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"COMUNISMO"

n. 46 - giugno 1999
Presentazione
– IMPIANTO DEL CAPITALISMO IN CINA: Considerazioni da 50 anni di dati statistici
– LE CAUSE STORICHE DEL SEPARATISMO BASCO [- 1 - 2 - 3 - 4 - 5 ]
– NOTA SU DUE MOMENTI CENTRALI DEL METODO DIALETTICO   [ 1 - 2 - 3 ]
– Appunti per la Storia della Sinistra [ nn. 42 - 43 - 44 - 45 - 46 - 47 - 49 - 50 ]: 1947: IL P.C.I. SERVE DI PIÙ ALL’OPPOSIZIONE
– Dall’Archivio della Sinistra
    - Neutralismo, pacifismo armi della guerra (Battaglia Comunista, 6 ottobre 1948)
    - I battistrada della guerra (Battaglia Comunista, 3 novembre 1948)
    - Neutralità (Prometeo, gennaio-marzo 1949)

 
 
 
 
 
 



La Rivista ha già diversi anni di vita, ed ha sempre presentato a lettori e compagni il continuo lavoro teorico del Partito, nelle condizioni storiche caratterizzate, in quest’ultimo svolto di secolo, dal continuo abbassarsi del livello dello scontro di classe, dal crescente strapotere della forza statale e dell’ideologia borghese. L’esposizione del lavoro del Partito va vista come un filo continuo da un numero all’altro e attraverso i diversi temi.

Si approssima la scadenza del secondo millennio. La Rivista del Partito giunge all’appuntamento col suo solito passo; la metafora dei pali del telegrafo ci calza a pennello, e con gli anni, viste e considerate le infamie senza nome perpetrate da aggiornatori, revisori e pentiti d’ogni risma, ce ne facciamo con orgoglio divisa. Pure sembrerebbe che il tempo non lavorasse per la nostra causa. Il processo della crisi capitalistica si sviluppa in modo flaccido, discontinuo, e l’apertura forsennata di sempre nuovi mercati con le immani forze economiche e finanziarie messe in moto, scaricando il peso sulle economie più deboli e facendo valere il loro immane peso politico e militare, rallentano il processo non parallelo di ripresa del movimento di classe nelle cittadelle del capitalismo senescente. La fatidica data del terzo millennio è a pochi mesi ma, per la istupidita umanità del secolo dell’imperialismo, storia, lotte, aspirazioni, prospettive, tutto pare confondersi nell’indecifrabile «qui ed ora». Siamo invece convinti che il tempo lavori dalla parte della Rivoluzione, e non ci prende alcuna frenesia riguardo al suo anno, quello sì davvero «fatidico». Natura, Storia e Rivoluzione non hanno fretta.

Ma non si può non riconoscere una sorta di feroce umor nero nel fatto che all’approssimarsi di questo tanto strombazzato terzo millennio delle meraviglie, quando Tecnologia, Benessere e Democrazia universale avrebbero dovuto conquistare il mondo ed eliminare tutti i possibili contrasti, quando la razionalità borghese e liberale avrebbe dovuto dare tutti gli strumenti per dominare economia e politica, proprio in questa felicissima temperie il demone della guerra continui a farla da padrone e sopraffazione, sofferenza e morte siano l’altra faccia «naturale» di benessere, opulenza e guadagni. È proprio all’avvicinarsi di una data, che gli imbecilli si ostinano a considerare densa di chissà quali significati, che le colpe dei cattivi e le guerre giuste raddrizza-torti continuano ad impazzare sulla scena del capitalismo.

La tragedia dello scontro borghese in Kosovo, come avevamo previsto, si è mutato da possibilità a realtà, col mascherare le repressioni nel sangue dietro alla difesa dei «sacri diritti dell’uomo». La guerra per gli Stati borghesi è invece solo un «investimento», non conta infine vincere una o più battaglie, od anche l’esito finale stesso, ma specificamente vale il grande, immenso affare della successiva pace. Alla fine di tutto, ai borghesi vendicatori in armi della «pulizia etnica» nel Kosovo andranno i grandi affari della ricostruzione.

Qui risiede l’unico, estremo senso borghese della Storia, travestito da eterno divenire della Democrazia, della Libertà per i popoli, che si riducono per i proletari nella libertà di scegliersi lo sfruttatore di fabbrica, e, soggiacendo allo Stato dei padroni, di essere democraticamente mandati a crepare sui fronti. Il pendolo della storia, che per 50 anni ha battuto con guerre, sofferenze, miseria senza fine per la maggior parte dell’umanità nelle aree periferiche, locali o di confine, oggi sta tornando dalla parte della stessa unificata Europa e la guerra tra Stati già rosseggia di fuoco e sangue alle sue porte.

Ed invero questa guerra, anzi queste due guerre, non dichiarate ufficialmente da alcuna parte, non si limitano più agli scontri tra eserciti e bande etniche di repubblichette balcaniche, come per i precedenti massacri della dissoluzione della Iugoslavia, ma coinvolgono nel gioco delle alleanze e degli interessi gli imperialismi d’Europa e di USA.

Non c’è altro di più, se mai ce ne fosse ancora bisogno, quanto una guerra, lo ha ben insegnato il nostro passato rivoluzionario, per smascherare la vera collocazione negli schieramenti di classe di tutti: gruppi, partiti politici, finti rivoluzionari e veri reazionari, agnostici ed umanisti in genere. Oggi, dopo il massacro della seconda guerra mondiale colla sua menzogna di democrazia contro dittatura, di 50 anni di democrazia resistenziale, di terzomondismo spacciato come espressione più alta di sovversione sociale, oggi avere chiarezza degli interessi rivoluzionari di classe è compito che va oltre ogni possibilità ove non intervenga la coscienza storica del Partito a sbrogliare la tanto ingarbugliata matassa.

Forti della nostra tradizione e di una coerenza semisecolare di indirizzo rivoluzionario non abbiamo oggi, nel fragore dell’imbonimento della propaganda, da scegliere su quale dei due fronti borghesi invitare a schierarsi il proletariato. Non ci toglie da questa certezza comunista qualsiasi sbilanciamento delle forze in campo e delle responsabilità «morali». D’un lato l’intero schieramento armato della superfortezza dell’imperialismo e della sua schiera di vassalli più o meno allineati, dall’altro – per ora – il minuscolo, ma non per questo meno borghese, antioperaio e reazionario Stato iugoslavo. O almeno ciò che ne resta dopo l’atroce sanguinosissima frantumazione della Confederazione, macello apparentemente di etnie, ma in sostanza di proletari e contadini, favorito ed alimentato senza sosta, fino alle estreme conseguenze, da e per gli interessi delle borghesie europee ed americana.

In quel massacro, che giustamente vedemmo propedeutico ad un maggiore scontro inter-imperialistico, si sono ben distinte e le violenze bestiali delle milizie delle varie nazionalità e il pietismo peloso e i tartufeschi moralismi delle «democrazie» che sobillavano la follia arrogante e antiproletaria delle borghesie facenti capo alle diverse etnie di ritagliarsi, nel gran marasma e sotto l’ombrello dei più potenti Stati europei, uno straccio di staterello, un orto da affittare al potente vicino. E a sigillo di tanto ambizioso e lungimirante programma, il trionfo della Democrazia contro la Dittatura, la punizione del macellaio di turno, chiavi per giustificare sempre qualunque avventura politica ed ogni azione bellica riversando ad altri le responsabilità, ai «cattivi».

No, dinanzi a tanto macello di guerra borghese, la Rivoluzione non ha da scegliere quale fronte, per il partito di classe e per il proletariato, e quale pacifismo, per fermare la lucida omicida follia di bande sanguinarie e di eserciti contro popolazioni inermi straziate e fuggiasche, due volte cacciate, la prima dall’esercito federale in guerra con le milizie nazionaliste, armate e sostenute dagli Stati d’occidente, e poi dagli stessi «liberatori» occidentali, che intendono portare da quelle aree di confine l’attacco di terra contro l’esercito di Serbia per completarne l’occupazione. Alla faccia della turpe menzogna del rimpatrio degli sfollati.

Il mondo tardo borghese non conosce guerre giuste o ingiuste, come vorrebbero far credere gli asfissianti apparati di propaganda di entrambe le parti: «liberatori» gli uni, «piccoli che resistono aggrediti», gli altri. A pagare, sono e saranno proletari ed operai, in borghese e in divisa. Queste due guerre a noi contemporanee, infami come tutte le guerre borghesi, prodromo al terzo conflitto mondiale quando la NATO sarà denunciata dalla Germania e la Russia uscita – proprio grazie al riarmo – dalla sua terribile crisi, stanno entrambe dentro la logica del capitale, dentro il disegno territoriale ed economico degli Stati borghesi. Dove capitalismo lì guerra. Solo il proletariato rivoluzionario lo può fermare.
 
 
 
 
 
 
 


Impianto del capitalismo in Cina
Considerazioni da 50 anni di dati statistici

Rapporto esposto alla riunione generale del partito nell’ottobre 1998
 


NOTA STORICA

Queste note storiche sono il ricaccio abbastanza contenuto del Rapporto sulla questione cinese tenuto alla Riunione n. 32 del Partito, Firenze, 18 e 19 marzo 1962. Il testo completo è ne “Il Programma Comunista”, che rappresentava in quegli anni l’organo di stampa del Partito, numeri 10, 11 e 12 del 1962. Altro rapporto è nei numeri 9 e 17 del 1969.

Nel 1644 i Manciù giungono al potere centrale in Cina e danno origine alla dinastia Ts’ing che durerà fino al mutamento istituzionale del 1911 con l’instaurazione della repubblica.

Nel corso di questi quasi tre secoli il capitalismo europeo rivela tragicamente la sua intrinseca natura sopraffattrice erodendo in Cina la millenaria e immutata base di una economia naturale, forma di vita sociale legata ancora al comunismo primitivo, nella quale la coltivazione del suolo è accoppiata alla produzione di manufatti sulla base di una struttura familiare alla scala di un villaggio.

A questa struttura economica si sovrappone un potere centrale accentratore che si estende su quasi 10 milioni di Kmq., quasi quanto tutta l’Europa e 32 volte l’Italia. L’estensione odierna è di 9,6 milioni di Kmq.; alla fine del 1700, in cui la fase espansionistica cinese segna il culmine, era molto più estesa; mentre alla fine della seconda guerra mondiale grosse aree del territorio erano state staccate e fatte proprie dall’imperialismo capitalistico.

Il tradizionale modo di produzione cinese non ha fatto in tempo a passare in forma violenta e rivoluzionaria per una società schiavista, in assenza di una produzione basata sugli schiavi, come per una società feudale, almeno in relazione all’assenza di una produzione basata sui servi della gleba, quale si affermò in Europa nei secoli di mezzo dopo la caduta dell’impero romano.

La pesante, sanguinosa presenza dell’Europa capitalistica sarà la causa determinante del mutamento della statica forma di vita sociale cinese come via via di altri paesi asiatici.

La fase espansionistica cinese verso la fine del 1700 volge al termine, frenata e soffocata com’è dall’inizio di una più decisiva penetrazione europea; mentre nei primi anni del 19° secolo il processo disgregativo del Celeste Impero si può considerare soltanto incipiente.

Il capitalismo europeo, in quei tre secoli in cui opera la penetrazione imperialistica in Cina, attuerà l’accumulazione primitiva in forma ancora più selvaggia che altrove, provocando così la inevitabile reazione di lotta dei proletari cinesi, nelle vesti di uno sterminato esercito di poveri contadini da considerare puri proletari, come di un piccolo ma formidabile nucleo di proletariato industriale.

La presenza degli europei agisce come dissolvente sulla struttura economica e, quindi, sulla sovrastruttura politica. Il processo di esautorazione politica è irreversibile perché irreversibile è l’erosione della vecchia forma economica.

L’importazione dell’oppio in proporzioni sempre maggiori assumerà un’importanza determinante agli effetti dei cambiamenti sociali e politici prodottisi a partire dal 1840 circa. Con l’introduzione dell’oppio il capitalismo inglese intacca in profondità lo stato sociale del paese. In seguito, scrive Marx: «il commercio dell’oppio non fece che cambiar di mano, passando ad un ceto inferiore di uomini pronti ad esercitarlo a tutto rischio e con qualunque mezzo». Nella questione della droga il capitale inglese agisce in modo tanto più ripugnante quando lo si raffronti alla linea tenuta dal governo cinese col rifiutarsi di legalizzarne il commercio a beneficio dell’erario esausto, «a causa del danno che esso arrecava al popolo».

Dopo la guerra del 1860, le condizioni della pace forniscono al capitale europeo una base assai solida per una ulteriore penetrazione nella Cina arretrata.

Per contropartita gli europei difenderanno la dinastia imperiale dalla rivoluzione dei Taiping che viene schiacciata con l’aiuto del maggiore inglese Gordon nel 1864 dopo 15 anni.

La decadenza economica della Cina giunge ad una fase drammatica. L’importazione dei tessuti inglesi aveva già provocato una crisi di estrema gravità, rovinando completamente la già fiorente produzione nazionale. La gestione della terra come veniva attuata dalle comunità aveva, da secoli, comportato l’esecuzione di un complesso di bonifiche, di regolazioni di corsi fluviali, etc., necessari alla produzione agraria. La fuga dell’argento dal paese, accentuata dall’importazione dell’oppio attraverso i mandarini divenuti compradores, aveva avuto per conseguenza arresto o carenze nell’intervento tecnico necessario al mantenimento in funzione delle opere di bonifica, etc., con disastrose conseguenze sull’agricoltura del paese.

L’ormai sistematica spoliazione del paese fa pullulare le rivolte antieuropee, che sorgono e si sviluppano nelle campagne.

Alla fine del secolo 19° la Cina veniva a trovarsi avviluppata nei tentacoli del capitale mondiale, che aveva dato origine, specie nei grandi porti, ad uno strato di proletariato indigeno, mentre caratterizzava la borghesia cinese come quasi esclusivamente commerciale. In pari tempo il contatto con la civiltà europea aveva fatto nascere quella che potrebbe chiamarsi una “classe” politica, di studenti, studiosi e uomini d’affari. Essa cominciò a fare avvertire il suo peso sulla struttura statale solo negli ultimi anni del 1800. Fu intorno al 1898 che la Cina avvertì appieno il pericolo implicito nelle intromissioni degli interessi europei e nelle rivalità per le concessioni ferroviarie e minerarie. E’ di questo periodo il contrasto tra la nuova classe politica e la vecchia, puramente conservatrice.

È dall’accumulazione di lunghi decenni di pirateria imperialistica in combutta con la classe dirigente indigena che sprigionò nel 1900 l’esplosione della rivolta xenofoba e popolare dei Boxers, della quale approfittarono le grandi potenze europee per trarre pretesto non solo per ristabilire sanguinosamente l’ordine e rinsaldare le basi vacillanti della monarchia, ma per divorare altre fette del territorio nazionale cinese. Si inizia un secondo o terzo round di assalto alla Cina in nome della “civiltà” e del “progresso”.

La Cina ha costituito una sterminata riserva privata per l’imperialismo mondiale, le cui maggiori potenze hanno gareggiato tra loro nell’opera di brigantaggio, di occupazione e di mutilazione del territorio nazionale, delle sue risorse economiche e delle sue attrezzature.

Ancora agli inizi degli anni ’30 sulle sedi bancarie e commerciali straniere in Cina si poteva leggere un cartello di questo tenore: “vietato l’ingresso ai cinesi e ai cani”! E’ un fatto che l’occupazione straniera installa le prime strutture industriali e dà l’avvio alla trasformazione dell’economia cinese, ancora oggi soprattutto su basi agrarie. Infatti nell’Est e nel Nord, lungo le coste orientali dell’interminabile subcontinente, si sviluppano le ferrovie ed i primi apparati industriali, sulla base dei quali la Cina odierna prende l’avvio per uno sviluppo economico di tipo capitalistico.

Si elevavano al di sopra delle plebi infestate di colera le fortune colossali delle “quattro famiglie” dei Soong, dei Kung, dei Chen e dei Chiang, padroni della Cina con la protezione delle potenze occidentali ed in particolare degli USA. E’ proprio sotto la spinta delle “quattro famiglie” che si compie nel 1911 il primo episodio della rivoluzione borghese sotto la guida di Sun Yat-sen, tentativo della grossa borghesia cinese di liberarsi dal paternalismo oppressivo e costoso del capitalismo bianco e giapponese. Si fa molte illusioni la grande borghesia cinese che pretende di conquistare la sua indipendenza nazionale con “l’aiuto dell’imperialismo”.

Mao riprenderà pari pari i principi di Sun Yat-sen e, con alterne fortune nell’alleanza con la grossa borghesia commerciale, rappresentata da Chiang Kai-shek, porterà a compimento la rivoluzione democratico-nazionale.

Mao intuisce che prima di tutto bisogna creare uno Stato unitario, vale a dire uno Stato in cui tute le forze sociali siano subordinate al rafforzamento dello Stato stesso. Per questo il PCC abbandona la strada maestra della rivoluzione proletaria, i cui sussulti consente che siano stroncati dalla stessa grossa borghesia; infondendo fiducia alla piccola borghesia ed al contadiname.

Piuttosto che parlare di rivoluzione democratica, è più giusto parlare di controrivoluzione democratica, se si considera che senza l’abbattimento violento delle Comuni di Canton e di Shangai il capitalismo non avrebbe potuto trionfare in Cina.

I “comunisti” sia russi sia cinesi, abbandonato il corso storico della rivoluzione proletaria, si sono issati sulle spalle della piccola borghesia e dei contadini, con l’aiuto del capitalismo internazionale.

E’ vero che gli ultimi paesi che pervengono al capitalismo si trovano avvantaggiati dalla superiore tecnica sviluppata dai Paesi altamente industrializzati e quindi obiettivamente dovrebbero poter sviluppare le forze produttive con maggiore celerità. Ma è altresì vero che, appena varcate le soglie della civiltà industriale, debbono fare i conti con gli assalti iugulatori dell’imperialismo capitalistico e bruciare così le giovani forze produttive sull’altare di un industrialismo superaccelerato, nel cui crogiuolo convogliano il 90% del prodotto netto, del plusprodotto; e debbono necessariamente sviluppare un’economia monca, che va sulla sola stampella dell’industria.

Ogni potenza capitalistica è sempre pronta ad aggredire qualunque paese non tanto con la guerra, che è l’espressione saltuaria della potenza economica, quanto con l’invasione di merci a basso prezzo, di capitali a condizioni favorevoli, che saccheggiano l’economia nazionale, impediscono lo sviluppo delle forze produttive, forzano lo sfruttamento delle riserve naturali, accelerano l’anarchia della produzione.

La Cina, che come tutti i paesi coloniali o semi coloniali ha dovuto spogliarsi delle proprie risorse naturali, minerarie e agricole, per farsi inondare d’oppio o di cotonate; una volta entrata nel girone d’inferno dell’economia capitalistica ha sì in un primo tempo finanziato le proprie importazioni di impianti, attrezzature e macchine per l’industria con l’esportazione di materie prime e di derrate; ma successivamente ha finanziato le proprie importazioni con esportazione di manufatti, saldando attivamente la propria bilancia commerciale.

Quando, al principio del secolo, l’imperialismo mondiale ebbe irrimediabilmente spezzato con la forza i quadri economici e politici dell’antica Cina, accelerando l’espropriazione delle comunità agricole e screditando il potere centrale, due compiti si imponevano alla rivoluzione borghese: assicurare l’indipendenza nazionale contro gli Stati capitalistici che si erano divisi il paese e realizzare la riforma agraria, conditio sine qua non di ogni sviluppo industriale. Il problema era di sapere chi, la borghesia o il proletariato, si sarebbe assunto questi compiti assicurandosi in tal modo un vantaggio decisivo sul nemico di classe.

Si può dire che il proletariato cinese si costituì, se non prima della borghesia nazionale, certo in una relativa indipendenza da essa. Concentrato quasi esclusivamente nelle concessioni straniere, esso aveva già in mano le sorti della lotta anti-imperialista; mentre la borghesia, nata in ritardo sulla base di uno sfruttamento semicoloniale, tendeva al compromesso con l’imperialismo sotto l’incubo, ossessionante dalla fine della prima guerra mondiale, di un assalto proletario. Come nella Russia zarista e come nella Germania 1848, spettava quindi al proletariato organizzato in partito autonomo di classe prendere la testa della rivoluzione democratica e condurla a termine fino alla proclamazione della sua dittatura.

Questa prospettiva deve alla controrivoluzione staliniana d’essere stata liquidata sul suo terreno d’origine. Lo stalinismo legò il partito del proletariato al partito della borghesia e poi lo trasformò, dal 1927 e con Mao, in un partito contadino.

La Cina di Mao e compagni offre in esempio ai popoli coloniali il corso doloroso di 40 anni di compromessi con la borghesia nazionale e con l’imperialismo mondiale, di liquidazione della tattica e dei principi comunisti nella questione coloniale e di abbandono della linea della rivoluzione doppia a favore di una “rivoluzione democratica” che in Cina, per dirla con Trotski, non fu una rivoluzione borghese, ma una vera controrivoluzione.

Nell’irrimediabile degenerazione dei partiti nati dalla III Internazionale, il partito cinese ebbe la sua parte perché fu uno dei primi a seppellire la teoria marxista della rivoluzione doppia e a predicare la rivoluzione per “tappe”. Ciò che rende doppia una rivoluzione non è che sia prima borghese, poi socialista, ma appunto che permetta di saltare le “tappe” della democrazia borghese. La rivoluzione di Ottobre, come rivoluzione politica, è socialista tout court e tutto il suo corso storico rappresenta la vittoria della linea proletaria su quella della democrazia borghese.

Mao ha avuto la meglio su Chiang non perché sia stato il migliore campione della democrazia borghese, ma perché bisognava schiacciare il proletariato e inquadrare saldamente i contadini poveri se si voleva impedire che la rivoluzione non uscisse dal binario democratico, ed egli vi è riuscito.

Quale è stato il corso oggettivo della rivoluzione borghese in Cina? Il punto di partenza è dato dallo stato di arretratezza e gracilità del suo sviluppo industriale, dalla primitività dei suoi mezzi di comunicazione, dal carattere eminentemente agricolo della sua struttura economica, dall’immaturità sociale dei suoi rapporti di produzione capitalistici.

In un ambiente di tale arretratezza l’imperialismo si installava nell’immenso territorio, accelerando la decomposizione dei vecchi rapporti di produzione e, con essi, della compagine statale, prima sotto l’impero, poi sotto la repubblica. Il fenomeno inizia alla fine del secolo scorso ed è tutt’altro che superato dall’ascesa con Mao Tse-tung dei pretesi “comunisti” nel 1949; ma presenta caratteri sostanzialmente uniformi.

La debolezza dei mezzi di comunicazione e delle risorse industriali e finanziarie, come la penetrazione accelerata dei diversi imperialismi concorrenti, accompagnate dalle guerre per la divisione della Cina, hanno imposto alle diverse zone del paese di cercare il capitale, le merci, gli sbocchi secondo la loro collocazione geografica, sfuggendo così al controllo dello Stato centrale. Ecco perché la lotta per l’unità nazionale, compito essenziale della rivoluzione borghese in Cina e sua premessa dovunque, doveva necessariamente svilupparsi contro l’imperialismo e le forze borghesi centrifughe interne ad esso legate; come contro i signori “feudali” per abbattere i quali combatterono le masse contadine.

