Partito Comunista Internazionale
Il Partito Comunista N. 389 - maggio-giugno 2018
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Indice dei numeri
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organo del partito comunista internazionale
DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: – la linea da Marx a Lenin, alla fondazione della III Internazionale, a Livorno 1921, nascita del Partito Comunista d’Italia, alla lotta della Sinistra Comunista Italiana contro la degenerazione di Mosca, al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani – la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario, a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco
PAGINA 1 Primo Maggio 2018: Contro le guerre del Capitale - Organizzazione e lotta di classe - Fino alla Rivoluzione e al Comunismo
– Gli Stati imperialisti - grandi e piccoli - si preparano a sbranarsi
Ancora una volta morte e dolore a Gaza
PAGINA 2 Riunione generale del partito - 26-28 gennaio: (segue) Attività sindacale del partito - La questione militare - Storia della lotta di classi in India - Rapporto dei compagni venezuelani - Ricapitolando sulla rivoluzione in Cina - La recente rivolta proletaria in Iran
Riunione regionale in Venezuela
Per il sindacato
di classe
Lotte operaie in Sudamerica nel 2017
Anche in Nicaragua il sangue proletario fa cadere la maschera del "Socialismo del 21.mo secolo"
– Regno Unito: Il Primo Maggio dei lavoratori dei Fast Food
Israele: Per la solidarietà di classe contro l’espulsione dei lavoratori stranieri
PAGINA 5 Ipocrisie e menzogne di un sindacato di regime, La Cgil verso il suo 18.mo congresso: Il sindacato della contrattazione - Nenia socialdemocratica - Equivoci obbiettivi: a) orario b) salario c) contrattazione innovativa - Lacrime di un coccodrillo - Il nostro indirizzo sindacale
PAGINA 6 Il concetto di dittatura rivoluzionaria e la sua pratica - Prima di Marx (1): 1. Fino all’illuminismo - 2. Jean-Jacques Rousseau
PAGINA 7 Il militarismo moderno al solo servizio dei profitti del Capitale: Lettera dagli USA
PAGINA 8 I paesi del Medioriente, divisi al loro interno, rimangono solo una preda per i militarismi imperiali

 

 
 PAGINA 1


Primo Maggio 2018
Contro le guerre del Capitale
Organizzazione e lotta di classe
Fino alla Rivoluzione e al Comunismo
 

Nonostante lo sviluppo di gigantesche capacità tecniche e la enorme quantità di mezzi e di macchinari che permettono una forsennata produzione di merci, l’infame società del capitale immiserisce la gran parte dell’umanità e costringe il proletariato di tutti i paesi ad una vita sempre più insicura.

Il perpetuarsi e l’aggravarsi della crisi capitalistica mondiale ha demolito l’illusione di progresso per il proletariato e l’inganno riformista di un pacifico e graduale passaggio ad una società meno disumana.

Il Capitale ne approfitta per attaccare le condizioni di esistenza dei lavoratori, che si vedono schiacciati nel loro ruolo sociale di proletari senza riserve e senza alcuna certezza nel futuro. In tutti i paesi, di vecchio o recente capitalismo, gli Stati, con la complicità di organizzazioni sindacali asservite al regime dei padroni, impongono la sottomissione degli operai agli interessi nazionali, cioè dei borghesi.

Mentre aumenta la disoccupazione, politiche di austerità colpiscono il proletariato, diminuendo i salari ed imponendo ogni forma di lavoro precario e sottopagato.

I borghesi sperano che la classe operaia, senza direzione e disorganizzata, priva del suo vero partito e dei suoi combattivi sindacati, non reagisca e si abbandoni alla più feroce concorrenza al suo interno.

* * *

La seconda guerra mondiale, che con le sue massicce distruzioni ha immolato sull’altare della patria borghese decine di milioni di proletari, e una serie continua di atroci conflitti “regionali”, Corea, Algeria, Vietnam, Medio Oriente... hanno permesso al capitalismo mondiale un ciclo di accumulazione quasi senza crisi fino al 1975, quando il capitalismo è entrato in una nuova crisi di sovrapproduzione che da allora si aggrava in cicli periodici di 7-10 anni.

La “globalizzazione”, vale a dire il dirompere del capitalismo in nuove grandi nazioni, in particolare in Asia e soprattutto in Cina, ha contribuito a rimandare la crisi generale per almeno 30 anni, ma allo stesso tempo ne ha aumentato il potenziale, travolgendo stavolta tutti i grandi paesi del mondo, nei quali tutti domina il modo di produzione capitalistico e governa la borghesia.

Oggi ogni angolo del mondo rigurgita di troppe merci che non riescono ad essere vendute. Questa generale crisi di sovrapproduzione nel capitalismo è la prima causa di nuove guerre. Il loro scopo è solo distruggere, distruggere merci, distruggere forza lavoro, rendendo possibile, dopo un decennio di massacri, un nuovo ciclo di infernale accumulazione capitalistica e di feroce sottomissione della classe operaia. La guerra è quindi l’unica soluzione borghese alla crisi mortale, economica e sociale, del modo di produzione capitalistico.

Perché le guerre servono anche a distogliere il proletariato dal suo obiettivo storico, il superamento rivoluzionario della società del capitale, allontanando nell’ubriacatura militarista e nazionalista il pericolo della rivolta sociale.

Oggi lo scontro fra le potenze seguito al crollo del capitalismo di Stato in Russia e all’ingigantirsi del capitalismo cinese si fa sempre più dirompente. Le zone di crisi e d’urto tra le diverse concentrazioni di capitali si moltiplicano facendo prevedere come non sia ormai molto lontano lo scoppio di un terzo conflitto imperialistico mondiale.

La guerra in Siria sta entrando nel suo ottavo anno e non accenna a finire, alimentata da entrambi i fronti imperialisti. Con l’ipocrita pretesto di combattere il terrorismo tutti gli Stati che hanno interessi economici e militari in quella regione, dannata dalle sue ricchezze e dalla sua importanza strategica, vi si gettano come avvoltoi e poco importa se questo scontro sta provocando centinaia di migliaia di vittime, milioni di fuggiaschi, immani distruzioni. Da una parte Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Israele e Arabia Saudita, dall’altra Russia, Iran e poi Turchia. Anche la Cina ha colto l’occasione per mostrare i muscoli.

Tutti gli Stati a parole si dichiarano difensori della pace, dei “diritti umani” e del progresso civile, ma la spesa militare mondiale sta aumentando di anno in anno e sfiora l’astronomica cifra di 1.800 miliardi di dollari: un’immensa quantità di lavoro impiegata a costruire strumenti di distruzione e di morte. Tutti gli Stati stanno preparando la guerra, dalla quale tutti contano di uscire vincitori: vincitori sulla classe operaia e sulla rivoluzione comunista.

Già, per il progredire della crisi del capitale, si infrange lo storico mito del libero commercio e si alzano nuovi muri.

Ogni Stato, per dividere la classe operaia e spingerla verso il militarismo, diffonde i veleni del nazionalismo, del patriottismo, del razzismo, delle guerre di religione. Ma il proletariato respingerà questa infamia: i proletari non hanno patria e non hanno nulla da difendere nella società borghese né da attendersi dallo Stato dei padroni. Non è loro la fabbrica, il cantiere o la terra su cui lavorano, e loro nemica è tutta la struttura amministrativa, burocratica, giudiziaria, militare dello Stato, che è al servizio esclusivo della classe borghese.

Il modo di produzione capitalistico, ormai irrimediabilmente reazionario e condannato, non ha più motivo di esistere, vive solo per inerzia e per la temporanea passività della classe operaia mondiale, la sola che può e deve combattere questa ripugnante “civiltà”, che troverà fine solo con la sua rivoluzione politica di classe.

Il capitalismo ha adempiuto al suo ruolo storico, socializzare le forze produttive, cioè sviluppare la base economica del comunismo. Rimane oggi solo un compito da assolvere, difficile ma necessario: rovesciare con la forza la borghesia e il suo Stato, espropriarla e passare a una gestione comunista della produzione e della distribuzione, abolendo i rapporti di produzione capitalistici, il lavoro salariato e la produzione di merci.

Per fare ciò è necessario che il proletariato si presenti ben schierato sulla scena dello scontro sociale. Le sue organizzazioni di battaglia economica sono i sindacati, veri sindacati di classe, per difendere con la forza del numero e con l’arma dello sciopero le proprie condizioni di vita e di lavoro. Ma questo movimento deve essere diretto, sul più elevato piano politico, dal partito coscienza storica della rivoluzione comunista: il partito comunista internazionale!

 

 

 

 

  


Gli Stati imperialisti - grandi e piccoli - si preparano a sbranarsi

Nel mese di luglio del 2015 i membri permanenti delle Nazioni Unite, USA, Regno Unito, Francia Cina e Russia, insieme a Germania e Unione Europea firmarono un accordo con l’Iran, nella sigla in inglese Jcpoa, per la sospensione delle sanzioni economiche, che erano state imposte all’allora “Stato canaglia”, in contropartita all’abbandono del suo programma nucleare. Sospensione, non annullamento, un distinguo su cui giocheranno gli Usa anni dopo.

In quella fase la crisi economica internazionale particolarmente acuta premeva per allargare mercati e scambi, e necessità strategiche globali rendevano opportuna nell’area se non una pacificazione, almeno una tregua.

Nemmeno tre anni dopo il governo degli Stati Uniti d’America ha ritenuto opportuno, cambiato il figurante sul proscenio, denunciare quegli accordi fino a renderli carta straccia; senza che, per altro, ci fossero delle evidenti documentate violazioni ai termini di quell’accordo da parte dell’Iran. Ma questo è sembrato un insignificante dettaglio, e di fatto lo è: fra gli Stati è la forza che decide cosa è vero e cosa è falso.

L’accordo, solennemente sancito a livello ONU, è diventato un’arma in mano agli Usa: le imprese non americane che intrattengono rapporti commerciali o finanziari con l’Iran, saranno sottoposte ad un regime di sanzioni – dette “secondarie” – a totale arbitrio Usa. È evidente che non siamo in presenza di controversie legali mediabili dal “diritto internazionale”, che è e resta uno strumento e una finzione per nascondere lo strapotere dei massimi Stati imperialistici.

Questi i nudi fatti, che non sono certo “un’alzata di capo” di un incompetente capo politico estremista e guerrafondaio, come tanti babbei democratici definiscono l’attuale presidente americano. La brutale posizione americana ha in realtà le sue radici nella dinamica dello sviluppo della crisi mondiale del capitale, economica, finanziaria e politica.

Ciò che tre anni fa era una situazione ancora fluida, tra scelte su interventi militari o politici nell’area calda mediorientale, dopo le avventure belliche in Iraq e le loro conseguenze, mentre a livello economico ancora si dovevano ben definire i rapporti commerciali tra USA, Unione Europea, Russia e Cina, in questo tempo presente il procedere degli eventi spinge il più forte imperialismo a rompere il “patto”, perché, nella sostanza, contrario ai suoi interessi.

Due quindi sono i piani su cui si è determinata la decisione di uscirne.

Uno, strettamente geopolitico ha sicuramente l’obiettivo di rassicurare i principali alleati degli Usa nell’area, Israele e Arabia Saudita, i quali, al di là delle tradizionali e immutate contrapposizioni religiose, in virtù dell’oggettiva convergenza sulla Siria e della comune ostilità all’Iran, vedono i loro rapporti avviati sulla traiettoria di una progressiva normalizzazione. È il contenimento politico dell’Iran che si lega a quello anche militare della Russia, con la Cina convitato di pietra.

L’altro è lo scontro commerciale che inizia ad opporre gli Usa al resto delle economie mondiali; e questo anche nei confronti di alleati militari, economici e finanziari sicuri fino all’altro ieri

Nel valutare le conseguenze economiche del ripristino delle sanzioni contro Teheran in vigore prima dell’accordo raggiunto nel 2015, occorre infatti tenere presente le conseguenze per i paesi dell’Unione Europea, i quali dopo il 2015 avevano dato enorme impulso ai rapporti economici con l’Iran, del resto mai venuti meno del tutto neanche ai tempi delle sanzioni. Si tratta proprio di quegli stessi paesi europei che sono stati bersaglio della svolta protezionista imposta di recente dal governo statunitense. Attraverso la paventata introduzione di dazi, che impongono trattative commerciali separate di volta in volta con i singoli Stati, mira a sconquassare quanto resta della malferma e fragile coesione europea, messa già a dura prova dalla crisi iniziata nel 2008.

Ora, secondo i dettami della Casa Bianca, le imprese europee avranno un breve periodo, 90 o 180 giorni, per allinearsi alle sanzioni contro l’Iran se non vogliono incorrere nelle pesanti penalizzazioni nel commercio con gli Stati Uniti. Vengono rimessi così in discussione contratti per molti miliardi di dollari, e questo mette in urto diversi governi europei con il governo degli Stati Uniti, mentre questi resterebbero al riparo dalle conseguenze delle sanzioni dato che non importano idrocarburi dall’Iran, non hanno effettuato investimenti diretti di rilievo nel paese e l’interscambio commerciale resta a un livello molto basso.

Il presidente francese Macron ha tentato inutilmente nel suo viaggio in USA di “convincere” il presidente Trump a revocare, o almeno allentare i vincoli delle sanzioni; in seguito anche i leader di Germania ed Inghilterra hanno cercato, con nessun effetto sostanziale, di opporsi al diktat americano. Più una protesta di facciata, che una concreta iniziativa.

In termini commerciali la decisione americana avrebbe effetti gravissimi sulle principali economie mondiali. La Francia potrebbe vedere sfumare alcuni accordi di dimensioni gigantesche come quello da un miliardo di dollari sottoscritto dalla Total per lo sfruttamento di un giacimento offshore di gas naturale, o la joint venture nata dalla collaborazione fra la Renault e l’iraniana Idro per la produzione di 150.000 veicoli l’anno i quali si aggiungono ai 200.000 veicoli prodotti dalla stessa casa automobilistica francese in Iran. Anche altri paesi europei dovranno fare i conti col ripristino delle sanzioni. La Germania aveva riavviato le esportazioni di macchine utensili, auto Volkswagen, camion Mercedes, mentre la Siemens aveva raggiunto un accordo per ammodernare la rete ferroviaria iraniana. L’Italia vedrebbe minacciato l’interscambio per un valore di 5 miliardi di dollari con 2 miliardi di saldo attivo. Inoltre potrebbe sfumare un piano per il rifinanziamento delle banche iraniane di 5 miliardi di euro. Secondo quanto titolava “il Sole 24 Ore” il 10 maggio scorso l’Italia potrebbe perdere 30 miliardi fra accordi commerciali e interscambio con l’Iran.

È in pericolo anche la supercommessa riguardante l’Airbus (consorzio che vede presenti Regno Unito, Francia, Germania e Spagna) per 110 aerei di cui finora sono stati consegnati soltanto 3 e della franco-italiana Atr che dovrebbe consegnare altri 12 aerei entro la fine di quest’anno.

Intanto sulla scena economica iraniana si profila la presenza sempre più ingombrante della Cina, pronta a occupare lo spazio che libererebbero le potenze occidentali. La Cina vanta già strettissimi rapporti economici con l’Iran: ne è il principale acquirente di petrolio con una media di 900.000 barili al giorno nel 2016, mentre sta realizzando un progetto da 2,5 miliardi di dollari per il rifacimento della linea ferroviaria fra Teheran e Mashhad.

Inutile starsi a domandare cosa ne sarebbe di questi contratti e di queste promettenti prospettive commerciali per i paesi europei se essi si mostrassero disposti a subire le imposizioni di Washington. Conta il peso politico ed economico, la capacità di condurre un negoziato, seppur difficile, invece di uno scontro aperto tra ex alleati, dalle prospettive terribili.

Insomma siamo di fronte ad un aperto atto di guerra, per adesso commerciale, fra i massimi briganti imperiali. Che si stia cercando lo sconto fra le grandi concentrazioni del capitale lo conferma la provocatoria apertura della sede diplomatica americana a Gerusalemme. Tutto atteso, tutto come non poteva non essere. Già all’inizio del ciclo, in tempo di “coesistenza pacifica”, affermammo: è scritto che le nazioni si sbranino.

Ancora una volta ciò che comanda nelle dinamiche tra Stati ed economie nazionali è lo sviluppo della crisi capitalistica mondiale. È quindi presto per dire se i principali paesi europei, e in primo luogo Francia e Germania, riusciranno a trovare un minimo comune denominatore per fare fronte alle pretese statunitensi, ma è significativa la dichiarazione del cancelliere tedesco Angela Merkel del 10 maggio, secondo la quale l’Europa “non può pensare che gli Usa la difenderanno” – e qui di nuovo odore di guerra imperiale – e che l’UE “deve prendere il proprio destino nelle sue mani”.

Questo è “bello e solenne”. Se non fosse che l’UE è un coacervo politico e finanziario dilaniato da spinte nazionalistiche e fondato su un “equivoco di base”, la pretesa di una unione economica e finanziaria stretta senza unità politica.

Ma di “sovranazionale”, anzi, alla base del superamento del ciclo storico delle nazioni, c’è soltanto, al termine di un non breve trapasso rivoluzionario, l’internazionalismo proletario.

Per ora lo scontro che sta iniziando è tra le gigantesche belve statali, che si preparano ad azzannarsi alla gola per sopravvivere alla crisi mortale del modo di produzione capitalistico.

 

 

 

 

 

 


Ancora una volta morte e dolore a Gaza

Dal 30 marzo, per la commemorazione del “giorno della terra”, con grande preparazione da parte di vari gruppi politici, hanno avuto luogo nella striscia di Gaza manifestazioni con decine di migliaia di partecipanti che si sono avvicinati alla recinzione che separa Israele da quel ghetto di fame, povertà, sfruttamento e disoccupazione.

In prima fila insieme ai promotori hanno manifestato i giovani proletari e i disoccupati, quelli che non vedono nessun spiraglio di luce nel futuro.

La situazione a Gaza, sottoposta ad un embargo che dura da 11 anni, è insopportabile. La crisi economica, la mancanza di elettricità e il costante assedio dell’esercito israeliano vi mantengono il proletariato in una situazione di disoccupazione e miseria. I poveri sono l’80% e la disoccupazione è al 50%. Nel pubblico impiego l’incertezza nel pagamento degli stipendi ha portato a scioperi nella scuola, nella sanità, nei servizi.

L’incertezza politica si è accentuata quando l’appello alla riunificazione della Palestina proveniente dai gruppi politici borghesi che vi dominano, ha ricevuto un duro colpo, lo scorso mese di marzo, con l’attentato al primo ministro della organizzazione Al Fatah.

Tutto questo ha contribuito ad una partecipazione numerosa, nonostante siano presto arrivate le minacce di morte da parte dello Stato di Israele: già nella prima mattina hanno ucciso un agricoltore col pretesto che si era avvicinato troppo al muro e alla sera si sono contati altri 16 morti e oltre mille feriti. Nei mesi successivi le proteste sono continuate fino a culminare con la strage del 14 maggio, la vigilia del “giorno della Nakba” (termine con cui i palestinesi ricordano l’anniversario della nascita di Israele nel 1948 che produsse l’espulsione di 700.000 palestinesi dalle terre d’origine) in cui in un solo giorno sono state uccisi dai cecchini israeliani 60 giovani, per la maggior parte giovanissimi, mentre si sono contati oltre 2.700 feriti, la maggior parte di loro colpiti da armi da fuoco.

Le immagini hanno dimostrato ancora una volta tutta la vigliaccheria della borghesia israeliana: quella che si vanta l’unica democrazia in Medio Oriente applica la pena di morte come le più bieche dittature.

Ciò non è una sorpresa per il nostro Partito che, dalla sua origine e dalla sua lotta in Italia contro il fascismo, e nella Terza Internazionale contro la incipiente degenerazione stalinista, ha sempre messo in chiaro che democrazia e dittatura, democrazia e fascismo, siano complementari e che ognuna di queste ha una funzione specifica per la conservazione dello Stato capitalista, il quale non esita ad utilizzarle, insieme ad ogni strumento di violenza disponibile, per difendere la sua esistenza.

Così la democrazia israeliana si macchia di nuovi crimini atteggiandosi a vittima. Non esiterà a fare lo stesso, quando sarà il momento, contro il proprio proletariato, quello che vive dentro la sua maledetta frontiera, protetta da soldati molti dei quali figli di proletari spediti a morire e ad ammazzare in nome della difesa dello Stato. Quello d’Israele non è diverso da ogni Stato borghese, fascista, quel fascismo che dalla seconda guerra mondiale è nella sostanza succeduto alla democrazia anche negli Stati che ancora ostentano forme liberali.

Il proletariato palestinese e quello israeliano, sono legati, lo vogliano o no, e dipendono l’uno dall’altro. La condizione dei palestinesi nella striscia di Gaza è legata indissolubilmente a quella di tutto il proletariato nella Palestina storica. Che non sia risolvibile con un intervento delle borghesie della regione lo dimostra la conclamata Nazione Araba che ancora oggi, come sempre ha fatto ieri, volta le spalle al proletariato palestinese e alle sue lotte. L’Egitto, che in altri tempi si vantava paladino del panarabismo, oggi è il complice assassino della borghesia israeliana. Il covo di ladroni che si chiama Lega Araba è un ammasso di egoismi impegnati in guerre intestine, che ancora una volta dimostrano che la supposta unità nazionale araba è ormai solo un inganno per nascondere la realtà della lotta di classe propria di ogni capitalismo.

Oggi i vari imperialismi sono in lotta tra loro per accaparrarsi e sfruttare le materie prime di ogni paese e per controllare le rotte geografiche.

La questione palestinese, che la nostra corrente ha seguito dagli anni ’30, ed anche la prospettiva due Stati per due Nazioni non sarebbe la soluzione per la condizione del proletariato della striscia di Gaza e della Cisgiordania.

La borghesia palestinese ha sempre collaborato con la sua pretesa nemica, la borghesia israeliana, entrambe alleate contro il proletariato. E contro il proletariato è anche la “rivoluzionaria” e “guerrigliera”, e come tale glorificata dalle “sinistre” mondiali, Organizzazione per la Liberazione della Palestina, burattino di Tel Aviv, con cui firmò gli accordi di Oslo, e che oggi governa in Cisgiordania con il compito di tener buono il combattivo proletariato palestinese. Questo suo ruolo lo svolge negando la libertà sindacale, soffocando ogni tentativo di organizzazione di classe, utilizzando varie corruttele e minacciando con la fame gli operai che rifiutano questa conciliazione e lo sfruttamento. Stringe accordi con i compari israeliani, vendendo il lavoro dei palestinesi a prezzi bassissimi e traendoci ricche tangenti.

È così che funziona il Capitale e sono questi i metodi borghesi che lasciano dietro di loro un mare di lacrime e di sangue.

A Gaza è la stessa cosa. L’organizzazione antiproletaria di Hamas da una parte collabora efficacemente con il governo israeliano per soggiogare la classe operaia, impedendo ogni suo tentativo di organizzazione e reprimendo con durezza ogni reazione che provi a far fronte al ferreo embargo cui è sottoposta la popolazione proletaria, provata dalla dura crisi economica, dall’altra parte esalta il nazionalismo palestinese e la lotta contro l’occupazione, mentre si accorda con Israele ed Egitto, responsabili di tutta la miseria esistente in questa piccola e popolatissima striscia di terra. È per mantenere il potere che spinge i proletari di Gaza a mettere a rischio la loro vita per obiettivi non loro.

È chiaro che la strada che oggi si percorre è la stessa di tutte le organizzazioni affini come, Fatah, FPLP, FDPLP, etc. etc.: l’intesa con Israele per lo sfruttamento comune dei proletari nei rispettivi territori.

È significativo che Israele, nelle numerose incursioni nella striscia, non ha colpito questa organizzazione, al contrario ne ha aiutato e finanziato la nascita e la crescita. Come dimostrato ampiamente dal nostro partito, questa è la natura di tutti questi gruppi di “fedayn”, di matrice borghese e che professano ideologie derivate dallo stalinismo e dal revisionismo.

