo parlamentare. (Interruzioni – Rumori).

Presidente: Ma lascino parlare!

Gnudi: E la nostra critica a quanto qui può essere svolto da altre sponde, parte da una pregiudiziale di ordine istituzionale. Adoperando il termine istituzionale, non ci limitiamo al problema che è stato anche recentemente oggetto di dibattito politico, di accettare o meno l’attuale forma di reggimento dinastico vigente in Italia.

La pregiudiziale programmatica che noi portiamo qui nella sua interezza non è la vecchia pregiudiziale repubblicana, per noi superata ed insufficiente, ed il linguaggio dei rappresentanti dell’internazionale comunista non sarebbe dissimile dal nostro nelle assemblee legislative di quei paesi in cui la costituzione repubblicana è in vigore, combattuta dal comunismo, coi medesimi argomenti e coi medesimi mezzi, che esso qui impiega contro il regime che ci governa.

Nemmeno in un’Assemblea Costituente noi porteremmo su una diversa base la impostazione delle nostre dichiarazioni programmatiche e della nostra battaglia.

Alle proposizioni di questo o quel metodo di Governo, a queste o quelle proposte di innovazioni o di riforme, nel presente meccanismo istituzionale, altra è l’obiezione che noi dobbiamo opporre e che risiede nella critica dello stesso istituto parlamentare contemporaneo.

I termini di questa critica non sono cosa nuova. Essi risalgono ai cardini del nostro pensiero teorico, sono segnati in modo incancellabile nei testi di quella dottrina di Marx a cui anche altre correnti, qui più largamente assai della nostra rappresentate, tengono a richiamarsi, ma che solo nelle direttive e nella disciplina della Terza Internazionale, si traduce in una potenza rinnovatrice e superatrice della rovina sociale che ne circonda.

Sono i termini della nostra interpretazione del problema storico dello Stato, che nelle sue moderne forme di democrazia, lo dichiarano, sia esso monarchico o repubblicano, un apparato di dominazione posto nelle mani della classe privilegiata.

Se pensassimo che questo apparato potesse assolvere le sue funzioni nel senso che ad esse attribuiscono le dottrine ortodosse, o quelle che nelle esitanze della loro applicazione addomesticano la indisciplina della propria eresia, di assistere, traducendoli in sé gli interessi collettivi liberamente espressi nella manifestazione elettorale, se comunque noi credessimo che, così come è congegnato questo apparato della amministrazione della pubblica cosa, fosse suscettibile di essere volto, se manovrato da altri partiti che non gli attuali, alla realizzazione degli interessi e delle aspirazioni di quella classe che oggi è sacrificata ed immobilizzata da esso, allora noi ben potremmo scendere sul terreno del confronto tra questa e quella soluzione istituzionale del reggimento parlamentare, ben potremmo considerare se questa o quella prospettiva della politica di Governo facciano maggior luce alle accennate realizzazioni.

Ma a questa possibilità noi non crediamo, e la sfiducia, di cui le avvolse l’indagine demolitrice e la critica dottrinale dei precursori del nostro pensiero, troppo oggi si rinsalda nelle molteplici esperienze di questa epoca travagliata, tutta scossa dai fremiti di un irresistibile divenire, scomponentesi e ricomponentesi in forme nuove e contrarie.

Il nostro movimento tende, dunque, ad uscire dai limiti delle stesse istituzioni parlamentari presenti, preconizza nuove forme di reggimento politico, in cui la forza dello Stato sia retta dalla classe di coloro che alimentano di vita la macchina sociale nel superiore interesse dell’elevamento collettivo, dei rapporti materiali e ideali, le forme cioè realizzate in quella repubblica proletaria russa alla quale, malgrado la logica avversione implacata degli uni e l’opportunistica freddezza degli altri, noi mandiamo sempre più saldi il grido della nostra fede, salutando l’incedere vittorioso, contro la forza e contro l’insidia, della sua, della nostra bandiera.