La trama di uno Stato unitario centralizzato poteva essere tessuta solo grazie ad uno sviluppo delle forze produttive, soprattutto nelle campagne, che permettesse di liberare una manodopera per l’industria nascente e il sostentamento del proletariato urbano.

Al proletariato cinese, sconfitto sul campo di battaglia nel suo tentativo eversivo rivoluzionario, saranno fatti pagare nei decenni a seguire i massacranti costi della selvaggia industrializzazione capitalistica del paese.
 


DECORSO DELL’INDUSTRIA IN CINA

Ribadiamo un postulato fondamentale che dobbiamo sempre tener presente nei nostri lavori di presentazione dello sviluppo del moderno capitalismo secondo la dottrina del marxismo, sia esso affrontato globalmente sia paese per paese. Lo trascriviamo da “Il corso del capitalismo mondiale”: «Vogliamo giungere a far ricordare ai proletari che la folle velocità al produrre non è che la massima delle vergogne del sistema borghese, e la massima delle prove scientifiche della sua necessaria fine storica, che il marxismo ha elevata. Quella corsa non sarà accelerata, ma spezzata e frenata dalla vittoria della rivoluzione socialista».

Il capitalismo produce per ingozzarsi di plusvalore. Ma la peculiarità che contraddistingue il modo di produzione capitalistico consiste proprio nel fatto che più produce più celermente crea le condizioni che fanno scarseggiare il plusvalore; un drogato, quale è il capitalismo, è disposto a qualsiasi nefandezza per procurarsi quella droga che, nella fase finale del suo sviluppo, è divenuta sempre più ridotta.

Questa fase da un bel po’ di tempo la stiamo vivendo in tutta la sua drammaticità con guerre, mondiali o locali, con crisi più o meno estese e profonde e, per il proletariato, con disoccupazione, miseria e fame. Questi aspetti della società borghese sono tutti in rapida crescita, sono tutti provocati dalla fame crescente di plusvalore che il modo di produzione non è più in grado di soddisfare.

Noi, con l’analisi statistica, lavoriamo sui massimi produttivi dei vari Paesi che storicamente si sono succeduti, sempre di più in numero e in tempi sempre più brevi, per far risaltare che si trovano oggi tutti nella fase capitalistica terminale; per contro sono sempre meno e di scarso peso i restanti Paesi che potrebbero essere ancora in grado di manifestare un reale sviluppo. Tra questi ultimi non abbiamo compresa l’India, con il suo quasi miliardo di abitanti, perché già da qualche tempo, anche se in maniera meno vistosa, il suo capitalismo procede spedito ed è prossimo a conseguire quel traguardo che la Cina ha già fatto suo da anni, collocandosi tra le principali potenze imperialistiche. Solo che man mano che la Cina è cresciuta e si è ingrossata capitalisticamente è venuta sempre più a trovarsi invischiata nelle trame del Capitale mondiale alle cui vicissitudini si troverà sempre più legata. E la stessa sorte toccherà all’India, nonostante le differenze nella storia millenaria e recente dei due paesi pesino sulle modalità e sui tempi del loro convergere nel capitalismo universale.

Nei nostri lavori economici abbiamo sempre preso le mosse dallo studio della variazione storica dell’indice della produzione industriale. Invece la sua estensione fisica per noi è meno essenziale, in quanto non è utile per distinguere il plusvalore dal capitale, quindi l’esistenza delle classi ed il monopolio del lavoro morto sul lavoro vivo. Questo sussiste sia che esso venga esercitato da una classe fisica di borghesi, sia da uno Stato capitalistico gestore della forma mercantile aziendale, favoreggiatore di classi straniere o indigene.

Quando noi parliamo di sviluppo teniamo presente che esso riguarda un organismo che storicamente ha avuto un’origine e che, percorrendo il suo ciclo vitale, andrà incontro al suo atto di morte. Tutto il nostro lavoro si pone nell’ottica di fornire le prove, che il capitalismo stesso ci offre sempre più vistosamente, del suo cammino verso la morte sociale ed economica.

L’approssimarsi della fine del capitalismo risulta innegabile dalle Tabelle, che abbiamo a più riprese aggiornate e ripubblicate, sulla decrescenza storica dell’incremento relativo della produzione industriale, riflesso statistico della legge della caduta tendenziale del saggio del profitto, per Inghilterra, Francia, Germania, Stati Uniti, Giappone e Unione Sovietica. Le Tabelle rappresentano una rappresentazione numerica di un corso storico reale che viene a confermare le leggi scientifiche della dottrina di Marx.

Se prendiamo gli incrementi annuali della produzione industriale di quei Paesi nella loro fase giovanile, notiamo che i valori, pur nella loro diversità, hanno in comune la caratteristica di essere assai elevati. Nelle fasi della maturità, poi della vecchiaia degli stessi Paesi, come di tutto il capitalismo alla scala mondiale, gli incrementi annuali della produzione industriale si attestano su valori sempre più bassi e tendono verso lo zero. Il capitalismo, seppure si accresce mostruosamente oltre ogni limite e in ogni dimensione saturando dei suoi miasmi tutta la vita degli uomini, riesce a riprodursi sempre con maggiore difficoltà.

Quest’evento, alla scala storica e sociale, si concretizza in formidabili scontri tra classi nemiche, sia quando utilizza i metodi “pacifici” della concorrenza mercantile, della diplomazia e della minaccia delle armi, sia quando ricorre all’impiego attuale degli eserciti.

Sul decorso economico e sociale della Cina repubblicana ci riferiamo all’approfondito studio pubblicato su queste colonne negli anni dal 1979 al 1984. Qui, disponendo delle serie statistiche più aggiornate e complete, riordiniamo le nostre considerazioni volgendo uno sguardo su mezzo secolo di costruzione di un così importante capitalismo.

Tabella 1 - Produzione Industriale e Acciaio in Cina dal 1949 al 1997
Anno Produzione
Industriale
ACCIAIO
Indice Incre- mento
%
Milioni ton. Incre- mento %
1949 100    0,158  
1950 137 36,5  0,61 283,5
1951 189 38,2  0,90 47,9
1952 245 29,9  1,35 50,6
1953 319 30,3  1,77 31,5
1954 371 16,5  2,22 25,4
1955 392 5,5  2,85 28,2
1956 502 28,1  4,46 56,5
1957 560 11,6  5,35 19,8
1958 867 54,8  6,08 13,6
1959 1180 36,1  8,35 37,3
1960 1312 11,2 13,67 63,7
1961 811 -38,2  8,00 42,5
1962 678 -16,4  6,67 -16,6
1963 736   8,5  9,00 34,9
1964 880 19,6 10,80 20,0
1965 1112 26,4 12,23 13,2
1966 1344 20,9 15,30 25,1
1967 1159 -13,8 10,30 -32,7
1968 1101 -5,0  9,00 -12,6
1969 1479 33,3 13,30 47,8
1970 1932 30,7 17,79 33,8
1971 2220 14,9 21,30 19,7
1972 2367 6,6 23,40 9,9
1973 2592 9,5 25,20 7,7
Anno Produzione
Industriale
ACCIAIO
Indice Incre-
mento
%
Milioni ton. Incre-
mento %
1974  2599  0,3  21,10 -16,3
1975  2992 15,1  23,90  13,3
1976  3031  1,3  20,46 -14,4
1977  3464 14,3  23,74  16,0
1978  3934 13,6  31,78  33,9
1979  4280  8,8  34,48   8,5
1980  4677  9,3  37,12   7,7
1981  4878  4,3  35,60  -4,1
1982  5259  7,8  37,16   4,4
1983  5848 11,2  40,02   7,7
1984  6799 16,3  43,47   8,6
1985  8254 21,4  46,79   7,6
1986  9217 11,7  52,20  11,6
1987 10848 17,7  56,28   7,8
1988 13103 20,8  59,43   5,6
1989 14222  8,5  61,59   3,6
1990 15325  7,8  66,35   7,7
1991 17589 14,8  71,00   7,0
1992 22426 27,5  84,25  18,7
1993 28705 28,0  89,56   6,3
1994 33872 18,0  92,62   3,4
1995 38953 15,0  95,36   3,0
1996 40017 13,0 100,56   4,9
1997 49123 11,6 107,90   7,8
  

Per la Produzione industriale siamo così in grado oggi di presentare la Tabella 2, identica alle altre sei già pubblicate nel "Corso…" per gli altri paesi, relativa alla Repubblica Popolare Cinese dal 1949 al 1993. Essa è ricavata dalla serie completa degli indici della produzione industriale per il periodo di quei 44 anni, serie che pubblichiamo in Tabella 1 perché i compagni dispongano come strumento di lavoro anche dei dati annuali. Gli indici e gli incrementi 1994-1997 sono nostre estrapolazioni fondate si anticipazioni apparse sui quotidiani: sono quindi dati provvisori da verificare e correggere. I dati sono tutti di fonte cinese e sono forniti, a prezzi costanti, con base 1952=100. Noi li abbiamo convertiti nella base 1949=100, visto che è in quell’anno che nasce il capitalismo della moderna borghesia cinese.

Nella prima colonna abbiamo riportato i periodi tra i massimi crescenti. Il periodo iniziale di 11 anni fino al 1960 esplode con un incremento medio annuo del 26,4%; rivaleggia con il 28,3% dell’URSS dal 1920 al 1926, quindi sull’arco di soli 6 anni. Segue il periodo di 6 anni fino al 1966 con un incremento medio annuo di un insignificante 0,4% che denuncia una crisi economica di notevole ampiezza che è da rapportarsi a livello politico da eventi di drammatica portata. Il terzo lungo periodo di 27 anni fino al 1993 marca un elevato incremento medio annuo del 12%, che rappresenta il primato al cui confronto impallidiscono quelli di tutti gli altri Paesi; solo che il suo valore rappresenta meno della metà di quello che era stato registrato nel primo Periodo dal 1949 al 1960.

Nella seconda colonna, se vogliamo prendere come anno di separazione il 1966, otteniamo due Cicli di 17 e 27 anni, il primo dei quali con l’incremento medio annuo del 16,5%, risulta ancora superiore a quello del Ciclo più recente, già riportato, del 12%.

Tabella 2
Decrescenza storica dell’incremento della Produzione Industriale
Anni
di
massi-
mo
Periodo tra
i massimi
Cicli Arco di 44 anni
Indi-
ci
Anni Incr.
medi
%
Indi-
ci
Anni Incr.
medi
%
Indi-
ci
Anni Incr.
medi
%
1949
100 100 100 44 13,7
11 26,4
1960
1312 17 16,5
6 0,4
1966
1344 1344
27 12,0 27 12,0
1993
28705 28705 28705


La legge della decrescenza storica è così rispettata; gli anni futuri proseguiranno nella caduta portandosi su livelli sempre più bassi. In tutto l’arco dei 44 anni su cui a tutt’oggi siamo in grado di lavorare, la Cina è andata avanti con il 13,7% registrando in questo un primato, prima detenuto dall’URSS, che le deriva dal fatto di essere il Paese più giovane capitalisticamente.

In occasione dell’esposizione orale fu mostrata ai compagni anche la rappresentazione grafica dei dati della Tabella 1, qui non riportata, per evidenziare meglio la dinamica della produzione industriale cinese: dei due diagrammi uno riguardava la serie degli indici, l’altro la serie degli incrementi.

Sul primo Grafico, quello degli indici annuali, risaltava un ampio avvallamento a partire dal massimo del 1960, che viene a concludersi con il massimo del 1966, che è di poco più elevato. Segue la più modesta caduta del 1967 e del 1968. Per il resto degli anni è una linea assai regolarmente crescente e che piega sempre più verso l’alto. E’ evidente che siamo di fronte ad un fenomeno di “storia naturale” che ubbidisce a leggi precise, percorre un itinerario determinato e prevedibile nelle sue grandi linee.

Il secondo Grafico invece rappresentava gli incrementi annuali della Tabella 1. E’ quindi differenziale, cioè parte dalla differenza di produzione da un anno all’altro, e relativo, cioè misura quell’incremento in percentuale della massa totale prodotta. Qui la regolarità è molto minore per la maggiore incidenza nei singoli anni delle vicende “ambientali” nel quale il capitale si riproduce: fatti climatici, sociali, politici, militari. Questi vengono a costituire talvolta ostacoli alla accumulazione, talvolta la rimozione di ostacoli, antichi o contingenti, segnati da ciclopici sconvolgimenti sociali. La rimozione di ogni ostacolo non fa che avvicinare il traguardo di morte che attende il Capitale alla sua conclusione storica.

Due profonde depressioni interrompono l’ascesa del grafico dell’industria: la prima, con il crollo del 48% dal 1960 al 1962, è successiva (ironia dei nomi nel mondo borghese!) al “Grande Balzo in Avanti”, la seconda, del 18% dal 1966 al 1968, corrisponde alla “Rivoluzione Culturale”.

Per render conto di queste irregolarità della curva occorre tener conto che alla fine degli anni ’50 la Cina si trovò ad affrontare i problemi derivati dalla rottura con la Russia, paese che la riforniva di strumenti tecnici e apparecchiature industriali moderne. Questo inciampo industriale va visto all’interno di un altro problema più profondo e certo il più minaccioso per la crescita e lo sviluppo della Cina fin dalla fondazione della Repubblica: la struttura della sua società ancora prevalentemente agricola. In essa dominavano le forme di autosufficienza alimentare e artigianale di villaggio, che impedivano la fluidità necessaria nel rifornire di materie prime l’industria. All’industria occorreva che aumentasse la produttività del mondo agrario e che questo producesse per il mercato e non per il consumo diretto. D’altra parte l’industria nazionale era impotente a farsi portatrice essa di un tale aumento di produttività nelle campagne a causa del suo insufficiente sviluppo, anche perché questo avrebbe supposto l’obbligo per decine di milioni di contadini di abbandonare la terra, espropriati dal campicello e momentaneamente lasciati senza mezzi di sostentamento.

L’industria esprimeva la necessità di tali masse di proletarizzati, ma il farlo in modo rapido, con la gran massa umana della Cina, dava il terror panico al PCC tanto da increspare l’imperturbabile sorriso sul faccione del Presidente.

Sicuramente quindi già negli anni ’50 si distinguevano due tendenze principali all’interno del PCC: una più “aperturista” decisa a venire rapidamente a capo delle riforme agrarie; l’altra più preoccupata per gli effetti che queste avrebbero potuto provocare, più conservatrice e meno frettolosa di attuare le riforme agrarie liberatrici. Non si scordava, questa, che la recente ascesa al potere del PCC era stata possibile per l’appoggio deciso dei contadini. In posizioni distribuite fra queste due tendenze si collocano tutti i “grandi timonieri” dello Stato cinese, benché come individui possano aver oscillato fra l’una e l’altra secondo quel che richiedevano le necessità economiche.

Tuttavia alla fine degli anni ’50 si impose la linea di Mao che prevedeva uno sviluppo autarchico della Cina, prendendo atto della insufficienza degli appoggi esterni dopo il ritiro dei tecnici russi. Puntava sull’incremento della produttività nelle campagne introducendo le Comuni e surrogando con le piccole industrie di villaggio le carenze della industrializzazione moderna del paese. Questa politica – per darsi coraggio – fu chiamata del Grande Balzo in Avanti, e si fondava più su incentivi ideologici che materiali. Tale politica fallì tragicamente nei suoi risultati, per di più venne a coincidere con catastrofi climatiche che abbatterono la produzione agricola e di conseguenza anche la produzione industriale negli anni 1961-62.

Solo a seguito di questo fallimento si introdussero le prime riforme che tornarono a concedere la vendita libera dei prodotti agricoli e che, a differenza del Grande Balzo in Avanti, ottennero di elevare la produzione e furono meglio accolte dalla popolazione. E’ di questo periodo la famosa frase del rappresentante della linea “aperturista” Deng Xiao Ping: “non importa se il gatto è bianco o nero, l’importante è che prenda i topi”.

La “Rivoluzione Culturale” nella seconda metà degli anni ’60 significò invece il tentativo delle linea più conservatrice di frenare i riformisti, che si videro espulsi a furor di popolo dai loro posti di direzione. Le affermazioni propagandistiche e le frasi celebri servono a poco se non si decifrano nel contesto della lotta fra le forze economiche in atto: fu detta Rivoluzione Culturale perché erano gli ambienti piccolo borghesi studenteschi e degli insegnanti quelli che meglio accolsero e misero in pratica gli appelli della frazione maoista del partito.

E passiamo all’esame dettagliato della Tabella 1 con gli incrementi annuali. La produzione industriale cinese parte subito alla grande. Per 4 anni fino al 1953 abbiamo un ritmo medio annuo quasi costante che oscilla intorno al 33,7%. Poi, tra grandi escursioni altalenanti, ma tutte positive, si arriva al massimo del 1960 che registra per 7 anni il necessario ridimensionamento all’incremento medio annuo del 22,4%. Ciononostante è in questo periodo che si è avuto l’incremento annuale più elevato, il 54,8% del 1958. Ma è proprio da questo incremento record di segno positivo che si arriva, come visto, in caduta verticale libera per due anni fino all’incremento record di segno negativo del 38,2% nel 1961. Nei successivi 10 anni dal 1960 al 1970, che comprendono il crollo del 1961-62 e quello meno vistoso del 1967-68, l’incremento medio annuo scende al modesto 3,9%. Il crollo del 1961-62 coincide con il fallimento delle Comuni agricole. Quello, di minore gravità, del 1967-68 con la Rivoluzione Culturale.

Nel restante periodo di 23 anni dal 1970 al 1993, dai dati tutti positivi, la ripresa non poteva mancare, con un incremento annuo medio del 12,4%. Permangono però le alternanze di accelerate e frenate dell’incremento, di cadenza annuale o biennale. Negli anni 1974 e 1976 l’apparato industriale risulta quasi fermo con incrementi prossimi allo zero (0,3% e 1,3%); di nuovo nel 1981 l’incremento si ferma al modesto 4,3%. E’ evidente come il capitalismo cinese sia, almeno dal 1974, ben connesso alla crisi generale dell’industrialismo e della finanza mondiali.

Annate di maggiore slancio si ravvisano nel 1985, con incremento del 21,4%, e nel 1988, con il 20,8%. Gli incrementi record del 1992 e del 1993, 27,5% e 28,0%, sono da attribuire alla massiccia invasione di capitali stranieri a caccia di sovraprofitti sulla pelle dei proletari cinesi; invasione che potrebbe presto tradursi in una disordinata ritirata.

Concludiamo con la scaletta legata agli eventi contingenti dei 44 anni in esame così come ci è stata suggerita dal Grafico degli incrementi:
– 1949-1953, exploit iniziale e di ricostruzione, 4 anni con incremento annuo medio del 33,7%
– 1953-1960, baldanza giovanile, 7 anni, incremento 22,4%
– 1960-1970, crisi di crescita, 10 anni al 3,9%
– 1970-1993, maturità, 23 anni al 12,4%.
 


CONFRONTO CON GLI ALTRI CAPITALISMI

La “via al capitalismo” è una per tutti i continenti. E’ quindi utile passare al confronto tra la produzione industriale della Cina e quella dei principali Paesi imperialistici, con la leadership degli Stati Uniti che, grazie al loro potenziale economico, sono in grado di fare il brutto e il cattivo tempo nel mondo intero sia in materia economica sia politica. Il confronto ci consentirà di valutare livelli di sviluppo e posizioni intercorrenti.

Riallacciandoci al Prospetto I sullo Sviluppo storico del Capitalismo, (lo troverete nelle prime pagine de “Il Corso...”), che grosso modo si fermava al 1985, abbiamo redatto per Inghilterra, Francia, Germania, Stati Uniti, Giappone ed Italia, ai quali abbiamo affiancato la Cina, un nuovo Prospetto (qui Tabella 3) completo di indici annuali e relativi incrementi. Come anno di inizio si è scelto il 1979, che rappresenta un massimo crescente per 4 dei 7 Paesi. L’Italia consegue quel traguardo un anno dopo, nel 1980; mentre per Giappone e Cina il 1979 non è anno di massimo, ossia non seguito da decrescenza dell’Indice. L’anno finle lo abbiamo fissato al 1997 che è un massimo per tutti i Paesi esclusa l’Italia, che anticipano al 1995.

Dal confronto emerge che la Cina è l’unico Paese che nello scorso ventennio non ha avuto decrementi. Però in occasione della crisi che ha interessato tutti gli altri Paesi intorno al 1980 la Cina ha accusato il contraccolpo con la forte caduta (s’intende in relazione ai più elevati Incrementi che la contraddistinguono) al 4,3% nel 1981 e 7,8% nel 1982. La crisi che investe tutti gli altri Paesi negli anni dal 1990 al 1993 è invece anticipata in Cina con rallentamenti nel 1989 e nel 1990. Gli altri Paesi sono poi tutti andati sotto pesantemente.

Dalla Tabella 3 ricaviamo, in ordine decrescente, le medie annue dell’ultimo ciclo fra massimi, dal 1979 al 1997: Cina 14,5%; Giappone 2,6%; Stati Uniti 2,6%; Italia (1980-1995) 1,4%; Gran Bretagna 1,2%; Germania 1,1%; Francia 0,9%.