La questione della solidarietà di classe, che oggi manca, è internazionale. Il proletariato israeliano non è un caso speciale, una “eccezione”; esso è parte del proletariato occidentale, sottoposto alla grancassa dei mezzi di comunicazione la cui lezione non può essere altro che quella della ideologia dominante, intrisa di nazionalismo, di fascismo, di razzismo, di rilancio della religione, come accade ai suoi fratelli di classe in Inghilterra, Francia, Italia, etc.

È una questione internazionale ed internazionalista quella che si pone e la sua soluzione è pertanto internazionale, anche se, come diceva Marx, può prendere forma nazionale. Oggi più che mai solo con la rivoluzione proletaria in Israele e in Palestina potrà finire la miseria, lo sfruttamento e la guerra perpetua.

Altrimenti la borghesia, costretta dalla crisi economica che attanaglia il capitalismo, travalicherà i limiti regionali scatenando una guerra mondiale. Non c’è pace nel capitalismo; non ci sarà in Israele, Palestina, Cisgiordania, Siria, Libano, Iraq... se il capitalismo non sarà abbattuto e distrutto.

Anche oggi, quando questo martirio che soffre il proletariato a Gaza sembra interminabile, dobbiamo ribadire che la sola prospettiva è la ripresa della lotta della classe operaia, unica vera forza reale di questa società che, nel suo affermarsi rivoluzionario, può eliminare il dolore, la sofferenza e la miseria della specie e la sua funesta lotta intestina. L’unica via possibile per arrivare a questo, alla pace post-capitalista, è la decisa lotta per il comunismo, che parte oggi dalla ricostruzione degli organi sindacali del proletariato e dalla rinascita della compagine militante che detiene la coscienza di classe, il Partito Comunista Internazionale.

Dal 30 marzo, per la commemorazione del “giorno della terra”, con grande preparazione da parte di vari gruppi politici, hanno avuto luogo nella striscia di Gaza manifestazioni con decine di migliaia di partecipanti che si sono avvicinati alla recinzione che separa Israele da quel ghetto di fame, povertà, sfruttamento e disoccupazione.

In prima fila insieme ai promotori hanno manifestato i giovani proletari e i disoccupati, quelli che non vedono nessun spiraglio di luce nel futuro.

La situazione a Gaza, sottoposta ad un embargo che dura da 11 anni, è insopportabile. La crisi economica, la mancanza di elettricità e il costante assedio dell’esercito israeliano vi mantengono il proletariato in una situazione di disoccupazione e miseria. I poveri sono l’80% e la disoccupazione è al 50%. Nel pubblico impiego l’incertezza nel pagamento degli stipendi ha portato a scioperi nella scuola, nella sanità, nei servizi.

L’incertezza politica si è accentuata quando l’appello alla riunificazione della Palestina proveniente dai gruppi politici borghesi che vi dominano, ha ricevuto un duro colpo, lo scorso mese di marzo, con l’attentato al primo ministro della organizzazione Al Fatah.

Tutto questo ha contribuito ad una partecipazione numerosa, nonostante siano presto arrivate le minacce di morte da parte dello Stato di Israele: già nella prima mattina hanno ucciso un agricoltore col pretesto che si era avvicinato troppo al muro e alla sera si sono contati altri 16 morti e oltre mille feriti. Nei mesi successivi le proteste sono continuate fino a culminare con la strage del 14 maggio, la vigilia del “giorno della Nakba” (termine con cui i palestinesi ricordano l’anniversario della nascita di Israele nel 1948 che produsse l’espulsione di 700.000 palestinesi dalle terre d’origine) in cui in un solo giorno sono state uccisi dai cecchini israeliani 60 giovani, per la maggior parte giovanissimi, mentre si sono contati oltre 2.700 feriti, la maggior parte di loro colpiti da armi da fuoco.

Le immagini hanno dimostrato ancora una volta tutta la vigliaccheria della borghesia israeliana: quella che si vanta l’unica democrazia in Medio Oriente applica la pena di morte come le più bieche dittature.

Ciò non è una sorpresa per il nostro Partito che, dalla sua origine e dalla sua lotta in Italia contro il fascismo, e nella Terza Internazionale contro la incipiente degenerazione stalinista, ha sempre messo in chiaro che democrazia e dittatura, democrazia e fascismo, siano complementari e che ognuna di queste ha una funzione specifica per la conservazione dello Stato capitalista, il quale non esita ad utilizzarle, insieme ad ogni strumento di violenza disponibile, per difendere la sua esistenza.

Così la democrazia israeliana si macchia di nuovi crimini atteggiandosi a vittima. Non esiterà a fare lo stesso, quando sarà il momento, contro il proprio proletariato, quello che vive dentro la sua maledetta frontiera, protetta da soldati molti dei quali figli di proletari spediti a morire e ad ammazzare in nome della difesa dello Stato. Quello d’Israele non è diverso da ogni Stato borghese, fascista, quel fascismo che dalla seconda guerra mondiale è nella sostanza succeduto alla democrazia anche negli Stati che ancora ostentano forme liberali.

Il proletariato palestinese e quello israeliano, sono legati, lo vogliano o no, e dipendono l’uno dall’altro. La condizione dei palestinesi nella striscia di Gaza è legata indissolubilmente a quella di tutto il proletariato nella Palestina storica. Che non sia risolvibile con un intervento delle borghesie della regione lo dimostra la conclamata Nazione Araba che ancora oggi, come sempre ha fatto ieri, volta le spalle al proletariato palestinese e alle sue lotte. L’Egitto, che in altri tempi si vantava paladino del panarabismo, oggi è il complice assassino della borghesia israeliana. Il covo di ladroni che si chiama Lega Araba è un ammasso di egoismi impegnati in guerre intestine, che ancora una volta dimostrano che la supposta unità nazionale araba è ormai solo un inganno per nascondere la realtà della lotta di classe propria di ogni capitalismo.

Oggi i vari imperialismi sono in lotta tra loro per accaparrarsi e sfruttare le materie prime di ogni paese e per controllare le rotte geografiche.

La questione palestinese, che la nostra corrente ha seguito dagli anni ’30, ed anche la prospettiva due Stati per due Nazioni non sarebbe la soluzione per la condizione del proletariato della striscia di Gaza e della Cisgiordania.

La borghesia palestinese ha sempre collaborato con la sua pretesa nemica, la borghesia israeliana, entrambe alleate contro il proletariato. E contro il proletariato è anche la “rivoluzionaria” e “guerrigliera”, e come tale glorificata dalle “sinistre” mondiali, Organizzazione per la Liberazione della Palestina, burattino di Tel Aviv, con cui firmò gli accordi di Oslo, e che oggi governa in Cisgiordania con il compito di tener buono il combattivo proletariato palestinese. Questo suo ruolo lo svolge negando la libertà sindacale, soffocando ogni tentativo di organizzazione di classe, utilizzando varie corruttele e minacciando con la fame gli operai che rifiutano questa conciliazione e lo sfruttamento. Stringe accordi con i compari israeliani, vendendo il lavoro dei palestinesi a prezzi bassissimi e traendoci ricche tangenti.

È così che funziona il Capitale e sono questi i metodi borghesi che lasciano dietro di loro un mare di lacrime e di sangue.

A Gaza è la stessa cosa. L’organizzazione antiproletaria di Hamas da una parte collabora efficacemente con il governo israeliano per soggiogare la classe operaia, impedendo ogni suo tentativo di organizzazione e reprimendo con durezza ogni reazione che provi a far fronte al ferreo embargo cui è sottoposta la popolazione proletaria, provata dalla dura crisi economica, dall’altra parte esalta il nazionalismo palestinese e la lotta contro l’occupazione, mentre si accorda con Israele ed Egitto, responsabili di tutta la miseria esistente in questa piccola e popolatissima striscia di terra. È per mantenere il potere che spinge i proletari di Gaza a mettere a rischio la loro vita per obiettivi non loro.

È chiaro che la strada che oggi si percorre è la stessa di tutte le organizzazioni affini come, Fatah, FPLP, FDPLP, etc. etc.: l’intesa con Israele per lo sfruttamento comune dei proletari nei rispettivi territori.

È significativo che Israele, nelle numerose incursioni nella striscia, non ha colpito questa organizzazione, al contrario ne ha aiutato e finanziato la nascita e la crescita. Come dimostrato ampiamente dal nostro partito, questa è la natura di tutti questi gruppi di “fedayn”, di matrice borghese e che professano ideologie derivate dallo stalinismo e dal revisionismo.

La questione della solidarietà di classe, che oggi manca, è internazionale. Il proletariato israeliano non è un caso speciale, una “eccezione”; esso è parte del proletariato occidentale, sottoposto alla grancassa dei mezzi di comunicazione la cui lezione non può essere altro che quella della ideologia dominante, intrisa di nazionalismo, di fascismo, di razzismo, di rilancio della religione, come accade ai suoi fratelli di classe in Inghilterra, Francia, Italia, etc.

È una questione internazionale ed internazionalista quella che si pone e la sua soluzione è pertanto internazionale, anche se, come diceva Marx, può prendere forma nazionale. Oggi più che mai solo con la rivoluzione proletaria in Israele e in Palestina potrà finire la miseria, lo sfruttamento e la guerra perpetua.

Altrimenti la borghesia, costretta dalla crisi economica che attanaglia il capitalismo, travalicherà i limiti regionali scatenando una guerra mondiale. Non c’è pace nel capitalismo; non ci sarà in Israele, Palestina, Cisgiordania, Siria, Libano, Iraq... se il capitalismo non sarà abbattuto e distrutto.

Anche oggi, quando questo martirio che soffre il proletariato a Gaza sembra interminabile, dobbiamo ribadire che la sola prospettiva è la ripresa della lotta della classe operaia, unica vera forza reale di questa società che, nel suo affermarsi rivoluzionario, può eliminare il dolore, la sofferenza e la miseria della specie e la sua funesta lotta intestina. L’unica via possibile per arrivare a questo, alla pace post-capitalista, è la decisa lotta per il comunismo, che parte oggi dalla ricostruzione degli organi sindacali del proletariato e dalla rinascita della compagine militante che detiene la coscienza di classe, il Partito Comunista Internazionale.

 

 

 

 

 

 
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Riunione generale del partito
26-28 gennaio 2018

(Continua dal numero scorso)
 
Sommario

 
Attività sindacale del partito

Il resoconto sull’attività sindacale alla precedente riunione generale, di fine settembre, si era incentrato sul quanto abbiamo fatto per promuovere, all’interno delle varie organizzazioni sindacali di base, una agitazione volta all’organizzazione di uno sciopero generale unitario di tutto in sindacalismo cosiddetto conflittuale, e che coinvolgesse anche le correnti di opposizione di sinistra in Cgil, combattendo l’indirizzo delle dirigenze di questi sindacati che prospettavano due scioperi generali separati ed in concorrenza a distanza di poche settimane, come poi è effettivamente avvenuto.

Nel riportare tale attività eravamo giunti fino all’indomani di una assemblea nazionale svoltasi a Milano il 23 settembre, una settimana prima della nostra riunione generale, organizzata da una delle due parti del sindacalismo di base, per promuovere il proprio sciopero, che sarebbe stato il 27 ottobre.

Tutta questo impegno si era sviluppato attorno ad un documento a sostegno dello sciopero generale unitario intitolato “Appello per la formazione di un fronte unico sindacale di classe, per un’azione generale di lotta di tutta la classe lavoratrice, in difesa della libertà di sciopero”. Era stato redatto dai nostri compagni in collaborazione con altri militanti sindacali non appartenenti al nostro partito, ma che esprimeva nella sua interezza il nostro indirizzo sindacale relativamente alle questioni ivi affrontate, conferma questa di come le nostre posizioni sindacali possano essere accolte nella classe in generale, oltre i confini organizzativi del partito.

All’assemblea milanese del 23 settembre siamo intervenuti a nome del gruppo di militanti sindacali riunitosi attorno a quell’Appello, ribadendone i contenuti.

Di questa attività, fino a quella assemblea, abbiamo reso conto ampiamente nel numero di settembre-ottobre di questo giornale nell’articolo “Il percorso accidentato ma segnato verso un fronte unico sindacale di classe”, e nell’articolo “Le valutazioni e l’intervento della nostra frazione sindacale nella vicenda del doppio sciopero generale” nel numero successivo di novembre-dicembre.

Successivamente all’assemblea milanese – che ha sancito l’organizzazione dei due scioperi separati – i nostri compagni e gli altri promotori dell’Appello hanno redatto un “Bilancio della battaglia per il fronte unico sindacale di classe e per l’unità d’azione dei lavoratori e nostro indirizzo conseguente”, reso pubblico il 13 ottobre.

Parallelamente al lavoro a sostegno di questo gruppo intersindacale, che ha l’obiettivo di rafforzare e coordinare i gruppi che all’interno di ciascuna organizzazione sindacale appoggiano l’indirizzo dell’unità d’azione delle organizzazione economiche della classe lavoratrice, abbiamo organizzato un ciclo di conferenze pubbliche del Partito che evidenziasse come questo indirizzo sia proprio del nostro Partito, che ne è il solo autentico e coerente sostenitore ed attuatore. Abbiamo tenuto le conferenze, successivamente, a Bologna, Firenze, Roma, Genova e Torino, a cavallo dei due scioperi generali: le prime tre prima dello sciopero del 27 ottobre, le ultime due prima dello sciopero del 10 novembre. Il titolo che vi abbiamo dato è stato: “Per l’unificazione delle lotte della classe lavoratrice. Per il fronte unico sindacale di classe”, in sintonia con la forma e il contenuto dell’Appello promosso dal gruppo intersindacale.

Il testo della Conferenza è stato trascritto e pubblicato nei numeri di novembre-dicembre e gennaio-febbraio di questo giornale. In esso si spiega la correttezza dei due indirizzi di “unificazione delle lotte della classe lavoratrice” e del “fronte unico sindacale di classe” sul piano sindacale, il loro reciproco rapporto e come essi si inquadrino con la lotta e le finalità politiche del partito comunista.

Alle manifestazioni per i due scioperi generali abbiamo distribuito un volantino intitolato “Per unificare le lotte della classe operaia, Per il fronte unico sindacale di classe”: il 27 ottobre alle manifestazioni di Milano, Bologna, Firenze e Roma, il 10 novembre a quelle di Genova, Bologna e Firenze, qui solo un poco modificato. Siamo anche intervenuti col medesimo testo alla manifestazione di sabato 11 novembre a Roma, promossa dalla cosiddetta Piattaforma Eurostop a cui la dirigenza di Usb, che a quel cartello politico aderisce, ha cercato, con metodi scorretti, di portare i suoi iscritti, per altro con scarsi risultati.

In seguito a un contatto preso durante la conferenza svolta a Roma abbiamo rilasciato a nome del gruppo sindacale una intervista scritta alla redazione romana di un sito politico-sindacale di nome “Il pane e le rose”, a cui la redazione ha dato ampio risalto intitolandola «Perché, oggi più che mai, è necessaria l’unità d’azione del sindacalismo di base. Una conversazione con “I promotori dell’appello ‘Per un fronte unico sindacale di classe’”».

Abbiamo inoltre partecipato all’iniziativa promossa dal giornale dei ferrovieri “Ancora in marcia”, sia all’assemblea del 25 novembre sia ad una riunione più ristretta del 3 gennaio, entrambe svoltesi a Firenze. Lo scopo proclamato di queste riunioni era analogo a quello del gruppo intersindacale formatosi attorno all’Appello per lo sciopero unitario: l’unità d’azione del sindacalismo di base. Tuttavia l’iniziativa presentava tre vizi di fondo: primo, l’assemblea del 25 febbraio ha approvato un documento che non è stato realmente discusso, di cui si richiede la sottoscrizione, e che per noi non è accettabile in quanto pregno di riformismo, a cominciare dalla difesa della Costituzione e della democrazia. Secondo, il carattere esclusivamente politico di tale documento faceva temere che vi fosse la volontà di allargare l’iniziativa oltre il campo sindacale, coinvolgendo gruppi e movimenti politici – appunto sul terreno della difesa della democrazia – al solito fine di “far numero”. Terzo, che il percorso proposto, diversamente da quello da noi prospettato, e si imperniava su una grande assemblea-evento che avrebbe dovuto svolgersi a maggio. Un progetto quindi che vorrebbe alimentarsi, invece che con il lavoro dei militanti sindacali, solo con la propaganda di sé stesso e nel numero bruto dei partecipanti.

Inoltre abbiamo proseguito a seguire, in particolare, l’attività dell’Usb e del SI Cobas.

Abbiamo partecipato il 9 ottobre alla manifestazione degli operai delle acciaierie dell’ILVA, organizzata dalla Fiom, cui ha partecipato anche l’Usb genovese, decisione sostenuta dai nostri compagni. A questa manifestazione, come era stato per quella precedente del 4 giugno, siamo intervenuti con un apposito volantino (“Unire ed estendere la lotta operaia”.

Riguardo al SI Cobas abbiamo scritto una breve nota relativo allo sciopero promosso dai sindacati di regime – Cgil, Cisl, Uil e Ugl – presso il grandissimo magazzino logistico della Amazon a Piacenza, il 24 novembre (“I sindacati di regime alla prova dello sciopero alla Amazon”. Lo sciopero è stato sostenuto dal SI Cobas, il quale si è così tenuto sui binari dell’unità d’azione dei lavoratori, pur non lesinando, correttamente, le necessarie denunce delle manchevolezze dei sindacati promotori dell’agitazione.
 
 
La questione militare - Sul fronte occidentale 1915‑16

Dopo un breve richiamo alla fase iniziale del conflitto sul fronte occidentale, il rapporto esponeva l’apparente stallo in quel settore nel 1915, conseguenza delle sanguinose battaglie del 1914, con esiti alterni per i due eserciti, che di fatto decretavano il fallimento del piano di attacco tedesco. Le forze dell’Intesa erano infatti riuscite nel novembre 1914, nella prima battaglia di Ypres, ad evitare lo sfondamento da parte delle truppe tedesche, pur avendo dovuto cedere territori. La guerra di movimento cedette il posto alla guerra di trincea: reticolati, fortificazioni e bunker.

Lo schema di battaglia adottato dagli anglo-francesi prevedeva un intenso bombardamento preventivo di diverse ore per distruggere le difese dei reticolati e le postazioni avanzate tedesche dopo di che la fanteria, attraversando rapidamente in file parallele la “terra di nessuno”, avrebbe dovuto occupare le linee nemiche con assalti alla baionetta.

Ma questi si risolsero sempre in massacri perché i tedeschi avevano realizzato per tempo bunker sotterranei a riparo dai bombardamenti, le fitte barriere dei reticolati resistevano alle granate e gli innumerevoli nidi di ottime mitragliatrici sterminavano facilmente gli attaccanti. Così fu nella seconda battaglia di Artois nel maggio 1915, parte della più estesa seconda battaglia di Ypres, con perdite dell’ordine di 100 mila francesi. Lo stesso massacro avvenne alla fine di settembre nella Champagne.

Tre giorni di bombardamenti di 250 mila granate e oltre 5 mila cilindri di gas asfissianti permisero un iniziale avanzamento, ma il contrattacco di sopravvenuti rinforzi tedeschi il 30 ottobre recuperò tutto il terreno. Nonostante le perdite francesi di 145 mila effettivi, contro 72 mila tedeschi, il generale francese Joffre riuscì a presentare questa battaglia come una vittoria, per la cattura di 25 mila prigionieri tedeschi e 150 cannoni.

Entrambi i comandi si resero conto dell’impossibilità di un significativo sfondamento delle linee avversarie. Per le forti piogge iniziate a novembre, che allagavano le trincee, furono sospese le offensive. Per evitare la fraternizzazione spontanea della “tregua di Natale” dell’anno prima furono ordinati bombardamenti proprio in quel giorno.

L’intenso uso dell’artiglieria fu tattica usata da entrambi i comandi, ma conseguente a due diverse concezioni: quella anglo francese mirava a neutralizzare le difese di superficie per poi avanzare con la fanteria, quella tedesca, più potente, di maggior numero e dotazione di proiettili, a sconvolgere direttamente le trincee.

La prospettiva generale dei tedeschi era indebolire la Francia fino a costringerla ad una pace separata, per poi colpire l’Inghilterra, ritenuta l’avversario principale.

Si passa quindi alla guerra d’attrito, infliggere all’avversario continue perdite di uomini e materiali fiaccandolo nelle risorse e nel morale. È la tattica utilizzata dagli eserciti che non sono in grado di prevalere su fronti campali, e nelle guerre asimmetriche dall’esercito più debole contro il più forte. Fu inizialmente introdotta dai romani durante le guerre puniche, poi dai sudafricani durante la seconda guerra anglo-boera, come abbiamo visto, e successivamente nelle guerre anticoloniali in Indocina.

Ma gli opposti comandi studiarono anche apposite offensive. Quello tedesco intese portare un potente attacco all’importante piazzaforte di Verdun per incunearsi tra il fronte inglese e quello francese e per avvicinarsi a Parigi. Alla nostra riunione la situazione sul campo è stata illustrata con un’apposita cartina.

Gli inglesi per alleggerire la pressione su Verdun intendevano portare una grande offensiva a nord, presso il fiume Somme. Chiesero agli alleati russo e italiano di intensificare le operazioni per impegnare i tedeschi sugli altri fronti. Puntavano sulla loro efficiente industria che consentiva prolungati bombardamenti per poi lanciare la fanteria sulle difese avversarie e la cavalleria in profondità a conseguire la vittoria. Il piano inglese però non teneva conto delle posizioni favorevoli occupate dai tedeschi sui crinali delle colline, della maggiore esperienza di quelle truppe rispetto alle loro reclute volontarie che avevano scarso addestramento e nessuna esperienza di quel tipo di guerra.

L’attacco tedesco su Verdun era molto semplice: era affidato all’artiglieria il bombardamento al mattino e all’avanzata della fanteria al pomeriggio; ogni reparto aveva un preciso obiettivo da raggiungere in un dato momento. Questi i numeri dell’artiglieria: su un fronte di 14 chilometri furono piazzati 1.220 pezzi, uno ogni 12 metri, con 2,5 milioni di proiettili sufficienti per i primi 6 giorni, oltre a 8 compagnie di lanciafiamme per il loro impiego in battaglia, tutto materiale trasportato con 1.300 treni. La fanteria era al riparo di bunker sotterranei in attesa del contrattacco.

Dopo ritardi per il maltempo l’attacco sui forti esterni a difesa di Verdun iniziò il 21 febbraio 1916 ottenendo un primo successo perché i francesi, non pensando ad un attacco alla piazzaforte, ritenuta imprendibile, avevano distolto uomini e artiglieria. I rinforzi francesi via via inviati a difendere “la patria in pericolo” impedirono la sconfitta ed assorbirono sempre più risorse tedesche, soprattutto dopo l’inizio dell’offensiva inglese sulla Somme partita il 1° luglio.

Il generale francese Nivelle adottò un nuovo tipo di assalto, lo “sbarramento mobile” ossia, dopo il bombardamento preventivo, partiva un esteso lancio di un fronte di granate che avanzava a ritmo anticipato rispetto quello della fanteria così da bloccare gli avversari nei rifugi e permettere l’avanzata degli attaccanti protetti dal loro stesso tiro. Non sempre funzionò e molte furono le perdite per “fuoco amico”.

Attacchi e contrattacchi a Verdun durarono fino all’inizio dell’inverno con i tedeschi che difendevano strenuamente le poche posizioni conquistate più per valore simbolico che militare.

Verdun si concluse con uno stallo anche se va considerato che le sole truppe francesi, inferiori per numero, riuscirono a bloccare l’offensiva tedesca, e ciò fu da loro considerata una mezza vittoria.

Non è noto il numero dei soldati intervenuti nella battaglia per i continui avvicendamenti francesi; si sanno invece quelli delle perdite: le stime francesi sono per 420 mila caduti per parte, 800 mila intossicati dai gas o feriti, 150 mila caduti non identificabili. L’artiglieria tedesca sparò 22 milioni di colpi, quella francese 15 milioni.