Il comunismo nella sua dottrina, nella sua esperienza, nella sua pratica, vede questo trapasso di forme di reggimento politico come il risultato ultimo del conflitto incessante fra le avverse classi, che voi potete negare per comodità teoretica, ma che confermate nel fatto quando la vostra politica suscita e moltiplica gli episodi della guerriglia civile.

Questa guerriglia noi non la deploriamo, con animo diverso da quello con cui deploriamo che non sia ancora esaurita la vita storica delle forme parlamentari, e della menzogna democratica inseparabile dalla dittatura borghese. Lo stato incivile di cose, che si esprime nelle forme violente di lotta politica e sociale, non da altro deriva la sua inciviltà ed inumanità che dalla condanna che ha dato già la storia alle vostre forme statali che in questo istituto elettivo vorrebbero legittimarsi. L’infittire della lotta fra i gruppi più risoluti delle classi in contrasto, non può in Italia ed altrove ricomporsi in una pacifica sistemazione della vostra normale amministrazione democratica borghese.

Di esso possiede ed allestisce una soluzione, di forme superiori di civili rapporti e di rapporti sociali, solo il nostro partito che, ponendosi in quella realtà, da cui tante volte si ama prospettarlo lontano, interpreta il divampare della lotta con fredda serenità di giudizio, lo accetta senza ipocrisia e senza viltà, non se ne pone verbalmente al di fuori colla facile ipocrisia di una assurda conciliazione, ma assume di gestire e dirigere il più grande ed armonico sforzo di quelli che dalla prepotenza della dittatura borghese sono materialmente ed idealmente martoriati ed oltraggiati, che da questa situazione umiliante ed insoffribile usciranno, perché sono la forza ed hanno per sé l’avvenire; usciranno senza domandarne la via ai sottili componimenti che si potrebbero qui senza fede domandare e promettere: usciranno capovolgendo la situazione, capovolgendola finalmente, e per quanti sacrifici possa ciò costare, nella vindice dittatura del proletariato.

Se noi avessimo oggi altro proponimento da quello di tracciare inizialmente le linee del nostro programma e spiegare i compiti della nostra presenza in questa Assemblea, potremmo affrontare subito la incredulità di avversari vicini o lontani sulla possibilità di raggiungere quella meta che ci addita il nostro pensiero e la nostra fede.

Potremmo discutere se l’avvolgersi formidabile di problemi dinanzi ai quali, in Italia e nel mondo, l’arte di governo dei gruppi e degli uomini che sono alla dirigenza dell’attuale apparato statale, ogni giorno più impicciolisce in una progressiva e definitiva impotenza, se lo stesso riflettersi di tante complicazioni della situazione sulla gravezza dello sforzo che il proletariato deve compiere per sostituirsi ai suoi dominatori, non siano la conferma migliore della nostra convinzione, della nostra certezza.

Noi potremmo discutere se le recenti manifestazioni politiche autorizzino l’avversario di qualunque sponda ad affermare di aver avuto ragione dello slancio delle masse italiane sulla via della loro emancipazione quale dai comunisti è loro additata.

Ma oggi noi siamo qui solo a tracciare, nella serenità della nostra coscienza, quello che da tutti voi ci divide, ed attestare a chi ascolta dentro e fuori dell’Aula quanto poco ci unisce questa materiale comunanza di ambiente.

Noi siamo qui a dire che, pochi o molti, nella fortuna prospera o nell’avversa, nei momenti di impopolarità momentanea (Commenti) o in quelli del crescere formidabile della marea umana sospinta contro le iniquità di un sistema sociale intollerabile, ascoltati o derisi, noi siamo venuti, legati ad una fede e ad una milizia disciplinata, a parlare ed a lottare unicamente per la vittoria rivoluzionaria del comunismo. (Applausi all’estrema sinistra – Interruzioni – Commenti – Scambio di apostrofi).