Tabella 3 - Produzione Industriale dal 1979 al 1997
Indici 1979=100 ed Incrementi percentuali annui
Anni Gr.Bretag FRANCIA GERMANIA U.S.A. GIAPPONE ITALIA CINA
1979 100,0   100,0   100,0   100,0   100,0   100,0   100  
1980 93,5 ‑6,5 100,0 0,0 100,0 0,0 98,0 -2,0 104,2 4,2 105,3 5,3 109 9,3
1981 89,9 -3,9 97,9 -2,1 98,0 -2,0 100,0 2,0 105,2 1,0 103,2 -2,0 114 4,3
1982 91,7 2,0 97,0 -0,9 95,1 -3,0 93,1 -6,9 105,2 0,0 100,1 -3,0 123 7,8
1983 95,3 4,0 98,0 1,0 96,0 1,0 98,9 6,3 109,5 4,0 96,9 -3,2 137 11,2
1984 96,3 1,0 99,2 1,2 99,2 3,3 109,7 10,9 121,9 11,4 100,1 3,3 159 16,3
1985 101,9 5,9 100,2 1,0 104,2 5,1 111,7 1,8 126,2 3,5 102,2 2,1 193 21,4
1986 104,8 2,8 101,2 1,0 107,2 2,9 112,7 0,9 126,2 0,0 105,4 3,1 215 11,7
1987 107,6 2,7 103,2 2,0 107,3 0,0 118,7 5,3 130,5 3,4 109,6 4,0 253 17,7
1988 111,4 3,5 107,1 3,8 111,2 3,7 124,6 5,0 143,3 9,8 115,9 5,8 306 20,8
1989 114,0 2,3 111,1 3,7 117,2 5,4 124,6 0,0 151,9 6,0 120,1 3,6 332 8,5
1990 113,6 -0,3 112,7 1,5 123,0 4,9 124,5 -0,1 158,1 4,1 120,3 0,2 358 7,8
1991 109,8 -3,4 111,4 -1,2 123,0 0,0 122,0 -2,0 160,8 1,7 119,3 -0,9 411 14,8
1992 110,2 0,4 110,0 -1,2 120,2 -2,3 125,9 3,2 151,0 -6,1 119,0 -0,2 524 27,5
1993 112,6 2,2 105,9 -3,8 111,3 -7,4 130,3 3,5 144,2 -4,5 116,2 -2,4 671 28,0
1994 118,7 5,4 110,1 3,9 115,4 3,7 137,4 5,4 146,1 1,3 122,2 5,2 791 18 
1995 120,9 1,8 112,4 2,2 117,9 2,1 144,1 4,9 150,8 3,2 128,8 5,4 910 15 
1996 122,0 0,9 112,6 0,1 118,4 0,4 150,5 4,4 154,5 2,4 126,7 -1,7 1028 13 
1997 123,1 0,8 117,0 3,9 122,5 3,5 160,0 6,1 160,0 3,5 129,4 2,2 1147 11,6

Spicca il formidabile incremento nel Periodo dell’ormai non più giovanissimo capitalismo cinese, che vede aumentata la produzione industriale di ben 11,5 volte in 18 anni, mentre gli altri si distribuiscono tra un aumento del 60% del Giappone e un 17% della Francia. La legge di anzianità è rispettata con i 3 classici industrialismi europei nelle ultime posizioni affiancati da presso dall’Italia; mentre il meno anziano Giappone è in seconda posizione seguito dagli Stati Uniti che non sfigurano nel confronto.

Precipita la decrescenza storica dell’incremento relativo della Produzione Industriale nell’ultimo quarto di secolo. La discesa, con poche eccezioni, è regolare per tutti i paesi. Particolari conferme di crisi (con soddisfazione di noi rivoluzionari) l’hanno date tutti i Paesi che sono in diversi anni quasi a zero. Solo gli Stati Uniti che, armi in pugno, fregano tutti e salvano la faccia. Ma per quanto tempo ancora? Anche lì si avvertono i sintomi di una imminente stanchezza, che si cerca di risolvere, per il momento, scaricando bombe made in Pittsburgh sui Balcani. La Cina si mantiene, dall’ultimo massimo del 1966, sulla media del 12,3% sui 31 anni.

Approfittiamo per dare un’errata-corrige che rende più incisiva la decrescenza storica degli Stati Uniti dal 1859 al 1985. Nella Tabella a pag. 52 de “Il Corso...” l’eguaglianza degli indici del 1973 e del 1974 ci ha fatto incorrere nell’errore di porre come massimo il 1974 al posto del 1973 per cui il terz’ultimo e il penultimo Periodo risultano falsati in relazione agli anni dei 2 Periodi che sono di 4 e 6 anni (e non di 5 e 5); ma soprattutto in relazione agli incrementi annui medi che risultano del 3,8% e del 2,6% (e non del 3,1% e del 3,2%). La serie degli ultimi 4 Periodi, che vanno dal 1957 al 1985, dopo questa correzione presenta una decrescenza più regolare degli incrementi annui medi che scendono dal 4,9% al 3,8% al 2,6% e all’1,9% (e non la strana successione della Tabella di 4,9%, 3,1%, 3,2% e 1,9%). Se poi prendiamo in considerazione il Periodo dal 1957 fino al 1997, del quale oggi disponiamo dei dati, abbiamo una serie di 5 Periodi in costante decremento: 4,9; 3,8; 2,6; 2,5 e 2,4.
  


L’ACCIAIO IN CINA

 

È l’acciaio che esprime la forza e che consente le dittature di classe. Ecco perché noi avevamo elevato l’acciaio al rango di “Maestà”. Ne “Il Corso...” gli abbiamo dedicato il Settore finale, corredato di abbondanti Tabelle. In esse però la Cina risulta assente: qui colmiamo il vuoto.

Già alla fine del ’700 l’Europa importava dalla Cina tè, porcellane fini, rabarbaro, sete pregiate. I cinesi acconsentivano a esportare queste merci ma volevano essere pagati in argento, poiché ritenevano di nessun valore e di nessuna utilità le merci offerte in cambio dagli occidentali. Nel 1793 l’imperatore della Cina Ch’ien Lung risose a Giorgio III d’Inghilterra, che gli aveva mandato il suo ambasciatore Macartney a proporre scambi commerciali: «...Come il tuo ambasciatore ha potuto personalmente constatare, Noi già possediamo ogni ricchezza, né Noi attribuiamo valore alcuno ai tuoi strani marchingegni, né sapremmo che farne dei prodotti del tuo Paese».

All’imperatore del Celeste Impero sfuggiva però che una di quelle merci che rifiutava, e del quale gli inglesi già vantavano una buona produzione, l’acciaio, aveva delle particolari, magiche, proprietà: forgiato a far canne da fuoco e impugnato nel verso giusto abbatte istituzioni millenarie, imperi e imperatori. Nel giro di pochi anni una delle merci più dannose, l’oppio, fu imposta alla popolazione cinese grazie alla forza delle armi, di cui gli inglesi erano molto più dotati, sia quantitativamente sia qualitativamente. Aperto il varco, fu facile inondare la Cina di tante altre merci, buona parte delle quali non meno dannose dell’oppio, e convincere i cinesi, sempre armi alla mano, che era bene acquistare le merci inglesi e farne poi l’uso che avrebbero voluto.

È questa una costante del mercantilismo capitalista: l’acciaio, sotto forma di armamenti, e non importa se in modo potenziale o in modo cinetico, fa da battistrada per lasciare subito entrare in azione l’artiglieria pesante delle merci a basso prezzo che premono per dilagare. I maggiori Paesi capitalistici sono sempre stati i maggiori produttori di merci e perciò di acciaio e di armi. Tra di essi si fa notare oggi in prima fila proprio la Cina.

La Cina moderna è nata nel 1949 con la vittoria definitiva sul regime di Chiang Kai-shek, che rappresentava l’ultima pedina della pirateria imperialistica sul suolo cinese. Dal 1911 aveva avuto inizio il tormentato e insanguinato cammino che porterà nel 1949 al traguardo della conseguita indipendenza politica della Cina borghese. Obiettivo per quasi 40 anni, contrastato con ferocia dall’imperialismo capitalistico, ma di cui esso, involontariamente, è stato il principale artefice. Come alla sete inesausta di profitti dell’imperialismo dobbiamo la nascita della classe borghese cinese che ha sentito il bisogno di emulare in sfruttamento e pirateria i capitalisti europei, americani e giapponesi.

E proprio quest’azione congiunta ha provocato la nascita sul suolo cinese della classe operaia che sin dall’inizio ha dato prova di una combattività e di uno spirito rivoluzionario per stroncare i quali c’è voluta la massiccia azione congiunta del capitalismo internazionale alleato a quello cinese. Si può senz’altro affermare che la nascita della moderna Cina borghese nel 1949 poggiava sul presupposto della sconfitta sul campo della rivoluzionaria classe operaia cinese.

Questi tre fattori, nascita della Cina moderna, nascita della classe borghese cinese, nascita del proletariato cinese, grazie all’imperialismo capitalistico, hanno risvegliato e messo in movimento non solo la Cina, ma tutto l’immenso continente asiatico; e questo è stato un risultato altamente rivoluzionario i cui risvolti sulla distanza saranno difficilmente padroneggiabili da parte del capitalismo mondiale.

Sulla base di queste considerazioni tutte le statistiche cinesi partono dal 1949. Questo non vuol dire che prima di quell’anno non vi fosse in Cina una industria: l’incubazione della Cina moderna era iniziata già nel 1911 e un apparato industriale si andava lentamente ma stabilmente sviluppando.

Una pubblicazione del 1957 della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, dal titolo "Un secolo di sviluppo della produzione d’acciaio", fornisce con un dettaglio davvero pignolo le produzioni annuali di acciaio di tutti i Paesi del mondo a partire dal 1860. Qui li riproduciamo relativamente al periodo 1935-1949:

Tabella 4
Produzione di acciaio
 Anno  Migliaia
t.
Indici
1935=100
Increm.
%
1935  132  100   
1936  345  261,4 161,4
1937  447  338,8  29,6
1938  488  369,9   9,2
1939  538  407,7  10,2
1940  599  453,7  11,3
1941  660  500,0  10,2
1942  721  546,0   9,2
1943 1199  908,0  66,3
1944 1422 1076,9  18,6
1945  914  592,4 -35,7
1946   30   22,9 -96,7
1947   51   38,9  70,0
1948   30   22,9 -41,2
1949  102 77 240  

La produzione di acciaio della Cina inizia nel testo nell’anno 1935 con 132.000 t. Nei nove anni che vanno dal 1935 al 1944 risalta un aumento produttivo di quasi 11 volte con un incremento annuo medio nel periodo del 30,2%. Sarebbe qui da indagare il contributo della Manciuria, sotto occupazione giapponese dal 1931. Si parte con un incremento del 161,4%, seguito da un 29,6% per stabilizzarsi poi per un Periodo di 5 anni con dati molto ravvicinati che oscillano intorno all’incremento annuo medio del 10%. La produzione perviene così nel 1942 a 721.000 t.

Nel 1943, grazie alla Seconda carneficina mondiale, si ha una impennata del 66,% a cui segue nel 1944 un buon 18% con la produzione che approda a 1.422.000 t. Poi, per l’azione dell’Unione Sovietica che, col pretesto di “liberare” i proletari della Manciuria, ne smantella letteralmente tutto l’apparato industriale, in cui era preminente il settore siderurgico per farne dono al capitale industriale russo, e nello stesso tempo libera effettivamente tutte le maestranze dalla schiavitù delle fabbriche gettandole letteralmente sul lastrico, si ha nel quadriennio successivo 1945-1948 il crollo complessivo del 98% con la produzione che scende nel 1948 a 30.000 misere t. Non poteva quindi mancare nel 1949 l’impennata record del +240% (dati CECA; 158.000 t. e +426.7% secondo le Statistiche cinesi) che portava la produzione alle ufficiali 102.000 t., battendo un record a cui i futuri reggitori della Cina hanno potuto opporre un ancora eccellente 253,5% nel 1950.

La serie 1949-1996 riguarda invece la Repubblica Popolare Cinese (vedi Tabella 1). Si parte nel 1949 con 158.000 t. per approdare a 100 milioni di t. nel 1996. Questo risultato pone la Cina al primo posto nella graduatoria mondiale dei produttori. Nell’arco di 47 anni la produzione di acciaio è aumentata di 633 volte, cioè con incremento annuo medio del 14,7%.

Ne “Il Corso...” (da pag. 582 a pag. 595) per i 7 principali Paesi avevamo dato le Tabelle della decrescenza storica dell’incremento relativo della produzione di acciaio. Siamo in grado oggi di aggiungere, a pieno titolo, quella relativa alla Cina. Lo schema è risultato più semplice in quanto, per il molto più breve periodo che investe, ha consentito di evidenziare le sole 2 fasi della gioventù e della maturità, con esclusione dei Cicli brevi e lunghi. Ad un incremento annuo medio della fase giovanile di 24 anni fino al 1973 del 23,5% fa riscontro quello della maturità di 24 anni fino al 1997 (con i dati oggi disponibili) del 6,2%; ossia di quasi 4 volte più basso. Quell’incremento si andrà flettendo sempre di più trapassando il capitalismo cinese nella sua fase di “vecchiaia”.

Tabella 5
Decrescenza storica dell’incremento relativo medio annuo
della produzione di Acciaio
Anni
di
massi-
mo
Periodo
tra i Massimi
Gioventù
e Maturità
Milioni
t.
Anni Increm.
%
Milioni
t.
Anni Increm.
%
1949   0.158       0.158    
    11 50,0      
1960  13.67         
     6  1.9 24 23.5
1966  15.30         
     7  7.4    
1973  25.20       25.20     
     7  5.7      
1980  37.12      24  6.2
    17  6.5    
1997 107.90      107.90     

Dalla Tabella 1 risulta che nel biennio di grave crisi 1961-62 l’acciaio scende del 51,2%, con l’annuo medio di -30,1%, e nel biennio 1967-68 del 41,2%, con l’annuo medio di -23,3%, quindi con regressi peggiori della media della Produzione industriale. Altri tre decrementi nel 1974 del 16,3%, nel 1976 del 14,4% e nel 1981 del 4,1%, a cui corrispondono per la Produzione industriale incrementi bassi ma pur sempre positivi.

Salta agli occhi che ai forti incrementi fino al 1971, anche se interrotti dalle due gravi cadute, seguono incrementi molto più bassi la cui ridimensionamento con il tempo si accentua sempre di più. Il 33,9% del 1978 sembra quasi la nota stonata. Ad esso seguono subito incrementi bassi di cui uno negativo, tutti inferiori al 9%. Solo nel 1986 abbiamo un 11,6% a cui seguono cinque anni con l’incremento annuo medio del 6,3%. C’è poi la ripresa nel 1992 del 18,7% annuo medio, a cui segue fino al ’97 un quinquennale annuo medio appiattito al 5,1%.

Tutti a magnificare i 100 milioni di t. prodotti dalla Cina nel 1996. Nessuno a far risaltare che ci si era arrivati dopo un triennio a passo di lumaca; nessuno a sottolineare che l’ultimo periodo era andato avanti più piano di tutti gli altri. E’ invece il caso di dire che l’acciaio cinese è invecchiato anzi tempo.

La Cina sta per finire il suo prolungato “a solo”. Il suo Periodo è unico a partire dal 1966. Nei 27 anni fino al 1997 ha guadagnato posizioni nella contesa mondiale con l’elevato incremento annuo medio del 12%. La grande avanzata cinese non presenta nulla di eccezionale: è l’esplodere giovanile del capitalismo quando si impianta per la prima volta in un Paese. Quella accumulazione primitiva è fondata solo sull’inaudito sfruttamento a cui è stata sottoposta la classe operaia, in Cina come ovunque, dei cui risultati ha beneficiato soltanto la borghesia mondiale.

Ci sovviene un assunto di Marx che dice che più a lungo dura una fase di positiva accumulazione, più sarà devastante il crollo che ne seguirà. La Russia ha confermato in pieno questa verità. Non sarà la Cina, che continua a vantare, anche se solo a parole, una discendenza dal “marxismo”, a smentirla.

Vediamo allora il peso dell’acciaio cinese in relazione a quello degli altri Paesi. All’uopo abbiamo redatto la Tabella 6 sulla falsariga di quella de “Il Corso...” alle pagine 612 e 613. La Tabella prende in esame l’acciaio che gli 8 principali Paesi di oggi hanno sfornato da quando ne hanno iniziato la produzione fino all’ultimo anno di cui siamo riusciti a reperire i dati.

Tabella 6
Acciaio storicamente sfornato dai principali Paesi
milioni di tonnellate
Fino
all’
 anno 
GrBret
Franc.
 Germ.
 USA 
Giapp.
 Urss 
Italia
 Cina
 Mondo
Cina
%
1950
 524
265
 720
2203
 109
 398
 66
   8
 4869
0,2
1960
 721
393
 987
3129
 222
 868
120
  55
 7516
0,7
1970
 972
591
1406
4245
 742
1803
252
 167
12055
1,4
1980
1186
826
1910
5428
1802
3198
477
 430
18785
2,3
1990
1313
977
2280
6100
2615
4441
664
 929
24712
3,8
1997
 
 
 
 
 
 
 
1459
30000
4,9

Con l’avvento del capitalismo la produzione degli altiforni, che sfornano materie utili solo al Capitale, ha notevolmente superato la produzione dei forni da pane: il pro-capite mondiale di acciaio non fa che aumentare mentre si contraggono sempre più le disponibilità alimentari del Pianeta. Acciaio e Fame, nel mondo del Capitale, procedono a braccetto. Più la Produzione industriale e l’acciaio avanzano, più si infittiscono gli affamati nel Mondo.

La Tabella parte dal 1950 in quanto anno più vicino al 1949, che ha visto la nascita della Repubblica Popolare Cinese. I dati di Francia e Germania risalgono al 1860; quelli di Inghilterra, Stati Uniti e Russia al 1870. L’Italia e il Giappone partono rispettivamente dal 1881 e dal 1913. La Cina parte dal 1935/1949 in quanto effettivamente, come detto, si è cominciato a produrre acciaio in Cina nel 1935, ma il totale fino al 1949 rappresenta solo la 200a parte del suo totale storico; e quindi è quasi la stessa cosa che partire dal 1949. Fino al 1950, sul totale storico, l’Inghilterra e gli Stati Uniti avevano già prodotto il 39,9% e il 36,1% del loro acciaio; la Germania e la Francia il 31,6% e il 27,1%: l’Italia, la Russia e il Giappone il 9,9%, il 9,0% e il 4,2%; la Cina lo 0,057%, diciamo zero.

In base a queste considerazioni viene fuori questa scaletta: La produzione cinese di acciaio è in marcata ultima posizione nel 1950 quando rappresentava la 265a parte di quella degli Stati Uniti, la 63a dell’Inghilterra, la 8a parte dell’Italia. Passa quasi mezzo secolo e, in base a tutto l’acciaio prodotto in questo lasso di tempo da ogni Paese, la scaletta si configura adesso così: gli Stati Uniti ne hanno prodotto 6,5 volte in più della Cina; la Russia 4,8; il Giappone 2,8 volte; la Germania 2,5 volte in più; l’Inghilterra 1,4 volte, la Francia 1,1 e Italia il 29% in meno. Il peso dell’acciaio storicamente prodotto dalla Cina le fa conquistare il 6° posto assoluto nel Mondo.

Ovviamente nelle produzioni pro-capite la Cina, per la sua enorme popolazione, verrebbe abbondantemente distanziata da tutti gli altri Paesi.

Buona parte dell’acciaio prodotto da un qualsiasi Paese viene assorbito da un unico soggetto: dal settore degli armamenti e dall’apparato militare; ossia dallo Stato. In questo la Cina non può che ripercorrere la stessa strada delle grandi altre potenze.

Il Capitale globale si divide nei vari Paesi in tante frazioni in lotta incessante tra di loro. Più una di queste frazioni si sviluppa, più si gonfia la sua produzione di merci più è necessario dotarla di un organo con finalità offensive di sostegno allo smercio della produzione nazionale nel Mondo; ma anche con finalità difensive volte a scoraggiare e bloccare intromissioni non gradite da parte di altre frazioni del Capitale operanti in altri Paesi. Ma è anche uno strumento, di cui ha bisogno ogni frazione del Capitale per la sua conservazione, con finalità di prevenzione e protezione dai pericoli che possono essere provocati da una classe nemica interna, il proletariato. Nel caso in esame quello cinese è stato in una prima battaglia campale messo al tappeto, ma sarà sempre più numeroso e sempre più incline a lottare per i propri obiettivi, che sono irriducibilmente opposti a quelli di una qualsiasi frazione del capitale in un qualsiasi Paese del Mondo.

Nel 1996 la Cina ha conseguito il primato nel Mondo per la produzione annua di acciaio con 100 milioni di t. Questo exploit deve necessariamente tradursi in un apparato militare sempre più potente, che tendenzialmente non deve essere inferiore a quello di nessun altro Paese. Già oggi la Cina dispone di un armamento nucleare che si pone subito dopo quello degli Stati Uniti e della Russia. E, dato che tutti questi armamenti sono messi in opera per stabilire e garantire la pace borghese, ossia la pace per la borghesia di tutto il mondo necessaria per condurre in porto i suoi affari sulla pelle del proletariato mondiale, vedrete che si darà pieno riconoscimento alla potenza militare cinese con il consentirle a pieno titolo di partecipare alle guerre del Capitale.

Va tenuto presente che l’entrata della Cina nel novero delle potenze borghesi avviene nella piena fase di putrescenza del capitalismo; e la Cina ne reca tutte le stimmate.

Nella corsa all’inserimento tra le principali potenze lo Stato cinese si è assunta la gestione diretta dell’economia e ha scaricato sul proletariato tutto il peso del difficile lavoro di “rimessa in piedi” dell’economia nazionale. Finché il capitale non crollerà trascinandosi dietro il mercato, le merci e il lavoro salariato, il proletariato cinese dovrà combattere contro il suo nemico di classe.

Oggi che in Cina domina ancora il processo ascensionale del capitalismo, riconosciamo in essa un più che valido alleato dell’Occidente nell’opera di schiacciamento del proletariato internazionale e nella folle corsa verso la catastrofe da cui solo la rivoluzione internazionale proletaria potrà salvare l’umanità. Solo quando anche in Cina la classe operaia tornerà ad opporsi alla virulenta crisi del capitalismo, potremo tornare a dire che “l’Oriente è rosso”.
 
 
 
 
 



LE CAUSE STORICHE DEL SEPARATISMO BASCO


Esposto alla Riunione generale di Torino, ottobre 1998

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Dalla morte di Franco allo Statuto di Guernica

È solo un mito la feroce persecuzione del regime franchista nei confronti del PNV che, nonostante la sua illegalità, poté continuare a lavorare nell’ombra senza esser eccessivamente molestato. Il contrario era riservato ai lavoratori in sciopero e alle loro organizzazioni, davvero ferocemente represse nei paesi baschi e in tutta la Spagna.

Dopo la morte di Franco, caduta nel momento giusto, le organizzazioni della democrazia spagnola continuarono, come avevano fatto durante la dittatura, a metter tutto il loro impegno nel cercare di sviare la generosa combattività proletaria di quegli anni verso obiettivi puramente democratici i quali, in definitiva, ad altro non tendevano che a rafforzare il regime borghese e del capitale. Questo compito, certo essenziale, non risultò troppo difficile giacché la classe operaia, priva di organismi genuinamente classisti e permeata di conseguenza dall’ideologia democratica dominante, si offrì docile strumento al nemico di classe.

Il particolare corso storico determinò per la regione basca in quei primi anni di transizione un ambiente assai diverso da quello del resto della Spagna, con numerosi episodi di sangue: oltre alle azioni dell’ETA, eccidio operaio a Vitoria nel marzo 1976 ordinato da Fraga Iribane, allora ministro dell’interno, cui rispose uno sciopero generale in tutti i paesi baschi; assassinio di Monteiurra due mesi dopo...

La crisi economica degli anni ’70 colpì duramente il tessuto industriale basco e le condizioni del lavoro. E’ in questo periodo che il saldo migratorio verso le province basche cominciò a stabilizzarsi e perfino arrivò al segno negativo verso la fine del decennio. Il processo di adattamento dell’industria alle nuove necessità del mercato mondiale, nel quale l’economia spagnola oramai era pienamente immersa, portò ad un aumento del tasso di disoccupazione molto superiore a quello dei paesi vicini: dell’1% nel 1973, balzò al 20% nel 1983 e al 24% nel 1985. Una delle cause principali fu la forte dipendenza dell’industria spagnola dal protezionismo statale, fedele riflesso della debole posizione di quel capitalismo a livello internazionale. Questi anni di crisi portarono ad una situazione critica molte delle piccole e medie imprese basche, meno favorite dal protezionismo statale dei grandi gruppi industriali. Questo fu il caso, per esempio, del settore della costruzione di navi per la pesca e delle macchine in ferro, entrambi settori dove era incontrastato il predominio della piccola e media industria.