Per la grande offensiva anglo-francese sulla Somme il fronte inizialmente previsto di 60 chilometri fu poi ridotto solo a 13, e le divisioni da 40 a 16, con i britannici costretti ad un maggior impegno non potendo i francesi togliere truppe da Verdun.

La criminale borghesia inglese, per sopperire alla bisogna lanciò una campagna per l’arruolamento volontario di giovani reclute con la garanzia di inserire nelle stesse unità quanti provenivano dalla stessa realtà sociale: paese, officina, quartiere urbano, ecc. Formò così 30 nuove divisioni composte di “pal battalion”, battaglioni d’amici, per favorire la reciproca solidarietà e mascherare l’assoluta mancanza di esperienza.

Il comandante inglese Haig volle credere che i tedeschi stessero per esaurire le loro risorse e riusci a concentrare uno schieramento di artiglieria di 3 mila pezzi, uno ogni 20 metri del fronte, con 2 milioni di colpi. Intanto nei mesi precedenti i suoi genieri avevano scavato 10 profonde gallerie con una fitta diramazioni di caverne fin sotto le principali difese tedesche, tutte riempite con tonnellate di un nuovo potente esplosivo che sarebbe stato fatto esplodere subito dopo il lungo bombardamento preventivo e prima dell’assalto della fanteria.

Il 24 giugno iniziò l’intenso bombardamento inglese che durerà una settimana in cui furono anche aperte 10 mila bombole di cloro e fosgene. L’assalto della fanteria fu però rinviato di 48 ore per la pioggia costringendo i fanti a stazionare nelle trincee allagate nella sfibrante attesa dell’ordine d’attacco.

Il 1° luglio alle 7,00 del mattino il bombardamento giunse al culmine dell’intensità: nell’ultima ora furono sparate 250 mila granate al ritmo di 70 al minuto secondo.

Alle 7,20 fu fatta esplodere l’enorme mina sotto un importante caposaldo tedesco, alcuni minuti dopo le rimanenti mine sotterranee e furono aperte 27 mila bombole di gas.

Alle 7,30 ai fanti inglesi fu dato fu dato l’ordine dell’assalto e, dove le linee tedesche erano distanti oltre il chilometro, fu detto di avanzare al passo per non affaticarsi nella corsa con zaini carichi fino a 30 chilogrammi di munizioni.

Ma scoprirono subito che le fitte barriere di reticolati erano praticamente intatte: la maggior parte delle granate non erano esplose perché difettose.

Mancato l’effetto sorpresa per il rallentamento degli attaccanti, i difensori, riemersi dai bunker sotterranei, azionarono le mitragliatrici mirando verso gli ufficiali inglesi, che al tempo vestivano ancora un’uniforme diversa da quella della truppa.

Il primo giorno fu un completo disastro per le forze inglesi che persero 58 mila uomini contro 8 mila tedeschi.

Il terreno di battaglia era così devastato che occorsero giorni per capire in quali condizioni si sarebbero potute sviluppare le prossime offensive.

Haig alla fine si rese conto dell’impossibilità di sfondare le linee tedesche per cui puntò su risultati parziali in limitati punti del fronte proseguendo nella guerra d’attrito che si protrasse senza significativi avanzamenti fino al prematuro arrivo delle piogge autunnali.

Nella lunga battaglia della Somme non vi fu un chiaro vincitore perché le conquiste territoriali inglesi di 8 chilometri nella massima profondità costarono 600 mila perdite contro 400 mila tedesche con il consumo di un’enorme quantità di materiale bellico che il poderoso sviluppo delle rispettive forze produttive era ancora in grado di fornire, ma non per molto.

Riprese la guerra di trincea caratterizzata da tre elementi principali: le granate, i cecchini e il fango. Intanto entrambi i comandi militari pensavano alle offensive per il 1917.
 
 
Storia della lotta della classi in India - 1920‑35

Il compagno continuava la serie di rapporti sulla storia dell’India descrivendo il periodo tra il 1920 ed il 1934 quando il Partito del Congresso, dopo una serie di sconfitte, si presentò alle elezioni.

Nel settembre del 1920 Gandhi aveva pubblicamente dichiarato che attraverso il Programma di Non-Cooperazione in brevissimo tempo avrebbe ottenuto l’autogoverno per l’intera nazione Indiana; ma durante il congresso di Nagpur si evidenziò come tale previsione fosse poco realistica.

Nell’agosto 1921 i Moplah del Malabar, un gruppo etnico di religione islamica formato prevalentemente da contadini poveri, mobilitati dalle parole d’ordine dei Non-Cooperatori, diede origine ad una estesa ed intensa rivolta che interessò diversi distretti della regione. L’insurrezione, assumendo contemporaneamente le dimensioni di una guerra anticoloniale e di ribellione contadina contro i grandi proprietari terrieri e i prestatori di denaro, non aveva una direzione centralizzata e venne soffocata dalle autorità coloniali solo un anno più tardi.

A partire dagli ultimi mesi del 1921 e con l’inizio del 1922 la situazione dell’ordine pubblico, soprattutto nelle Province Unite, si deteriorò. Gandhi non era in grado di dirigere e controllare la stragrande maggioranza del movimento secondo le sue direttive non violente. Il 4 febbraio 1922 a Chauri Chandra, un villaggio delle Province Unite, la folla attaccò la locale stazione di polizia uccidendo 21 poliziotti.

Otto giorni dopo il movimento di Non-Cooperazione fu sospeso. Gandhi era vittima della sua stessa politica ed il governo coloniale non tardò ad approfittarne arrestandolo nel marzo del 1922 con una successiva condanna a sei anni di reclusione, senza che vi fosse nessuna reazione popolare.

Con la fine del movimento di Non-Cooperazione il processo di divisione tra musulmani ed indù aumentò. Tra il 1923 e il 1926 il numero di incidenti intercomunitari quadruplicò rispetto al periodo tra il 1900 e il 1922. Negli anni successivi emersero diverse associazioni estremiste hindu come la RSS (Rashtriya Swayamsevak Sangh), non attive nella lotta anticoloniale ma negli scontri con i musulmani.

Quando nel giugno 1929 i laburisti vinsero le elezioni inglesi divenne presto evidente che, nonostante le posizioni assunte ai tempi dell’opposizione e le promesse della campagna elettorale, neppure i laburisti avrebbero concesso all’India l’autogoverno.

Il Congresso il 31 dicembre 1929 dichiarò, quasi costretto, che il suo obiettivo era il raggiungimento della completa indipendenza. A Gandhi fu reiterato il compito di guidare un nuovo movimento di disubbidienza civile, che iniziò con la famosa marcia che lo portò da Ahmedabad a Dandi, tra il 12 marzo e il 5 aprile 1930, con l’intento di infrangere pubblicamente la legge sul monopolio statale della produzione e della vendita del sale. Gandhi si mise in viaggio accompagnato da numerosi giornalisti. Le masse e gli operai di alcune città pronti allo sciopero erano nuovamente invitate a pazientare.

In diverse parti dell’India vi furono azioni di boicottaggio contro i tessuti e i vestiti stranieri, contro i negozi di alcolici e, infine, contro le scuole e i collegi statali. Ma, accanto alle forme di lotta dettate da Gandhi, riemerse il movimento terrorista. La prima azione avvenne proprio in Bengala con l’attacco, condotto con successo a Chittagong, contro un’armeria della polizia. La risposta del governo alla radicalizzazione del movimento e al parallelo riemergere del terrorismo fu quella di alzare nuovamente il livello della repressione. Gandhi venne arrestato nel maggio 1930, il Congresso venne messo fuori legge, i suoi fondi vennero congelati e le sue pubblicazioni bandite.

Dopo un periodo di perdita d’energia, il movimento di disubbidienza civile si spostò dalle città – a cui, fino a quel punto, era stato prevalentemente limitato – alle campagne. Ciò fu conseguenza del manifestarsi anche in India degli effetti della crisi economica mondiale, emersa dopo il crollo della borsa di Wall Street nell’ottobre del 1929.

La crisi economica degli anni trenta fu in parte il risultato di un processo di sovrapproduzione agricola. Negli anni precedenti, la meccanizzazione dell’agricoltura negli Usa e in Canada aveva portato a un tale aumento nella produzione del grano che, per non abbattere i prezzi, si era fatto ricorso all’immagazzinamento su larga scala della produzione in eccesso. A sua volta questo si era reso possibile grazie alla disponibilità del credito necessario per la costruzione e la manutenzione dei silos.

Il crollo nel 1929 di Wall Street lanciò un’ondata di panico che avviò una serie di fallimenti bancari. Questo portò al collasso del sistema creditizio e, senza più crediti, i produttori di grano riversarono le loro scorte sul mercato determinando quindi il crollo dei prezzi. L’Inghilterra, per un perverso processo a domino, non era ormai più in condizione di far fronte alla crisi. Scoppiò così una crisi di liquidità che da Londra si ripercosse sull’intero sistema bancario britannico e da lì nel resto del mondo, India compresa.

Nel subcontinente la scarsità del credito bancario mise in difficoltà i grandi mercanti locali che acquistavano la produzione agricola indiana grazie ai finanziamenti ottenuti dalle banche. In passato le classi dominanti del mondo rurale immagazzinavano la produzione in attesa che i prezzi crescessero. Ma a partire dall’estate del 1930 i prezzi del grano continuarono a diminuire trascinando al ribasso anche il miglio. L’imposizione fiscale, che era rimasta costante da molti anni e in misura fissa rispetto alla produzione, assunse un peso insopportabile. Alle classi sfruttate del mondo rurale venne meno il credito a loro tradizionalmente concesso e questo significò rischiare di essere spinti, sempre più frequentemente, al di sotto del livello di sopravvivenza. La produzione agricola crollò e le tensioni sociali divennero esplosive.

In questo scenario gli attivisti del Congresso ebbero buon gioco nel diffondere le parole d’ordine del nazionalismo, esortando i contadini indiani al non pagamento dell’imposta terriera.

Se la politica espressa fino a quel momento dal Congresso era fondata sulla capacità di mantenere una parvenza di unità di tutte le classi sociali, mobilitate nella lotta contro lo stato coloniale, durante le agitazioni nel mondo rurale furono le tensioni fra i gruppi dominanti a livello locale e i contadini poveri a diventare sempre più frequenti, mettendo la stessa dirigenza del Congresso di fronte al problema di quale linea seguire. La scelta fu quella di appoggiare i gruppi sociali dominanti a livello locale. Quegli attivisti del Congresso che, almeno a parole, continuavano a portare avanti le rivendicazioni delle classi sfruttate, vennero progressivamente emarginati.

Allo stesso tempo alcuni tra i grandi industriali e finanzieri – che avevano attivamente appoggiato il partito – si dimostravano sempre più inquieti sull’opportunità di continuare a finanziare il Congresso. Costoro avevano sostenuto Gandhi perché scontenti della politica economica del governo coloniale, ora però iniziavano a essere allarmati dall’eventualità che le continue agitazioni promosse nell’ambito del movimento di disubbidienza civile potessero contribuire al crollo dell’economia e sfociare in rivolte sociali.

La vigliacca borghesia indiana non tardò a porre rimedio a questo rischio: nel marzo 1931 vi fu un accordo fra il Viceré e Gandhi. Quello che passò alla storia come il patto Irwin-Gandhi prevedeva la sospensione del movimento di disubbidienza civile. Il patto venne criticato dalla sinistra del Congresso ed anche dal giovane movimento sindacale operaio che in quegli anni provava a rafforzarsi in alcune città. Gandhi, recatosi in Inghilterra, andò incontro ad un nuovo insuccesso. Nel gennaio 1932, costretto dagli eventi, decise di riprendere la disubbidienza civile, ma questa volta il movimento si dimostrò fin dall’inizio debole e privo di slancio, e la ragione non va ricercata nella feroce repressione britannica ma nello scarso seguito dimostrato dalle classi contadine, oltre che da quelle dominanti.

In questo quadro nel 1933 la maggioranza dei congressisti, non certo interessati alle sorti delle classi sfruttate, si era convinta che l’unica via percorribile fosse il ritorno alla “lotta parlamentare”. Nel maggio 1934, con la benedizione di Gandhi, si decise che sarebbe stato il Congresso in prima persona a partecipare alle elezioni. Così nelle elezioni dello stesso anno conquistò 44 degli 88 seggi elettivi (altri 39 erano riservati a deputati nominati dal Viceré), confermandosi alle urne come il maggior partito indiano.
 
 
Ricapitolando sulla rivoluzione in Cina

La Cina di oggi, dopo travagliati decenni di sviluppo capitalistico, è diventata uno dei maggiori Paesi imperialisti, e si presenta sul mercato mondiale come un brigante tra i briganti, pronta a sostituirsi agli Stati Uniti d’America come maggiore potenza mondiale. I proletari e i contadini poveri cinesi, che oggi conoscono bene cosa significhi portare le catene dell’oppressione capitalistica nelle fabbriche e nei campi, domani saranno chiamati dalla borghesia a versare il loro sangue per la Patria.

L’imperialismo cinese cerca, e cercherà sempre di più, di corrompere le giovani generazioni operaie per distoglierle dalla lotta per i propri interessi. I proletari cinesi non si schiereranno a sostegno dell’imperialismo dei loro padroni ma torneranno a darsi un’organizzazione di classe, dei combattivi sindacati, e a ricollegarsi con il programma del comunismo rivoluzionario.

Non è qualcosa di nuovo per il proletariato cinese, quel giovane proletariato che ha una gloriosa tradizione a cui richiamarsi, tornando ai metodi di lotta e di organizzazione delle sue prime generazioni operaie.

Dal 1920 al 1927 la Cina ha dato il più importante esempio di un’azione indipendente della classe proletaria nella storia dei moti anticoloniali. Negli anni Venti il proletariato cinese, in numero fortemente ridotto rispetto all’oceano contadino, riuscì ad avere un posto di assoluto rilievo nelle lotte di classe che si sviluppavano in Cina e si pose alla testa della nascente rivoluzione che poteva essere ad un tempo nazionale e proletaria. I sindacati, quasi inesistenti in Cina prima degli anni Venti, si formarono allora, e condussero lotte e scioperi che furono delle vere guerre di classe, che hanno lasciato sul campo tanto sangue operaio ma anche significative testimonianze nella storia del nostro movimento, come la vittoria dell’insurrezione di Shanghai, che prima di essere sconfitta dalle armi di Chiang Kai-shek fu disarmata e condotta al massacro dal tradimento staliniano.

Il Partito Comunista Cinese, sebbene di numero esiguo all’atto di nascita, si mise ben presto alla testa dei sindacati e divenne il punto di riferimento per il proletariato cinese e, in alcune zone, anche per le masse contadine. Il PCC, nato nel ’21, si sviluppò nel pieno di grandi lotte sociali e avrebbe potuto assumere il ruolo di guida della rivoluzione cinese se l’opportunismo, penetrato nell’Internazionale, non lo avesse condannato a rinunciare alla sua autonomia politica ed organizzativa.

L’Internazionale, facendo entrare il PCC nel Kuomintang e affidando a quest’ultimo la guida della rivoluzione cinese, determinò l’inevitabile sconfitta del comunismo in Cina.

La disfatta dei comunisti in Cina ha avuto per le rivoluzioni dell’Oriente l’importanza che in Europa ebbe il fallimento della rivoluzione tedesca. Ritornare sulle grandi lotte che hanno sconvolto la Cina negli anni Venti significa per il Partito ricercare le cause della sconfitta e prepararsi per il prossimo assalto rivoluzionario.

* * *

Per poter meglio descrivere la lotta di classe che si sviluppa in Cina negli anni Venti, è necessario ricostruire gli sconvolgimenti delle vecchie forme economiche e delle organizzazioni sociali che si sono succedute nell’immenso paese.

La grande stabilità delle sue storiche istituzioni è stata una costante dell’evoluzione sociale cinese e lungo ed arduo è stato lo sforzo rinnovatore tendente a crearne di nuove.

Nella sua prima fase l’intervento occidentale non è in grado di scalfire uno Stato ben organizzato come quello cinese. La libertà di commercio è fortemente limitata. Verso la fine del Seicento, sotto la dinastia Qing è permesso agli stranieri di commerciare con la Cina solo nel porto di Canton. Dinanzi agli emissari del capitalismo occidentale, che spingono per un maggiore accesso al ricco mercato cinese, la Cina si chiude in se stessa.

Così l’Inghilterra, divenuta la fabbrica del mondo, non può trovare in quel vasto mercato sfogo per la sua produzione industriale, mentre sono alte le sue importazioni dalla Cina, come quelle del tè, che ha preso il posto del latte nella magra colazione del lavoratore inglese. Per far fronte a questo deficit commerciale sono utilizzate grandi quantità d’argento. L’Inghilterra ferma questa emorragia di metalli preziosi con il commercio dell’oppio.

Il commercio di questa droga, prevalentemente in mano inglese, ha funeste conseguenze nella società cinese: assottiglia le disponibilità d’argento e intacca l’erario perché è un commercio illegale. In questo modo spariscono i capitali e le riserve necessarie per l’attuazione dei grandi lavori di regolamentazione delle acque, determinando l’abbandono della necessaria manutenzione con effetti disastrosi nelle campagne e negli approvvigionamenti alimentari.

Per reagire allo sfacelo economico, il governo cinese intraprende una campagna di repressione del traffico della droga che lo porta, in breve tempo, allo scontro aperto con gli occidentali: dal 1839 al 1860 si combattono le Guerre dell’Oppio fra la Cina e l’Inghilterra e, in seguito, anche con la Francia. L’Impero, ogni volta sconfitto, deve sottostare alle imposizioni delle potenze straniere.

Ma come sosteneva Marx il cannone inglese aveva dato occasione alla rivolta sociale dei Taiping. La forza delle armi inglesi aveva spezzato il secolare isolamento in cui la Cina era chiusa, e le ragioni erano esclusivamente economiche. Dopo l’oppio, altri prodotti inglesi invasero il mercato cinese, mandando in rovina l’industria e l’artigianato locale. Il declino dell’autorità imperiale, la rovina dell’artigianato domestico, l’aggravamento fiscale sui contadini, tutti questi fattori misero fine alla stabilità millenaria dell’Impero.

Senza farsi illusioni sul “socialismo” dei Taiping, Marx si chiedeva se la rivoluzione borghese in Cina avrebbe avuto ripercussioni sul capitalismo bianco e avrebbe dato una scossa rivoluzionaria alla vecchia Europa. Scrive Marx: «Ora che l’Inghilterra ha provocato la rivoluzione in Cina, si pone il problema di come quella rivoluzione col passare del tempo reagirà sull’Inghilterra e attraverso l’Inghilterra sull’Europa. Problema di non difficile soluzione».

L’entrata della Cina nel mercato mondiale era il risultato dell’espansione del capitale, ma anche la possibilità storica di nuove crisi e nuove rivoluzioni. Secondo Marx una rivoluzione borghese in Cina avrebbe avuto conseguenze funeste per l’Occidente capitalistico: contrazione del mercato, crisi commerciale e rivoluzione sociale in Europa. Lo straordinario sviluppo dell’industria manifatturiera inglese sarebbe stato travolto da una grande crisi commerciale di sovrapproduzione che avrebbe provocato disoccupazione e miseria in Inghilterra e avrebbe avuto ripercussioni in tutta Europa.

Un elemento di acutizzazione di tale crisi poteva essere la resistenza all’espansione del commercio in Cina, determinato dalla rivoluzione in questo paese. Anche se questa prospettiva non si è verificata, è di enorme importanza la teorizzazione di un legame diretto tra la rivoluzione in Cina e il sollevamento dell’Europa, ed è di grande significato l’affermata possibilità storica che i moti europei potevano avere per punto di partenza una rivoluzione sociale nella lontana Cina. L’idea che vi possa essere concomitanza, nell’azione contro il capitalismo delle metropoli bianche, tra la lotta di classe interna degli operai e la ribellione dei popoli di oltremare al dominio coloniale, non è una novità nata a cavallo tra Ottocento e Novecento da quando Lenin analizzò il fenomeno dell’imperialismo, ma è una possibilità storica compiutamente descritta già da Marx e da Engels.

* * *

Dalle Guerre dell’Oppio in poi l’imperialismo smembra lentamente la Cina. Essa perde numerosi territori, e tutte le province tributarie dell’Impero cinese (Vietnam, Nepal, Birmania, Siam, Laos e Corea) cadono sotto il controllo straniero. Tutte le potenze imperialiste partecipano al banchetto attorno alla Cina. Gli ultimi anni dell’Ottocento vedono una potenza dopo l’altra strappare brigantescamente alla Cina concessioni territoriali, commerciali, ferroviarie.

La Cina si trova ad essere dominata da un consorzio di potenze, che costituiscono una vera e propria società per lo sfruttamento del Paese. Le potenze straniere per sfruttare la Cina si servono del tradizionale apparato di burocrati e di notabili, culminanti nella Corte imperiale. Questo è l’unico motivo che tiene ancora in vita la dinastia imperiale. Essa ormai non detiene alcun potere effettivo, e si è talmente indebolita che in varie regioni si afferma il dominio dei capi militari che diventeranno i cosiddetti Signori della Guerra.

Nel 1911 la rivoluzione abbatte la dinastia imperiale ed instaura la repubblica borghese sotto la presidenza di Sun Yat-sen, ma ben presto si rivela la sua inconsistenza. Il paese resta preda dei Signori della Guerra, tanto che presto Sun Yat-sen, spontaneamente, abbandona il potere nelle mani di Yuan Shih-kai, un Signore della Guerra. Il rinnovamento sociale del paese è soffocato sul nascere. Si tratta, in sostanza, di una rivoluzione incompiuta, a cui altre ne sarebbero succedute.

Scrive Lenin nel 1913: «È forse trascorso molto tempo da quando la Cina veniva considerata il modello dei paesi di completo e secolare ristagno? Ora in Cina ferve la vita politica, un movimento sociale e uno slancio democratico si manifestano vigorosamente. Dopo il movimento russo del 1905, la rivoluzione democratica si è estesa a tutta l’Asia: la Turchia, la Persia, la Cina». Fin dal 1913 Lenin tira gli insegnamenti dalla prima ondata delle rivoluzioni nazionali borghesi in Oriente: Russia (1905), Persia (1906), Turchia (1908), Cina (1911): «Le rivoluzioni dell’Asia ci hanno mostrato la stessa mancanza di carattere e la stessa viltà del liberalismo, la stessa straordinaria importanza dell’autonomia delle masse democratiche, e la stessa delimitazione tra il proletariato e tutta la borghesia».

Sarà la vittoria del proletariato in Russia ad aprire all’Asia intera la grandiosa prospettiva dell’alternativa tra rivoluzione comunista o controrivoluzione borghese. Dal momento in cui la Russia si era strappata dalla catena dell’imperialismo e in tutto il mondo era all’ordine del giorno la questione della rivoluzione proletaria, anche in paesi arretrati come la Cina si poteva e doveva ingaggiare direttamente la lotta per un regime dei Soviet.

L’Internazionale Comunista, prima che cadesse sotto i colpi della controrivoluzione stalinista, aveva lanciato la grande prospettiva di un’unione tra la lotta di classe nelle metropoli a capitalismo avanzato e le insurrezioni nazional-popolari nelle colonie, con la Russia rivoluzionaria al centro, un’unica strategia mondiale volta all’abbattimento del potere borghese in tutto il mondo.
 
Rapporto dei compagni venezuelani

I compagni hanno relazionato sull’America Latina nel corso del trascorso 2017, sulla situazione politica generale, con governi che ricorrono al populismo al fine della conservazione, e sulle lotte operaie. Una prima parte del rapporto trova già pubblicazione in queste stesse pagine, la seconda, dedicata specificatamente al Venezuela, apparirà nel prossimo numero.
 