Lo scontento di questa piccola borghesia si espresse inevitabilmente nelle forme ideologiche e politiche che le sono proprie: settori più o meno legati al PNV lo spingevano a richiedere al governo di Madrid anche per essi le sovvenzioni urgenti che già riceveva dallo Stato la grande industria. Questa pressione obbligava il PNV, come era successo in altre congiunture storiche simili fin dalla fondazione di questo partito clerical-borghese, a mostrare un qualche atteggiamento di intransigenza per mantenersi la base elettorale. Una chiara dimostrazione di questa politica gesuitica fu la posizione del PNV nei confronti del referendum costituzionale del 1978, per il quale invitò all’astensione. Gli scontenti della politica tiepida propria del PNV, oltre ad appoggiare l’ETA-militare, si raggrupparono nella cosiddetta Mesa de Alsasua, primo nucleo di quella che successivamente sarà la coalizione elettorale Herri Batasuna (HB, Unità Popolare). A questa coalizione, creata proprio nel 1978, aderirono una serie di organizzazioni nazionaliste con linguaggio socialisteggiante, legate alcune di esse direttamente all’ETA Militare o a gruppi di impresari cooperativisti baschi, oltre a vecchie figure del nazionalismo nella versione più antioperaia come Telesforo Monzón. Questo era stato uno dei responsabili dell’ordine pubblico nel governo basco durante la guerra civile e si era distito particolarmente per la sua politica repressiva contro i gruppi operai incontrollati, cioè contro quelli che, non confidando nella giustizia borghese repubblicana, esercitavano direttamente le rappresaglie contro i fascisti e i loro complici.

Uno dei compiti comuni ad entrambi i blocchi nazionalisti (PNV da una lato e HB-ETA Militare dall’altro) era, di fronte agli effetti della crisi, di echeggiare le richieste dei rispettivi settori borghesi col volgere ancora una volta il dito accusatore verso il centro della penisola. Così, a sentire le organizzazioni nazionaliste basche, l’odiato centralismo di Madrid, che già era stato accusato di genocidio culturale quando favoriva la invasione maqueta negli anni ’50 e ’60, sarebbe stato, alla fine degli anni ’70 e all’inizio degli ’80, responsabile della rovina economica dei paesi baschi.

All’interno dell’ETA il cambiamento di scenario dalla dittatura franchista al regime democratico provocò un periodo di crisi. Abbiamo visto come la reazione dell’ETA ad una nuova congiuntura sia stata inevitabilmente accompagnata da una serie di scontri interni (a volte molto violenti), frazioni e finali scissioni.

In questa occasione, la scissione si consumò dopo la celebrazione della VII Assemblea, nel settembre 1974. Il cosiddetto Fronte Militare si costituì in ETA Militare (ETA-M); il resto dell’organizzazione adottò il nome di ETA Politico-Militare (ETA-PM), volendo evidenziare con questa denominazione la sua intenzione di affrontare gli avvenimenti politici che si avvicinavano non solo in una prospettiva puramente militare. Alcune versioni sostengono che la causa reale della rottura fosse la divisione creata dall’attentato alla Cafetería Rolando a Madrid, che l’ETA non rivendicò mai; ma il suo peso sulla scissione fu comunque secondario. Senza rinunciare in questo periodo alle azioni armate, il settore organizzato intorno all’ETA-PM si dimostrò più interessato ad ampliare il suo campo di influenza sulla classe operaia, il che creò numerosi contrasti fra l’ETA-PM e il resto della comunità nazionalista.

Questi culminarono nel sequestro e nell’uccisione per mano dell’ETA-PM del direttore dell’impresa SIGMA, Angel Berazadi, persona legata al PNV; questo provocò l’allontanamento dal direttivo dell’ETA-PM dei suoi membri implicati nella vicenda. Alcuni mesi più tardi, nel luglio del 1976, uno dei principali dirigenti dell’ETA-PM, Eduardo Moreno Bergareche (alias Pertur) sparì senza lasciare traccia, uno degli enigmi più oscuri di tutto il periodo. Benché manchino elementi di giudizio certi circa i veri responsabili, la versione più accettata, soprattutto nella comunità nazionalista, è quella del coinvolgimento nel fatto di agenti di polizia o similari spagnoli. Per altro la famiglia di Pertur e la versione ufficiale sostengono che fu assassinato da persone legate ai comandi Bereziak dell’ETA-PM.

Con l’eliminazione di Pertur si veniva a privare l’ETA-PM di uno dei suoi principali teorici, impegnato in un ennesimo tentativo di coniugare in una impossibile mescolanza il marxismo e la liberazione nazionale in un’area arcimatura per la rivoluzione socialista. Così riassumeva le sue intenzioni politiche Pertur nel marzo 1975: «Capisco che un comunista, per la sua oppressione come si verifica in Euskadi, non possa dimenticare la sua condizione basca. Per questa ragione, perché sono basco, intendo realizzare la mia scelta comunista qui, in Euskadi, lottando non solamente per il trionfo della rivoluzione socialista, ma anche per la liberazione nazionale della gente alla quale appartengo. Mi preoccupo di dare una risposta al problema basco. Quel che c’è di nuovo in questo atteggiamento è che la lotta nazionale si sviluppa nel quadro comunista della lotta fra le classi».

Un anno dopo i comandi Bereziak (Speciali) abbandonarono l’ETA-PM dissentendo sulla scelta della direzione di appoggiare la partecipazione del suo braccio politico-elettorale Euskadiko Ezkerra (EE) alle elezioni generali del giugno 1977. Una parte dei Bereziak si integrò nell’ETA-M e un’altra formò un nuovo gruppo, i Comandi Autonomi Anticapitalisti. Parallelamente a questi fatti l’ETA-M creò un suo proprio braccio politico HASI (Herriko Alderdi Sazialista Iraultzailea, Partito Socialista Rivoluzionario Popolare) nel luglio dello stesso anno. Questo partito sarà uno dei componenti della Mesa de Alsasua e successivamente di Herri Batasuna.

È interessante osservare i risultati elettorali nelle elezioni del 1977, comparandoli con quelli dei posteriori comizi, giacché si ripete, a scala maggiore o minore, quel che è una costante dalla fine del secolo passato: al di sopra della volatilità delle sigle, i diversi settori della società basca sono andati orientando le loro preferenze politiche in modo costante. Il Partito Socialista Operaio Spagnolo, radicato ormai senza incertezze come partito in tutto al servizio del capitalismo, diviene, paradossalmente, la formazione politica predominante nelle grandi città industriali con gran numero di lavoratori emigranti, mentre il PNV, benché non sempre il partito più votato, è quello con maggiore influenza nella società basca. I partiti nettamente piccolo-borghesi (come Herri Batasuna) conservano un certo peso soprattutto nelle zone dell’interno della Guipúzcoa, con prevalenza di piccole industrie e botteghe, in zone ove prevale la lingua basca.

Dopo le elezioni, accogliendo la richiesta di una campagna imbastita dalle organizzazioni nazionaliste, il governo della Unione di Centro Democratico decretò un’amnistia per i carcerati politici, benché non si trattasse che di una misura di portata limitata, giacché i condannati per fatti di sangue ne rimasero esclusi. L’amnistia evidentemente non risolveva niente giacché, dal punto di vista dei nazionalisti radicali, le cause che avevano portato i nazionalisti al carcere restavano in piedi insieme alla piena legittimità della lotta armata.

Il rifiuto di una gran parte della popolazione basca al nuovo corso politico regnante in Spagna si rese evidente con la celebrazione del referendum costituzionale del dicembre 1978. Herri Batasuna e l’ETA-M dichiararono il loro rifiuto aperto ad una Costituzione spagnola che sanzionava l’oppressione e la divisione di Euskadi. Il molto influente PNV optò prudentemente per l’astensione, fedele alla sua tradizione politica gesuitica, facendo sì che nei paesi baschi la Costituzione spagnola del 1978 non fosse approvata dalla maggioranza della popolazione consultata. Ciononostante sia il PNV sia EE (il braccio politico dell’ETA-PM) accetteranno progressivamente e in modo aperto le regole del gioco costituzionale. Da questo fatto otterrà il guadagno maggiore il PNV, mentre al contrario EE e l’ETA-PM accusarono una perdita di influenza che si tradusse in un accresciuto appoggio a Herri Batasuna e all’ETA-M.

Questa divisione fra i nazionalisti, più in quanto ai mezzi che in quanto ai fini, si ripeté di nuovo in occasione della presentazione e approvazione mediante referendum dello Statuto di Autonomia basco nel luglio del 1979. In questa occasione il PNV, soddisfatto dalle prebende concesse o in procinto di esserlo, chiese il voto a favore dello Statuto, insieme a EE e al resto dei partiti democratici, salvo Herri Batasuna. Lo Statuto di Guernica offriva la possibilità, che si concretizzerà successivamente, fra l’altro, anche grazie all’esistenza del terrorismo etarra, che i settori borghesi legati al PNV andassero ampliando progressivamente la loro quota di potere economico col gestire direttamente una serie di tributi che prima erano in mano del governo centrale, cioè del governo della grande borghesia basca e spagnola. Nell’imminenza del referendum per lo Statuto di Autonomia, i partiti LAIA e ESB abbandonarono Herri Batasuna a causa dell’influenza politica che l’ETA-M manteneva nella coalizione elettorale; così il braccio politico ufficiale dell’ETA-M, HASI, divenne la forza dominante (e unica) in HB. Nonostante tutto lo Statuto risultò approvato da un’esigua maggioranza (54%), con un’astensione del 40% e un 3% di voti contrari.


Una guerra sporca

Non c’è dubbio che l’esistenza di un forte movimento nazional-separatista nei paesi baschi costituisca un efficace muro di contenimento delle lotte operaie e, nell’occasione, un’arma imprescindibile contro la rivoluzione proletaria, come ha dimostrato l’esperienza della guerra civile del 1936. Ciononostante, trattandosi di un movimento della piccola e media borghesia, lo Stato capitalista deve limitarne le prodezze mantenendole entro limiti decenti, oltrepassati i quali il grosso bastone dello Stato cade sopra lo scapigliato “guerrigliero”, ricordandogli per le spicce come il potere reale risponda solo ai grandi capitalisti.

Circa dal 1975 sorgono delle formazioni, chiaramente legate alle forze di sicurezza spagnole, che, oltre ad attentare contro gli oppositori del regime franchista agonico e contro i militanti operai, estendono il loro campo di azione contro i rifugiati baschi nel sud della Francia. Fra queste bande di assassini al servizio dello Stato capitalista incontriamo la Tripla A (Alleanza Apostolica Anticomunista), i Guerriglieri di Cristo Re e l’ATE (Antiterrorismo ETA). Il fatto che queste bande bianche operino in territorio francese provoca qualche conflitto col governo di Parigi che, denunciandovi una violazione della sovranità nazionale francese, manifesta in realtà l’interesse da parte francese a concedere il suo territorio come santuario etarra, oltre che a trarne dei notevoli vantaggi economici.

Nel 1970 il ministro spagnolo delle Asturie Esterne López Bravo è inviato a Parigi dove si tratta del terrorismo ETA. In conseguenza di questa richiesta diplomatica la Francia allontana dalla frontiera una serie di etarra, però lasciandoli sul territorio francese. Nello stesso tempo, curiosamente, il governo spagnolo stipula un acquisto importante di aerei Mirage dalla Francia. Il governo francese ha mostrato sempre una particolare inerzia nel collaborare con i suoi colleghi a sud dei Pirenei sul tema del terrorismo dell’ETA. Questo atteggiamento contrasta apertamente con quello di altri paesi, per esempio la Germania, provando che pure sul terreno delle relazioni internazionali si hanno delle classi. Si ricordi la celerità con la quale furono concesse le estradizioni dei membri della gruppo Baader Mainhof.

Però nel gennaio 1979 il governo spagnolo vanta un relativo successo ottenendo che il governo francese sopprima lo statuto di rifugiati politici per gli etarra, benché mantenendo loro il diritto di asilo. E di nuovo questa concessione appare in relazione con una importante operazione commerciale: l’acquisto dalla Francia di 48 aerei Mirage e 1 Airbus. Questo provvedimento provoca un visibile sdegno nelle file dell’ETA-HB, che intraprendono una campagna destinata ad attentare agli interessi francesi in Spagna, ma non in Francia. Così si collocano bombe in diversi concessionarie d’auto e in enti bancari francesi di varie città basche, ed ugualmente si comincia a includere fra i responsabili della “politica repressiva francese nei confronti del popolo basco” i camionisti e i turisti francesi, che vedono i loro mezzi dati alle fiamme. Nonostante questo schiamazzo tipicamente piccolo-borghese, alla direzione dell’ETA-M non interessa affatto peggiorare le relazioni con il governo francese, che ancora permette una grande libertà di movimento ai militanti dell’ETA.

In questo periodo, nel giugno 1979, ha luogo la prima azione armata del gruppo basco-francese Iparretarrak- (Quelli del Nord). Amministrativamente i paesi baschi francesi sono inclusi nel Dipartimento dei Pirenei Altantici, e nemmeno si riconosce loro il rango di Provincia. Nonostante questa disposizione, evidente retaggio del centralismo giacobino, il nazionalismo basco-francese non ha mai raggiunto la virulenza che ha a sud dei Pirenei. La spiegazione è semplice: i paesi baschi francesi sono zona prevalentemente agraria e di servizi, completamente priva degli effetti dell’industrializzazione e dell’immigrazione in massa. Da qui l’inesistenza di un numeroso e combattivo proletariato, come è in Spagna, il che consente al nazionalismo basco-francese un carattere più nettamente piccolo-borghese e molto minoritario. La successiva campagna violenta di IK non sarà vista di buon occhio dall’ETA-M, cosciente che il suo appoggio a Quelli del Nord non mancherebbe di compromettere il permissivismo francese nei confronti dei suoi movimenti. La rottura è quasi totale dopo l’attentato di IK contro il Palazzo di Giustizia di Bayonne, nel luglio 1986. L’ETA-M e i suoi organismi satelliti accusano IK di pregiudicare con le sue azioni in Francia la lotta del popolo basco, rispondendo l’IK che l’ETA si mostra “rivoluzionaria” al sud e “riformista” al nord.

La politica di intesa fra gli Stati francese e spagnolo continua con alti e bassi dopo la venuta al potere del PSOE nell’ottobre 1982. Imprudentemente l’ambasciatore francese in Spagna, Pierre Guidoni, rispondendo alle proteste del governo spagnolo circa le facilitazioni offerte dalla Francia al movimento degli etarra, afferma: «L’ETA ha la sua direzione non in Francia, ma a Bilbao», cioè fra gli industriali che appoggiano il PNV, concentrati in Bilbao, la capitale dell’industria e della finanza basca. Successivamente lo stesso Pierre Guidoni rettifica queste dichiarazioni aggiungendo che «la direzione politica dell’ETA è concentrata nei Pirenei Atlantici».

Davanti alla mancanza di progressi significativi entrano in scena i GAL, ennessima costruzione statale underground per combattere in territorio francese i due rami dell’ETA. L’adozione, ancora una volta, di misure antiterroriste di questo tipo viene ad essere richiesta praticamente da tutti i settori del partito unico dell’ordine borghese non legati al nazionalismo basco. Uno dei portavoce più qualificati di questa corrente di opinione è Manuel Fraga Iribarne, attuale presidente della Galizia e buon conoscitore di questi temi essendo un grande specialista nell’applicare metodi terroristi contro la classe operaia spagnola. Il fatto che le prime azioni dei GAL (fra gli altri il sequestro di Segundo Marey e il sequestro, tortura e assassinio dei presunti etarra Las e Zabala), oltre ad unire contro questi fatti la famiglia nazionalista (HB, EE e PNV), ottiene che la Francia si impegni di più nella lotta contro l’ETA, però non disinteressatamente.

Nel gennaio 1984 è in discussione una ricca commessa di carri armati da parte dell’esercito spagnolo. All’offerta concorrono imprese francesi, americane e tedesche. Ovvie ragioni spingono all’acquisto del materiale francese, benché i militari spagnoli non lo considerino il più idoneo. E’ in questo periodo che comincia la politica di deportazione di etarra da parte del governo Mitterrand, più che altro in paesi centroamericani e africani. E di nuovo l’affare ETA serve per le imprese francesi ad ottenere dei bei contratti di materiale bellico per equipaggiare l’esercito spagnolo: stavolta si tratta del sistema di difesa a bassa quota Roland, scartando lo Chaparral americano e il Rapier inglese.

Questa dinamica di transazioni commerciali, con il terrorismo dell’ETA come sfondo, è utilizzata anche con altri paesi, interessati a barattare con merce etarra interessanti contratti con il governo spagnolo. Uno dei casi più recenti è stato quello dell’etarra Tellechea nel febbraio del ’97. Detenuto in Portogallo, Tellechea fu subito richiesto dalla giustizia spagnola. I giudici portoghesi negano l’estradizione argomentando che la polizia spagnola maltratta i detenuti. Questo, che è certamente vero, è tuttavia paradossale detto dal Portogallo, accusato quasi ogni giorno di abusi ed eccessi delle sue forze di sicurezza contro ogni tipo di persone. Nessun importante contratto luso-ispanico era infatti stato firmato!

Nonostante la messa a disposizione di grandi risorse, gli attacchi del GAL dimostrano che, anche in materia di terrorismo di Stato, la Spagna è una potenza di secondo ordine! A parte il sequestro e successiva liberazione in condizioni pietose di Segundo Marey, persona completamente estranea ai fatti dell’ETA, sono assassinati o feriti una serie di individui che si trovano nelle stesse circostanze di Marey, come García Goena. Questi fallimenti e la pressione della Francia fanno sì che i GAL siano disciolti. Attualmente tutta la questione è materia di tribunali, che vi hanno dimostrato ancora una volta la partecipazione diretta dell’apparato di Stato. Questo non esiterà a sequestrare, torturare e assassinare di nuovo quando le circostanze lo richiederanno, e forse un giorno si potranno vedere i feroci nemici di oggi unirsi contro un nemico comune, attualmente assente dalla scena storica però chiamato da un imperativo materiale a farsi carico dei suoi compiti rivoluzionari.


Dallo Statuto ad oggi

L’approvazione con referendum dello Statuto di Autonomia basco non implicherà la sospensione delle attività dei due rami dell’ETA. Al contrario le azioni armate continueranno e in questo modo i partiti nazionalisti e l’apparato imprenditoriale legato ad essi andranno ad ampliare le quote di autogoverno (cioè maggiore partecipazione nella ripartizione del plusvalore spremuto dal proletariato). Nell’ETA-PM l’approvazione della Statuto aprirà di nuovo un processo di crisi interna. Dopo un periodo di ripensamento, fra le altre cose sulle conseguenze del fallito colpo di Stato del 23 febbraio 1981, si arriverà alla rottura, nel febbraio 1982 dopo la celebrazione in Francia della VIII Assemblea dei polimilis. Il settore minoritario andrà a negoziare la sua progressiva entrata nella vita politica parlamentare tramite Euskadiko Ezkerra fino ad arrivare alla sua incorporazione nel PSOE, mentre la maggioranza, favorevole a continuare con le azioni armate, non avrà alternativa fra integrarsi nell’ETA-M o sparire di scena. Secondo quanto racconta John Sullivan, ai dibattiti di questa VIII Assemblea dell’ETA-PM assisteranno dirigenti del PNV, fra i quali il Papa Negro del nazionalismo basco, Javier Arzalluz, che raccomanderebbe all’ETA-PM di mantenere la lotta armata per far pressione su Madrid nelle trattative per la revisione dello Statuto.

Dopo questo processo di disintegrazione del suo più vicino rivale politico rimarrà come unica espressione del radicalismo piccolo-borghese nella sua versione basca l’ETA-M e Herri Batasuna, che cercheranno di canalizzare in una prospettiva abertzale (patriottica) ogni tipo di movimento sociale. Così tanto le rivendicazioni dei lavoratori quanto quelle ecologiste saranno adattate alle necessità politiche del discorso nazionalista nella sua versione radicale, e lo stesso succederà con il femminismo, i giovani, i disoccupati, ecc. L’ETA-HB creerà un’infinità di organismi satelliti che si caratterizzeranno per esser formati dai militanti o simpatizzanti del MLNV (Movimento di Liberazione Nazionale Basco).

Per quel che riguarda il PNV, questo andrà aumentando progressivamente la sua rete di potere tramite il clientelismo elettorale, come ai vecchi tempi del cacismo. In questo processo, comune del resto a tutti i partiti parlamentari, alcuni “compagni di strada” si troveranno nella cunetta, nascondendo i veri motivi della rottura sotto futili motivi, come la difesa dei fueros medioevali contro le modernità! Così succederà a Carlos Garaicoechea, già capo del governo basco: il suo tentativo di prendere in mano le redini del PNV dopo il suo scontro con l’apparato diretto dal mefistofelico Arzalluz risultò un fiasco, fra l’altro perché il PSOE preferì il PNV ad Eusko Alkartasuna (Solidarietà Basca), il nuovo partito creato da Garaicoechea e dai suoi compari.

* * *

Davanti a questo spettacolo di sporco e vile politicantismo borghese, che continua indisturbato anche quando scoppiano le bombe o crepita la mitraglia, la classe operaia, dal ritorno della democrazia è stata la grande assente dalla scena politica. Carente di organismi autonomi propri e del suo partito rivoluzionario di classe non è che un pupazzo nelle mani del nazionalismo e dei partiti del capitale sotto sigle operaie. I grandi processi di riconversione industriale, con il loro inevitabile corteo di licenziamenti e di repressione, hanno dimostrato che il potere dell’opportunismo (nella sua versione classica o nazionalista piccolo-borghese) è molto grande nei paesi baschi. La lotta dei lavoratori delle grandi industrie contro questo processo negli anni ’80 e ’90, oltre ad essere sistematicamente tradita dai sindacati del regime borghese, è stata costantemente sabotata da tutto l’arco politico radicale basco, che in pratica si dimostra come il vero puntello della politica antioperaia esercitata storicamente dagli jaunchos del PNV.

I proletari che intendano difendere nei paesi baschi le loro condizioni di vita e di lavoro con metodi classisti incontrano, insieme alla nota repressione padronale e statale, la repressione del mondo abertzale, che qualifica di spagnolismo qualunque azione autonoma del proletariato. Le prospettive future non sembrano aprire uno scenario nel quale manchino l’ETA, o i suoi sostituti, armati e non. Lo Stato della grande borghesia basca-spagnola può ben permettersi i costi che provoca una piccola banda armata, benché appoggiata da quasi duecentomila voti, poiché è cosciente del gran ruolo controrivoluzionario del nazionalismo in tutte le sue versioni.

La rivoluzione sociale, il comunismo, il vero spettro che realmente terrorizza le coscienze borghesi, indipendentemente dal loro gruppo sanguigno o dalla loro configurazione cranica, dovrà aprirsi il varco attraverso un mondo di menzogne imposte con la manipolazione e col terrore di classe, fra le quali il nazionalismo borghese occupa uno dei primi posti.

FINE DEL RAPPORTO   [ 1 - 2 - 3 - 4 - 5 ]

 
 
 
 
 
 
 
 



Nota su due momenti centrali del metodo dialettico

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Astratto e Concreto

Nella famosa introduzione del ’57 a Per la critica dell’economia politica Marx espone il suo metodo scientifico l’unico corretto: «Il concreto è concreto perché è sintesi di molte determinazioni, ed unità quindi del molteplice. Per questo esso appare nel pensiero come processo di sintesi, come risultato e non come punto di partenza, benché sia l’effettivo punto di partenza e perciò anche il punto di partenza dell’intuizione e della rappresentazione. Per la prima via (dal concreto rappresentato ad astrazioni sempre più sottili, fino a giungere alle determinazioni semplici), la rappresentazione piena viene volatilizzata ad astratta determinazione; per la seconda (dalle astrazioni alla totalità concreta con tutte le sue determinazioni e relazioni) le determinazioni astratte conducono alla riproduzione del concreto nel cammino del pensiero. E’ per questo che Hegel cadde nell’illusione di concepire il reale come il risultato del pensiero automoventesi, del pensiero che abbraccia e approfondisce sé in sé stesso, mentre il metodo di salire dall’astratto al concreto è solo il modo in cui il pensiero si appropria il concreto, lo riproduce come un che di spiritualmente concreto. Ma mai e poi mai il processo di formazione del concreto stesso».

Più sopra Marx nota che gli economisti classici, partendo dall’insieme vivente hanno sempre finito per trovare per via di analisi «alcune relazioni generali astratte determinanti come la divisione del lavoro, il denaro, il valore, ecc.», sulla cui base, appena tali momenti si furono fissati e astratti cominciarono a costruire sistemi economici che salgono dal semplice al concreto. Marx conclude «Quest’ultimo è, chiaramente, il metodo scientificamente corretto».

Si può osservare che in Marx il concreto nel pensiero si attua mediante l’astratto. Nel pensiero il concreto assume la forma di una sintesi di molte determinazioni, ognuna delle quali riflette solo un aspetto o frammento della realtà concreta e che assunta indipendentemente dalle altre è astratta. Solo nella loro integrazione le singole determinazioni astratte superano l’astrattezza di ognuna di esse, prese separatamente, permettendo la riproduzione del concreto nel pensiero. Se ne deduce che ogni teoria che pretende di cogliere il concreto isolando le singole determinazioni o concentrandosi solo su alcune non potrà pervenire alla verità, che, come ricorda Lenin, non è mai astratta ma sempre eminentemente concreta. Per Marx, è utile ricordarlo, per astratto si intende, dal punto di vista della teoria della conoscenza, qualsiasi atto unilaterale e incompleto di rispecchiamento dell’oggetto nella coscienza, in contrapposizione al conoscere concreto, onnilaterale, completo.


La questione fra Lenin e Bukarin

Il movimento dall’astratto al concreto è uno dei più difficili della logica dialettica. Una delle più pericolose deviazioni consiste nel diluire la totalità degli eventi tra di loro interconnessi in un tutto indifferenziato in cui ogni parte ha la stessa pregnanza conoscitiva di ogni altra parte, per cui il pensiero salta da un punto all’altro in un vuoto processo di astrazioni: «Contrapporre alla conoscenza distinta e compiuta, alla conoscenza che sta cercando ed esigendo il proprio compimento, questa razza di sapere – che cioè nell’Assoluto tutto è uguale – oppure gabellare un suo Assoluto per la notte nella quale come si suol dire, tutte le vacche sono nere, tutto ciò è l’ingenuità di una conoscenza fatua» (Hegel, Prefazione della Fenomenologia dello Spirito).

Questo modo di procedere che presume di essere onnilaterale, contrapposto ovviamente al dogmatismo ed unilateralismo del marxismo rivoluzionario, è caratteristico di ogni falsificazione opportunista della dialettica. Lenin (Stato e Rivoluzione): «Nella falsificazione opportunista del marxismo, la falsificazione eclettica della dialettica inganna con più facilità le masse, dà loro un’apparente soddisfazione, finge di tenere conto di tutti gli aspetti del processo, di tutte le tendenze dello sviluppo e di tutte le influenze contradditorie ecc, ma in realtà non dà alcuna nozione completa e rivoluzionaria dello sviluppo della società».

Per comprendere cosa si intenda per giusta concezione della dialettica materialistica in contrapposizione all’eclettismo dialettico, è utile riprendere la discussione tra Lenin e Bukarin. Lenin è costretto a spiegare l’Abc della dialettica «al valoroso Bukarin» il quale fu «profondo conoscitore di Marx» ma «non abile all’impiego della dialettica» e che di solito prendeva a rovescio «le frequenti svolte dialettiche» buttandosi «tutto su una deduzione dottrinale sviluppata unilateralmente e metafisicamente» (Struttura economica e sociale della Russia d’oggi), errori pericolosissimi e che fecero molto danno al potere sovietico, ma «riscattati alla fine cadendo da rivoluzionario di razza» in difesa del comunismo internazionale.

Le questioni tra Lenin e Bukarin all’VIII e X Congresso del Partito russo possono sembrare un lusso dottrinale: «Invece la correzione non è solo di natura scientifica, ma di attualità storica e politica di quel momento. Le rettifiche di principio sono tutte preziose e fondamentali in quanto, come di norma, valgono ad evitare “sbandate” di tutti i luoghi e di tutti i tempi: ma insieme ad esse è sul tappeto l’ardente decisione sulle prospettive dello sviluppo russo». Lenin in ambedue i congressi afferma che se fosse prevalsa la linea di Bukarin sarebbe stato messa in discussione la tenuta del potere sovietico.

Riassumiamo brevemente in cosa consista, dal punto di vista della dialettica e della teoria marxista della conoscenza, l’errore di Bukarin, rimandando i compagni allo studio dei testi ed in particolare: Ancora sui sindacati e Rapporto sul programma del Partito al VIII congresso, di Lenin e la nostra Struttura.


Sindacati e dialettica materialistica

Al X congresso è in discussione la questione del ruolo dei sindacati. Si combattevano due posizioni, il cui contenuto esula dagli obiettivi del presente lavoro. La questione centrale dal punto di vista della dialettica è la confutazione leniniana dalla posizione di Bukarin.

Bukarin tentò d’impostare la questione cercando il fondamento logico di ambedue le posizioni in lotta ed arrivando alla conclusione che non solo ambedue erano giuste ma anche la loro combinazione. La risposta di Lenin è sferzante: «Il fondo teorico dell’errore che qui commette il compagno Bukarin è la sostituzione dell’eclettismo al rapporto dialettico tra politica ed economia, rapporto che il marxismo ci insegna». «L’uno e l’altro, da una parte e dall’altra: ecco la posizione teorica di Bukarin. Cioè l’eclettismo. La dialettica esige che si tenga conto, sotto tutti gli aspetti, dei rapporti nel loro sviluppo concreto, e non che si afferri un pezzetto di una cosa, un pezzetto di un’altra» (Ancora sui Sindacati).

Lenin riprende l’esempio bukariniano del bicchiere. Bukarin definendolo concreto (il bicchiere) dandone alcune sue determinazioni astratte (strumento per bere, oppure cilindro di vetro, ecc.), aveva deviato profondamente dalla dialettica materialistica verso l’eclettismo e la metafisica. Ora per la logica dialettica marxista il ragionamento che scivola da una determinazione unilaterale astratta dell’oggetto ad un’altra è una via infinita che non porta a nulla di determinato. «La logica formale, alla quale ci si limita nelle scuole (ed alla quale ci si deve limitare, con alcune correzioni, per le classi inferiori), si serve di definizioni formali, attenendosi a ciò che è più consueto e che salta agli occhi più spesso e qui si ferma. Se, in questo caso, si prendono due o più diverse definizioni e si collegano in modo assolutamente casuale (cilindro di vetro o strumento per bere), si ottiene una definizione eclettica che si limita ad indicare aspetti differenti dell’oggetto. La logica dialettica esige che si vada oltre. Per conoscere realmente un oggetto bisogna considerare, studiare tutti i suoi aspetti, tutti i suoi legami e le sue “mediazioni”. Non ci arriveremo mai interamente, ma l’esigenza di conservare tutti gli aspetti ci metterà in guardia dagli errori e dalla fossilizzazione. Questo in primo luogo. In secondo, la logica dialettica esige che si consideri l’oggetto nel suo sviluppo, nel suo “moto proprio” (come dice talvolta Hegel), nel suo cambiamento (...) In terzo luogo tutta la pratica umana deve entrare nella “definizione” completa dell’oggetto, sia come criterio di verità sia come determinante pratica del legame dell’oggetto con ciò che occorre all’uomo. In quarto luogo, la logica dialettica insegna che “non esiste verità astratta, la verità è sempre concreta” come amava dire, dopo Hegel, il defunto Plekanov».


Imperialismo e dialettica materialistica

La stessa incapacità di porsi dal punto di vista della totalità concreta, la stessa inettitudine a maneggiare la dialettica porta Bukarin all’VIII Congresso a contrapporre scolasticamente e metafisicamente i 2 tipi e tempi del capitalismo: il primario o concorrenziale ed il secondario o imperialista. Bukarin aveva steso il programma del partito in riferimento alla tappa imperialista del capitalismo mondiale e quindi anche russo. Aveva quindi tolto dal programma ogni riferimento concernente il vecchio capitalismo, come se questi non esistesse più nella realtà storica concreta della Russia. La maggioranza, con Lenin in testa, aveva imposto che il programma riprendesse pari pari parte del vecchio redatto nel 1903. Bukarin, incapace di riconoscere il suo unilateralismo metafisico, crede in buona fede che i vecchi abbiano imposto il loro punto di vista per semplice tradizionalismo.

E’ ancora Lenin che cerca di fare entrare nella testa di Bukarin, che è Bukarin!, l’essenza della logica dialettica. «Lenin ci pare esclamare: se un Bukarin che “mi sono cresciuto io” piglia di questi granchi sulla base del mio libro sull’imperialismo, e mi va fuori dai binari di Papà Marx sui quali credevo avergli insegnato a correre senza la più piccola incertezza, che faranno gli altri, dopo, altrove quando io sarò morto e quando sarà morta la grande rivoluzione?» (Struttura...).

Lenin dimostra a Bukarin che il suo programma è errato perché non era conforme alla realtà obiettiva; era una rappresentazione unilaterale e quindi astratta e conseguentemente falsa della realtà: «Esso rispecchierebbe, nel migliore dei casi, quanto di meglio è stato detto del capitalismo finanziario e dell’imperialismo, ma non rispecchierebbe la realtà» (Rapporto sul programma del Partito).

Il nuovo programma riprende parte del vecchio programma del 1903, poiché il capitalismo del 1903 continua a vivere ancora nel 1919, ed il programma deve riflettere la totalità concreta «Teoricamente Bukarin lo capisce molto bene e dice che il programma deve essere concreto. Ma una cosa è capire e un’altra applicare nella pratica. La concretezza di Bukarin consiste nella descrizione libresca del capitale finanziario. In realtà noi osserviamo dei fenomeni di diverso genere... In nessun luogo del mondo il capitalismo monopolistico è esistito né esisterà mai senza che, in parecchi settori, sussista la libera concorrenza. Descrivere tale sistema significherebbe descrivere un sistema staccato dalla vita e falso. Se Marx diceva della manifattura che essa è una sovrastruttura della piccola produzione di massa, l’imperialismo e il capitalismo finanziario sono una sovrastruttura del vecchio capitalismo. Sostenere che esiste un imperialismo integrale senza il vecchio capitalismo, significa prendere i propri desideri per realtà». Più sopra Lenin aveva scritto: «L’imperialismo puro senza il fondamento del capitalismo non è mai esistito, non esiste in nessun luogo e non potrà mai esistere. Si è generalizzato in modo errato tutto ciò che è stato detto sui consorzi, i cartelli, i trust, il capitalismo finanziario, quando si è voluto presentare quest’ultimo come se esso non poggiasse affatto sulle basi del vecchio capitalismo. Ciò è falso».

Sarebbe una fortuna per il proletariato se esistesse l’imperialismo integrale. Tutto il sistema sarebbe sottomesso al solo capitale finanziario ed al proletariato vittorioso non resterebbe che sopprimere la cima e prendere il controllo dell’enorme base produttiva del capitalismo primario. Ma ciò è vano sogno: «L’imperialismo è una sovrastruttura del capitalismo. Quando crolla, ci si trova di fronte alla cima distrutta ed alla base economica messa a nudo. Ecco perché il nostro programma, se vuol essere veramente giusto, deve dire quello che è. C’è il vecchio capitalismo, che in diversi campi si è sviluppato fino all’imperialismo. Le sue tendenze sono esclusivamente imperialistiche. I problemi essenziali possono essere esaminati unicamente dal punto di vista dell’imperialismo. Nessun problema importante della politica interna ed estera può essere risolto altrimenti che dal punto di vista di queste tendenze. Non è di questo che parla oggi il programma. In realtà esiste l’immenso sottosuolo del vecchio capitalismo. Vi è una sovrastruttura, l’imperialismo, che ha condotto alla guerra».

Per Lenin il capitalismo è uno nei due tempi, primario e secondario. Il secondario non è mai esistito e non esisterà nella sua forma pura, integrale, per cui la libresca contrapposizione di Bukarin tra primario e secondario ed il suo sviluppo unilaterale ed autonomo del secondario non era solo un errore di fatto alla luce della realtà della Russia 1919, ma nasceva da errori di dottrina, di principio e di logica dialettica che Lenin elimina.

Più tardi quando nel suo scritto L’Imposta in natura Lenin analizzerà la struttura economica russa dopo la Rivoluzione e la guerra civile, metterà in evidenza che lo stesso capitalismo primario russo è estremamente minoritario rispetto alle altre forme di produzione della ricchezza. La cosa è tanto poco sorprendente in quanto i calcoli di Partito riportati in Vulcano della produzione e palude del mercato su dati del 1939 daranno come indice di purezza del capitalismo primario: Italia 33%; Francia 40%; Germania, Austria, Olanda, Svizzera e Belgio inferiori al 50%; USA (dati del ’26) 40/45%; URSS (dati del ’26) 8%, mentre solo Inghilterra e Scozia sfioreranno il 50%. «Dunque il paese tipo per le analisi marxiste non arriva a costituire una società capitalista che sia di forma pura per il 50%: è solo semicapitalista. Marx lo sapeva bene. Ed abbiamo riportato la citazione che la società borghese è condannata a portarsi dietro enormi ed informi masse di classe medie, agrarie e non agrarie, avanzi di tempi sorpassati». Quindi non solo sarà impossibile che la rivoluzione vittoriosa si trovi di fronte un imperialismo puro, ma lo è altrettanto che si trovi di fronte un capitalismo primario puro.

E’ tipico del menscevico e dell’opportunismo in genere far leva su quest’aspetto della realtà per giustificare la sua prassi controrivoluzionaria.


Eclettismo dialettico e opportunismo d’ultra sinistra

Indiscutibilmente in base a questa logica scolastica e formale, non potendo esistere in nessuna parte del mondo e in ogni tempo l’imperialismo puro e integrale, non solo l’Italia ma nessun paese del mondo potrebbe essere considerato come un paese imperialista a tutti gli effetti. Ma per la stessa logica, dai dati pubblicati su Vulcano... ne possiamo dedurre che nessun paese del mondo e d’ogni tempo può esserlo.

Lenin ne Lo Sviluppo del capitalismo in Russia mette in evidenza, contro i populisti, l’inarrestabile sviluppo del capitalismo russo, mentre ne L’imposta in natura mette in evidenza l’enorme retroterra precapitalista russo. E’ solo dal punto di vista della dialettica materialistica, che coglie l’oggetto nella totalità delle sue relazioni, che è possibile approssimarsi all’essenza delle questioni e formulare una teoria unitaria che possa abbracciare l’oggetto in tutto l’insieme delle relazioni e determinazioni, come unità del molteplice.

Ecco come Lenin ponendosi dal punto di vista della totalità concreta arriva alla caratterizzazione imperialista della prima guerra mondiale: «La dimostrazione del vero carattere sociale o, più esattamente classista della guerra, non è contenuta, naturalmente, nella storia diplomatica della medesima, ma nell’analisi della situazione oggettiva delle classi dominanti di tutti gli Stati che vi parteciparono. Per rappresentare la situazione oggettiva non vale citare esempi o addurre dati isolati: i fenomeni della vita sociale sono talmente complessi, che si può sempre mettere insieme un bel fascio d’esempi e di dati a sostegno di qualsivoglia tesi. E’ invece necessario prendere il complesso dei dati relativi alle basi della vita economica di tutti gli Stati belligeranti e di tutto il mondo» (Prefazione dell’edizione francese e tedesca de L’imperialismo). Poiché ogni fenomeno od oggetto presenta infinite determinazioni e legami non è difficile per l’opportunista scegliere quello che più fa comodo alla sua prassi controrivoluzionaria.

Lo stesso Lenin nel suo La guerra e la socialdemocrazia russa aveva scritto: «In realtà la borghesia tedesca ha intrapreso una campagna brigantesca contro la Serbia per soggiogarla e soffocare la rivoluzione nazionale degli slavi del sud». In base a questa determinazione della guerra il partito socialista serbo avrebbe dovuto appoggiare la propria borghesia contro la Germania, cosa che giustamente non ha fatto, né Lenin avrebbe certo voluto che facesse. Quella determinazione è unilaterale e quindi astratta e perciò non vera, per noi marxisti, pur essendo incontestabile. La verità è concreta proprio perché coglie tutte le determinazioni del fenomeno che risultano essere vere solo nella loro integrazione.

E per quanto riguarda la definizione dell’Imperialismo, Lenin, maestro di dialettica materialista e rivoluzionaria, fa ai famosi cinque contrassegni la seguente premessa sul contenuto gnoseologico delle definizioni: «Ma tutte le definizioni troppo concise sono bensì comode, come quelle che compendiano l’essenziale del fenomeno in questione, ma si dimostrano tuttavia insufficienti, quando da esse debbono dedursi i tratti più essenziali del fenomeno da definire. Quindi noi – senza tuttavia dimenticare il valore convenzionale e relativo di tutte le definizioni, che non possono mai abbracciare i molteplici rapporti, in ogni senso, del fenomeno in pieno sviluppo – dobbiamo dare una definizione dell’imperialismo che contenga i suoi cinque principali contrassegni».

Si può ora comprendere che l’unilateralità di Bukarin (“tutto è imperialismo”) e quella di alcuni pretesi teorici del marxismo di “sinistra” (“l’Italia non è imperialista a tutti gli effetti”). La falsificazione eclettica della dialettica, come scrive Lenin in Stato e Rivoluzione, appartiene alla metodologia dell’opportunismo che si vanta di tenere in considerazione tutti gli aspetti contro il dogmatismo dei marxisti ortodossi accusati d’unilateralismo. Ma l’analisi “totale” dell’eclettico opportunista è solo un mezzo per combattere la dialettica rivoluzionaria. L’eclettico sostituisce al lavoro per la comprensione teorica concreta dell’oggetto un infinito vagabondaggio da un’astrazione all’altra. Il passaggio per lui non è dall’astratto al concreto ma da un’astrazione all’altra, quindi alla negazione della verità che è essenzialmente concreta. La cosa in sé non è difficile, perché ogni oggetto, sia esso infinitamente piccolo o infinitamente grande, ha un’infinità di determinazioni e un’infinità di legami col mondo circostante.


Particolare e universale

Se il cammino dall’astratto al concreto è uno dei salti mortali della dialettica in cui è facile “rompersi il collo”, cioè cadere nell’eclettismo e nell’unilateralismo metafisico e da qui nel pantano opportunista e financo reazionario (come dice Lenin), un altro salto mortale al primo strettamente legato, la cui incomprensione porta a fondamentali errori di dottrina, principio e analisi storica, è costituito da un altro momento centrale della dialettica: l’universale come universale concreto in opposizione alle astrazioni universali dell’intelletto ed il rapporto dialettico tra universale e particolare, la loro compenetrazione dialettica.

Nei suoi estratti della Scienza della Logica di Hegel, Lenin definisce magnifica dal punto di vista della dialettica la formula con cui Hegel esprime il rapporto dell’universale col particolare: «Non soltanto un universale astratto, ma quell’universale che abbraccia in sé la ricchezza del particolare». Lenin annota accanto: «cfr. Il Capitale», e subito sotto aggiunge in un quadretto: «Una formula magnifica: “Non soltanto un universale astratto” ma un universale che abbraccia in sé le ricchezze del particolare; dell’individuale, del singolare (tutta la ricchezza del particolare e dell’individuale!)!! Très bien!».

Lenin approva la formulazione hegeliana in quanto Hegel non considera l’universale concreto come concetto che abbracci tutti i casi particolari, come intende la metafisica, ma come concetto che abbraccia in sé la ricchezza del particolare nelle sue concrete determinazioni.


Universale metafisico e universale dialettico

Il metafisico concepisce come universale solo il concetto che abbraccia ciò che i casi particolari hanno di comune, di eguale. Il suo universale è astratto perché astrae col pensiero il denominatore comune degli oggetti indagati. Il suo universale pur non essendo necessariamente falso, per esempio il concetto universale di sferico esprime effettivamente ciò che è comune sia alla palla da biliardo che all’intero pianeta Terra; proprio per la sua estrema astrattezza si ferma alla superficie delle cose. Il metafisico attraverso il suo concetto di universale astratto non esprime la ricchezza del particolare e del singolare ma attua l’operazione della “indifferenziazione”, in cui, come ricorda Hegel, tutte le vacche sono nere.

L’universale astratto metafisico lungi dall’esprimere la ricchezza del particolare, lo impoverisce riducendo il particolare concreto ad una pura determinazione astratta. Esso è privo di vita e pur essendo molto utile nella vita quotidiana e, fino ad un certo punto anche nella scienza elementare, non permette di andare molto in là nella comprensione della realtà oggettiva: «La maniera metafisica di vedere le cose, giustificata e perfino necessaria, in campi la cui estensione è più o meno vasta a seconda della natura dell’oggetto, tuttavia, ogni volta, urta prima o poi contro un limite, al di là del quale diventa unilaterale, limitata, astratta, e si avvolge in contraddizioni insolubili, giacché per le cose singole, dimentica il loro nesso, per il loro essere, dimentica il loro sorgere e tramontare, per il loro stato di quiete, dimentica il loro movimento, giacché, per vedere gli alberi, non vede la foresta» (Engels, Antidühring). Solo la teoria dialettica dell’universale concreto è capace di cogliere la realtà oggettiva nel suo divenire, realtà che non è fissata in identità metafisiche, ma è essenzialmente movimento.