La recente rivolta proletaria in Iran

In Iran fra la fine di dicembre e gli inizi di gennaio si è verificata un’ondata di scioperi e scontri di piazza che ha coinvolto una ottantina di centri grandi e piccoli in quello che è stato il movimento a carattere classista più ampio dopo l’instaurazione della repubblica islamica nel lontano 1979. Per la prima volta da allora, infatti, a opporsi al regime non sono state le mezze classi e gli strati colti delle grandi città, da sempre insofferenti dell’oscurantismo religioso del regime teocratico. Non a caso in questa occasione, diversamente da come avevano fatto ad esempio nel movimento del 2009 contro il regime, proprio questi strati sociali si sono tenuti perlopiù in disparte e hanno visto con sospetto il ritorno alla lotta della classe.

La classe operaia è tornata all’arma dello sciopero, nonostante la consapevolezza che avrebbero dovuto fare fronte alla repressione feroce da parte dello Stato capitalista, paludato da travisamenti religiosi.

Alla base delle ragioni dello sciopero erano le condizioni di vita sempre più dure dei lavoratori, imposte a causa dalle spese militari per l’impegno militare iraniano in Siria e in Iraq, oltre che per il sostegno ai ribelli Houthi in Yemen, e a causa dell’indebolimento del bilancio statale dovuto al calo del prezzo del petrolio dal 2014, il quale ha ridotto gli effetti dell’aumentato volume delle esportazioni consentito dalla fine delle sanzioni economiche in seguito alla firma dell’accordo sul nucleare iraniano del 2015.

L’ondata di scioperi è partita dalla città di Mashhad, la seconda per numero di abitanti del paese, dove l’ala populista, e meno disposta alle riforme di facciata del regime, ha tentato di sfruttare il malcontento diffuso dei lavoratori per il carovita, dovuto al venire meno del sostegno ai prezzi dei beni di prima necessità, motivato dal governo con le spese militari. Ma presto la rivolta è sfuggita di mano agli apprendisti stregoni del regime teocratico diffondendosi nei numerosi centri industriali del paese.

L’Iran ha un altissimo tasso di urbanizzazione (il 73% della popolazione vice in centri urbani) e ha conosciuto negli ultimi decenni un notevole sviluppo dell’apparato produttivo al punto che oggi si può considerare un paese capitalisticamente maturo, con il 32,5% della forza lavoro addetta all’industria.

I lavoratori hanno invaso le strade spinti dai salari fermi da molti anni, e spesso in ritardi nel pagamento, con saccheggi violenti e assaltando fra l’altro commissariati e sedi dei guardiani delle “rivoluzione”. Si scandivano slogan contro le spese militari, rifiutando la retorica propaganda governativa sempre pronta a vantare i successi militari delle milizie sciite sostenute dall’Iran e dei Pasdaran iraniani in Iraq e in Siria.

La mano dura dello Stato capitalista non ha tardato ad abbattersi inesorabile sui proletari in lotta non risparmiando il piombo: il regime stesso ha ammesso 23 morti e oltre mille arresti negli incidenti di piazza, mentre secondo altre fonti le vittime sarebbero stati più di 50 e gli arrestati 3.700. Per sedare le rivolte e contenere col terrore la rabbia operaia si è giunti a richiamare dai teatri di guerra all’estero e a dislocare in alcune città una parte delle milizie sciite straniere e dei pasdaran. Questo dimostra ancora una volta che l’impegno militare, anche se coronato da indubbi successi, non riesce sempre a sopire la lotta di classe, pronta a riesplodere. Lo Stato capitalista è perfettamente consapevole che il nemico più pericoloso ce l’ha dentro casa e che quando il proletariato rialza la testa la principale urgenza della borghesia è reprimere i lavoratori col piombo, anche a costo di mandare in malora le proprie imprese militari oltre confine.

Gli scioperi e i disordini, spesso assai violenti e apparentemente senza coordinamento, sono andati avanti in forma più sporadica interessando molte località, anche nei mesi successivi alla nostra riunione generale, dando la prova di un malcontento diffuso fra i lavoratori. Ultimi gli incidenti che a metà di maggio hanno interessato la città di Kazerun, nella provincia del Fars, dove si registra almeno un morto e numerosi feriti dopo che la folla aveva incendiato un commissariato di polizia.

(Fine del resoconto della riunione)

 

 

 

 

 


Riunione regionale in Venezuela

Nella migliore disposizione d’intenti il 5 maggio si è riunita la nostra milizia di partito in Venezuela per il primo incontro regionale dell’anno.

La crisi economica ha avuto i suoi riflessi sulle possibilità di organizzazione del nostro lavoro nella regione, ma queste difficoltà non intaccano la nostra comune coscienza della necessità e volontà di adempiere ai nostri compiti rivoluzionari. Per quei motivi oggettivi abbiamo però dovuto adeguare il programma della riunione al tempo effettivamente disponibile.

Abbiamo affrontato i seguenti ambiti.

1. Organizzazione e funzionamento del partito. Valutata la possibilità di integrare le nuove tecniche di comunicazione per le nostre riunioni. Decisa la presenza di un rappresentante della sezione alla riunione generale di maggio e risolti i relativi dettagli. Si ritiene opportuno sottoporre alla valutazione del centro del partito una sua permanenza più lunga in Italia per una più stretta conoscenza fra compagni e per migliorare la padronanza della lingua. Fissata la data del prossimo incontro regionale.

2. Stampa e propaganda. Valutate le proposte per riprendere la stampa cartacea del periodico e dei volantini e l’uso dei media sociali. Considerato il completamento delle traduzioni assegnate e ripartito il materiale fra i prossimi numeri di “El Partido Comunista”, piano di pubblicazione che sarà sottoposto al centro. Discusso brevemente l’impegno per la propaganda volta alla crescita del partito, al di fuori di qualsiasi pratica volontarista e attivista: un approfondimento sul tema sarà esposto in una delle prossime riunioni.

3. È stato data lettura della traccia di una relazione sulla situazione politica in Venezuela, testo che sarà completato e diffuso quanto prima.

 

 

 

 

Per il sindacato di classe Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale
Per la rinascita del sindacato di classe fuori e contro il sindacalismo di regime. Per unificare le rivendicazioni e le lotte operaie, contro la sottomissione all’interesse nazionale. Per l’affermazione del­l’in­dirizzo del partito comunista negli organi di difesa economica del proletariato, al fine della rivoluzionaria emancipazione dei lavoratori dal capitalismo

Lotte operaie in Sudamerica nel 2017
Rapporto alla riunione generale di gennaio

In generale i lavoratori in America Latina sono soggetti a un controllo sociale e ideologico dai partiti della borghesia e della piccola borghesia nelle loro diverse varianti, sia dei riformatori di destra e di sinistra, sia di coloro che si autoproclamano socialisti e comunisti, tutti puntelli dei vari capitalismi nazionali.

I sindacati di regime in tutti i paesi del continente, riflettendo le diverse posizioni politiche dei partiti presenti nel movimento operaio, sono unanimi nel loro lavoro da pompieri, asserviti ai padroni e alle parole di aumento della produzione e della produttività.

L’intensificarsi della crisi del capitale ha determinato il contrarsi dei profitti dei capitali nazionali e di quelli delle diverse potenze imperialiste, affamate di materie prime, che investono nella regione: USA, Cina, Russia, ecc.

Le misure adottate da ciascun governo per salvaguardare questi interessi borghesi hanno accresciuto la pressione subita dai lavoratori e spinto la base di alcuni settori del movimento operaio ad entrare in agitazione e a predisporsi alla lotta. E i sindacati talvolta non hanno avuto altra scelta che prendere la testa di queste lotte, ma per incanalarle nel senso della pace del lavoro.

In altri casi la lotta dei lavoratori è stata utilizzata ai fini delle strategie elettorali e delle controversie fra governo ed opposizione: ricordiamo nel 2017 i casi di Argentina, Brasile e Perù mentre nel 2018 si terranno le elezioni presidenziali in Costa Rica, Paraguay, Messico, Colombia, Venezuela e Brasile. Perfino Cuba ha annunciato che ci sarà un nuovo presidente nel 2018! In tutti i casi la borghesia cerca di mobilitare le masse per una qualunque soluzione elettorale che comunque permetterà di continuare il suo dominio.
 
In Argentina

Il governo di Macri ha pagato a dicembre, un “bonus di Natale” di 2.200 pesos ai lavoratori “dell’economia popolare”, cioè quelli a salario minimo o iscritti ai vari programmi di assistenza, e la cosiddetta sinistra argentina alla direzione del sindacato di quei lavoratori l’ha definito una “conquista”. È evidente l’intesa fra “macrismo” e “kirchnerismo” per allontanare i lavoratori dalla lotta. Lo stesso è con la politica dei Buoni che il chavismo applica in Venezuela per proteggere il plusvalore dei capitalisti, che sarebbe diminuito da aumenti dei salari. Allo stesso tempo questi Buoni sono usati come strumenti di controllo sociale, corruzione ed elettoralismo.

Nel dicembre scorso i lavoratori dello zuccherificio “Speranza” a San Pedro de Jujuy, in Argentina, sono stati aggrediti dalla polizia con una dozzina di feriti e 50 arrestati. La protesta era per chiedere il pagamento degli stipendi arretrati e contro il licenziamento di 400 operai. La mobilitazione è continuata contro la persecuzione poliziesca del sindacato e per la liberazione dei compagni detenuti. La Confederazione Generale dei Lavoratori ha fatto le solite dichiarazioni ai media, come usano tutti i sindacati di regime in queste situazioni, “denunciando” la repressione governativa contro i lavoratori, ma senza promuovere alcuna azione concreta di solidarietà e di mobilitazione della classe lavoratrice nella regione.

Sono continuate anche le lotte dei lavoratori contro i licenziamenti nella pubblica amministrazione.

Il governo borghese argentino ha aggiunto un altro peso della crisi sulle spalle dei lavoratori, in questo caso su quelle dei pensionati. La cosiddetta riforma delle pensioni, presentata dal governo Macri e approvata dal parlamento con un accordo con il gruppo peronista del kircherismo, ha rapinato i pensionati che adesso dovranno pagare contributi minimo per 30 anni e andare in pensione a 70 anni.

Come era da aspettarsi al suo primo annuncio questa “riforma” era stata rifiutata dai lavoratori. A dicembre, nei giorni precedenti l’approvazione della legge, le agitazioni e le proteste operaie si sono moltiplicate. Quando il movimento contro il furto ai pensionati è diventato massiccio e si preparava la mobilitazione di giovedì 14, il primo giorno di discussione parlamentare, la Confederazione Generale dei Lavoratori è stata costretta ad indire lo sciopero, ma “nel caso in cui la misura fosse approvata”, cioè non scioperare per impedire l’approvazione della legge, ma come “minaccia” al governo “se” fosse stata approvata. In realtà la CGT ha cercato solo di fermare la mobilitazione: perché aspettare a lottare che la legge antioperaia fosse approvata? Semplicemente perché non hanno mai avuto l’intenzione di spingere la lotta di classe contro la borghesia e lo sfruttamento capitalista.

I lavoratori si sono ugualmente mobilitati in maniera massiccia e dal 18 dicembre iniziò a circolare un appello per lo sciopero, mentre la CGT si impegnava a confondere le masse dicendo espressamente che non avrebbe chiamato alla mobilitazione e nessuno dei sindacati affiliati accennava a convocarla. Tuttavia lunedì 18 oltre 150.000 lavoratori hanno riempito la Piazza del Congresso e le strade circostanti, in molti casi sotto le bandiere di quei sindacati che avevano chiesto lo sciopero e la mobilitazione, tra cui i lavoratori delle Ferrovie del Sarmiento, il Suteba (Sindacato unificato dei lavoratori della educazione di Buenos Aires), l’Ademys (Associazione della istruzione secondaria e superiore), il Sutna (Sindacato unico dei lavoratori delle aziende di pneumatici argentino) e altri sindacati e movimenti.

La CGT si è invece schierata con l’appello del governo Macri per una “consultazione popolare”: in una conferenza stampa ha dato il via alla procedura per far convocare un referendum sulla riforma pensionistica, boicottando la mobilitazione e lo sciopero. Per completare l’unità nell’azione antioperaia, in parlamento i deputati della sinistra e della destra hanno messo ai voti la proposta della consultazione di Macri e della CGT.

Ma nelle piazze e nelle strade i lavoratori non chiedevano la consultazione, e gridavano “non si ruba ai pensionati” e “no alla riforma”. La verità è che, nonostante il malcontento della maggioranza delle masse lavoratrici, la legge di riforma delle pensioni ha finito per essere approvata in parlamento, seppure accerchiato da grandi manifestazioni.

La repressione scatenata nelle due giornate di lotta ha ancora una volta dimostrato come l’azione repressiva del governo e dello Stato borghese argentino sia stata l’unico strumento che è riuscito a far passare il loro piano di riforma.

Inoltre il borghese governo argentino ha iniziato il 2018 con un aumento significativo delle tariffe dei servizi pubblici, in particolare dell’elettricità che è aumentata del 1700%. Ha anche annunciato una serie di misure demagogiche, come il blocco salariale nel 2018 per gli alti dirigenti: ogni volta che c’è una crisi economica, ogni volta che si vuole imporre agli operai disoccupazione, bassi salari e fame, i governi borghesi montano questo teatrino di “austerità” e “sacrifici per tutti”, pantomima ad ampia risonanza mediatica solo per cercare di placare la rabbia degli operai.

Negli altri Paesi

I lavoratori della scuola hanno condotto lotte rivendicative in tutta l’America Latina e Centrale. Nel 2017 anche in Perù si è imposta la lotta degli insegnanti per il miglioramento dei salari e delle condizioni di lavoro.

Ma si è cercato di ignorare questa lotta di classe mettendo in primo piano lo scontro tra il partito al governo del banchiere Kuczynski e l’opposizione parlamentare del fujimorismo, che non solo è riuscita a far licenziare diversi ministri ma anche a far liberare il suo capo dalla prigione, l’ex presidente Alberto Fujimori.

La democrazia parlamentare ha quindi cercato di utilizzare la pressione sociale dei lavoratori nella lotta fra fazioni borghesi e piccolo-borghesi per il controllo del governo. Sono state inscenate grandi manifestazioni per il rifiuto dell’indulto a Fujimori, allontanando le masse lavoratrici dalla lotta contro lo sfruttamento capitalistico.

Il Brasile nel 2017 ha visto sconvolgimenti politici e grandi mobilitazioni dei lavoratori, ma anche qui, nonostante le proteste contro la riforma del lavoro proposta dal presidente Temer, le masse dei lavoratori sono state messe alla coda delle fazioni borghesi.

In Cile le elezioni presidenziali si sono tenute nel 2017 e il nuovo consiglio di amministrazione della borghesia darà continuità allo sfruttamento capitalistico con l’aiuto non dichiarato ma effettivo della Centrale Unitaria dei Lavoratori, controllata dal Partito Comunista del Cile. L’insoddisfazione delle masse è stata ricondotta nell’alveo democratico elettorale borghese, benché in Cile siano fortemente aumentate le condizioni oggettive per la nascita di movimenti operai di base, ma pesa ancora la confusione e il disorientamento politico provocato dalle diverse espressioni dell’opportunismo.

Anche in Honduras nel 2017 si sono tenute le elezioni presidenziali.

In Colombia ha retto l’accordo di pace con le FARC, le quali sono diventate un movimento politico legale: dal “riformismo armato” al parlamentarismo e alla propaganda elettorale.

Nell’ultimo trimestre dell’anno si è verificata la lotta dei piloti AVIANCA, con uno sciopero di 51 giorni.

In Messico, nella città industriale della Valle di Guernavaca, i lavoratori della industria automobilistica Nissan sono entrati in sciopero, arrivato al suo quarto giorno. Lo sciopero è scoppiato con una richiesta di aumento salariale, tenendo conto del drammatico deprezzamento dei salari per l’inflazione. L’assemblea dei lavoratori non ha ascoltato gli appelli alla conciliazione con il padrone, e ha deciso lo sciopero, volontà espressa dai quasi quattro mila lavoratori. I lavoratori hanno ottenuto un aumento di stipendio leggermente superiore a quello previsto dal governo, dalla società Nissan e dal sindacato.

Il 10 ottobre il governo messicano, nel quadro delle politiche di privatizzazione, ha chiuso per decreto l’azienda statale per l’energia elettrica lasciando 66.000 lavoratori disoccupati. Il sindacato ha fatto appello alla lotta e alla solidarietà, sostenendo l’opposizione alla privatizzazione della compagnia.

In generale in tutta l’America Latina continuerà la crescita dell’inflazione e il rallentamento dell’economia, con la conseguente diminuzione dei salari reali ed aumento della disoccupazione. Si esaspereranno i motivi di lotta dei salariati. Ma farà maggior chiasso anche la piccola borghesia, che vedrà il suo livello di vita depresso e sempre più minacciato.

La grande borghesia, tramite i suoi multicolore rappresentanti politici, di destra e di sinistra, metterà grande impegno nel controllo del malcontento delle masse, nella combinazione ormai sperimentata di elettoralismo parlamentare, populismo ed aperta repressione.

 

 

 

 

 


Anche in Nicaragua il sangue proletario fa cader la maschera del “Socialismo del 21° secolo”

Non è che il governo nicaraguense sia diventato borghese e sanguinario oggi, all’improvviso. Il sandinista Fronte di liberazione nazionale (FSLN) era già borghese fin dalle sue origini quando, movimento di guerriglia, appoggiandosi sulle masse oppresse, rovesciò il governo di Anastasio Somoza.

Il suo governo ha poi gestito gli interessi della borghesia, garantendo il controllo sociale con la propaganda, il politicantismo e la violenza.

Con l’imporsi di Chavez in Venezuela, che sventolava la bandiera del “socialismo del XXI secolo”, e l’emergere di una serie di governi ugualmente caratterizzati in Bolivia, Ecuador, Brasile, Argentina, El Salvador e Honduras, il borghese governo del Nicaragua non ha esitato ad allinearsi nello spandere quel populismo e quella demagogia che hanno permesso il sicuro perpetuarsi dello sfruttamento capitalista e l’accrescersi dei profitti delle imprese.

Il numero di lavoratori iscritti all’Istituto Nicaraguense di Previdenza Sociale (INSS) nel marzo 2018 è sceso dell’1,5% rispetto allo stesso mese del 2017: 896.869 contro 910.621. A marzo lo stipendio medio mensile nominale era di 10.737,8 córdobas, circa 342 dollari. Tra aprile 2017 e aprile 2018 il tasso di inflazione è stato del 4,75%. Però in Nicaragua l’occupazione illegale, con bassi salari e nessuna sicurezza sociale, continua ad essere superiore al 70%. Della popolazione totale di 6.279.712 il 50% è considerato economicamente attivo, ma conteggiando anche i disoccupati e chi ha lavorato anche una sola ora.

L’agricoltura è una delle attività principali del Paese rappresentando il 60% delle esportazioni, e con forte occupazione, ma vi sono anche alcuni centri industriali e per l’estrazione di minerali preziosi.

Il governo di Managua ha inoltre adempiuto ai suoi impegni con il FMI, siglati nel 2005, quando ne ebbe condonato il debito, purché rispettasse un piano di aggiustamento per l’economia, tanto che nel 2012 il debito del Nicaragua verso il FMI si è ridotto a zero. Nel 2006 il Paese ha anche firmato l’Accordo di Libero Scambio (FTA) tra la Repubblica Dominicana e gli altri Stati dell’America centrale e gli Stati Uniti.

In intesa con aziende cinesi il governo del Nicaragua nel 2014 ha presentato il progetto del “Grande Canale Interoceanico”: un tracciato di 278 chilometri, dalla foce del fiume Punta Gorda sulla costa caraibica alla foce del fiume Brito sulla costa del Pacifico, sul quale dovrebbero lavorare di 50.000 operai. Questo progetto apre un nuovo spazio di scontro commerciale e geopolitico tra gli Stati Uniti e la Cina.

Insomma, in Nicaragua ai capitalisti va bene, sebbene con qualche contrasto con il FMI riguardo le politiche da attuare circa le pensioni e la sicurezza sociale, e con il governo degli Stati Uniti principalmente a causa della penetrazione del capitale cinese.

Così per molti anni il Nicaragua non è arrivato sulle prime pagine dei giornali internazionali: benché i media dicano solo ciò che la borghesia vuol far sapere, e con versioni distorte della realtà, la verità è che è passato molto tempo senza che si sentisse nulla di conflitti sindacali, della situazione sociale e dell’azione repressiva del governo. Ma, come in un vulcano, la pressione sotterranea si accumula fino a quando la lava della lotta sociale esplode spinta dalle contraddizioni fra capitale e lavoro.

Il governo aveva preannunciato una serie di leggi volte a garantire la sostenibilità finanziaria dell’INSS, riforme che intendeva concordare con la rappresentanza degli imprenditori, il Consiglio Superiore dell’Impresa privata (COSEP). Però, senza aver raggiunto un accordo con il COSEP, ha approvato un decreto che aumentava i contributi che le aziende e i lavoratori versano al sistema pensionistico nazionale. Il COSEP ha respinto il decreto perché avrebbe aumentato il costo del lavoro lanciando grida sulla diminuzione della competitività e capacità di occupazione delle aziende. Ovviamente si è opposto al decreto non in difesa dei lavoratori, delle pensioni e della sicurezza sociale, ma per la minaccia ai profitti delle imprese.

Il governo ha allora ammesso che l’INSS non avrebbe avuto i fondi per pagare le pensioni già prima della fine dell’anno. Per questo il provvedimento prevedeva che i lavoratori assicurati avrebbero versato di più (dal 6,25 al 7%), i datori di lavoro dal 19 al 22,5%, mentre ai pensionati sarebbe stata ridotta la pensione del 5% e lo Stato avrebbe contribuito, seppure con un minimo.

Ma lo scorso aprile un’esplosione spontanea di rabbia e di protesta ha sorpreso sia il governo sia i vari movimenti e gruppi politici. La reazione dei lavoratori è stata immediata. Solo la Unione Nazionale degli Impiegati ha appoggiato la riforma e si sono viste alcune piccole concentrazioni di lavoratori del settore pubblico che hanno espresso il loro sostegno al governo, contro la “violenza destabilizzatrice delle destre”.

Il governo borghese, guidato da Daniel Ortega e da Rosario Murillo, ha ordinato allora un massacro in tutto il paese, sangue proletario è tornato a scorrere sui lastricati a Managua, dove si sono contati almeno 27 morti, poi nelle città di Masaya, Leon, Esteli, Matagalpa e Bluefields, con oltre 50 morti e più di 400 feriti.

La sproporzionata risposta militare e di polizia contro i manifestanti è arrivata dopo oltre un decennio di stretto controllo politico e repressivo sui lavoratori, di un’intensa azione di soppressione delle loro organizzazioni di lotta economica difensiva, di estendersi della corruzione e capitolazione dei sindacati esistenti. Ecco perché la reazione delle masse alla riforma del regime previdenziale ha dovuto necessariamente avvenire in questo modo, spontaneo e anarchico, poiché non esistono forme organizzate di classe e di base che possano incanalare e dirigere le lotte.

Naturalmente la versione ufficiale, come quella di tutti i governi “operai” e “progressisti” dell’America Latina, in linea con il “socialismo del XXI secolo”, ha proclamato che è per difendere i lavoratori che questa riforma è stata imposta ai datori di lavoro, e per “non piegarsi al FMI”. In questa propaganda i sandinisti sono accompagnati dall’opportunismo internazionale che ripete che Ortega ha “affrontato il FMI” e la “destra imperialista”, impegnata a destabilizzare il suo governo, e che difende la classe operaia.

Quindi il governo credeva che a controllare la reazione delle masse sarebbero stati sufficienti, come in passato, i suoi Collettivi o le sue squadre di picchiatori: non è stato così. Sebbene anche gli studenti universitari abbiano manifestato pubblicamente nel loro stile piccolo-borghese, ad essi si sono uniti vasti strati di lavoratori che si mobilitavano nei quartieri. Si sono alzate barricate e ci sono stati scontri di strada. Il governo ha spento il wi-fi gratuito che dal 2014 aveva installato in tutti i luoghi pubblici, visto che era utilizzato per coordinare le azioni di protesta.