La logica dialettica dell’universale presuppone la trasformazione del singolare nell’universale e viceversa, trasformazione che avviene costantemente in qualsiasi processo reale di sviluppo: «Dunque gli opposti (l’individuale è l’opposto dell’universale) sono identici: l’individuale non esiste altro che nel nesso che lo lega all’universale: l’universale esiste solo nell’individuale e tramite l’individuale. Ogni cosa individuale è (in un modo o nell’altro) universale. Ogni universale è (una particella o un aspetto, o l’essenza) dell’individuale» (Lenin, Quaderni filosofici).


Il metodo del Capitale

Marx ha ben presente ne Il Capitale questa dialettica profonda tra universale e particolare. Egli infatti scopre le determinazioni universali del valore mediante l’analisi del caso particolare della circolazione semplice delle merci: l’analisi di un caso particolare dà luogo a determinazioni non singolari ma universali. Il metafisico avrebbe cercato di ottenere le determinazioni universali del valore cercando ciò che la merce ha in comune col profitto, la rendita, etc., proprio perché considera il generale come irriducibilmente inconciliabile con il particolare, pervenendo ad un universale astratto incapace di esprimere la ricchezza di tutte le forme della produzione capitalistica.

Marx (vedi in particolare: Il metodo del Capitale e la sua struttura, in appendice ad Elementi di economia marxista) considera l’unico metodo scientificamente corretto di sviluppo logico quello del movimento dal semplice e dall’astratto al complesso e al concreto. Tale metodo va ricercato nell’analisi della struttura logica de Il Capitale. Proprio perché nel I e II Libro le determinazioni astratte sono state razionalmente stabilite, il processo d’insieme della produzione capitalistica, che è oggetto del III Libro, non appare più come un caos indifferenziato ma come una ricca totalità. Il testo si chiede: «Qual’è dunque la “determinazione astratta” dalla quale parte Marx e che gli permette di giungere ad una rappresentazione intellegibile della realtà empirica concreta? Questa determinazione – egli stesso vi insiste ripetutamente – è il capitale in generale» (Testo del Partito Comunista Internazionale n.3). Ora: «Ciò che distingue il capitale in generale da tutte le altre forme della ricchezza è il fatto di essere un valore creatore di plusvalore. Il punto di partenza di Marx implica quindi che egli cominci con il valore stesso».

Nel passaggio dal concetto di valore a quello di capitale in generale abbiamo un altro esempio del rovesciamento dell’universale in particolare, come mezzo di ascensione ad un universale che conserva la ricchezza del punto di partenza. In Hegel il cammino dall’astratto al concreto, dal particolare all’universale e viceversa è un movimento ascendente in cui ogni stadio contiene e conserva la ricchezza del precedente: «Così il conoscere avanza svolgendosi da contenuto a contenuto. Anzitutto questo procedere si determina nel senso che esso comincia da determinazioni semplici e che le successive divengono sempre più ricche e più concrete. Il risultato in effetti contiene il suo cominciamento, e dal corso di questo è arricchito da una nuova determinatezza. L’universale costituisce la base; il progresso non è perciò da prendere come un fluire da altro a altro. Nel metodo assoluto il concetto si mantiene nel suo essere altro, e così l’universale nella sua particolarizzazione, nel giudizio e nella realtà; ad ogni stadio di una ulteriore determinazione, esso solleva tutta la massa del suo contenuto precedente e col suo procedere dialettico non solo non perde nulla, né lascia nulla indietro, ma porta tutto l’acquisito con sé e si arricchisce e condensa in sé stesso” (Hegel). Il commento di Lenin a questo passo della Logica è: «Questo frammento riassume a suo modo molto bene quel che è la dialettica».


L’embrione Merce e l’adulto Capitale

Lenin nei Quaderni Filosofici spiega come l’analisi marxiana dello scambio mercantile porti alla luce tutte le contraddizioni della società capitalistica: «Marx ne Il Capitale analizza dapprima il rapporto più semplice, abituale, fondamentale, il rapporto più diffuso, più ricorrente, osservabile miliardi di volte, della società (mercantile) borghese: lo scambio delle merci. L’analisi scopre in questo fenomeno elementare (in quella “cellula” della società borghese) tutte le contraddizioni (rispettivamente l’embrione di tutte le contraddizioni) della società moderna (...) L’ulteriore esposizione ci mostra lo sviluppo (sia la crescita sia il movimento) di queste contraddizioni e di questa società nella (somma) delle singole parti, dal suo inizio sino alla sua fine».

Il risultato dell’analisi del rapporto più semplice della società capitalistica (lo scambio diretto tra merce e merce) è il concetto della forma semplice di valore. Tale concetto è un chiarissimo esempio di universale concreto che nella felice formula hegeliana applaudita con calore da Lenin abbraccia in sé la ricchezza del particolare. Questo concetto esprime nelle sue determinazioni il contenuto specifico concreto di una forma pienamente determinata di sviluppo dell’oggetto indagato, e precisamente quella che costituisce la base realmente universale, il fondamento da cui concresce tutta la ricchezza delle restanti forme.

Come dice Lenin, in questa forma, come in una cellula, si cela tutta la restante ricchezza delle forme più complesse e più sviluppate dei rapporti capitalistici. Ciò è possibile perché lo scambio mercantile è divenuto nel capitalismo il fondamento genetico universale di tutte le altre forme, perché solo nel capitalismo si è avuto lo sviluppo della forma merce a forma effettiva di dominio della società nella sua totalità.

Marx esprime lo stesso concetto di Lenin in una lettera ad Engels del 22 giugno ’67. «I signori economisti non hanno finora badato all’estrema semplicità del fatto, che la forma: 20 braccia di tela = 1 vestito è il fondamento non ancora sviluppato di 20 braccia di tela = 2 sterline, che dunque la più semplice forma della merce, in cui il suo valore non è ancora espresso come rapporto con tutte le altre merci, ma invece soltanto come distinzione dalla sua propria forma naturale, contiene tutto il segreto della forma denaro e con ciò in nuce, di tutte le forme borghesi del prodotto del lavoro».

La categoria del valore offre quindi la chiave della comprensione teorica di tutte le forme capitalistiche (essa abbraccia in sé la ricchezza del particolare, del singolare). Se fosse esaustiva la concezione metafisica dell’universale Marx avrebbe potuto fermarsi all’analisi della merce. Ciò non è avvenuto perché il concetto di valore non abbraccia in sé tutti i casi particolari (cioè tutte le forme sviluppate della produzione capitalistica), tant’è che Marx prosegue nel suo lavoro oltre l’analisi della merce.

Ne consegue che è rivendicazione comunista la distruzione del valore e della legge del valore, di cui tutti gli opportunisti chiedono una correzione in senso più o meno egualitario. Comunismo significa abolizione del Valore da cui segue la distruzione di tutti gli altisonanti valori (Libertà, Persona, Diritti dell’Uomo ecc. ecc.) di cui si gloria questa putrida società e che proprio nel vitello d’oro della forma generale del Valore-Denaro hanno il loro fondamento e piedistallo.

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Appunti per la Storia della Sinistra
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1947: IL P.C.I. SERVE DI PIÙ ALL’OPPOSIZIONE

Parte illustrata alla Riunione di partito di ottobre 1998
 

Il 27 giugno 1947, commentando l’estromissione dei socialcomunisti dal governo, “Battaglia Comunista” scriveva: «Per noi marxisti era pacifico che i partiti dell’opportunismo erano insostituibili strumenti nelle mani della borghesia, nella prima fase del dopoguerra, perché sole ed uniche forze capaci di impedire, con promesse e blandizie di vaste riforme, che la profondissima crisi di sfacelo generale provocata dalla guerra riaccendesse nel proletariato la sua volontà di lotta rivoluzionaria per la conquista del potere. Per noi era chiaro, chiarissimo che, ricostruita l’organizzazione politica, rimessi a punto i meccanismi dello Stato capitalistico e rimesse in moto le forze economiche controllate dalla borghesia muoventesi nell’ambito del grande complesso dell’imperialismo anglo-americano sarebbe giunto il momento di dare congedo a questi servi sciocchi e consegnare le leve del comando agli uomini che credono ed ubbidiscono agli imperativi del dollaro».

L’organo del nostro partito, con facile profezia, annunciava quale sarebbe stata, da allora in poi, l’azione propagandistica del nazionalcomunismo: «Senza dubbio essi si ricorderanno ora delle molte promesse fatte e non mantenute, al proletariato, saranno rispolverati e magari riverniciati di rosso più vivo vecchi programmi, si ritornerà ora a parlare di nazionalizzazione delle fabbriche, di lotta contro i monopoli, ecc. ecc. per galvanizzare intorno ad essi lo spirito delle masse. Si tenterà, in una parola, la colossale truffa politica di tenere ancora agganciate le masse manovrando su di un fittizio e polemico piano di classe con parole d’ordine di agitazione, di conquiste salariali e magari, in sordina, nella propaganda interna e spicciola di partito, con la fraseologia barricadera alla moda partigiana, ma con lo scopo reale di premere dal basso per utilizzare questa imponente forza d’urto per obiettivi elettoralistici e parlamentari e imbrigliarla così e stemperarla accortamente nel piano del compromesso» (“Battaglia Comunista”, n.12, giugno 1947).

I motivi che determinarono la rottura del governo di coalizione antifascista furono molteplici e non di poco conto, ma non concernevano le scelte ed i programmi governativi, tant’è vero che il IV governo De Gasperi rappresentò la naturale prosecuzione dei tre precedenti, e di quelli anteriori, sotto tutti i punti di vista.

Il 31 maggio De Gasperi presentò il suo nuovo governo, monocolore, all’Assemblea Costituente per il voto di fiducia. Con 274 voti contro 231 fu decretata la fine della coalizione antifascista.

Se Togliatti aveva reagito alla espulsione dal governo dei partiti di sinistra con la sua tipica moderazione e saggezza, altrettanto moderato e saggio si dimostrò De Gasperi presentando, il 9 giugno, il nuovo governo. Il suo discorso ufficiale fu volutamente privo di qualunque tono polemico. Specialmente nella parte economica esso confermava quasi per intero gli impegni presi dal precedente governo tripartito, facendo spesso ed espresso riferimento ai “14 punti” presentati dal socialista Morandi. Il discorso di De Gasperi indusse alcuni giornali a scrivere che quello del nuovo governo era «un programma di sinistra affidato, per l’esecuzione, a uomini di destra» (“La Nuova Stampa”, 12 giugno) ed il “Notiziario” della Confindustria espresse immediatamente la propria delusione per la “continuità” del programma del nuovo governo con quelli precedenti. La stessa “Unità” scrisse: «Ma allora perché ha fatto la crisi?» (10 giugno).

Luigi Einaudi, vice presidente del Consiglio e ministro del Bilancio, non aspettò molto a prendere, senza grande pubblicità e scalpore, una serie di provvedimenti amministrativi tesi al risanamento della situazione economica del paese. La prima iniziativa del nuovo governo fu l’abolizione del prezzo politico del pane. A questo primo aumento seguì quello del gas, delle tariffe postali, ferroviarie, ed elettriche.

Era questo il “programma di sinistra” che il IV governo De Gasperi avrebbe portato avanti? Se per programma di sinistra si intende quello che i socialcomunisti avevano presentato durante i precedenti gabinetti, la risposta non può che essere affermativa. L’ultimo atto di concordia della coalizione tripartita era stato l’approvazione del piano economico di emergenza, proposto dal socialista Rodolfo Morandi, ministro dell’Industria e del Commercio. Esso si articolava sui famosi “14 punti”.

Nei “14 punti” le misure che si sarebbero dovute adottare in difesa degli strati più deboli della popolazione (calmiere, tesseramento differenziato, ecc...) avevano un valore del tutto marginale e costituivano soltanto una espressione di intenti destinata a rimanere inattuata, rispetto ad altre misure concrete e di immediata applicazione, ispirate a criteri esattamente opposti. Il ministro socialista, nei punti 1, 2 e 3 prevedeva una riduzione delle spese di tutti i ministeri, soprattutto quello dei Lavori Pubblici, e l’ «eliminazione degli oneri che il Tesoro sopporta per effetto dei prezzi politici». Questo altro non significava che la definitiva rinuncia all’intervento statale nella lotta contro la disoccupazione ed un immediato aumento del prezzo del più essenziale dei beni di consumo: il pane. Un altro aspetto della politica economica del nuovo governo fu la lotta contro l’inflazione da attuarsi attraverso la stretta creditizia. Tra gli argomenti che Einaudi avanzava a difesa della sua politica restrittiva ci fu quello che l’inflazione, tra gli altri mali, portava ad un aumento dei salari operai: «Per giunta (...) con avvenimenti di scala mobile o altro, l’adeguamento dei salari alla svalutazione monetaria diventa immediato e talvolta in su l’inizio riesce perfino a migliorare il salario reale percepito dai lavoratori». (Dalla Relazione da lui firmata come governatore della Banca d’Italia, fine marzo 1947). E questo era un pericolo che la borghesia italiana non poteva correre!

Se Einaudi, governatore della Banca d’Italia o ministro che fosse, rivolgendosi al grande capitale parlava chiaro di contenere e di ridurre i salari degli operai, sulla stampa a larga diffusione si sbracava a difesa della misera gente, dimostrando di non avere nulla da invidiare alla retorica populista dei nazionalcomunisti. E sul “Corriere della Sera”, a sostegno della sua politica deflazionistica scriveva: «Chi paga l’aumento dei prezzi? Se tutti i prezzi, se tutti i salari, se tutti i redditi aumentassero nella stessa misura, sarebbe mera polvere negli occhi, sarebbe il solito manzoniano alzarsi in piedi di tutti i comizianti per vedere meglio l’oratore. Ma così non è. Vi sono intere vaste classi sociali le cui remunerazioni non aumentano, o non aumentano proporzionalmente all’aumento dei prezzi. Vi sono i contadini delle Puglie, i quali lavorano 150 giorni all’anno per salari lentissimi a muoversi. Vi sono i vecchi, le vedove, i bambini, i ragazzi i quali vivono del reddito fisso di risparmi passati e stanno lentamente morendo di fame (...) Vi sono i pensionati la cui pensione non segue subito le variazioni dei prezzi. Vi sono, tra gli operai e gli impiegati pubblici e privati, i padri di famiglia i quali con un solo stipendio debbono provvedere alla moglie e ai figli in età non lavorativa. Vi sono... Ma la lista è troppo lunga di coloro che sono andati o stanno andando a fondo nella atroce lotta sociale che è frutto della svalutazione monetaria» (“Il Nuovo Corriere della Sera”, 19 ottobre 1947).

L’efficacia della politica economica einaudiana ed i benefici che ne derivarono ai contadini delle Puglie, ai vecchi, alle vedove ai bambini, ai pensionati si possono immaginare anche soltanto prendendo in esame i dati della disoccupazione che aumentò in modo vertiginoso e che, secondo i dati ufficiali e quindi falsi, nel gennaio 1948 raggiunse 1.956.000 unità. Nel febbraio i disoccupati salirono a 2.132.000; a marzo fu raggiunta la quota di 2.252.000; ad aprile superarono i 2.390.000; a maggio arrivarono al numero di 2.500.000, e via di questo passo. Si viaggiava al ritmo di 100.000 (cifra ufficiale) disoccupati in più ogni mese che passava.


La Cgil e il “governativismo extragovernativo

Contemporaneamente alla cacciata dal governo dei due partiti della “democrazia progressiva”, si svolse a Firenze il Congresso nazionale della CGIL.

Nel precedente rapporto abbiamo visto come, anche a seguito di risposte emotive della classe operaia per l’estromissione dei socialcomunisti dal governo, il PCI riuscisse ad ottenere la maggioranza assoluta con un buon 55,8% dei consensi, seguiva il PSI di molto distaccato al 22,6% e la Democrazia Cristiana se ne stava relegata in un cantone con solo il 13,4%. Ma, al di là dei risultati ottenuti attraverso la mera conta dei voti, tutti e due gli schieramenti riportarono una piena vittoria. Il pericolo da tutti temuto era quello che la spaccatura avvenuta all’interno del governo si riflettesse anche dentro la Confederazione Generale del Lavoro. I congressisti riuniti a Firenze fugarono questa minaccia e, ancora una volta, venne sancita la collaborazione fraterna fra i due organismi apparentemente contrapposti: il governo ed il sindacato.

A questo scopo Di Vittorio abbondò in dichiarazioni ufficiali di rinuncia alla lotta di classe, definita concetto ormai superato, rivendicando tutti i suoi meriti nazionali, proclamando come il suo partito si era fatto carico di compiti governativi anche se ormai fuori dal governo. A questo proposito venne coniata l’espressione: “governativismo extragovernativo”. Da parte sua Pastore, il rappresentante della corrente democristiana, diede sfogo ad un radicalismo sinistreggiante che i togliattiani non avrebbero mai osato pronunciare.

«Questo è il monito – scriveva “Battaglia Comunista” – che scaturisce dal Congresso Confederale di Firenze, da questo torneo oratorio che ha rifatto “più unita e compatta che mai” la CGIL solo per prolungare nel tempo e rafforzare – nell’accordo di tutte le correnti politiche borghesi – la funzione di cane da guardia ringhioso implacabile del proletariato, di strumento di difesa dello Stato capitalista contro i sussulti della lotta di classe. Gli operai che hanno visto con una certa perplessità trescare e danzare al suono della “unità operaia” uomini e partiti che si azzuffano nell’emiciclo di Montecitorio non tarderanno a comprendere sotto la terribile lezione dei fatti il senso generale di questo avvenimento». (“Battaglia Comunista”, n.13, giugno 1947).

Pochi giorni dopo, alla Costituente, De Gasperi ringraziava i nemici/collaboratori con queste parole: «Il governo riconosce i meriti della Confederazione Generale del lavoro che, controllando i movimenti inconsulti o magari ragionevoli, ma spontanei, ha collaborato al rafforzamento della democrazia». Così, in nome della «unità operaia», che il governo «vuole e riconosce» – altra affermazione di De Gasperi – Di Vittorio si era conquistato gli allori di salvatore della Patria.

Al Congresso Confederale di Firenze partecipò anche una rappresentanza sindacale del nostro partito che presentò una propria mozione totalmente incentrata sulla necessità dell’organizzazione e della lotta di classe e di denuncia alla politica collaboratrice ufficiale. La mozione si chiudeva con la seguente parola d’ordine: «Per il sindacato di classe, organo di battaglia del proletariato, contro il sindacato-prigione, feudo dei partiti di governo e riserva strategica dell’imperialismo» (“Battaglia Comunista”, n.4/1947)


Nostro intervento al Congresso della Cgil

I nostri compagni fecero precedere la lettura della mozione da una dichiarazione nella quale si precisava che la esigua rappresentanza della frazione sindacale di sinistra era dovuta, anche, a tutti gli ostacoli che la burocrazia sindacale aveva frapposto ai nostri compagni: opponendosi alla presentazione delle nostre mozioni nei congressi provinciali, impedendo l’elezione dei comunisti internazionalisti e utilizzando vari altri sistemi che la democrazia progressiva aveva mutuato dal miglior repertorio dell’ex regime fascista. Questa precisazione non veniva fatta per piagnucolare sulla lesa democrazia e libertà di espressione, ma per precisare che, quale che fosse stato il numero dei comunisti internazionalisti presunti al congresso, od anche se nessuno di essi vi avesse potuto metter piede, ciò non avrebbe certamente rispecchiato il reale rapporto di forze esistente tra la politica di aperta collaborazione di classe e quella espressa dalla corrente sindacale comunista rivoluzionaria.

«Questi rapporti di forza – proclamavano i nostri compagni – si misurano non col metro dei risultati numerici delle votazioni, ma con l’influenza politica esercitata sugli operai sindacati e con la capacità di dirigere le manifestazioni delle lotte di classe quando queste esplodono. Ora, contro la politica di pacificazione sociale propugnata costantemente dagli organi direttivi sindacali, non poche sono le agitazioni che sono scoppiate sotto lo stimolo della nostra propaganda per il raggiungimento di obiettivi parziali e che da noi sono state dirette fino alla loro conclusione. E valga il vero. A Casale Monferrato gli operai e le operaie della Manifattura, che è quanto dire la massima industria locale, seguono compatti la loro commissione interna che è comunista internazionalista, impostano dimostrazioni per l’assunzione di operai disoccupati, sconfessano i dirigenti sindacali quando questi intervengono a soffocare il movimento, e realizzano attraverso la lotta gli obiettivi indicati. Le maestranze della Breda di Sesto S. Giovanni possono aver dato, sotto lo stimolo di una propaganda demagogica, una stragrande maggioranza di voti alla “mozione di unità sindacale”, forse anche per la suggestione che il titolo esercita, ma di fatto le loro agitazioni e le loro lotte le combattono sotto la guida della Frazione sindacale Comunista Internazionalista, come lo dimostra l’ultimo sciopero vittorioso per la gratifica pasquale, iniziato e portato a termine contro il parere della commissione interna e dei dirigenti della FIOM. Lo stesso dicasi per le Acciaierie Falck, dove la nostra mozione ha riportato qualche centinaio di voti su circa 3.000 operai, mentre sul terreno della lotta la nostra forza reale è pari alla totalità di quella massa di organizzati. Quando questi sono premuti da bisogni immediati e, nel loro impulso a soddisfarli, urtano contro l’opportunismo della Commissione Interna o del sindacato, la loro lotta trova il suo stimolo e la sua guida nel gruppo comunista internazionalista. Lo dimostra l’ultimo sciopero verificatosi in quello stabilimento. Una questione da lunghi mesi rimasta insoluta e che manteneva in agitazione gli operai, quella del lavoro domenicale di 60 operai comandati a turno ai forni, era stata più volte portata dagli operai di fronte alla ditta e di fronte al sindacato. Ma Falck aveva sempre trovato nel segretario della Camera del Lavoro di Sesto un suo difensore. Alla fine gli operai del turno domenicale non si presentarono al lavoro e per questo furono immediatamente licenziati. L’intervento della nostra Frazione fu immediato con la precisa parola d’ordine dello sciopero di solidarietà con i compagni colpiti da licenziamento. E poco importò che il segretario della Camera del Lavoro intervenisse per gridare ai provocatori ed ai fascisti, intendendo con ciò alludere ai nostri compagni, poiché la massa organizzata lo scacciò dal reparto e proseguì nello sciopero, i risultati del quale si sono concretati nella riammissione al lavoro dei 60 lavoratori colpiti, nell’abolizione del lavoro domenicale o, se questo deve rimanere per ragioni tecniche, nell’assunzione di nuovo personale fra la larga massa dei disoccupati. Potremmo dilungarci in simili documentazioni, se queste non bastassero di per sé a dimostrare che la Frazione Sindacale Comunista Internazionalista avrebbe potuto essere burocraticamente anche totalmente esclusa da questo Congresso, ma assente non è nel corso della lotta di classe e nel travagliato riapparire del proletariato come classe chiamata non a riformare, ma ad abbattere il regime dello sfruttamento del lavoro. In un periodo che si svolge sotto la bandiera antiproletaria della tregua salariale e della collaborazione fra le classi, noi abbiamo il diritto e l’orgoglio di affermare che quanto vi è in attivo nei bilanci delle lotte di classe in Italia è dovuto alla nostra attività politica e organizzativa in seno alle masse organizzate e che protagonisti ed artefici di questa sono diverse migliaia di proletari che lottano, che trovano in noi la loro guida e in nome dei quali presentiamo la presente mozione».