La situazione ha raggiunto dimensioni tali che il governo ha deciso di richiamare al dialogo e di rivedere la riforma dell’INSS con la comunità imprenditoriale.

Nel frattempo il COSEP aveva indetto una manifestazione per il 23 aprile a Managua; la popolazione della capitale si è unita al corteo degli industriali e la folla ha straripato. Successivamente si è cercato di allargare le trattative anche agli studenti e alla Chiesa. Il 28 aprile è stata la Chiesa ad indire un “Pellegrinaggio per la pace”, che ha avuto di nuovo una massiccia partecipazione. Il governo da parte sua ha organizzato una manifestazione in occasione del 1° Maggio, conclusa con un discorso del Presidente Ortega.

I movimenti di opposizione hanno visto in questa occasione la possibilità di aumentare le loro deboli forze. Sanno che se la borghesia decidesse che il governo FSLN non le garantisce più la capacità di sfruttare i lavoratori in un clima di pace sociale, come negli ultimi anni, ha la possibilità di scegliere fra gli oppositori, che possono ugualmente garantire i loro interessi.

Se il COSEP rigetta la riforma dell’INSS, perché colpisce gli interessi padronali, gli imprenditori hanno però beneficiato dal governo di una riduzione di molte tasse e hanno avuto facilitato lo sfruttamento dei lavoratori. Inoltre il COSEP, così come oggi gli imprenditori in tutto il mondo, premono per un aumento dell’età pensionabile a 70 anni e per l’aumento dei contributi a carico dei lavoratori.

Lo sbocco borghese che hanno preso le trattative è chiaro nei punti all’ordine del giorno: a) indagini sugli omicidi durante le manifestazioni; b) riforma del sistema elettorale per garantire elezioni “libere e trasparenti”; c) riforme istituzionali che garantiscano lo “Stato di diritto” ed eliminazione della corruzione; d) risoluzione della crisi dell’INSS.

Entrambe i fronti politici borghesi, governo ed opposizione, agiranno per impedire alle masse dei salariati di unirsi e organizzarsi alla base per i loro scopi, come la richiesta di un aumento di stipendio, una riduzione dell’orario di lavoro e una riduzione dell’età pensionabile.

Il presidente Daniel Ortega il 22 aprile ha infine annunciato l’abrogazione della riforma. Ma blocchi stradali, barricate e scontri tra i manifestanti e la polizia sono proseguiti nel mese di maggio. Parte dei blocchi sono stati attuati dal “movimento contadino anti-canale”, contro l’esproprio delle terre. Sono cominciati anche dei saccheggi nei negozi. Pertanto l’elenco dei morti, feriti ed arrestati ha continuato ad allungarsi. Il 13 maggio una carovana di veicoli, con grande partecipazione, è partita da Managua per Masaya, in solidarietà di quella città dove gli scontri di sabato 12 avevano lasciato almeno 1 morto e circa 150 feriti.

Il 12 maggio, l’Esercito in una dichiarazione si è appellato alla “non violenza” e alla ripresa del “dialogo”. Il 14 maggio, il governo ha annunciato di aver autorizzato la Commissione Interamericana per i Diritti Umani a venire ad osservare la situazione nel paese, dopo la morte di almeno 54 manifestanti !

È certo che si deve alla coraggiosa rivolta delle classi inferiori il successo nel far abrogare la riforma, almeno per il momento. Però, in tutto questo scontro, sebbene violento e generale, non è emersa ancora la partecipazione indipendente della classe operaia, né si sono udite le sue esclusive rivendicazioni, né si sono imposte le sue forme di lotta, prima di tutte lo sciopero.

L’opposizione sta ora spingendo per le dimissioni di Ortega o per l’indizione di elezioni. Sia che dopo questa crisi rimanga in carica il governo dell’FSLN, sia che ne prendano il controllo gli oppositori, i lavoratori nicaraguensi non hanno nulla da aspettarsi da entrambi. Come nel resto del mondo, devono percorrere la strada dell’unità e dell’organizzazione alla base, per riprendere la lotta rivendicativa e di classe, fuori dalle unioni sindacali del regime e dagli appelli alle soluzioni elettorali e alla difesa della patria e dell’economia nazionale, proclamata da tutti gli opportunisti.

  

 

 

 


Nel Regno Unito
Il Primo Maggio dei lavoratori dei Fast Food

Non è la prima volta che i lavoratori dei Fast Food provano ad organizzarsi, senza poi riuscire a dargli continuità. Attualmente è in corso una nuova campagna di propaganda per l’organizzazione, per il suo riconoscimento e per un generalizzato aumento salariale a £.10 l’ora, il che significa la fine delle retribuzioni ridotte per i giovani e la garanzia delle ore di lavoro. I negozi McDonald sono quelli più interessati dalla propaganda e da dimostrazioni: informazioni se ne possono trovare in internet sotto #McStrike e @FastfoodRights.

Nel Regno Unito dimostrazioni si sono svolte a Manchester, Cambridge e Londra, per finire con una manifestazione a Watford, a seguito del corteo del Primo Maggio.

La mobilitazione è iniziata il primo maggio già poco dopo la mezzanotte a Manchester, quando il primo dipendente del McDonald di Oxford Street ha finito il turno accolto dai compagni del picchetto. I picchetti sono continuati l’indomani. La mattina c’è stata una dimostrazione davanti un McDonald a Cambridge, con alcuni lavoratori che hanno abbandonato il lavoro per chiedere salari più alti e il diritto di organizzarsi. Anche a Crayford, nel Bexley, a sud-est di Londra, si è tornati a dimostrare in appoggio a quei lavoratori che scioperavano per la seconda volta. I manifestanti si sono poi concentrati a Watford, dove abita il padrone di McDonald.

Tutto questo ricorda le simili mobilitazioni negli Stati Uniti, che chiedono una paga minima di $ 15 l’ora.

Al momento gli attivisti sono iscritti ad un piccolo sindacato, il Bakers, Food and Allied Workers. La sua affiliazione al Trades Union Congress fornisce una qualche forma di copertura ufficiale al movimento, ma al contempo ne mantiene un certo controllo: sebbene ve ne sia l’emblema sugli striscioni innalzati dai militanti, non vi è alcun segno che le risorse confederali siano messe a disposizione del sindacato. E nemmeno il fatto che questo sia controllato dai trotskisti sembra fare molta differenza. Gli attivisti sono coscienti che il loro è un movimento mosso dalla base, ed è probabile che rimarrà tale. Che politicanti e parlamentari stiano oggi esprimendo il loro appoggio era prevedibile, ma resta da vedere fino a che punto continueranno quando la lotta si farà dura.

La rete è un strumento per comunicare ed organizzarsi, e consente di mantenere la mobilitazione sotto il controllo dei lavoratori, almeno per il momento.

Queste mobilitazioni dei lavoratori dei Fast Food sono state un bell’esempio del vero spirito del Primo Maggio, di ciò che dovrebbe essere, al contrario delle rituali manifestazioni ufficiali del Partito Laburista, che chiedono solo di abbellire le pessime politiche di austerità e le altre miserie di una società in bancarotta.
 
Basta con i Conservatori, o basta con il capitalismo ?

Dopo il primo maggio ci sono state manifestazioni il 7 maggio a Liverpool e il 12 a Londra indette da varie sinistre sindacali. Il 12 hanno chiamato i lavoratori a sfilare a Londra contro il governo conservatore per affermare che non tollereranno ulteriori tagli ai salari o il peggioramento generale e progressivo delle loro condizioni di vita.

Nei 10 anni successivi al crollo economico del 2008, la classe operaia ha visto di molto diminuire il potere d’acquisto dei salari, con i prezzi sempre in aumento e le paghe nominali ferme, quando non diminuite. Intanto la ricchezza accumulata all’altro estremo della società ha raggiunto dimensioni mostruose tanto che, come riconoscono gli stessi borghesi, la distanza fra le classi ha raggiunto il massimo da quando se ne raccolgono le statistiche.

Ed ora cosa aspettarci ?

Quel che è certo è che un cambiamento di governo non porterà alcun vantaggio alla classe operaia. Una volta al potere, il Partito Laburista, nonostante affermi di difendere gli interessi dei lavoratori, abbandonerà presto tutte le sue promesse in nome del superiore interesse nazionale, che è solo l’interesse del capitalismo e della guerra dei capitalisti britannici contro quelli delle altre nazioni. Il Partito Laburista, una volta al potere, in quanto partito saldamente in mano alla borghesia, dovrà inevitabilmente affrontare il declino del saggio di profitto aumentando lo sfruttamento: aumenterà l’intensità e la durata della giornata lavorativa, renderà più facile assumere e licenziare attraverso l’impiego di precari e delle agenzie del lavoro.

Questo aumenterà la divisione fra stabili e precari, fra i quali la solidarietà sarebbe una necessità urgente, e che evidentemente non interessa affatto ai sindacati.

I lavoratori, che già hanno visto questo accadere più e più volte, per far cessare questo incubo da eterno “giorno della marmotta”, dovranno ricostruire il loro movimento, reale e forte, risolutamente basato sulle richieste di classe. Ciò significa lasciarsi alle spalle l’illusione che la borghese classe nemica, o i falsi amici come il Partito Laburista e la sua falsa faccia radicale, possano garantir loro una vita migliore.

I lavoratori dovranno dedicarsi a costruire la loro unità d’azione, ricostruendo su base territoriale la loro organizzazione nella sfera sindacale, puntando su azioni intersettoriali, che non ripongano alcuna fiducia nei partiti e nelle istituzioni della classe nemica.
 
Lotta dura ma necessaria

La classe proletaria ha la capacità di vincere le sue difficili battaglie. Nella quotidiana resistenza contro un sistema basato sullo sfruttamento crescente del lavoro, rivendichi: - Un salario minimo per tutti i lavoratori legato al costo della vita; - Riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario - Un salario per i lavoratori disoccupati - Un aumento generale delle pensioni.

Con l’unità di tutta la classe operaia e la guida del proprio partito, il proletariato – che comprende coloro che vendono il proprio lavoro e i lavoratori disoccupati – sarà in grado di sconfiggere il capitalismo e liberare sé stesso e l’umanità dal giogo del lavoro salariato.

Verrà allora a cessare la farsa infinita delle riforme e della “pianificazione” capitalista, ormai palesemente impotenti a risolvere gli enormi problemi della guerra, dell’ambiente, dell’aumento della popolazione mondiale e, nei confronti di chi lavora, dei problemi della disoccupazione, del salario e dell’insicurezza perpetua.

Lavoratori del mondo, unitevi! Non avete da perdere che le vostre catene!

 

 

 

 


Israele
Per la solidarietà di classe contro l’espulsione dei lavoratori stranieri

I proletari immigrati in Israele, provenienti in grande maggioranza dall’Africa, in fuga dalle guerre e dalle miserie del capitalismo, sono oggi minacciati da una campagna della borghesia israeliana volta a espellerli verso paesi terzi, come il Rwanda o l’Uganda, o a recluderli a tempo indefinito.

Accompagnati dalle parole razziste ed ipocrite di molti politicanti – per i quali l’unico razzismo è quello antisemita – si espellono famiglie proletarie radicate da tempo in Israele, per importare proletari da altri paesi, in soggiorno temporaneo, per poterli sfruttare ad un costo del lavoro ancora più basso.

Le marce della sinistra borghese in nome dell’umanitarismo, indipendentemente dalla motivazione dei partecipanti, sono destinate al fallimento.

Ciò che permette al regime borghese di attuare le espulsioni e gli attacchi razzisti è indiscutibilmente l’accondiscendenza dei sindacati di regime, traditori del proletariato. Nessuna organizzazione sindacale ha affrontato il problema in termini di classe, men che meno Histadrut, la maggiore del paese. Nata asservita al regime borghese ed alla sua politica coloniale sionista, non sorprende che oggi mantenga un atteggiamento passivo e complice di fronte a proletari che rischiano la morte.

I sindacati che hanno espresso una qualche forma di solidarietà – dopo tutto il tempo che gli ci è voluto per “scoprire” che anche gli immigrati sono proletari! – lo hanno fatto senza superare la divisione fra lavoratori autoctoni e immigrati e non sono anch’essi andati oltre l’umanitarismo, sterile quanto impotente.

È attraverso la difesa degli strati più bassi della classe proletaria, come questi immigrati definiti “illegali”, ma sfruttati legalmente, che si difende l’intera classe. Oggi sono questi fratelli di classe ad essere minacciati fin nella loro esistenza fisica, domani toccherà ai proletari autoctoni patire repressione, guerra e fame.

Sono queste organizzazioni di crumiri ed asservite al regime borghese i nemici più dannosi per la rinascita della lotta di classe anche in Israele.

Noi materialisti sappiamo che non ci sarà modo di impedire la rinascita del movimento proletario perché è il capitalismo stesso che ne produce le condizioni. Quando si metterà in moto vedrà i lavoratori lottare gomito a gomito, dando vita al sentimento che metterà fine alla divisione tra ebrei, arabi, negri, bianchi, autoctoni o immigrati.

È solo nella lotta di classe che nasce la solidarietà di classe e questa solidarietà tra i proletari sarà la base materiale del futuro comunismo.

È in questa prospettiva che la solidarietà con i proletari immigrati può avere efficacia e servire da premessa per una spinta risoluta alla ripresa della lotta di classe in tutto il mondo.

 

 

 

 

 
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La Cgil verso il suo 18° congresso
Ipocrisie e menzogne di un sindacato di regime

Il Comitato Direttivo Nazionale della Cgil del 16 e 17 gennaio aveva approvato, come da statuto a maggioranza dei ¾, il Regolamento per il diciottesimo congresso dell’organizzazione. Il Comitato Direttivo del 9 e 10 marzo ha eletto una “commissione politica” di 52 membri che il 30 marzo ha licenziato una bozza di documento congressuale – “Traccia di discussione per Assemblee Generali” – intitolata “Il lavoro è”.

Nei mesi di aprile e maggio questa bozza è stata discussa nelle Assemblee Generali, ai vari livelli territoriali e di categoria, e ciascuna ha inviato una sintesi della discussione che dovrebbe servire alla definizione del documento definitivo. Al Comitato Direttivo Nazionale di fine maggio saranno presentati eventuali documenti alternativi e quello successivo di una settimana (6-7 giugno) licenzierà i documenti definitivi. Le assemblee congressuali di base inizieranno il 20 giugno e il congresso terminerà con la sua assise nazionale a Bari a fine gennaio 2019.

L’Assemblea Generale è un nuovo organismo istituito dalla V Conferenza d’Organizzazione della Cgil del settembre 2015 [“La V Conferenza di Organizzazione della Cgil”, presente a tutti i livelli territoriali e di categoria, composto a maggioranza di delegati ed attivisti per un numero complessivo non superiore al doppio di quello del Comitato Direttivo. Attualmente è composta da circa 330 elementi. Insieme al Comitato Direttivo Nazionale ed al Congresso, questo nuovo organismo è uno dei tre deliberativi del sindacato. Viene eletto dal Congresso garantendo alle diverse aree congressuali le stesse proporzioni presenti nei direttivi. L’unica funzione reale affidatagli è quella di eleggere segretari e segreterie nazionali di categoria e confederale. Nella opinione, che ci pare condivisibile, dell’area di opposizione di sinistra “Il sindacato è un’altra cosa” si tratta di un doppione dei Comitati Direttivi istituito per dare alla Cgil un lustro di democraticità interna.

Questo nuovo organismo si è riunito sino ad oggi tre volte. La prima nel settembre 2016 è stata segnata dalla riappacificazione fra la maggioranza e l’altra minoranza di sinistra denominata “Democrazia e Lavoro”.

Questa era nata dalla disgregazione dell’area congressuale “La Cgil che vogliamo” del XVI Congresso del 2010, in cui si trovava insieme alla corrente che poi ha formato “Il sindacato è un’altra cosa”.

“Democrazia e Lavoro”, più numerosa ed influente di “Il sindacato è un’altra cosa”, al XVII Congresso, nel 2014, inizialmente si limitò a emendare il documento maggioritario ma infine ruppe con la maggioranza e presentò un documento alternativo. Ancora un anno dopo uno dei suoi principali esponenti, Rinaldini (ex segretario Fiom), definì “inutile e dannosa” la V Conferenza d’Organizzazione sopra citata ed affermò che il futuro congresso – quello in essere – non avrebbe potuto che svolgersi su mozioni contrapposte e che quindi sarebbe stata «decisiva la definizione delle regole congressuali che dovranno voltare pagina rispetto alle modalità di svolgimento dei congressi passati (...) è finita la storia di Congressi dove dall’inizio si conoscono i risultati finali e dove la democrazia è un optional in mano ai gruppi dirigenti». E ammonì: «Non saprei dire se tale irresponsabilità abbia messo in conto la possibilità di avere norme congressuali votate a maggioranza, che determinerebbe il deflagrare della Cgil stessa».

Queste affermazioni, evidentemente molto gravi, solo un anno dopo, in occasione della prima Assemblea Generale, cadevano nel dimenticatoio e il Coordinatore Nazionale di “Democrazia e Lavoro”, Nicolosi, scriveva nel n. 15 di “Progetto e Lavoro”, il periodico della minoranza: «I giorni 7-8 settembre [2016] si è svolta la prima Assemblea Generale CGIL, nuovo organismo deciso dall’ultima Conferenza di Organizzazione (...) Non vorrei apparire retorico, ma i temi in questione hanno agitato gli animi e aperta una nuova fase di confronto dopo la frattura politica determinatasi con lo scorso congresso nazionale di Rimini [il XVII nel 2014]. Le scelte politiche dell’ultimo anno della CGIL [la raccolta delle firme per i referendum e per il nuovo Statuto dei lavoratori e l’indicazione di votare “no” al referendum sulle modifiche alla Costituzione; ndr] (...) hanno nei fatti archiviato il Congresso del 2014 compreso il suo corollario di polemiche! (...) Ancora, tra le decisioni dell’Assemblea Generale quella del superamento delle fratture del 2014 e l’avvio di una fase a più tappe per arrivare al governo unitario della CGIL dove rinnovamento si coniuga con pluralismo e esperienza (...) La CGIL recupera il suo ruolo di protagonista nella vita politica e sociale del Paese».

L’Assemblea Generale della Cgil è quindi stata convocata per la seconda volta soli due mesi dopo la prima, il 27 e 28 novembre 2016, per sancire il nuovo “governo unitario” del sindacato con l’elezione della nuova segreteria nazionale confederale, e la terza il 10 ed 11 luglio 2017 per includervi Landini, su proposta della Camusso, quale meritato compenso – diciamo noi – per la sua opera disfattista delle forze operaie svolta in qualità di segretario generale della Fiom dal giugno 2010, cioè dall’accordo di Pomigliano, fino al nuovo contratto nazionale – unitario – dei metalmeccanici del dicembre 2016 [Si legga “L’opposizione di facciata della Fiom spalleggia il corporativismo della Cgil”.

Si consideri che i capi di “Democrazia e Lavoro” a settembre 2016 salutavano entusiasticamente l’approdo al «governo unitario della Cgil dove rinnovamento si coniuga con pluralismo e esperienza» dopo che soli tre mesi prima, a giugno, si era conclusa la vicenda dei cosiddetti “incompatibili”, cioè di quel gruppo di delegati Fiom in FCA (FIAT) dichiarati tali dal Collegio Statutario della Cgil per aver costituito insieme a militanti dello Slai Cobas, dell’Usb e della Flmu Cub un “Coordinamento lavoratrici e lavoratori della Fca nel Centro-Sud” [vedi “Premesse alla trattativa per il contratto”]. L’epilogo di quella vicenda fu la fuoriuscita di una parte di questi militanti e delegati dalla Cgil e l’approdo della maggioranza di essi all’Usb, e con loro di quello che era stato fino ad allora il portavoce nazionale dell’area “Il sindacato è un’altra cosa” – Bellavita – che fino al 2012 era stato anche membro della segreteria nazionale Fiom.

Il prossimo congresso si svolgerà quindi grosso modo nei termini del precedente, vedendo al documento di maggioranza contrapposto solo un altro documento ad opera dell’area de “Il sindacato è un’altra cosa”, che ha potuto presentarlo in virtù della presenza di suoi 5 elementi nel Comitato Direttivo Nazionale, raggiungendo la soglia del 3%, stabilita dal regolamento congressuale.

Oltre a questa, il regolamento prevede altre 5 possibili vie per presentare documenti alternativi, di cui qui ci limitiamo a citare l’ultima (punto 1.7.2 lettera “e”), cioè che sia sottoscritto da almeno 75.000 iscritti. Se prendiamo per buona la cifra di 5 milioni e mezzo di iscritti (oltre la metà pensionati), dichiarati dalla Cgil nel 2017, si tratta del 4,1% degli aderenti al sindacato. Chiaramente una soglia difficile da superare. È interessante fare il confronto con il regolamento congressuale della Unione Sindacale di Base, sia dell’ultimo (2016) che del primo (2013), il quale ha escluso tout court ogni possibilità di presentazioni di documenti alternativi [“L’USB al suo secondo Congresso nazionale - Un nuovo congresso a mozione unica”].

Nel prendere in esame la bozza del documento congressuale di maggioranza per il venturo Congresso Cgil faremo ulteriori parallelismi con l’Unione Sindacale di Base perché questo ci offre la possibilità di meglio chiarire la nostra critica agli uni e agli altri e il nostro indirizzo sindacale generale che è in Italia quello di ricostruire il sindacato di classe “fuori e contro” la Cgil e gli altri sindacati di regime.

Il “Sindacato della contrattazione”

Il primo dato che emerge dalla lettura della bozza di mozione congressuale è quello che giustamente è stata evidenziato durante l’Assemblea Nazionale dei delegati Fiom a Roma il 5 e 6 aprile negli interventi di un delegato e di due dirigenti dell’area “Il sindacato è un’altra cosa”: nelle 14 pagine del documento non compare una sola volta la parola “sciopero”. Basti questo dato a qualificare la natura collaborazionista e “di regime” della Cgil.

D’altronde ciò è in perfetta coerenza con l’azione del più grande sindacato d’Italia: a fronte della peggiore controriforma del sistema previdenziale (la cosiddetta “legge Fornero” del dicembre 2012) nella storia dell’Italia borghese ha promosso 3 ore di sciopero; a fronte del cosiddetto Jobs Act ne ha promosse 8, ma a legge approvata da 9 giorni; a fronte di 6 anni di blocco contrattuale per i lavoratori del pubblico impiego ha chiuso i rinnovi contrattuali con due anni di ritardo rispetto la scadenza senza nemmeno un’ora di sciopero.

La sua maggioranza definisce la Cgil un “sindacato della contrattazione”, come che si legge nel documento del 28 febbraio scorso, intitolato “Per una Cgil unita e plurale - Contributo al dibattito congressuale”, redatto da “Lavoro Società”, l’area “di sinistra” più a destra nella Cgil, che si definisce “sinistra sindacale confederale” ed “aggregazione (...) nell’ambito della maggioranza congressuale”.

E se nella “Traccia di discussione per Assemblee Generali” non compare una sola volta la parola “sciopero”, quella “contrattazione” si conta invece ben 15 volte: «Negli anni che abbiamo alle spalle abbiamo praticato tanta contrattazione (...) La ragione d’essere fondamentale di un sindacato confederale è la contrattazione (...) La contrattazione per lo sviluppo sostenibile e il lavoro è il nostro obiettivo strategico», ecc. ecc.

L’idea di fondo è che lavoratori e capitalisti – Lavoro e Capitale – non siano, come sostiene il marxismo, contrapposti da interessi inconciliabili, che si possa difendere una parte o l’altra ma non entrambe, che ciò che conta sono quindi solo i rapporti di forza, ma, al contrario, che sia possibile una collaborazione a vantaggio di entrambe le parti, di entrambe le classi sociali, finalizzata allo “sviluppo”.