Quale sia stato il risultato ottenuto nella votazione dalla nostra mozione non lo sappiamo, né sappiamo se sia stata messa ai voti. Ma la Frazione sindacale comunista internazionalista ottenne ugualmente dal Congresso un grandissimo risultato e cioè il riconoscimento di essere l’unica formazione che propugnava la lotta di classe come metodo di azione e la dimostrazione che, al di là dei finti scontri ideologici, i vari partiti democratici rappresentavano un unico blocco antiproletario, concordi nel soffocare l’unica voce di classe, perfino all’interno di un congresso dove i risultati erano già scontati in partenza. La dimostrazione si ebbe, se ce ne fosse stato ancora bisogno, quando «Di Vittorio, coll’appoggio di tutti i suoi collaboratori di qualsiasi corrente politica – socialisti, azionisti o democristiani – si oppose a che i delegasti della frazione sindacale comunista internazionalista, i rappresentanti cioè di una mozione regolarmente presentata al Congresso e rappresentanti soprattutto di migliaia di lavoratori organizzati e delle loro reali battaglie sul piano della lotta di classe, parlassero, sostenendo che non esprimevano una corrente politica costruttiva» (“Battaglia Comunista”, n.13, giugno 1947). Forse questa è stata l’unica volta in cui Di Vittorio ha detto la verità!

Non si può che restare sbalorditi nel constatare quale influenza, di fatto, il partito comunista internazionalista avesse sulle masse operaie. E questo spiega la necessità per il partito opportunista di abbandonare le responsabilità di governo, di camuffare la sua politica governativa e filopadronale stando all’opposizione, perché la classe operaia non riuscisse a collegarsi con il suo partito di classe. Il risultato di questa politica la possiamo amaramente constatare oggi.


Abbaia la "destra", per accreditare il P.C.I. fra gli operai

Con questo non vogliamo dire che partiti di sinistra e il sindacato, dall’opposizione, conducessero una politica più intransigente di quella già portata avanti come forze di governo. A parte qualche accento appena un po’ più arrogante nei confronti degli uomini di governo e della Democrazia Cristiana, non c’era stato nemmeno un minimo sintomo che potesse far supporre una sterzata a sinistra: altro che ricorso alle armi e rivoluzione paventata ad arte dai giornali borghesi! Altro che piani segreti insurrezionali scovati dalla polizia!

La rinnovata fiducia accordata dalle masse proletarie al partito della controrivoluzione staliniana non fu dovuta a ciò che il PCI faceva, bensì a quello che la borghesia diceva che facesse e che preparasse. Il proletariato credette alla propaganda della “destra”, perché tale propaganda lasciava intendere che Togliatti e soci facessero gli interessi dei lavoratori, che le loro dichiarazioni di fedeltà alla patria, alla collaborazione di classe ed alla economia nazionale fossero solo dei trucchi per abbattere il regime capitalista. Ma questa non era affatto la politica del PCI.

Togliatti alla Costituente rivendicava al suo partito il merito di avere raccolto «i dispersi attorno alle bandiere della Patria che dovevano essere difese e liberate»; di avere fatto capire agli operai che «l’aver salvato le fabbriche non li autorizzava a porre il problema di una trasformazione socialista della società». Togliatti continuava dicendo che se l’on. Cappi affermava che «i ceti capitalistici hanno diritto di vivere e di contribuire alla ricostruzione del Paese (...) la stessa posizione l’abbiamo sostenuta noi, l’ha sostenuta il partito socialista, l’ha sostenuta la CGIL (...) Per la ricostruzione del nostro Paese sono necessarie queste forze (cioè quelle padronali - n.d.r.) ed infinite volte abbiamo detto: collaboriamo, e abbiamo teso la mano a queste forze (...) Gli operai hanno fatto di più: hanno moderato il movimento, l’hanno contenuto nei limiti in cui era necessario contenerlo, per non turbare l’opera della ricostruzione. Hanno accettato la tregua salariale, cioè una sospensione degli aumenti salariali, e senza che vi fosse la corrispondente sospensione degli aumenti dei prezzi». Nulla si poteva quindi rimproverare agli operai... guidati dal PCI. Ed a Napoli Togliatti ribadiva che, malgrado tutto, il PCI avrebbe continuato a «conservare la sua fisionomia nei tre aspetti che lo caratterizzano. Esso continuerà cioè ad essere il partito della ricostruzione, il partito dell’unità nazionale, il partito della libertà e dell’indipendenza del paese». Sempre Togliatti, nel settembre, all’interno della congrega di Montecitorio dichiarava: «abbiamo offerto un contratto, un contratto di lavoro che fissa un massimo di salario anziché un minimo, e ciò nell’interesse della società nazionale, nell’interesse della ricostruzione». Il portaborse Nenni gli faceva eco: «Qualcuno ci ha chiesto se siamo disposti a reclamare una disciplina del lavoro anche accompagnata da misure coercitive concernenti gli orari e l’impiego della mano d’opera. Rispondiamo di sì, ma ciò comporta una contropartita. Voi avrete il diritto di reclamare maggiori sacrifici dalla classe operaia quando avrete dimostrato di voler elevarla ad una più alta funzione nella nuova civiltà del lavoro». Come programma di opposizione non c’era proprio male!

Nelle manifestazioni sindacali venivano portati manifesti con De Gasperi impiccato in effigie, ma il leader trentino sapeva bene che quelli della CGIL scherzavano e non se ne preoccupava più di tanto. Il democristiano Pastore, in una intervista del 25 agosto ’47, sdrammatizzava le paure e rincuorava i borghesi dicendo: «È consuetudine del linguaggio di Di Vittorio dar l’impressione di un qualche cosa di più di quello che in effetti si vuol dire, o si minaccia. Perciò niente scioperi...». Se ce ne fosse stato bisogno, a tranquillizzare gli animi ci pensava Togliatti che, a Padova, il 13 luglio, non mancava di porgere alla Democrazia Cristiana il suo ramoscello d’ulivo affermando: «Sarebbe utile che oggi in Italia, nell’attuale momento internazionale e nazionale, politico ed economico, la lotta politica diventasse lotta esacerbata fra comunisti e movimento democristiano?». Certamente che non era utile, anche perché tutti e due gli schieramenti lavoravano per i medesimi obiettivi. Nel giugno, a Bergamo, rivolto agli industriali, De Gasperi affermava: «Gli industriali e gli agrari dovranno essere più ragionevoli e comprendere che l’industriale e l’operaio, i proprietari e i contadini, hanno una necessità di comune solidarietà di cui bisogna tenere conto». Gli undici contadini ammazzati e i più di cinquanta feriti in Sicilia impregnavano con il loro sangue la piana di Portella delle Ginestre a suggello della democratica e progressiva solidarietà di classe.

Questo non significava che, spezzata la trinità governativa, la CGIL, in alcune lotte isolate, non prendesse essa stessa la direzione, ed in qualche caso anche l’iniziativa delle agitazioni operaie e degli scioperi, facendo la faccia cattiva. Ma lo faceva per riguadagnare quel terreno elettorale che i partiti di sinistra avevano perduto in concorrenza con il partito papalino rimasto solo al timone dello Stato, ed alla greppia governativa; lo faceva per non perdere il controllo delle masse che la fame e la tracotanza padronale spingevano ad agitarsi; lo faceva per sfruttare l’istintivo spirito di rivolta e limitarne l’azione nel terreno di una opposizione legalitaria al governo e per adoperarlo, quale massa di manovra, in quella più vasta lotta che si giocava a livello internazionale fra i due blocchi imperialistici che si contendevano il mondo.


Commissioni Interne, vera polizia di fabbrica

Immediatamente dopo il Congresso Confederale di Firenze, tra padroni e sindacati si addivenne alla felice conclusione delle trattative per la definizione dei compiti e del ruolo delle Commissioni Interne. Tutti i giornali, dall’estrema destra alla sinistra, salutarono con gioia il risultato degli accordi grazie alla «reciproca comprensione delle due parti».

In parole povere la Commissione Interna assunse il ruolo di polizia di fabbrica, anche se, con perfida raffinatezza, tale compito venne camuffato come una limitazione del potere dei padroni. Dalla firma dell’accordo in poi l’industriale non avrebbe più potuto procedere a licenziamenti individuali o collettivi senza avere prima consultato la commissione interna ed avere, assieme ad essa, cercato di evitarli «senza però aggravare la produzione di un peso passivo». È chiaro che per i padroni non sarebbe stato certamente difficile dimostrare il peso passivo per la produzione dovuta alla permanenza di un “esubero” di operai all’interno della azienda. Ma in un altro punto dell’accordo veniva tolto ogni velo dimostrando la funzione di cane da guardia del padrone che i sindacati avevano assunto ed era il punto nel quale veniva detto che non sarebbe più stato il padrone a richiamare l’operaio accusato di scarso rendimento a produrre di più, ma questo compito veniva demandato alla commissione interna.

Solo due esempi saranno sufficienti per dimostrare quale fosse il ruolo svolto dai sindacati all’interno delle fabbriche: E, si badi bene, questi due fatti sono anteriori alla firma del famigerato accordo; si può quindi dire che l’accordo in questione servì solo a sanzionare giuridicamente quella che era prassi consolidata.

Al Sud – Vibo Marina (Catanzaro). La Camera del Lavoro non si oppone ai licenziamenti, non si limita a proporre quali operai dovranno essere licenziati ma, superando ogni limite, procede direttamente a minacciare di licenziamento, in una funzione reazionaria che nemmeno i sindacati fascisti si erano mai assunta. I 50 operai colpiti dal provvedimento indirizzarono questa lettera alla Camera del Lavoro: «Segreteria Camera del Lavoro - Città - Siamo un numeroso gruppo di operai della “Calci e Cementi” minacciati seriamente di licenziamento per l’intransigenza della locale Camera del Lavoro che, invece di tutelare i nostri diritti ed affratellarci, ci toglie, con il futile pretesto di contadini d’origine, il diritto al lavoro. Abbiamo sempre avuto infinita fiducia nella Camera del lavoro, e nei partiti di maggioranza che la rappresentano; infatti, siamo quasi tutti membri dei due partiti spiccatamente progressisti; ma, è ingiusto, è inumano, è antidemocratico che sol perché nei registri anagrafici risultiamo contadini d’origine, ma manovali di professione, dobbiamo rinunciare al lavoro e al pane. È un arbitrio. La gran maggioranza di noi licenziandi siamo reduci, abbiamo già lavorato negli stabilimenti in costruzione circa 10 anni fa, tutti siamo ultra proletari, nessuno ha un palmo, dicesi un palmo, di terreno (al riguardo si può fare un’inchiesta). I provvedimenti adottati dalla locale Camera del Lavoro offendono la nostra dignità di lavoratori e di compagni, offendono la giustizia vulnerando i principi fondamentali del diritto e della coscienza umana. Pertanto chiediamo la revoca immediata dei provvedimenti presi. Questo voto non può rimanere senza risposta. I lavoratori attendono - Vibo Marina, 24 aprile 1947.

Al Nord – Milano. Alla Caproni un reparto entra in sciopero per rivendicazioni salariali e chiede la solidarietà degli altri reparti. Interviene la Commissione interna che stronca lo sciopero e licenzia dodici operai accusati di essere “responsabili” dei disordini. Due di questi, però, vennero successivamente riassunti perché iscritti al partito togliattiano. Prima considerazione: secondo i ducetti sindacali nazionalcomunisti non sono i salari da fame percepiti dagli operai i responsabili degli scioperi, ma i “provocatori”. Mentre i fascisti spedivano al confino gli operai combattivi, i post-fascisti li gettano sulla strada e, con la disoccupazione dilagante, condannano alla disperazione loro e le loro famiglie. Seconda considerazione: in democrazia per poter lavorare ci vuole la tessera proprio come sotto il ventennio fascista (e dopo aver letto la lettera degli operai di Vibo Marina si capisce che non basta!). Tra i dieci “provocatori fascisti” licenziati vi era anche un nostro compagno il quale, recatosi alla commissione interna per sapere i motivi del suo licenziamento si sentì rispondere: «Se non te ne vai subito, ti rompiamo il muso». Terza considerazione: Le squadracce fasciste non avrebbero fatto di peggio.

L’atteggiamento degli scagnozzi togliattiani può darci una pallida idea di quali siano state le condizioni di vita e di lavoro dei proletari che avevano la sfortuna di vivere nel “paese del Socialismo” o in quelli delle “democrazie popolari”.

Ma se i sindacati si astenevano dall’occuparsi dei problemi materiali della classe operaia, non per questo si deve pensare che si astenessero dalla cura dello spirito. La commissione interna della SPA di Torino, nel suo comunicato n.180, informava le maestranze che nella parrocchia di S.Teresina del Bambin Gesù il reverendo Don Pollarolo avrebbe loro parlato «in preparazione della Santa Pasqua che si farà nella chiesa stessa il giorno 6 maggio» (1947). E così, grazie alla sollecita cura della commissione interna, l’ingresso in Paradiso per gli operai (o almeno per quelli della SPA di Torino) veniva garantito.

Il 5 luglio “l’Unità” riportava un articolo di Teresa Noce, esponente di primissimo piano del PCI e segretaria generale della FIOT; in questo articolo la compagna sindacalista denunciava il mancato rispetto e la violazione delle clausole dell’accordo di tregua salariale da parte degli industriali. Detto questo ci si aspetterebbe che la sindacalista fosse partita per mobilitare gli operai organizzati in difesa dei loro diritti e contro i padroni sfruttatori. Niente di tutto questo perché la politica della Confederazione del Lavoro, a schiacciante maggioranza socialcomunista, non era quella di appellarsi al proletariato, bensì ai capitalisti. Così la protagonista di tante battaglie (così almeno ce l’ha sempre presentata la storiografia opportunista) si inginocchiava davanti all’altare della collaborazione di classe e pregava: «Fate onore alla vostra firma signori industriali, così come la Confederazione Generale Italiana del Lavoro farà onore alla sua».

Verso lo scadere dell’anno venne lanciata la parola d’ordine dei Consigli di Gestione, una ennesima spacconata per far dimenticare, almeno in parte, ai proletari la scottatura dei licenziamenti. Non importa che ripetiamo la dimostrazione, vecchia quanto la storia del comunismo, che la rivendicazione dei Consigli di Gestione è illusoria perché in regime capitalistico l’operaio non controllerà mai nulla, è controrivoluzionaria perché cerca di conciliare gli interessi dell’operaio con quelli del suo sfruttatore invece che addestrarlo alla coscienza ed alla lotta di classe. Non importa che lo ripetiamo noi perché furono gli stessi capi dei partiti opportunisti a dichiararlo per non allarmare troppo i suscettibili padroni. Bastò che il signor Costa, duce della Confindustria, storcesse il naso di fronte ai cartelli inneggianti ai Consigli perché l’ “Avanti!” si affrettasse a moderare e ridimensionare il suo massimalismo parolaio: «I Consigli di Gestione (...) non sono lo strumento di sovvertimento delle industrie denunciato dal dott. Costa, ma preparano una ulteriore evoluzione dei rapporti di classe e di produzione; tendono a conferire al lavoro nell’azienda una posizione che non sarà ancora di parità con il capitale, ma che per lo meno garantirà il principio del controllo già introdotto nella legislazione fin dal 1920». Dunque i CdG non solo non avrebbero abbattuto il capitale, ma neppure avrebbero reso il lavoro alla pari del capitale ed i socialcomunisti 1947 ne rivendicavano la filiazione da quel controllo di giolittiana memoria che venne sancito a truffaldina liquidazione della occupazione delle fabbriche. Tale era la spudoratezza degli opportunisti che nelle piazze presentavano i CdG come “strumento rivoluzionario”, mentre sui giornali come modesto strumento di legale “evoluzione” del capitalismo, rammaricandosi solo del fatto che «la ormai lunga discussione sui consigli di gestione non abbia convinto il dott. Costa». Per inciso vogliamo ricrdare anche che i Cosigli di Gestione, nel primo dopoguerra, furono il cavallo di battaglia della socialdemocrazia tedesca, quella stessa che assassinò Carlo Liebknecht e Rosa Luxemburg.


Come si mantiene l’ordine capitalista

Per fare un quadro più completo della condizione della classe operaia non possiamo dimenticare la tragedia nella tragedia costituita dagli operai costretti alla emigrazione e come la democrazia, quando si tratta di bastonare gli operai, sappia applicare le sue leggi con il massimo del rigore. In un precedente rapporto abbiamo accennato ai contratti collettivi per l’espatrio di manodopera stipulati tra il governo italiano, con partecipazione socialcomunista, e quelli di Francia e Belgio. Lo stesso De Gasperi ammise che in questa vendita di carne umana, in cambio di carbone ed altre materie prime o prodotti necessari alla patria, non erano stati rispettate nemmeno le minime garanzie che solitamente vengono accordate al proletariato migrante. Un gran numero di questi lavoratori, partiti con il miraggio del pane assicurato e con la prospettiva di inviare qualche risparmio alla famiglia, era rientrato clandestinamente violando le norme che li legavano a massacranti lavori per un determinato periodo, come se fossero stati degli schiavi. Le democratiche guardie di confine ne impedivano il rientro provvedendo ad arrestare tutti quei proletari che tentavano di sfuggire alla morsa di uno sfruttamento che era, in tutti i suoi aspetti, peggiore e più duro di quello subito in patria.

Sempre sul finire dell’anno la Democrazia Cristiana tenne a Napoli il suo congresso, non vi fu mozione finale perché non ve ne era bisogno, in quanto tutte le componenti del partito altro non fecero che innalzare inni alla “Libertà”, da difendere con qualunque mezzo contro chiunque l’avesse minacciata. Il congresso si concluse, come di dovere, quando si parla di libertà in regime capitalistico, con il discorso del ministro degli Interni dal quale dipende la polizia. Questi, come se le fucilate democratiche sparate contro operai e contadini avessero lasciato dei dubbi, dichiarò di essere pronto ad usare il pugno di ferro per affermare il sovrano potere della legge. Le sinistre avevano sempre rimproverato al governo democristiano la carenza dello Stato, ebbene Scelba affermò che lo Stato esisteva ed era vivo e vitale (difatti appena tornato a Roma aumentò di 10 mila unità l’organico dei carabinieri); le Sinistra chiedevano alle forze dell’ordine la difesa della Repubblica, Scelba aveva già dato prova della sua intenzione di difenderla.

In una certa occasione Scelba aveva affermato che «lo Stato ha il diritto di mantenere l’ordine e di tollerare tutte le libertà... anche quella di non scioperare». Giusto, rispondevano i socialcomunisti, e chi meglio di noi potrebbe svolgere questa funzione? «De Gasperi parla come un profeta antico – scriveva Nenni – ma sa che il miglior ambasciatore a Cerignola non è il suo ministro di polizia anche se scortato da carri d’assalto, ma è l’on. Di Vittorio, così come i migliori ambasciatori alla Fiat e alla Breda non sono i ministri democristiani ma gli organizzatori sindacali da De Gasperi trattati come sobillatori» (“Avanti!”, 19 novembre 1949). Infatti i metodi polizieschi della CGIL erano più efficaci di quelli della polizia stessa e sarebbe stata ben sciocca la borghesia italiana a non mettere un demo-progressivo a capo del ministero degli Interni se altre cause di carattere internazionale e sociale non lo avessero impedito. A parte il fatto che il benemerito ricostruttore di quella polizia che sparava sui dimostranti, era stato il socialista Romita e che sotto la sua direzione non si era mai esitato a far fuoco contro lavoratori in sciopero o contadini che occupavano le terre, né a Roma, né in Puglia, e il nazionalcomunista Scoccimarro stringeva la mano ai carabinieri per avere svolto con coscienza i loro servigi.

Intanto il PCI preparava la sua campagna di tesseramento per il 1948. L’imperativo categorico per il partito di Togliatti era quello di diventare un grande partito di massa e visto che le masse erano povere il PCI andava incontro alle loro necessità. Così la Direzione, in un suo comunicato, annunciava la riduzione del prezzo della tessera del partito per i nuovi iscritti. “Battaglia Comunista” ironizzava: «Non ci stupiamo: la tessera di un partito di collaborazione governativa e parlamentare si svende come la merce avariata di un magazzino in liquidazione» (17 settembre 1947).
 

(Continua al numero 47   [ nn. 42 - 43 - 44 - 45 - 46 - 47 - 49 - 50 ] )

 
 
 
 
 
 
 
 
 



Dall’Archivio della Sinistra

“Neutralismo e Pacifismo Armi della Guerra” è il titolo di uno dei tre testi che ripubblichiamo su questo numero. Abbiamo scelto questi scritti, apparsi sulla stampa di partito tra l’ottobre 1948 ed il gennaio 1949, perché oggi, come allora, l’opportunismo semina tra il proletariato la nefasta dottrina della smobilitazione di classe, della unione sacra interclassista, dell’indipendenza e degli interessi nazionali. Che questi postulati vengano camuffati sotto la imbelle mascheratura del pacifismo cristianuccio o volti contro l’imperialismo americano in nome dei sacri destini della patria poco importa. Quello che appare immediatamente evidente è che sono gli stessi argomenti che vengono usati ed abusati dal più smaccato militarismo e che negano nel modo più assoluto la lotta di classe, gli interessi storicamente inconciliabili tra lavoratori e borghesia, la fraternizzazione internazionale del proletariato, l’urgere della rivoluzione sociale.

I primi due articoli, pubblicati nel settimanale “Battaglia Comunista”, prendevano spunto da un documento del Partito Socialista Italiano (allora al servizio del PCI, ma pronto a cambiare bandiera appena se ne fosse presentata l’occasione) che invocava dallo Stato capitalista pace, neutralità ed indipendenza nazionale. Confutare queste argomentazioni, mettere in evidenza la malafede dei “compagni” socialisti ed il ridicolo delle loro richieste formulate ad uno Stato capitalista, a sua volta suddito dell’imperialismo mondiale, non era difficile. Quello che per noi è importante, però, è notare come gli attuali eredi-abiuratori della nefasta dottrina stalinista siano ad un livello ancora più basso e miserevole di quanto non lo fossero i socialisti nenniani del 1948. È pur vero che allora era solo la necessità di camuffare il loro tradimento che, di tanto in tanto, faceva uscire dalla bocca di Nenni (non da quella di Togliatti) espressioni ad effetto del tipo di “guerra alla guerra”. Ma gli odierni Bertinotti, non hanno nemmeno il coraggio di “dirla grossa” per paura di buscare lo scappellotto dal padre-padrone, il capitalismo italiano (e non solo quello), dimostrando così come la “erre” sia la cosa meno moscia che tengono.

Il terzo scritto, pubblicato su “Prometeo”, alla luce della dottrina e della dialettica marxista demolisce pezzo per pezzo tutta l’impalcatura della mistificazione pacifista, sia essa stalinista, piccolo-borghese o trotskista (anche se quest’ultima non viene esplicitamente chiamata per nome). Non si tratta quindi di un semplice articolo o studio sull’argomento, ma di un essenziale caposaldo della nostra dottrina che mantiene pure oggi tutta la sua validità, anche dopo il crollo del famigerato “muro”.