Questa è l’idea propria del riformismo, dominante nella Cgil fin dalla sua ricostruzione “dall’alto” sul finire della seconda guerra mondiale. Se nei primi decenni del dopoguerra vi era tutta una tradizione classista nel sindacato e nella classe che impediva l’enunciazione della sindacalismo collaborazionista in termini tanto espliciti – e che giustificava l’adesione dei compagni del nostro partito alla Cgil e la nostra battaglia interna – compiuta l’opera, da parte del riformismo, di sradicamento dei principi e dei metodi della lotta di classe, il linguaggio ha potuto farsi sempre più coerente con quella idea, al punto che oggi termini quali “sciopero” o “lotta” non vengono nemmeno più pronunciati, vuoi perché se ne ha paura, vuoi perché estranei alla reale pratica di quel sindacato e in fondo, quindi, per loro, inutili.

Non “sindacato di lotta”, quindi, ma “di contrattazione”. Non “di classe” ma “di regime”, diciamo noi.

A dir loro basterebbe sedersi al tavolo, ragionare, essere competenti per proporre soluzioni utili a entrambe le parti e così difendere anche i lavoratori. Non è così, e lo dimostrano i fatti. Tutti i rinnovi contrattuali da decenni sono a perdere e quelli dell’ultimo triennio, dal Jobs Act in avanti, in particolar modo [“I rinnovi contrattuali dopo il Jobs Act”], con aumenti salariali infimi, ben al di sotto il recupero del potere d’acquisto perso, con la possibile revoca della rata annuale dell’aumento nel caso si verifichi che l’indice inflattivo sia stato minore rispetto alle previsioni (come verificatosi nel commercio). Il rinnovo contrattuale per i lavoratori dei comparti della pubblica amministrazione è stato emblematico, con aumenti allo stesso misero livello delle categorie del privato ma giunti dopo 6 anni di blocco salariale.

Il coerente indirizzo pratico del “sindacato di contrattazione” è quello di scioperare il meno possibile, nella idea fondante la collaborazione fra capitale e lavoro che non basti “dire no” ai piani padronali che danneggiano i lavoratori, non sia sufficiente “attestarsi” sulla difesa del salario e delle altre condizioni d’impiego e di lavoro, ma occorra “avanzare proposte” che si vorrebbero a vantaggio di ambo le parti, secondo il motto “la protesta non basta, ci vuole la proposta”.

Ma i fatti hanno la testa dura e pongono la classe operaia di fronte all’ineluttabile problema che il Capitale richiede di aumentare sempre più lo sfruttamento dei lavoratori. Quindi il sindacalismo di regime deve ricorrere alla fantasia per escogitare proposte “innovative”. Sul piano della contrattazione aziendale e di categoria ne è un esempio quello dell’inserimento di quote del “welfare contrattuale”, aziendale e di categoria, nelle voci che compongono l’aumento salariale o, ancor peggio, della assegnazione di una parte degli aumenti contrattuali sotto forma di buoni acquisto, come avvenuto per il contratto integrativo aziendale in Fincantieri del luglio 2016 e per quello di categoria dei metalmeccanici del novembre successivo.

Sul piano confederale la proposta della Cgil è negli ultimi anni consistita in un piano per una “nuova politica industriale, sociale e ambientale, fondate su una nuova politica fiscale”, da proporre al parlamento e ai governi, denominato “Piano lavoro”, e in una proposta di legge di iniziativa popolare titolata “Carta dei Diritti Universali del Lavoro”. Si legge nella premessa della bozza di documento: «Non ci siamo limitati al conflitto e alla difesa, abbiamo scelto la strada della creazione di un’altra proposta di sistema come il Piano del Lavoro, elaborando la nostra proposta di legge di iniziativa popolare: la Carta dei Diritti Universali del Lavoro». Atti entrambi rimasti nulla più che sulla carta ma per i quali la Cgil ha organizzato raccolte di firme, votazioni interne e manifestazioni, pretendendo di dissimulare con questo attivismo artefatto il suo immobilismo sul piano degli scioperi.

Qui è opportuno un altro confronto con l’Usb, dato che anche questo sindacato di base si è impegnato in raccolte di firme volte a presentare leggi di iniziativa popolare sulle più disparate questioni, da quella della cosiddetta rappresentanza sindacale fino a, da ultimo, l’eliminazione dalla costituzione del pareggio di bilancio, obiettivo sostenuto anche dalla maggioranza Cgil.

Il fatto che tutte queste iniziative cadano nel vuoto, poi nel dimenticatoio è una palese dimostrazione di come gli obiettivi che interessano la classe lavoratrice possano essere conquistati solo con la forza della lotta, più precisamente dello sciopero. Questi metodi, che partono dalla raccolta di firme per affidarsi all’azione parlamentare o al voto referendario, cioè dei cittadini al di sopra delle divisioni di classe, disperdono le energie dei militanti e diseducano la classe lavoratrice allontanandola dai suoi veri metodi di lotta, sviata dalla necessaria sua organizzazione pratica e dalla crescente esperienza degli scontri passati.

Quando queste pratiche interclassiste non cadono nel vuoto si rivelano ancora più dannose offrendo al regime borghese l’opportunità per intervenire su quella data materia, riguardante la classe operaia e il movimento sindacale, nei termini ad esso vantaggiosi. Che che potrebbe verificarsi, ad esempio, per quanto riguarda la questione della rappresentanza sindacale.

Nenia socialdemocratica

Il documento stila quindi gli obiettivi che si propone di perseguire la Cgil. Emerge però subito il loro prevalente carattere interclassista, una lista di richieste da rivolgere ai futuri governi che invoca una “nuova” politica economica, più simile al programma di un qualunque partito borghese che a quello di un sindacato. Al fine della difesa della classe lavoratrice si chiede l’appoggio di partiti parlamentari, nella sfiducia della capacità del movimento operaio di sviluppare una forza tale da costringere parlamenti e governi a legiferare in senso favorevole ai lavoratori.

Anche qui merita fare una comparazione col documento – unico – del secondo congresso dell’Usb: negli obiettivi di politica economica non si ha una opposizione fra Cgil ed Usb, quanto una parziale differenziazione all’interno dello stesso solco ideologico. Banalmente, infatti, da entrambe le pari null’altro si tratta che di invocare il ritorno a politiche economiche – borghesi e capitaliste – keynesiane, ossia d’intervento statale in economia, in contrapposizione al cosiddetto neoliberismo – ugualmente borghese e capitalista – al fine di giungere ad un preteso diverso “modello di sviluppo”. Si dà ad intendere alla classe operaia che avrebbe sì da perdere col “liberalismo” ma da guadagnare solo accucciandosi ai piedi del borghese Stato “interventista”.

Leggiamo dalla bozza del documento Cgil: «L’Italia non deve essere condannata all’esercizio della sostenibilità finanziaria, riducendo il perimetro pubblico e adottando politiche di austerità – come il pareggio di bilancio che chiediamo di cancellare (...) Questo significa selezionare e governare le politiche economiche secondo un modello alternativo, sostenibile, di crescita, sviluppo e giustizia sociale (...) Occorre cambiare radicalmente il quadro delle politiche economiche e dotarsi di due strumenti: un piano di investimenti pubblici (...) e il governo e la selezione delle politiche, affermando il ruolo dello Stato protagonista e attore dei cambiamenti. Occorre creare un nuovo strumento pubblico di governo delle politiche di sviluppo industriale, una nuova IRI o Agenzia per lo Sviluppo Industriale”.

Si vorrebbe illudere che lo Stato del capitale sia immune, al di sopra, dalla crisi del capitale e lo possa, a sua “scelta”, salvare. Se c’è una generale e mondiale sovrapproduzione di merci, non sarà trasferire la proprietà di un’acciaieria da un privato allo Stato che la potrà risolvere. Il nostro problema non è far funzionare il capitalismo, il che è impossibile, ma strappare con la forza dell’organizzazione e della lotta una maggior quota di ricchezza sociale dalla classe dei borghesi a quella dei proletari.

La principale differenza fra le linee maggioritarie nei due sindacati non sta nelle misure di politica economica alle quali le dirigenze dei due sindacati pensano si debba affidare, più che all’azione di lotta, la tutela degli interessi economici dei lavoratori, ma nel percorso che costoro credono necessario per giungere a quel “quadro politico” che, a dir loro, consentirebbe l’applicazione di tali misure. E il problema della definizione di tale percorso ruota, secondo costoro, attorno a una delle principali, e sempre equivoche, alternative su cui si aggroviglia l’attuale politica della sempre spregevole borghesia italica: quella cioè della sua collocazione internazionale, qui in particolare nell’Unione Europea. Mentre per la maggioranza Cgil è necessario «riconciliare l’Europa economica e l’Europa sociale per un nuovo modello sostenibile e inclusivo, di integrazione, attraverso il rafforzamento della legittimità democratica delle istituzioni europee», cioè riformare l’Unione Europea, per i dirigenti dell’Usb bisognerebbe «spezzare la gabbia dell’Unione Europea», col che, senza tema del ridicolo, definiscono se stessi “rivoluzionari”.

A parte il fatto che ogni borghesia deciderà come saltare il fosso fra i campi mondiali quando riterrà utile ai suoi meschini e sporchi traffici, entrambe le “scelte” ai fini della difesa della classe lavoratrice sono destinate con sicurezza al fallimento [“Contro la parola d’ordine di uscita dall’Euro dall’Europa dalla Nato”]. In ciascun paese della Unione Europea la politica dei governi rimarrà antioperaia sia che esso ne resti membro sia che ne esca perché ad imporre lo sfruttamento e la miseria della classe lavoratrice non è la cosiddetta “Troika”, se non ad una lettura superficiale del problema, comoda all’opportunismo, ma sono le leggi economiche del capitalismo e il corso, catastrofico, della sua crisi.

Il ritorno a una condizione di maggior intervento statale in economica e nei servizi sociali sarà eventualmente intrapreso dai regimi politici capitalisti per gestire la drammatica miseria e povertà a cui il capitalismo condurrà la classe operaia di tutto il mondo, e ciò per cercare di ostacolare la lotta di classe e scongiurare la rivoluzione, non certo per compiere un passo dal capitalismo in direzione del socialismo. Se e nella misura in cui ciò si verificherà segnerà l’approssimarsi di un nuovo conflitto bellico mondiale fra massimi imperialismi e capitalismi, accompagnandosi a provvedimenti protezionistici e alla propaganda nazionalistica. Elementi che indubbiamente vediamo già in nuce [“Minacce di dazi commerciali già smentiscono le illusioni borghesi di un imperialismo senza guerre”.

Riguardo le differenze negli obiettivi di politica economica avanzate dalle due organizzazioni sindacali qui a confronto appare solo una maggiore “radicalità” nel linguaggio dell’Usb. L’esempio forse centrale è quello della nazionalizzazione delle imprese che entrambe le parti definiscono “strategiche per il paese” («un vero e proprio Programma Nazionale di Sviluppo per affermare filiere economiche strategiche per il Paese», invoca il documento Cgil). Rivendicazione in merito alla quale abbiamo recentemente scritto [“Le crisi aziendali e la richiesta delle nazionalizzazioni”], spiegandone la dannosità ai fini sia della lotta politica per il comunismo sia di quella sindacale. La Cgil non avanza questo obiettivo in generale, ad esempio non lo ha fatto per l’ILVA e l’Alitalia ma non è affatto da escludere che anche il maggior sindacato di regime d’Italia torni a sostenere questo equivoco obiettivo falsamente radicale quanto falsamente di carattere socialista; lo mostra la citazione riportata in cui si auspica una “nuova IRI”.

Equivoci obiettivi

Sul piano della politica economica quindi, ripetiamo, contigue sono le posizioni delle maggioranze delle due organizzazioni sindacali sfumando le une nelle altre, a seconda delle circostanze. Del resto entrambe derivano dallo stesso ceppo politico, quello del socialsciovinismo e dello stalinismo ed oggi sono ascrivibili appieno al campo borghese, organizzate in formazioni partitiche differenti ed avverse solo per la loro natura opportunista ma destinate a tornare a far fronte comune.

È quando dal cielo della politica economica si scende coi piedi sul terreno delle rivendicazioni sindacali che una qualche distanza fra i due sindacati si fa visibile ed affiora l’irrevocabile e smaccato collaborazionismo sindacale della Cgil. Su questo terreno la bozza di documento congressuale della maggioranza Cgil è più avara di argomenti ma quei pochi indicano chiaramente la direzione di marcia.

Intanto va detto come il documento della Cgil abbia la spudoratezza di “denunciare” la “gravità” dei provvedimenti quali la riforma delle pensioni Fornero ed il Jobs Act senza accennare alla nessunissima critica della Cgil al momento della loro approvazione, al contrario cantandone le lodi.

Sul piano degli indirizzi prettamente sindacali più importanti sono i seguenti.

a) Orario

La bozza di documento avanza la rivendicazione della riduzione dell’orario di lavoro in questi termini intricati: «La riduzione generalizzata degli orari e del tempo di lavoro, finalizzando la redistribuzione dell’orario a favore dell’occupazione e della qualità del lavoro, la conciliazione dei tempi di vita, devono =diventare assi strategici dell’azione rivendicativa della Cgil. Ciò significa – anche a fronte dei processi di innovazione tecnologica e organizzativa – perseguire una riduzione degli orari contrattuali e di fatto, regolamentare tempi di lavoro che assicurino da un lato maggiore flessibilità e dall’altro più ampi margini di autonomia nella gestione dell’attività lavorativa finalizzata al risultato, certezza dei tempi di connessione e di lavoro reale, oltre che il diritto alla disconnessione e al tempo libero e il diritto permanente e soggettivo alla formazione e all’aggiornamento professionale retribuito, la sperimentazione nei contratti nazionali di modalità innovative di riduzione o modifica dell’orario – anche temporanee – di lavoro individuale su base giornaliera e settimanale».

La chiave per capire dove si vuole andare a parare sta nelle ultime righe: «sperimentazione nei contratti nazionali di modalità innovative di riduzione o modifica dell’orario». E serve anche leggere quanto a proposito è scritto nel “Contributo al dibattito” congressuale del Coordinatore nazionale di “Democrazia e Lavoro”, Nicolosi, che indica la strada di «una forte riduzione dell’orario complessivo di vita, mantenendo la retribuzione, intervenendo non solo sull’orario giornaliero, settimanale e mensile, ma anche su quello annuale e quello complessivo di vita, abbassando l’età di pensionamento, prevedendo periodi di formazione permanente e periodi sabbatici per esigenze familiari, di istruzione e di vita».

Si tratterebbe cioè di una riduzione dell’orario per finta, secondo il modello offerto dall’accordo siglato il 5 febbraio scorso in Germania dal sindacato metalmeccanico IG Metal, che ha avuto ampio riscontro sulla stampa sia borghese sia sindacale in Italia e che abbiamo commentato sull’ultimo numero del nostro giornale [“Accordo IG-Metall. Operai flessibili per il padrone”].

Comunque sul tema della riduzione dell’orario la bozza di documento chiude mettendo le mani avanti: «Tutto questo necessita di un quadro legislativo e fiscale di sostegno». Cioè, al solito, si invoca il sostegno governativo (defiscalizzazione e decontribuzione, pagate dalla classe salariata nel suo complesso) – non certo la lotta operaia – per poter “fare contrattazione” con questo obiettivo. E se questo “sostegno” dovesse non giungere si potrà sempre dar la colpa alla “politica”.

b) Salario

Secondo argomento sindacale sollevato dal documento è quello salariale. Si indica la strada di “una nuova politica salariale” e si afferma che «l’incremento del valore reale dei salari deve essere conseguito sia attraverso la contrattazione collettiva che attraverso la leva fiscale e con politiche che non fondino i loro presupposti su bonus, elargizioni occasionali o la diffusione di forme private di welfare».

Da un lato quindi si invoca ancora l’intervento governativo, ed ancora attraverso riduzioni del carico fiscale che, ribadiamo, in assenza di una lotta generale per aumenti salariali, vanno a ricadere sulle spalle della classe salariata. Dall’altro si indica la via della contrattazione collettiva ma evitando accuratamente di far riferimento a quanto ottenuto nei rinnovi contrattuali degli ultimi tre anni, tutti con aumenti che non hanno recuperato il potere d’acquisto perduto, in particolar modo quelli del pubblico impiego. E ci si guarda bene dal far notare che proprio la contrattazione collettiva portata avanti dalla Cgil, insieme a Cisl e Uil, ha contribuito alla “diffusione di forme private di welfare” includendo parti crescenti relative al cosiddetto “welfare contrattuale” (aziendale e di categoria).

Nel documento in esame ripetutamente viene indicata l’importanza della “confederalità”. Ma questa non è certo intesa come unificazione delle lotte al di sopra delle divisioni aziendali e di categoria per obiettivi quali forti aumenti salariali, maggiori per i lavoratori peggio pagati, e la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario.

Tutti i rinnovi contrattuali cui abbiamo qui fatto riferimento, quelli cioè successivi all’approvazione del Jobs Act, ma precedentemente non andava diversamente, sono stati portati avanti dalla Cgil con debolissime mobilitazioni condotte separatamente, isolate le une dalle altre. Nemmeno la Cgil ha voluto organizzare una azione di lotta comune dei lavoratori del pubblico impiego, per i quali non ha proclamato una sola ora di sciopero, dopo un blocco contrattuale di 8 anni, ed ottenendo la maggior perdita di potere di acquisto dei salari a confronto coi rinnovi delle altre categorie: «Dobbiamo ricordare che avevamo diritto a ben 12 percentuali di aumento e che concludiamo perdendone quasi otto» (“Progetto Lavoro” del 6 marzo 2018). Lo stesso vale per le migliaia di vertenze contro licenziamenti collettivi per ristrutturazioni o chiusure aziendali, provocate dal nuovo esplodere, nel 2008, della crisi di sovrapproduzione.

La “confederalità” è intesa dalla maggioranza Cgil limitatamente ad azioni a sostegno delle grandi velleità di “cambiamento” in senso socialdemocratico della politica economica, attraverso, naturalmente, non scioperi ma manifestazioni, raccolte di firme, voti referendari. Leggiamo dalla bozza: «Una nuova confederalità deve essere capace di avere un progetto generale di trasformazione della società e di restituire dignità e libertà al lavoro»; ed ancora: «La proposta di legge [la Carta dei Diritti Universali del Lavoro; ndr] (...) dovrà rappresentare (...) il centro della nostra iniziativa generale».

c) Contrattazione innovativa

L’ultimo punto rilevante nel documento è quello relativo all’accordo intersindacale fra Cgil, Cisl e Uil e Confindustria del 28 febbraio scorso (“Contenuti e indirizzi delle relazioni industriali e della contrattazione collettiva di Confindustria e Cgil, Cisl, Uil”). «Il recente accordo con Confindustria, va nella giusta direzione», afferma la bozza di documento congressuale. In questo accordo – a parte enunciazioni generali tutte di contenuto ideologico borghese – vengono ribaditi e puntellati tutti gli avanzamenti padronali ottenuti nei rinnovi contrattuali dell’ultimo triennio: derogabilità del contratto nazionale di categoria su tutte le materie tranne i minimi salariali; aumenti salariali nella contrattazione di secondo livello (aziendale) unicamente legati al raggiungimento di obiettivi di produttività; inserimento nel computo del costo del rinnovo contrattuale delle voci relative al “welfare contrattuale”.

Si invoca poi una completa applicazione del Testo Unico sulla Rappresentanza del 10 gennaio 2014, che sinora è stata tale solo per quanto attiene alla esclusione dalle elezioni RSU delle organizzazioni sindacali che non vi hanno aderito, mentre non ha avuto seguito per quanto riguarda la misurazione e certificazione della rappresentatività (media fra iscritti a ciascuna organizzazione sindacale firmataria e voti da questa conseguiti nelle elezioni RSU), né per l’applicazione delle sanzioni in termini economici e di agibilità sindacali verso eventuali minoranze RSU che agissero contro accordi votati dalla maggioranza.

Le lacrime di un coccodrillo

In una trasmissione televisiva il segretario generale della Cgil Susanna Camusso così si espresse nel 2014 – all’epoca dell’approvazione del Jobs Act – riguardo al problema del lavoro precario: «La matrice unica del precariato l’ha costruita il Parlamento per ridurre i costi contrattuali. In questo noi Cgil abbiamo commesso un grave errore: abbiamo pensato che questa [del precariato; ndr] sarebbe rimasta un’area ridotta. Nel 2007 avevamo fatto un accordo con Prodi che non si è realizzato».

Ammesso il precedente errore, ciò che fece la Cgil di fronte a un nuovo provvedimento parlamentare per aumentare in modo ancora più grave la precarietà, il Jobs Act appunto, furono le 8 ore di sciopero a legge già approvata. Quindi, se è raro che la Cgil ammetta i propri errori – si veda la bozza di documento congressuale qui in esame – anche quando questo accade non serve affatto a farle cambiare strada, anzi, si tratta di lacrime di coccodrillo utili ad avanzare sulla rotta di sempre.

Il senso dell’atteggiamento della Cgil nei confronti dell’offensiva padronale sul fronte della precarietà è importante perché ha una valenza del tutto generale riguardo la sua condotta. Essa ha cioè cercato da un lato non di opporsi frontalmente ma di gestire il peggioramento, dall’altro di farlo attraverso un accordo con un governo “amico”. Questa è la linea tenuta da questo sindacato sui più svariati fronti della lotta sindacale e ciò in quanto non si tratta di una libera scelta fra diverse opzioni da parte della sua dirigenza ma è una linea conseguente al rigetto della lotta di classe.

Facciamo due esempi. È almeno dal 2009 che il padronato in Italia ha aperto la guerra contro il contratto nazionale di lavoro, con l’obiettivo di giungere solo a contratti aziendali o territoriali. La Cgil ha sempre dichiarato essere un suo obiettivo fondamentale la difesa del contratto nazionale, ma, dopo aver inizialmente rifiutato l’accordo del 2009 sulla contrattazione fra Cisl, Uil e Confindustria, ha poi accettato quelli successivi (giugno 2011, maggio 2013, gennaio 2014, febbraio 2018), accettando la derogabilità sempre più estesa dei contratti aziendali da quelli nazionali.

Nel 2009 l’allora segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani così si espresse riguardo all’accordo fra Cisl, Uil e Confindustria: «Il livello nazionale [i minimi salariali esclusi dalle deroghe; ndr] non recupererà mai l’inflazione reale (...) e la derogabilità diventa un principio generale» (Repubblica del 22 gennaio 2009). Non che ci volesse tanto a prevederlo, e i recenti rinnovi contrattuali gli hanno dato pienamente ragione. Poi però, da parlamentare, nel 2014 votò a favore del Jobs Act che, rendendo i lavoratori ancora più ricattabili, con il “contratto a tutele crescenti”, offre al padronato un’arma in più per abbassare i salari. Evidentemente quelle di Epifani erano affermazioni dettate da circostanze estranee alla difesa dei lavoratori e soprattutto col solo metodo che possa permetterla, quello della lotta di classe.

Se la Camusso ha fatto ammenda riguardo alla condotta della Cgil riguardo all’offensiva padronale sul fronte del precariato, forse fra un po’ di tempo vedremo il suo successore alla carica di segretario generale fare lo stesso riguardo alla questione del contratto nazionale di categoria, seppellito da deroghe che danno un valore sempre più preponderante alla contrattazione di secondo livello.

Un secondo esempio di pretesa “gestione del peggioramento” è quello relativo al cosiddetto “welfare universale”. Anche in questo caso la Cgil afferma a piena voce di volerlo difendere. Per quanto riguarda la sanità pubblica ad esempio leggiamo nella bozza di documento: «Obiettivo prioritario è ripristinare la garanzia del diritto universale alla salute, incrementando il finanziamento al Fondo sanitario nazionale». Ma questa affermazione di principio si accompagna ad una pratica che, come abbiamo visto, consiste nel dare sempre più peso al “welfare contrattuale”, al punto da computarne il valore all’interno degli aumenti salariali. Lo stesso vale per ciò che riguarda le pensioni, con sempre maggior spazio dato a quelle cosiddette integrative, offerte dai fondi di categoria gestiti bilateralmente da sindacati confederali e padronato. Oltre al fatto che le defiscalizzazioni invocate a più riprese vanno naturalmente a danno dei finanziamenti per i servizi pubblici.

Il nostro indirizzo sindacale

Nel commentare la “Traccia di discussione per Assemblee Generali” per il XVIII congresso della Cgil abbiamo tirato alcuni confronti fra questo sindacato e l’Usb. Questa scelta è dovuta da un lato al fatto che l’Usb è il maggior sindacato di base, che poniamo così a paragone col maggior sindacato di regime, pur restando in termini quantitativi enormi le distanze (5 milioni e mezzo gli iscritti dichiarati dalla Cgil a fronte di circa 40 mila nell’Usb); dall’altro che forse in questo sindacato di base è più ampia la distanza fra le enunciazioni della necessità di costruire un sindacato di classe ed una pratica che spesso poco si differenzia da quella del sindacalismo concertativo.

Abbiamo visto come la base ideologica delle dirigenze dei due sindacati sia comune, quel riformismo rancido proprio del secondo dopoguerra che include tutto quel gran calderone che volgarmente viene chiamato “sinistra” e che noi marxisti rivoluzionari definiamo democrazia post-fascista, sia essa pure “radicale”. Le due dirigenze hanno una comune origine partitica, quella del Partito Comunista Italiano che, passato in mano alla corrente centrista di Togliatti nel 1926, in parallelo con la controrivoluzione nel partito e nello Stato comunisti in Russia, si spostò nel giro di pochi anni su posizioni analoghe, se non ancora più a destra, a quelle del PSI, da cui era nato nel 1921, col nome di Partito Comunista d’Italia, Sezione della III Internazionale, attraverso una scissione guidata dalla sua sinistra, che lo diresse fino al 1923 e fu maggioritaria al suo interno fino al 1926. Di quella componente, che assunse il nome di “sinistra comunista”, è oggi espressione il nostro piccolo partito.

Se, dunque, i compagni lavoratori del nostro partito in Italia militano nell’Usb, come negli altri sindacati di base, secondo la categoria di appartenenza, ed in ogni organismo di lotta dei lavoratori venga a formarsi fuori dal controllo dei sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil, Ugl), ciò non è in ragione delle qualità della corrente politica cui appartengano le loro dirigenze. Non è da questo elemento che muove il criterio in base al quale il partito indica ai lavoratori – e con univoca direttiva centrale ai propri iscritti – di aderire o meno ad una data organizzazione sindacale. Nemmeno il partito comunista, di fronte a una pluralità di organizzazioni sindacali per le quali non esclude la possibilità di affermare in esse il suo indirizzo di lotta, sceglie a quale aderire in base alla pretesa maggiore prossimità ideologica della dirigenza di ciascuna di esse, bensì si batte al loro interno per la loro unità d’azione, foriera dell’unione in un unico sindacato di classe.

Questo in quanto, per i marxisti codificato almeno dal 1871, un sindacato non è un partito, ma un organo di lotta immediata della classe operaia che recluta lavoratori alla sola condizione sociale di vivere di salario, non dall’abbracciare individualmente determinate ideologie e programmi politici. Quindi in essi possono e debbono trovare accoglienza e riflesso tutti gli indirizzi sindacali espressione delle svariate posizioni politiche che trovano seguito nella classe. Ed è questo che li fa conquistabili dall’indirizzo sindacale comunista.

Il problema dei sindacati nel capitalismo contemporaneo, nella sua fase ultima dell’imperialismo, è l’incessante opera del regime borghese tesa ad inquadrarli al suo servizio al fine di imbrigliare la lotta di classe. La questione prioritaria che si pone quindi ai comunisti nella valutazione di un qualche sindacato non è il programma politico e l’ideologia della sua dirigenza ma se è in atto e quanto è avanzato il processo del suo inquadramento nel regime ideale, politico e istituzionale del capitale.

Ad esempio il nostro partito ha definito la Cgil “sindacato di regime”, fin dalla sua ricostituzione “dall’alto” sul finire della seconda guerra mondiale. Ma considerò possibile – per ben individuate ragioni oggettive – una battaglia al suo interno per riportarla ad essere un sindacato di classe. Alla fine degli anni settanta – ugualmente sulla base di evidenti ragioni oggettive – ha ritenuto chiusa questa possibilità e storicamente irreversibile la natura “di regime” di questo sindacato.

Questa valutazione scaturì da una effettiva esperienza pratica di lotta interna alla Cgil della piccola ma battagliera frazione sindacale del partito e partecipe delle vicissitudini di importanti battaglie di lotta della classe di tutto il secondo dopoguerra.

I comunisti, in linea generale, non si fanno promotori di scissioni sindacali. Fin dal 1945 il nostro partito, affermata la necessità della presenza di forti sindacati di classe sia per la rivoluzione sia in quanto organi spontanei per la difesa immediata dei salariati, indicò due strade per la loro futura rinascita in Italia: o riconquistando la Cgil (si diceva “a legnate”, cioè sotto la spinta di potenti lotte operaie e con la energica sollevazione della base contro i dirigenti), o “fuori e contro” di essa. Il non eludibile indirizzo pratico immediato fu nell’immediato dopoguerra il primo. Si passò al secondo solo quando si manifestò l’evidenza di minoritari ma consistenti gruppi di lavoratori che, nella lotta, non solo si trovarono a dover affrontare ad un tempo sia il padrone sia la Cgil, ma tanto da doversi organizzarsi fuori e contro di essa per poter scioperare. La nascita negli anni successivi dei “sindacati di base” confermò questo processo che il partito seppe riconoscere, traendone il conseguente indirizzo pratico.

L’Unione Sindacale di Base, nata a cavallo fra anni ‘70 ed ‘80 nel pubblico impiego e che solo successivamente ha iniziato ad estendersi al settore privato, non è stata ancora messa alla prova di ondate di lotta di classe paragonabili a quelle del primo trentennio del dopoguerra, attraversando al contrario un arco storico caratterizzato da relativa pace sociale. Possiamo solo affermare che la battaglia condotta dai nostri compagni in questo sindacato di base, che ha fornito utili conferme della correttezza del nostro indirizzo sindacale e della nostra dottrina, non ci porta, finora, a considerare questo sindacato alla stessa stregua di quelli di regime.

 

 

 

 

 
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Il concetto di dittatura rivoluzionaria e la sua pratica - Prima di Marx
(Capitoli esposti a Firenze e a Genova nel gennaio e nel maggio 2014)
 
 
1. Fino all’illuminismo

La borghesia afferma il concetto di dittatura rivoluzionaria nella Rivoluzione francese, in una pratica sicuramente più avanzata della sua capacità di teorizzazione, data la necessità di difendere la Rivoluzione dai nemici interni ed esterni. Anche da parte proletaria la sua teoria resta in embrione, con alcune vette rappresentate da Babeuf e da Filippo Buonarroti.

Nell’illuminismo settecentesco troviamo poco o nulla riguardo a tale concezione, ovvio, data la struttura sociale del tempo, in Francia molto avanzata rispetto alla maggior parte dei paesi europei, ma non paragonabile a quella dell’Inghilterra, che vede in questo secolo la nascita del capitalismo.

L’illuminismo, termine in sé vago, che comprende posizioni tra loro molto diverse, è comunque e sicuramente la preparazione ideologica alla Rivoluzione francese, che avviene per necessità, come tutte le rivoluzioni, e trova la propria coscienza nell’illuminismo, e in particolare in Rousseau, spesso inconsapevolmente modificato, divenuto l’arma teorica dei rivoluzionari.

Che i giacobini fossero grandi ammiratori di Rousseau è risaputo, ma anche l’influenza di altri, in particolare di Diderot, non è meno importante.

Riguardo al concetto del diritto di ribellione al potere, già Agostino di Ippona nelle “Confessioni” parla di un principio pattizio a cui anche il monarca si deve attenere, e di un diritto del popolo a ribellarsi nel caso contrario.

Anche il giurista tedesco Manegold di Lautenbach nell’XI secolo parla di un patto tra re e popolo, vincolante per entrambe le parti. L’autorità imperiale è quindi una funzione affidata dal popolo al sovrano, e il giuramento di fedeltà è nullo quando il sovrano viene meno ai patti. Il fatto che ciò servisse a giustificare l’azione del Papa contro Enrico IV, in questo momento non ci interessa.

Anche Tommaso D’Aquino il secolo successivo, nel “De regimine principum”, scrive che il popolo ha il diritto di destituire il tiranno che non rispetta i patti e la sua funzione.

Calvino, esponente di primo piano della Riforma protestante nel XVI secolo, realizza a Ginevra un governo teocratico e teorizza l’ossequio all’autorità costituita.

Ma i calvinisti francesi, dovendo lottare duramente contro i sovrani cattolici, arrivarono a teorizzare il diritto di resistenza armata.

Il teologo ginevrino Teodoro di Beza nel “De iure magistratuum in subditos” del 1574 riafferma il principio della sovranità popolare, del contratto di governo, e del diritto di una minoranza oppressa a ribellarsi ai tiranni.

In uno dei vari libelli ugonotti, come venivano chiamati quelli dei protestanti francesi, le “Vindiciae contra Tyrannos” del 1579 scritto da Philippe Duplessis-Mornay, troviamo ancora il principio contrattualistico, ispirato come sempre agli esempi biblici, e quindi i limiti al potere del re, il diritto di resistenza e di uccidere il tiranno. Per questo furono chiamati monarcomachi.

Questi princìpi penetrarono tra i puritani inglesi e nella rivoluzione inglese del 1640. Il giurista John Selden scrisse allora: «Per sapere quale obbedienza si deve al principe, guardate al contratto tra lui e il popolo: quando il contratto è infranto, e non v’è più un arbitro che giudichi, la decisione spetta alle armi».

Nell’illuminismo francese, e non solo, troviamo tesi di grande interesse su materialismo, ateismo e comunismo. In Morelly, Mably, Rousseau è una critica alla proprietà privata, vista come origine di tutti i mali, anche se poi l’esito politico di tale riflessione sfocia nel dispotismo illuminato, cioè nella speranza in un sovrano che realizzi le nuove idee.

Va detto che fino agli anni ’60 del XVIII secolo non era visibile alcuna prospettiva di cambiamento, e i limiti degli illuministi e degli utopisti erano quelli della società in cui vivevano. La loro grandezza sta nell’essersi posti il problema, in una società sempre meno feudale, sempre più mercantile, con un potere che si andava sempre più centralizzando con l’assolutismo regio e con i suoi intendenti.

Scrive Engels nell’”Antidühring”: «Gli utopisti furono obbligati a costruire gli elementi di una nuova società traendoli dal proprio cervello, perché nella vecchia società questi elementi in genere non erano chiaramente visibili. Per i tratti fondamentali del loro nuovo edificio furono ridotti a fare appello alla ragione, precisamente perché non potevano ancora fare appello alla storia del loro tempo».

Forse il primo accenno, pure molto vago, a qualcosa di riconducibile al concetto di dittatura rivoluzionaria è in Morelly. Nella seconda parte della sua opera più famosa, il “Codice della natura”, leggiamo: «Se non c’è situazione in cui l’uomo sia sempre disposto a cedere ai consigli e alle rimostranze più ragionevoli, la nostra ipotesi non esclude affatto che un’autorità severa vinca queste prime avversioni, obbligandolo in un primo tempo a doveri che la pratica renderà agevoli e che l’evidenza della loro utilità farà in seguito prediligere».
 
 
2. Jean-Jacques Rousseau

Il pensiero di Rousseau fu la base ideologica della Rivoluzione francese.

Ma nel suo scritto “Origine della disuguaglianza” del 1754 troviamo una critica della proprietà privata, non anti-capitalista ma già eccessiva per i rivoluzionari dell’89 e anche del ‘93: «Il primo che, avendo cintato un terreno, pensò di dire “questo è mio” e trovò delle persone abbastanza stupide da credergli, fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, quante guerre, quanti assassinii, quante miserie ed errori avrebbe risparmiato al genere umano chi, abbattendo i picchetti o colmando il fossetto, avesse gridato ai suoi simili: “Guardatevi dal dare ascolto a questo impostore! Se dimenticate che i frutti sono di tutti e la terra non è di nessuno, siete perduti!”».

Leggiamo poi: «Dal momento che un uomo ebbe bisogno dell’aiuto di un altro, dal momento che era utile a uno solo di avere provviste per due, da quel momento l’uguaglianza disparve, s’introdusse la proprietà, il lavoro divenne necessario e le vaste foreste si cambiarono in ridenti campagne che bisognò bagnare col sudore degli uomini e nelle quali presto si videro germogliare e crescere con le messi la schiavitù e la miseria».

Vengono in mente i “Manoscritti” del 1844, dove Marx scrive che la storia umana, equivalente della “civiltà” rousseauiana, inizia con la proprietà e la divisione del lavoro, conseguenza delle quali è l’alienazione, cioè la separazione dell’uomo dal proprio lavoro, dai propri simili, e da sé stesso. Il termine nostro marxista di “alienazione” si può anche considerare come la formulazione scientifica del termine “infelicità” usato da Rousseau.

Ciò che sarà davvero importante nell’elaborazione dell’ideologia repubblicana e giacobina è però un altro concetto, quello di diritto naturale. Nozione non certo nuova, ma che subisce una trasformazione non indifferente: Rousseau polemizza con il giusnaturalismo di Hobbes, di Locke, Pufendorf e Grozio, considerando quel diritto come una pura giustificazione dell’esistente e dei suoi rapporti di forza.

Il contratto sociale, di cui si era parlato fino ad allora, era quindi solo un inganno. Leggiamo ancora dall’”Origine della disuguaglianza”: «Il ricco, spinto dalla necessità, alla fine ideò il progetto più meditato di quanti siano mai stati nell’intelletto umano: fu di usare a suo vantaggio le forze stesse di coloro che lo assalivano, di trasformare i suoi avversari in difensori, di ispirare loro delle altre massime e di dare loro delle altre istituzioni che gli fossero altrettanto favorevoli quanto il diritto naturale gli era contrario».

L’eguaglianza naturale, che è considerata come uno degli imprescrittibili diritti naturali dell’uomo, si trasforma quindi in eguaglianza giuridica e politica, sancendo così l’ineguaglianza reale, che acquista forza e stabilità.

Non è certo un’invenzione di Rousseau l’idea di Stato come strumento di una classe privilegiata contro un’altra classe, che ha per vero scopo mantenere i privilegi esistenti ed espressione consolidata dei rapporti di forza. Già Tommaso Moro nell’”Utopia” e Gian Battista Vico nei “Principi di una scienza nuova” mostrano di considerare lo Stato un’associazione dei ricchi contro i poveri.

Il ginevrino, dei popoli asserviti mediante un patto iniquo, dice: «Sempre chiedono pace e quiete nelle loro catapecchie, e che miserrimam servitutem pacem appellant» (da Tacito: chiamano pace una miseranda schiavitù).

Rousseau denuncia gli eserciti di mestiere dei suoi tempi, a cui contrappone quelli formati da cittadini, idea comune a gran parte degli illuministi e, prima ancora, a Niccolò Machiavelli. Prevede che i difensori della patria ne diverranno inevitabilmente i nemici, e cita a riguardo i versi del poeta latino Lucano, che tradotti suonano: «Se mi comandi di immergere la spada nel petto del fratello, nella gola del padre, o nelle viscere della moglie incinta, anche se malvolentieri farò tutte queste cose». Discorso evidentemente valido per tutte le società di classe e per i loro Stati.

Vi riconosciamo i borghesi eserciti rivoluzionari che diverranno imperiali, da Saint-Just a Bonaparte, e agli eserciti odierni, dei paesi democratici e non, di mestiere o di leva che siano, anche quando questi eserciti affermano d’avere il compito di difendere la patria, i cittadini, la libertà, il socialismo, e perfino di regalare caramelle ai bambini di Kabul. Come il secolo presente e quello appena passato ci hanno mostrato abbondantemente, appena l’ordine di classe sarà in pericolo o solo in crisi, gli eserciti degli imperialismi faranno ciò che il poeta Lucano scriveva nel primo secolo. Solo un’opera efficace di azione e di propaganda del partito comunista tra le forze armate lo potrà evitare.

Per noi comunisti il diritto si identifica con la forza. Questo valeva anche per Rousseau nelle società che osservava. Ma credeva possibile una società diversa, basata sulla legge di natura e sui diritti dell’uomo, in cui il Diritto, e quindi la Politica, avessero una autonomia e una preminenza sulla struttura sociale ed economica, creando, guidando e informando di sé una società guidata dalla volontà generale e non più da volontà particolari travestite da generali.

Questa fu l’illusione dei giacobini e dei rivoluzionari anche i più conseguenti, che pensavano di fondare la Repubblica sulla virtù e sui diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo. La nuova e rivoluzionaria classe borghese si riprende ciò che è suo, distruggendo le gabbie ideologiche contro le classi superiori e l’intransigenza del terrore, che pure le erano state utili, ma che andavano ora accantonate per una pratica più funzionale alle proprie esigenze di dominio pieno dell’apparato statale e di repressione delle classi inferiori.

Tornando all’”Origine della disuguaglianza”: «La sommossa che finisce con lo strangolare o deporre un Sultano è un atto altrettanto giuridico quanto lo erano quelli con cui egli disponeva della sorte delle vite e dei beni dei suoi sudditi. La sola forza lo teneva in piedi, la forza lo rovescia». E termina: «È manifestamente contrario alle leggi di natura, in qualsiasi modo lo si definisca, che un bambino comandi a un vecchio, che un imbecille guidi un saggio e che un pugno di uomini sia pieno di cose superflue mentre la moltitudine affamata manca del necessario».

Dell’opera più famosa del ginevrino, “Il contratto sociale”, del 1762, leggiamo l’esordio: «L’uomo è nato libero, ma dovunque è in catene. Anche chi crede di essere padrone degli altri, è più schiavo di loro». Poi: «Quando la forza determina il diritto, l’effetto si fa causa: ogni forza che supera un’altra le subentra nel diritto. Appena si può disubbidire impunemente lo si può legittimamente; e poiché il più forte ha sempre ragione, si tratta soltanto di fare in modo da diventare il più forte. Si vede dunque che la parola diritto nulla aggiunge alla forza; qui, anzi, non significa proprio nulla».

Alla fine del primo libro troviamo la seguente nota dell’autore: «Sotto i cattivi governi questa eguaglianza è solo apparente e illusoria; essa serve solo a mantenere il povero nella sua miseria e il ricco nella sua usurpazione. In realtà le leggi sono sempre utili a coloro che posseggono e nocive a quelli che non hanno niente: di qui consegue che lo stato sociale è vantaggioso agli uomini solo in quanto tutti posseggano qualche cosa e nessuno abbia nulla di soverchio».

Alla fine del secondo libro leggiamo: «La costituzione di uno Stato è veramente solida e duratura, quando le regole sono osservate in modo che i rapporti naturali e le leggi convergano e che queste non facciano che assicurare, seguire, rettificare i primi». Quindi per Rousseau la legge può rettificare i rapporti naturali, e quindi la disuguaglianza naturale, forzando la legge di natura, la libertà della stessa e degli uomini.

Quando esamina le forme di governo, pur elogiando la democrazia, la considera molto instabile ed adatta a paesi molto piccoli. Molti cambieranno idea grazie alla rivoluzione americana del 1776, che mostrerà a tutti la possibilità, e la realtà, di una repubblica democratica in un paese di grandi dimensioni. A questo punto l’orizzonte è cambiato: gli illuministi che condividevano il pessimismo di Rousseau, cominciano ora a pensare che la repubblica e la rivoluzione siano possibili anche in un grande paese come la Francia.

Sicuramente rispecchia più il pensiero dei suoi lettori il motto fatto dire ad un cittadino di una democrazia: «Preferisco una libertà pericolosa ad una tranquilla servitù». Più avanti ancora: «Quanto a voi, popoli moderni, non avete schiavi ma lo siete; voi pagate la loro libertà con la vostra». Ancora, in difesa delle forme democratiche: «L’atto che istituisce il governo non è un contratto, ma una legge; i depositari del potere esecutivo non sono i padroni del popolo, ma i suoi ufficiali; esso può nominarli e destituirli quando meglio gli piaccia; essi non devono contrattare, ma obbedire; assumendo le funzioni che lo Stato impone loro, essi non fanno che adempiere al loro dovere di cittadini, senza avere in alcun modo il diritto di discuterne le condizioni».

La società non più oppressa ed oppressiva esisterebbe solo dove domina la volontà generale, che non è la somma delle singole volontà, ma una volontà collettiva e impersonale che coincide con l’interesse del corpo sociale. Tale volontà generale può anche limitare diritti naturali, che in quanto tali essa deve difendere finché non entrino in contrasto con la vita del corpo sociale, con la libertà e la giustizia della società, infine più importante della vita, della libertà e della giustizia dei singoli. Perché vita, libertà, giustizia e proprietà dei singoli, se non sottomesse alla volontà generale, si trasformano presto nella schiavitù di tutti.

Rousseau tra i diritti inalienabili mette anche la proprietà, con una contraddizione almeno apparente con quanto ha altrove affermato. In effetti, sul modello della sua Svizzera, il suo ideale resta quello di una società di piccoli artigiani e di contadini, con proprietà modeste.

Nella rivoluzione francese, quando i giacobini, nell’interesse superiore della rivoluzione, che era quello di sfamare i sanculotti e i soldati, limiteranno il diritto di proprietà, seppure anche da essi considerato sacro e inviolabile, essi potranno a buon diritto proclamarsi seguaci di Rousseau, del quale avranno portato alle estreme conseguenze le idee ma, anche in questo caso, senza stravolgerle.

Infine, sulla dittatura, scrive: «L’inflessibilità delle leggi, per cui non possono piegarsi agli avvenimenti, può, in alcuni casi, renderle dannose e causare la rovina dello Stato nella sua crisi. L’ordine e la lentezza delle forme richiedono uno spazio di tempo che talvolta le circostanze non danno. Si possono presentare mille casi non previsti dal legislatore; ed è previdenza necessaria rendersi conto che non si può prevedere tutto. Non bisogna dunque voler consolidare le istituzioni politiche sino a togliersi il potere di sospenderne l’effetto. Sparta stessa ha lasciato dormir le sue leggi».

Queste parole, certamente interessanti, non possono nascondere il fatto che quando Rousseau, come molti altri, parlava di dittatura, pensava ad un Cincinnato e ad altri esempi tratti dalla storia greca o romana. Saranno i giacobini, anch’essi permeati del mito di Sparta e della Roma repubblicana, a trasformare la pratica, ed in misura minore il concetto classico, della dittatura.

Nel fuoco della rivoluzione e della guerra sarà quindi forgiata una nuova e potente arma: la dittatura rivoluzionaria.

(continua al prossimo numero)

 

 

 
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Lettera dagli USA
Il militarismo moderno al solo servizio dei profitti del capitale

L’attacco statunitense alla Siria, coordinato con Gran Bretagna e Francia, ha preso a pretesto le armi chimiche, sostenendo essere nell’interesse del popolo siriano e del mondo. Questo è falso: l’interesse è del Capitale. Ogni minaccia di guerra, o di continuare una guerra da parte della borghesia è una minaccia contro il proletariato, non fra nazioni o fra forme costituzionali. Tutte le costituzioni delle classi dominanti, come un tempo difendevano la proprietà degli schiavi, ora difendono la schiavitù salariale e la compravendita della forza lavoro.

Il proletariato deve unirsi e organizzarsi per difendersi dagli attacchi che gli sono mossi. E i bombardamenti in Siria, come tutte le guerre del capitale, sono un crimine perpetuo contro la classe operaia in tutto il mondo.

Come ripeté Lenin con due anni di anticipo sulla Prima Guerra mondiale, che marchiò di imperialista, l’unica azione corretta contro le guerre del capitale è la mobilitazione del proletariato per l’abbattimento del potere borghese: «La trasformazione dell’attuale guerra imperialista in una guerra civile è l’unico indirizzo proletario corretto, che deriva dall’esperienza della Comune, e delineato nella risoluzione di Basilea (1912); lo impongono tutte le condizioni di una guerra imperialista tra paesi borghesi altamente sviluppati».

Non sappiamo quando scoppierà una terza guerra mondiale come quella.

Le continue guerre parziali hanno fornito un sollievo alla crisi del capitale. Tuttavia le condizioni del mondo capitalistico continuano a peggiorare, dopo la crescita economica generata dalle distruzioni della Seconda Guerra mondiale, crescita pagata col sudore dopo che col sangue proletario.

Come insegna Marx, il capitalismo impone la sovrapproduzione per continuare ad appropriarsi del plusvalore, il che porta alla distruzione degli uomini e del mondo. Per consentire al capitale di sovrapprodurre occorre una sovrappopolazione operaia. Per costringerla al lavoro, benché vi potrebbero essere alimenti ed abitazioni per tutti, bisogna che una parte della popolazione soffra la fame e sia senza casa. Perché la disoccupazione è necessaria al capitale, la sua riserva di forza lavoro a basso prezzo.

La dimensione della sovrappopolazione viene regolata anche con le guerre, sopprimendo vite per ridimensionare il mercato della forza lavoro. La classe capitalista da un lato fa crescere un proletariato da sfruttare, dall’altro ne causa periodicamente la morte. L’esistenza della classe lavoratrice è regolata in base alle necessità del profitto.

Per questo anche i democratici, i liberali e i “progressisti”, hanno interesse alla guerra, anche quando occasionalmente si oppongano ad un particolare intervento come quello recente in Siria, perché sono tutti strumenti nelle mani del capitale.

Negli Stati Uniti sono stati i Democratici a decidere la destabilizzazione della Siria, col pretesto di voler estromettere Assad per difendere la “democrazia” e i “ribelli moderati”. Intanto gli alleati degli Stati Uniti nella regione, in particolare l’Arabia Saudita, Stato capitalista che conserva la sua struttura feudale, mostravano la loro ferocia sul proletariato del Medio Oriente e del Nord Africa.

Il Kuwait, ad esempio, fu incoraggiato dagli Stati Uniti e dall’Arabia Saudita ad estrarre petrolio iracheno da sotto il confine e a sovrapprodurre oltre le quote dell’OPEC. Dopo che avevano fatto intendere a Saddam che assentivano alla sua invasione del Kuwait, gli Stati Uniti si misero alla testa di una coalizione per abbattere il regime iracheno col pretesto di “difendere la democrazia”, ignorando l’evidenza che il Kuwait era una monarchia assoluta.

In realtà è la natura stessa del capitale che impone la sua costante espansione per rallentare la tendenza alla caduta del saggio del profitto: anche la distruzione dell’Iraq, si sperava, avrebbe aperto spazi al capitale occidentale per espandersi.

Questo fenomeno fu già evidente dopo le due guerre imperialiste mondiali, con le grandi crescite economiche anche degli Stati Uniti negli anni ‘20 e ‘50: dopo quelle immani devastazioni, senza eguali nella storia, con la morte di milioni di proletari e la generale distruzione di capitali e di merci, ci fu nuovamente spazio per tornare ad ingolfare di merci i mercati.

Anche la successiva politica di guerra degli Stati Uniti è una diretta conseguenza di questa legge economica. Dalla Corea al Vietnam alle guerre civili in Africa e in America centrale e meridionale, la distruzione porta profitti e la produzione di armi si espande.

Ma Saddam non fu reso docile quanto si sperava dopo la Prima Guerra del Golfo.

Dopo l’11 Settembre, del quale erano coinvolti anche personaggi sauditi di medio rango, gli Stati Uniti hanno invece subito invaso l’Afghanistan, ovviamente con il consenso del Partito Democratico.

Intanto in patria, mentre si facevano profitti con la ricostruzione del World Trade Center, i lavoratori sopravvissuti e i pompieri e i volontari di soccorso, colpiti da malattie polmonari e tumori, non hanno avuto alcun aiuto da parte dello Stato. Le priorità borghesi erano altre, la “guerra al terrore”, con leggi per limitare ogni opposizione e critica.

Si è osservato che non ha senso combattere una tattica, il “terrorismo”. Come le precedenti, le “guerre” alla povertà o alle droghe sono promosse non per essere “vinte” ma per realizzare profitti: con quel pretesto si sono spostate risorse dall’istruzione e dall’assistenza sanitaria a settori dove il capitale ricava maggiori guadagni; si è accresciuta la disponibilità di lavoro schiavizzato nelle carceri e si sono distrutti paesi in America Latina con guerre civili e colpi di Stato, mentre la CIA si arricchiva con la droga.

Con la “guerra al terrore” è stato lo stesso. Le aziende del settore militare, i produttori di armi, le imprese di costruzioni, le compagnie petrolifere e minerarie, gli appaltatori per i rifornimenti, ecc. traggono profitto da giovani proletari costretti a uccidere e che tornano dalla guerra con cicatrici mentali e fisiche, quando tornano.

L’Iraq galleggia sul petrolio: democratici e repubblicani si sono accordati per farne profitti con lo spargimento di sangue di centinaia di migliaia di uomini, un tormento ancora in corso, nonostante l’attuale opposizione dei “coraggiosi” democratici alla guerra in Siria.

Ma l’espansione del programma di droni, i bombardieri comandati da terra, risale alla presidenza Obama. Con questi il capitale pretende di eliminare il costo di mantenimento dei soldati e delle loro famiglie, e la cattiva pubblicità quando muoiono o restano invalidi. Intanto i produttori di droni ne traggono profitto. Come sempre, la parte morta, inorganica, del capitale cresce più velocemente della sua parte vivente, organica: da qui la tendenza al calo del saggio di profitto.

Questa rapina si ripete in ogni paese che i diversi imperialismi invadono. La Siria si trova oggi nella stessa posizione di teatro di scontro fra i giganti del capitale. Pur non avendo molto petrolio, di lì potrebbero passare gli oleodotti che ne ridurrebbero i costi di trasporto. Come meglio martoriare il proletariato siriano che sostenere un “gruppo ribelle”, dando inoltre modo ad Assad di schiacciare brutalmente ogni opposizione? Assad è certamente un feroce nemico della classe lavoratrice, ma non più di tutti i capi di tutti gli Stati borghesi.

Poi, l’uso di “mezzi illegali” di sterminio fornirà il pretesto all’invasione. Non importa quale parte in Siria ha impiegato l’arma chimica, nella lotta inter-borghese, dal suo centro statunitense o da quello russo: comunque si massacrano proletari, se ne lasciano in lutto le famiglie e molti altri debbono fuggire.

E se questi fuggiaschi riescono ad arrivare da qualche parte, vi sono accolti allo stesso tempo con disprezzo e a braccia aperte: col disprezzo della piccola borghesia, a braccia aperte dal capitale, affamato di forza lavoro a basso prezzo. Per questo negli USA Starbucks, Chobani e Walmart hanno preso una “coraggiosa posizione” contro il razzismo, la xenofobia e il fanatismo. A chi chiedere peggiori condizioni di lavoro e di salari se non ai rifugiati dalle zone di guerra? Prima bombardi e distruggi le loro case, poi fai finta di preoccuparti della loro sorte! Hanno bisogno di democrazia, dopotutto, e questa è la democrazia!

Anche Obama, dopo aver fatto deportare 600.000 immigrati dagli Stati Uniti, si mostrò tormentato al pensiero dei bambini che intraprendevano pericolosi viaggi a piedi per arrivarci.

Se una parte dei capitalisti acconsente alla protezione dei peggio pagati lo fa solo per impedire che ne approfittino i concorrenti. Questa realtà ha ormai centinaia d’anni: ad esempio un gruppo di capitalisti in Gran Bretagna negli anni 1840-50 acconsentì a limitare il lavoro minorile, purché la restrizione interessasse tutte le industrie nazionali. C’era comunque, e c’è tutt’oggi, il tacito accordo per continuare a sfruttare i bambini nelle aree più povere del mondo impedendovi ogni tentativo di limitazione.

Nessuna impostura democratica è negli interessi del proletariato. La democrazia è una trappola in cui ogni manovra borghese è fatta apparire voluta dal “popolo” e a vantaggio di tutte le classi. Anche la guerra sarebbe “democratica”, voluta, combattuta e vinta da tutta la società. Tutte le classi ne riconoscerebbero la necessità e, infine, ne beneficerebbero. La società tutta deciderebbe la sua periodica amputazione e la conferma della sua oppressione, nascondendo sotto il manto della democrazia che la guerra è sempre e solo a profitto delle classi superiori.

I comunisti invece vogliono distruggere questa società già di per sé morente, che causa così tanta distruzione e sofferenza, per poter finalmente vivere in una società umana, nella quale non esisterà più una classe di uomini che per vivere vendono la propria forza-lavoro, mentre la classe capitalista trae profitto da lavoro non retribuito e alienato.

Non c’è alcun interesse proletario rappresentato in alcun partito politico nei Congressi e nei Parlamenti né in alcun personaggio del politicantismo borghese, agenti del capitale, sorridenti in un abito elegante o falsamente dimessi in abbigliamento casual. L’interesse del proletariato è solo nel rovesciamento rivoluzionario della borghesia e di tutti i suoi difensori. Solo una guerra di liberazione della classe proletaria può porre fine a tutte le guerre. Questa vera guerra civile deve essere coordinata dal partito di classe, il partito comunista, che raggruppi attorno a sé il proletariato e i transfughi delle altre classi, tutti coloro che hanno in odio la società attuale.

Le condizioni di organizzazione della classe operaia sono oggi in un misero stato. Per questo occorre far rinascere le organizzazioni sindacali, sia contro il padrone singolo sia contro la classe dei padroni; che si uniscano fra loro e rompendo con quei sindacati che hanno irreversibilmente tradito gli interessi operai. Bisogna non sottostare a tutte le limitazioni legali sulla possibilità di scioperare e di stipulare accordi.

I lavoratori del partito collaboreranno ad informare e ad organizzare le lotte difensive della classe, nella prospettiva di ripristinare la forza e l’unità del movimento operaio.

Così organizzata, nel suo partito e nel suo sindacato, la classe operaia potrà tornare ad imporre le sue richieste economiche immediate al padronato e agli Stati.

In queste condizioni di mobilitazione il proletariato potrà gettare la sfida per trasformare la guerra dell’imperialismo in guerra civile, dove la classe lavoratrice e tutti gli oppressi potranno abbattere per sempre ed internazionalmente il potere dei loro nemici ed oppressori.

 

 

 

 
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I paesi del Medioriente, divisi al loro interno, rimangono solo una preda per i militarismi imperiali

La guerra siriana – che noi stentiamo a definire “civile” poiché non si tratta di un conflitto fra classi storicamente opposte, ma di una lotta tutta interna alla internazionale classe borghese, con il coinvolgimento di fazioni e Stati rivali e ostili – ha subito una svolta con la riconquista totale da parte dell’esercito lealista dell’importante regione della Ghouta Orientale, avvenuta nella prima metà del mese di aprile.

In mano ai gruppi ribelli dal 2012, questo territorio, rappresentava una spina nel fianco per il regime guidato da Bashir al-Asad. Alla sconfitta dei ribelli, dopo furiosi combattimenti, nel cui contesto si inserisce anche il presunto bombardamento chimico su Duma del 7 aprile, è seguito il trasferimento nella regione nord-occidentale di Idlib, l’ultima area estesa ancora saldamente in mano ai ribelli islamisti, sui quali la Turchia esercita una certa influenza, di quanti fra i miliziani avevano accettato la resa.

Il numero degli evacuati, i combattenti e i loro familiari, è circa 100.000. Fatto questo che evidenzia quanto sia diversa quella siriana da una guerra contro ribelli forze sociali, che si conclude immancabilmente nel massacro dei vinti: queste milizie sono composte per lo più da mercenari che contano sulla protezione e il sostegno di Stati, i quali fanno della loro salvezza merce di scambio, magari per poter riutilizzare altrove la loro perizia militare acquisita in lunghi anni d’esperienza.

Ora, sul piano militare, al governo siriano e ai suoi alleati – che comprendono la Russia, l’Iran, gli Hezbollah libanesi e le altre milizie sciite di provenienza irachena, afghana e pachistana, anche se inquadrate in parte sotto la guida della “Brigata Gerusalemme” (Niru-ye Qods) dei pasdaran iraniani – resta ancora da consolidare il controllo della Siria meridionale ed espugnare nella periferia di Damasco le ultime sacche di resistenza dei ribelli appartenenti ai gruppi dell’Islam radicale, fra cui il sedicente Stato Islamico.

Una di queste è stata il campo profughi palestinese di Yarmouk il quale, pur trovandosi nell’area urbana di Damasco e in gran parte abbandonato dalla popolazione, è rimasto a lungo sotto il controllo di Daesh insieme ad altri quartieri meridionali della capitale. Obiettivo di un’offensiva su larga scala dell’esercito siriano incominciata agli inizi di aprile, vede le residue forze dei fondamentalisti in difficoltà, tanto che ai primi di maggio hanno incominciato a trattare la resa. Il governo il 5 maggio è rientrato in possesso dell’area contigua di Al-Hajar al-Aswad, strappata a Daesh insieme ai quartieri di Babila, Yalda e Beit Sahem. In questo caso i miliziani che si sono arresi sono stati deportati nell’area di Daraa, al confine con la Giordania e ancora sotto il controllo di ribelli in qualche modo legati al governo di Amman.

Il contorno imperiale

Gli ultimi successi militari del regime di Damasco hanno avuto un risvolto sul piano diplomatico con il tacito inserimento del regno hashemita di Giordania nelle trattative sul futuro della Siria fra Russia, Iran e Turchia: una delegazione del governo di Amman ha preso parte in qualità di osservatore alla riunione di Astana il 14 e 15 maggio, alla quale hanno partecipato, oltre a Russia, Turchia e Iran, rappresentanti delle opposizioni siriane, degli Stati Uniti e delle Nazioni Unite.

Ma questi successi del fronte che appoggia Damasco hanno messo l’amministrazione statunitense in una posizione estremamente sfavorevole. È in questo contesto che si inserisce la vicenda dei bombardamenti del 14 aprile, effettuati da Stati Uniti, Francia e Regno Unito, presentati all’opinione pubblica come una punizione per il presunto attacco con i gas a Duma, attribuito all’aviazione di Damasco. Si è trattato di bombardamenti effettuati in gran parte con missili Tomahawk lanciati da unità navali statunitensi contro tre basi militari. Ma questi, al di là dei danni materiali, non hanno provocato vittime, segno che i destinatari dell’attacco erano stati avvertiti con congruo anticipo. Si sono però aggiunte ripetute incursioni dell’aviazione israeliana a colpire basi militari degli Hezbollah e dei Pasdaran iraniani.

In entrambi i casi la reazione della Russia non è andata oltre le proteste che, per quanto altisonanti, non hanno travalicato la soglia di un codice di comportamento condiviso fra le potenze grandi e piccole, per evitare che la contesa in atto sfugga al controllo sul piano militare.

Diplomazia muscolare

Nel momento in cui maturano nuove frizioni nei rapporti fra le grandi potenze e proprio a ridosso della decisione statunitense di denunciare l’accordo sul nucleare iraniano, sul piano militare c’è da registrare l’intensificarsi dei bombardamenti israeliani in territorio siriano contro le milizie iraniane e quelle dei loro alleati Hezbollah. Un attacco esteso è stato alle infrastrutture della “Brigata Gerusalemme” nella notte fra il 9 e il 10 maggio, con circa 60 raid che hanno provocato, oltre ad ingenti danni materiali, la morte di più di 20 miliziani. L’operazione è stata giustificata dalla propaganda dell’esercito israeliano come una rappresaglia per i razzi lanciati dal territorio siriano verso le alture del Golan, sotto il controllo di Israele dal 1967, la cui responsabilità è stata attribuita ai Pasdaran. Questi a loro volta avrebbero agito per vendicare il bombardamento da parte dell’esercito israeliano della base T4, non lontano da Homs, la notte fra l’8 e il 9 aprile in cui erano morti diversi miliziani iraniani.

Restano però delle scaramucce, benché i media si affannino a seminare allarmismo, tanto che in ogni occasione Israele ha avvertito in anticipo le forze russe sul campo. I significativi i bombardamenti del 9-10 maggio sono avvenuti poche ore dopo che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, in visita di Stato a Mosca, aveva partecipato come ospite d’onore sulla Piazza Rossa, a fianco di Vladimir Putin, alla tradizionale parata per la vittoria nella Seconda Guerra Mondiale.

La Russia in questo momento è la sola potenza che continua a tenere aperte le relazioni con tutti i principali attori nell’area mediorientale. Del resto i rapporti della Russia con i suoi diretti alleati nella regione non sono mai stati idilliaci. Certo gli impianti nucleari iraniani sono protetti con i missili S300 forniti dalla Russia e la presenza militare russa in Siria è stata decisiva per dare una svolta alla guerra favorevole al regime, ma questo non significa che per il Cremlino non ci siano motivi di diffidenza verso il regime di Bashar al-Assad, il quale nei primi anni 2000, ad esempio, ha offerto protezione ai guerriglieri ceceni che avevano compiuto attacchi contro obiettivi militari e civili sul territorio russo, così come non è certo auspicabile per Mosca assistere a un rafforzamento incontrollato della potenza iraniana in Siria, che consenta a Teheran di mettere sotto la propria tutela il governo di Damasco.

Le elezioni in Libano

Un altro evento che si è aggiunto a delineare un quadro favorevole per il regime di Damasco sono state le elezioni politiche in Libano, che hanno visto una coalizione filosiriana conquistare una netta maggioranza parlamentare. Anche se la nostra corrente non fa certo discendere i rapporti di forza fra le classi dai risultati elettorali, questi possono fornire elementi di valutazione sui nessi interni alla classe dominante: il voto del 6 maggio è stato poco partecipato, con una affluenza del 47%, in un paese martoriato da decenni di conflitti politici mistificati da scontri interconfessionali.

La composita alleanza uscita vittoriosa dalle elezioni comprende in posizione egemone gli Hezbollah – la principale forza musulmana sciita guidata da Hassan Nasrallah la quale dispone di una milizia armata di circa 40.000 uomini – insieme ad Amal – l’altro partito sciita guidato dal presidente del parlamento siriano Nabih Berri – e al Movimento Patriottico Libero, guidato dal presidente libanese Michel Aoun, di confessione cristiana maronita.

Grande perdente è risultato invece il primo ministro di fede sunnita Sa’ad Hariri, il cui partito ha perso un terzo dei seggi. Nel novembre scorso Hariri, il quale ha la doppia cittadinanza libanese e saudita, era strato trattenuto in ostaggio durante una visita di Stato in Arabia Saudita: il governo di Riad voleva imporre ad Hariri una presa di posizione contro Hezbollah e imprimere a Beirut una svolta anti-iraniana.

I nuovi rapporti di forza in Libano forse non porteranno alla fine della carriera di Hariri, il quale potrebbe restare al suo posto dacché il complicato sistema libanese di spartizione confessionale delle istituzioni assegna la presidenza del consiglio a un musulmano sunnita, ma finirebbe comunque per essere un burattino nelle mani del fronte filo-siriano alleato anche dell’Iran. Sarebbe uno smacco per l’Arabia Saudita, preoccupata per il consolidarsi della “Mezzaluna Sciita”, sotto l’egemonia iraniana, dal Golfo Persico al Mediterraneo, e per Israele che ora vede alle sue frontiere, accanto alle potenti milizie degli Hezbollah, le brigate dei Pasdaran iraniani, rincalzate da altre formazioni sciite irachene, afghane e pachistane.

Innescata anche la polveriera irakena

Ma anche a livello di alleanze su scala regionale, la rappresentazione che vuole un Iraq saldamente inserito nell’orbita iraniana deve fare i conti con una realtà assai più variegata in cui i giochi fra partiti e fazioni borghesi sono molto complessi. Anche se dal 2003, anno della seconda guerra del Golfo, in Iraq è cresciuta progressivamente l’influenza della Repubblica Islamica dell’Iran, ci sono elementi che fanno pensare che questo processo stia perdendo di forza. Ad esempio le elezioni politiche del 12 maggio, hanno visto la netta affermazione della coalizione Sairoun (“Coloro che marciano insieme”) che vede uniti i seguaci del leader religioso sciita Moqtada al-Sadr e il Partito Comunista Iracheno.

Si tratta di un’alleanza giudicata estremamente eterogenea da molti osservatori abituati a una lettura basata su categorie stereotipate, come se all’interno del mondo borghese gli aspetti ideologici fossero così importanti e rigidi.

Se da una parte al-Sadr si richiama a una corrente religiosa dello sciismo iracheno che ha tentato di tenersi equidistante tanto dagli Stati Uniti quanto dall’Iran, il Partito Comunista Iracheno ha dato prova in passato di repentine svolte politiche che hanno visto il passaggio da un’alleanza organica con l’Unione Sovietica all’adozione, dopo le seconda guerra del Golfo, di una posizione assai collaborativa con le forze di occupazione statunitensi nel cosiddetto processo di “nation building”.

Nato nel 1930, quando l’Internazionale Comunista era già sotto il saldo dominio della controrivoluzionaria direzione staliniana, il Partito Comunista Iracheno è stato caratterizzato da una direzione formata da elementi provenienti dell’intelligenza nazional-progressista ed è sempre rimasto privo di riferimenti autenticamente classisti. Non a caso la principale rivendicazione avanzata dalla coalizione Sairoun è quella della “lotta alla corruzione”.

In ogni caso, come è facile immaginare, non saranno certamente i sedicenti comunisti a trarre vantaggio da una coalizione in cui l’elemento preponderante sciita può fare sentire il suo peso, anche grazie alla forte milizia armata legata a Muqtada al-Sadr il quale, nel tentativo di estendere la sua rete di sostegno internazionale, si è recato due volte in Arabia Saudita dove si è incontrato anche col potentissimo principe ereditario Mohammad Bin Salman. Evidentemente, per assicurare una relativa autonomia all’Iraq, al-Sadr sta puntando a una certa equidistanza fra le monarchie del Golfo e l’Iran, che, guarda caso, si ritrova a coincidere con la linea di politica estera portata avanti per tanti anni dal partito Ba’ath guidato dal sunnita Saddam Hussein.

Al secondo posto nella competizione elettorale del 12 maggio è arrivata la lista delle milizie filo-iraniane, in gran parte sciite ma anche sunnite e cristiane, che si raccolgono nelle Forze di Mobilitazione Popolare. Sono guidate dal capo militare Hadi Al-Amiri, entrato in parlamento già dal 2013. Vicino al generale Qassem Soleimani, comandante delle milizie di élite della Brigata Gerusalemme dei Pasdaran iraniani, Al-Amiri è sicuramente il leader più organicamente legato a Teheran.

Al terzo posto è arrivata invece la lista del premier uscente Haider al-Abadi, il quale non è riuscito ad approfittare dei successi della guerra contro Daesh, come la riconquista nel luglio del 2017 di Mosul. I votanti hanno premiato le milizie filo-iraniane le quali, in un altro contorto intreccio di instabili ed eterogenee alleanze, hanno combattuto in quella occasione al fianco delle truppe statunitensi.

Un quadro politico frammentato dunque quello dell’Iraq, dove peraltro soltanto il 44% degli aventi diritto si è recato a celebrare il rito democratico, svuotato anche dal fatto che entrambi i partiti da votare possono contare su milizie armate di decine di migliaia di uomini. Per tutto questo, una volta che si fosse stabilizzata la situazione in Siria, con la vittoria del fronte che sostiene il governo di Damasco, potrebbe divenire l’Iraq il perno della lotta fra gli schieramenti di Stati e partiti borghesi impegnati a contendersi la rendita del petrolio e le vie per il suo trasporto.