A dimostrazione, ancora una volta, di come la nostra corrente sia stata sempre perfettamente intonata alla più genuina tradizione del marxismo rivoluzionario, vogliamo rileggere assieme una citazione di Lenin: «Non si lotta contro la guerra imperialistica con invocazioni alla pace come fanno i pacifisti. Uno dei modi adusi ad ingannare la classe lavoratrice è il predicare il pacifismo e l’astratta invocazione della pace. Sotto il capitalismo, e specialmente nel suo stadio imperialistico, le guerre sono inevitabili. La pace conclusa dagli imperialisti non è che una momentanea tregua prima di una nuova guerra. Solo una lotta rivoluzionaria di massa contro la guerra e l’imperialismo da essa generato può assicurare la vera pace. Senza una serie di rivoluzioni la cosiddetta pace democratica è una grossolana utopica ipocrisia».

Ed una di Trotski: «L’imperialismo maschera i suoi scopi rapaci, il desiderio di impadronirsi delle colonie, dei mercati, delle fonti di materie prime, delle sfere di influenza dietro il pretesto di “proteggere la pace dagli aggressori”, della “difesa della patria”, della “difesa della democrazia” e simili. Queste idee sono false fino al midollo». «La questione se sia stato un gruppo o l’altro a sferrare l’attacco militare o a dichiarare la guerra – scriveva Lenin nel marzo1915 – non ha significato alcuno per determinare la tattica dei Socialisti. Le espressioni “difesa della patria” o “resistenza al nemico”, oppure “guerra di difesa” e simili non sono che mistificazioni delle due parti. Quanto al proletariato, il significato oggettivo, storico, della guerra è l’unica cosa a cui deve badare: quale classe la desidera e per quale scopo? Egualmente falsi sono i riferimenti degli imperialisti agli interessi della democrazia e della cultura. Se la guerra vien fatta da ambo le parti non per difendere la patria, la democrazia e la cultura, ma per la spartizione del mondo e per la schiavitù coloniale, nessun socialista ha il diritto di preferire un campo imperialistico all’altro. Sacrificare nel nome di questo “male minore” l’indipendenza politica del proletariato significa tradire l’avvenire dell’umanità».
 
 
 
 


Da: "Battaglia Comunista" - n. 34 - 6/13 ottobre 1948.
NEUTRALISMO, PACIFISMO ARMI DELLA GUERRA

Anche il PSI ha sentito il bisogno di prendere posizione di fronte al problema della guerra. Il documento pubblicato in proposito non poteva essere che l’ennesima prova dell’inconsistenza politica della tradizione del partito e in particolare della sua direzione “centrista”.

Il documento inizia con una faticosa analisi della situazione di minaccia di guerra profilatasi sull’orizzonte internazionale. Lo fa, come al solito, dando un colpo al cerchio e l’altro alla botte, e vietandosi così ogni conclusione seria anche dal punto di vista borghese e democratico. Prima affermazione: l’attuale tensione internazionale è il riflesso di una «ricerca di equilibrio militare fra i due grandi blocchi mondiali». Non dunque il prodotto dell’inevitabile maturazione di contrasti imperialistici nel seno della società borghese internazionale, ma il frutto di una politica di... equilibrio inaugurata a Postdam (in nome delle quattro libertà) e sfociata nel modo e nelle forme che tutti sanno. La guerra diventata questione di “equilibrio” militare fra due contendenti.

Seconda affermazione: «Il conflitto tra i due grandi blocchi è un aspetto della lotta di classe reso evidente dalla competizione fra due sistemi economici e sociali: quello collettivistico della Unione sovietica e dei paesi di nuova democrazia, cui non possono non rivolgersi le speranze dei lavoratori, e quello capitalistico nella sua espressione pura degli Stati Uniti d’America e nelle forme variamente dirigiste e pianificatrici delle nazioni europee». Qui, come si vede, non si tratta più di ricerca di equilibri militari, ma di affrontarsi sul piano militare di due forze sociali antitetiche e, secondo l’interpretazione della “sinistra” del partito, la guerra diventa un episodio della lotta fra proletariato (Russia) e borghesia (America).

Terza affermazione: «Ma il conflitto fra i due sistemi statali non esaurisce in sé i termini della lotta di classe e della lotta del socialismo contro il capitalismo. La lotta per il socialismo è ricca di motivi più profondi e articolati: essa si svolge su di una frontiera che non coincide con la frontiera fra i due blocchi di Stati, ma passa attraverso i singoli Stati ovunque esistano masse sfruttate ed oppresse che occorre inserire nella lotta per il socialismo con richiami più efficaci e molteplici di quanto non sia l’appello ad assecondare – in pace e in guerra – esigenze diplomatiche e strategiche». Dove, attraverso le più comiche contorsioni, l’”equilibrio militare” fra le correnti in lotta nel partito è raggiunto: lotta di classe sì, però... Con un sospiro di sollievo i membri della Direzione depongono la penna e si detergono il sudore: la “base” in questo pasticcio capirà quel che può e quel che vuole; la “sinistra” chiuderà gli occhi sul primo punto, la destra sul secondo, il centro lavorerà alla ricerca dei “più profondi ed articolati motivi” e alla conciliazione fra le simpatie verso il sistema collettivista dell’Oriente e la resistenza e la preparazione militare di Oriente ed Occidente.

Esaurita la parte critica, avanti con la parte costruttiva. Il compito del PSI è chiaro: difesa della pace: non pacifismo imbelle, per carità, ma pacifismo attivo animatore e sollecitatore dei “più profondi e vasti strati popolari in tal modo preparati alla lotta rivoluzionaria per l’instaurazione del socialismo”. La direzione del PSI gonfia il petto adergendosi a “difesa della pace”, come scuola di preparazione... rivoluzionaria alla conquista del potere. Come lavorerà per la pace? Anzitutto, propugnando la neutralità dell’Italia, che è già un primo modo per riconoscere l’ineluttabilità della guerra e rispondervi col classico grido: “sbrigatevela voi proletari americani e russi; noi stiamo fuori a...lavorare per la pace”.

Come opererà il PSI per garantire questa neutralità? Forse preparando una risposta rivoluzionaria alla guerra? Oibò, chiedendo la non adesione a nessun blocco, battendosi per la riduzione delle spese militari al minimo «non potendo l’Italia svolgere in caso di conflitto altra funzione che di ausiliaria ed assecondatrice di azioni di guerra delle Grandi Potenze» (quest’inciso vale da solo tutto il resto: la Direzione chiede che se guerra dovrà esserci, l’Italia sia almeno una semplice ausiliaria come vuole il trattato di pace: che si scanni per un quarto invece che per intero), contro la fabbricazione di materiale bellico e la non utilizzazione degli aiuti ERP a tale scopo, ecc. Infine, in caso di guerra il PSI indirizzerà le energie convogliate nella lotta preparatoria ad una nuova lotta per la pace, contro le unioni sacre e per la non collaborazione con «le forze statali rese dalla guerra ancora più oppressive e totalitarie».

E il documento è finito e debitamente archiviato.

* * *

Discuterne il contenuto da un punto di vista proletario sarebbe sciocco. Le teorie della “lotta per la pace” e del “neutralismo” operante od imbelle, sono concezioni che il movimento operaio ha liquidato da tempo come forme aperte di capitolazione di fronte alla guerra. Il proletariato lotta contro la guerra in un modo solo: preparando e mettendo in moto le forze della rivoluzione. Non chiede pace alle forze della guerra: chiede a sé stesso le energie per distruggere le cause del massacro e creare così le condizioni di una pace che il regime capitalista esclude.

Ma l’assurdità del documento socialista non va vista in rapporto alle ideologie del proletariato, ch’esso ha calpestato e rinnegato da troppi anni, ma in rapporto alle posizioni del partito nello schieramento borghese-democratico che è il suo naturale domicilio. Ora è chiaro che, di fronte al problema della guerra, i partiti borghesi aderenti ad una realtà sociale e politica che hanno fatta propria non possono prendere che una sola posizione conseguente: o quella dei fautori di un blocco o quella dei fautori dell’altro. Se piratesca è la posizione dei partiti americano e russo, gesuitica e non meno piratesca è la posizione di chi, mentre rimane affondato fino al collo nel meccanismo della società capitalistica, pretende di garantirsi una neutralità ch’è stato fin troppo zelante a vendere in nome degli “ideali” e dei “principi” che hanno presieduto a tutta la sua azione su scala nazionale ed internazionale. Il PSI ha questa funzione (che è, lo voglia o no la direzione Jacomettiana, la stessa della “terza forza” saragattiana): di far credere ai proletari che, ferma restando l’adesione del partito alla ideologia alla prassi e agli interessi sociali della democrazia, la neutralità sia possibile e la pace possa essere difesa; far credere che si possano accettare gli aiuti dell’America ed esigere che siano impiegati per scopi che con gli interessi americani non hanno nulla a che fare; che si possa costruire sulle sabbie di una neutralità che è negata da tutta l’evoluzione del regime capitalista.

Fra il si e il no son di parer contrario, dice la Direzione centrista. In pratica appellandosi al suo stesso documento, di fronte alla guerra il partito non potrà che sfasciarsi secondo una linea naturale di rottura: una parte, aggrappandosi alla prima formula del contrasto fra i due blocchi, proclamerà che, dal momento che il conflitto c’è, meglio accettare il “minor male” (il blocco antitotalitario); l’altra, aggrappandosi alla interpretazione della guerra come episodio della lotta di classe, penserà che, dunque, bisogna schierarsi con la propria classe, impersonata nella “nuova democrazia”.

Il vecchio baraccone socialista ha dunque partorito il suo ennesimo documento d’imbecillità senile. Buffonesco dal punto di vista proletario; impotente ed imbelle, nonostante le professioni di attivismo, dal punto di vista borghese. Il centro della direzione ha la sua strada segnata, e, se non si schiererà con le due ali polarizzate verso Oriente o verso Occidente, farà la solita opera di pia crocerossina chiedendo per l’Italia la guerra minima, la guerra corta, la guerra non tanto sanguinosa, la rapida conclusione della pace. È superfluo dire che di queste crocerossine le forze della guerra hanno sempre avuto bisogno, come hanno sempre avuto bisogno di una Svizzera e di una Svezia neutrali e di pii missionari della “umanizzazione delle armi distruttive”. Jacometti e Lombardi faranno questo, a meno che, nel frattempo, non abbiano scelto come più coerente ai “profondi ed articolati motivi” della lotta per il socialismo un’altra casacca militare.
 
 
 


Da "Battaglia Comunista" n. 38 - 3/10 novembre 1948.
I BATTISTRADA DELLA GUERRA

Ecco che i nostri socialisti si son fatti d’un tratto banditori della crociata per la pace e la neutralità, allo stesso modo e con gli stessi intendimenti di umanitarismo e di carità... cristiana con cui i preti si danno, ad esempio, alla crociata del buon costume o alla protezione delle fanciulle traviate.

Per un partito che pretende richiamarsi alle tradizioni del pensiero e delle azioni socialiste che cosa vuol dire porre sul tappeto della vita politica nazionale il problema della pace e della neutralità come se fosse un problema, anzi il problema cardine delle masse operaie?

Ma esiste in concreto per il proletariato il problema della pace e della neutralità? Esiste, cioè, come istanza di classe che attende d’essere tradotta sul piano della lotta, come tappa necessaria sulla via della conquista rivoluzionaria del potere?

Ci troviamo di fronte ancora una volta ad una delle tante mistificazioni ideologiche e politiche del capitalismo che fanno presa sulle masse più incolte ed emotive, soprattutto perché tali falsificazioni vengono propagandate attraverso il veicolo sicuro dei partiti di massa.

Vale allora la pena di rispondere a tale interrogativo.

La “pace” in quanto problema politico è un’astrazione come la “libertà”, come la “giustizia”, come tutte le altre e numerosissime “fumisterie” della metafisica borghese se essa non esprime una esigenza di un particolare momento dell’organizzazione di questo ben caratterizzato mondo economico, che è quello del capitalismo, e di questo mondo sociale e politico, che è ancora quello del capitalismo.

Ne consegue che la pace, per cessare di essere una semplice astrazione, dovrebbe poter esprimere nella presente fase storica questo mondo reale del capitalismo. Ma non v’è chi non veda tutta l’assurdità d’una simile impostazione data al problema della guerra quando è canone elementare della più elementare formulazione dottrinaria del socialismo che proprio il regime della proprietà capitalista crea le condizioni obiettive della guerra e non della pace; che proprio questo regime è lo strumento mostruoso che trova la sua ragione d’essere, la sua possibilità di affinamento e di sviluppo nella periodica distruzione di quanto viene creato dal lavoro umano.

Per il capitalismo la guerra non è stata fin qui che la valvola di sicurezza alle sue crisi di sviluppo: nell’attuale fase dell’imperialismo, e quindi del suo declino in quanto esperienza storica di classe che non ha più nulla da dire all’umanità, la guerra ha assunto un carattere di permanenza per cui la pace non è più che una breve tregua d’armi, un momento strategicamente necessario e vitale della guerra che continua.

Soltanto l’ignoranza dei problemi fondamentali della rivoluzione o la furfanteria manovristica dei socialisti e degli staliniani può consentire questo vuoto arzigogolare sulla “pace borghese”.

Che si abbia voluto e si voglia trattare di “pace proletaria”, sentita cioè come esigenza di classe?

Non scherziamo. Se il proletariato fosse in realtà in grado di sentire e di esprimere una tale esigenza; fosse, in una parola, in grado di imporre la sua pace, ciò equivarrebbe a riconoscergli la maturità, anche subiettiva, alla sua rivoluzione. In realtà non ci sarà pace per il proletariato internazionale fino a che non si sentirà di imporla con la forza della sua dittatura.

Ma i nostri socialisti, quando ci si mettono, non sottilizzano troppo, e non tengono né alla coerenza, né alla consequenzialità di certe formulazioni teoriche. Non si sentono abbastanza garantiti dalla politica per la pace: pongono anche quello della neutralità. Quale neutralità? Già, quella del “non aderire e non sabotare”, così brillantemente applicata dal partito socialista nella prima guerra mondiale; e la si vorrebbe rispolverare oggi e proprio nel paese che, gli stessi socialisti dell’”Avanti!” lo riconoscono candidamente, per la sua posizione strategica sarà sicuro teatro del terzo massacro, della guerra totalitaria e atomica per eccellenza.

Ma che razza di socialisti sono costoro, e a che razza di scuola socialista si richiamano se pongono questa neutralità, la neutralità dei lavoratori italiani come problema politico, quindi possibile sul piano concreto della lotta contro la guerra dimenticando così, o facendo finta di dimenticare, che per il capitalismo la guerra è praticamente possibile solo nel momento in cui il proletariato, sconfitto sul fronte della battaglia di classe, è piegato, gli piaccia o no, alla guerra nella totalità del suo potenziale economico e fisico?

Non contenti della stessa neutralità questi signori, che la storia recente ci ha fatto conoscere come i veri signori di tutte le guerre, hanno fatto propria la parola d’ordine davvero sovversiva di “guerra alla guerra” saltando così da Lazzari a Lenin; dalla timida e sentimentale posizione della neutralità... polemica, alla dura terribile eroica azione condotta nell’ambito della guerra imperialista per la sua trasformazione in guerra di classe. E caprioleggiano così questi signori, col cinismo proprio di chi ha l’abitudine, non soltanto mentale, al funambolismo politico e al tradimento.

Già nel cuore della prima guerra mondiale, Lenin, esaminando il ruolo delle forze rivoluzionarie nei confronti dei socialtraditori della seconda internazionale, così si esprimeva: «Ora l’alternativa è la seguente: o noi siamo realmente fermamente convinti che la guerra sta per creare in Europa una situazione rivoluzionaria, che ogni congiuntura economica sociale e politica dell’epoca imperialista conduce alla rivoluzione proletaria, allora il nostro dovere indiscutibile è d’esporre alle masse la necessità della rivoluzione, di chiamare le masse alla rivoluzione, di creare le organizzazioni indispensabili, di non temere di parlare nel modo più concreto dei diversi metodi di violenza e della tecnica della violenza. La rivoluzione sarà assai forte per vincere? Si produrrà dopo la prima o dopo la seconda guerra imperialista? Il nostro dovere è indiscutibilmente indipendente da queste domande. O noi non siamo convinti d’avere una situazione rivoluzionaria, e allora non c’è bisogno di parlare a vuoto di “guerra alla guerra”. Allora siamo, in realtà, dei politici operai nazional-liberali del tipo Sudekum-Plekhanov o Kautsky».

E i Sudekum, i Plekhanov, i Kautsky di ieri sono tutt’ora vivi e vegeti anche se enormemente rimpiccioliti, dati i tempi di mediocrità e di decadenza e si chiamano oggi Togliatti, Nenni, Lombardi. Questo loro agitarsi in nome della pace cui non credono; questo loro apparente bisticciarsi sui problemi della neutralità non deve ingannare nessuno; obbedisce ad una precisa funzione di guerra.

Costretti a manovrare entro lo schieramento dell’imperialismo americano, in attesa del conflitto e per la sua effettiva preparazione essi si sforzano di condurre innanzi e di inasprire la tattica delle agitazioni di disturbo sul piano economico e parallelamente sviluppano su quello politico l’offensiva della pace per neutralizzare una zona sempre più vasta dello spirito delle masse. Si tratta, in definitiva, di un episodio tattico, svolto accortamente e nel settore avversario che appare assai ben saldato alla visione strategica dell’imperialismo staliniano.

Questo, e nient’altro che questo nasconde la politica della pace e della neutralità.
 
 
 


Da "Prometeo", gennaio-marzo 1949.
NEUTRALITÀ

Vecchia è in Italia la moda di dividersi tra neutralisti ed interventisti. Per uno strano destino le guerre sono per noi a scoppio ritardato, e, a partire dal marchese di Monferrato, che era per il vecchio Walter Scott il più fifone tra tutti i principi crociati, ed anche il più traditore, i grandi capi delle forze armate nostrane hanno sempre dinanzi a sé un congruo periodo di tempo per decidere se entrare in guerra e da che parte, prendendo la finale eroica decisione solo dopo una certa serie di spinte da tergo.

Tutti sanno che i socialisti italiani andarono classificati come neutralisti nella guerra del 1914, e specie nei nove mesi trascorsi tra il fatale 4 agosto ed il 24 maggio 1915. Ma fin d’allora i modesti settimanali di sinistra del partito erano in grado di mettere a punto la improprietà del termine neutralisti. Il partito socialista, partito di opposizione di principio al regime e al governo borghese, non poteva definire la sua politica con programmi e direttive suggerite allo Stato e per lo Stato, nell’azione interna ed internazionale, programmi che logicamente possono condurre a partecipare alla direzione del governo per vie legalitarie, ed anche ad alleanze con altri partiti. Neutralisti potevano ben chiamarsi in un primo tempo i partiti borghesi contrari all’intervento a fianco dell’Austria e della Germania, ossia i democratici di sinistra, in un secondo tempo invece quelli contrari alla discesa in guerra a favore della Francia e dell’Inghilterra, ossia i clericali e i giolittiani. La linea dei socialisti era invece quella di mantenere l’opposizione di classe al governo borghese in pace e in guerra (e qualunque fosse l’alleanza di guerra eventuale) opposizione da condursi non solo nel parlamento e nella stampa, ma con tutte le altre forme di azione e col solo limite delle possibilità di lotta consentite dallo sviluppo degli eventi. Tale indirizzo si opponeva a quello di altri partiti socialisti esteri, che dinanzi alla guerra avevano accordato alle loro borghesie una tregua della lotta di classe, votando i crediti militari ed entrando in governi di unione sacra e comportandosi così da veri neutralisti della nostra guerra, che è la rivoluzione proletaria, ed essa sola.

Quanto fosse imprecisa per molti strati meno avanzati del partito l’opposizione alla guerra ed al secondo interventismo filodemocratico, lo può dimostrare il fatto che Mussolini, ritenuto capo degli estremisti, e passato poi all’interventismo alla fine del 1914, nell’estate di quell’anno tempestoso, chiamato da qualche compagno a giustificare alcuni allarmanti sbandamenti dell’Avanti! a proposito delle atrocità teutoniche, delle cattedrali smozzicate e simili, rispose enfaticamente: «Per me la guerra all’Austria è una catastrofe socialista e nazionale; mi opporrò con tutte le mie forze».

Ora è evidente che per essere contro la politica di guerra degli interventisti italiani, tra i quali passò con il clamoroso tradimento del suo partito il futuro duce, non occorreva affatto e non occorse credere nelle due sballate tesi storiche e politiche contenute in quelle parole, così presto rinnegate.

La guerra all’Austria non fu una catastrofe nazionale, come invece avrebbe potuto esserlo la guerra alla Francia; la guerra fu vinta e lo Stato borghese nazionale italiano trasse vantaggi di territorio e di potenza. Non era nemmeno detto che la guerra dovesse essere una catastrofe socialista; lo sarebbe stato ove al suo scoppio tutti i socialisti ed i lavoratori si fossero comportati come Mussolini, mentre invece il partito resitette e fu, dopo la guerra e contro i fautori di essa, più forte e vigoroso. La situazione di guerra avrebbe addirittura costituito un vantaggio rivoluzionario, ove la classe operaia italiana avesse potuto, secondo le parole del congresso internazionale di Stoccarda (citate da Togliatti, interventista, ed allora, e ieri, e domani), volgerla in guerra civile per l’attuazione del socialismo. Così la entrata in guerra dello zar fu una catastrofe per lui e anche per la borghesia russa, ma non certo per il proletariato ed i bolscevichi che, avendola fieramente avversata e sabotata, giunsero alla vittoria rivoluzionaria.

I socialisti italiani purtroppo rimasero a mezzo tra un neutralismo contingente di tipo nazionale, ed il disfattismo rivoluzionario di classe. Le diverse tendenze si resero evidenti al momento dell’intervento, quando alcuni dissero: abbiamo fatto il nostro dovere per scongiurare la guerra, oggi che, malgrado noi, il governo ha impegnato il paese non dobbiamo indebolirlo; mentre gli altri sostenevano lo sciopero generale al momento della mobilitazione. Avutasi dopo Caporetto l’invasione del territorio italiano, i primi giunsero a tentare l’appoggio e la partecipazione al governo in nome dei famosi schemi della difesa della Patria, i più si fermarono all’infelice formula: né aderire né sabotare.

La tradizione propria dell’ala rivoluzionaria, che venne a convergere dopo la guerra nella Internazionale bolscevica, si ricollega all’indirizzo di non rinunziare alla lotta contro il potere della borghesia e le forze dello Stato anche quando queste siano impegnate in guerra e provate dalla disfatta, di tendere ad una possibile azione rivoluzionaria interna senza fare alcun conto della possibilità di spostare gli equilibri militari a favore del nemico. Una tale lotta in quel periodo in Italia non vi fu, i socialisti furono tuttavia accusati come disfattisti e caporettisti. Essi non respinsero l’accusa in linea di principio, ma per la chiarezza del confronto dei rapporti di forza è bene ricordare l’elemento obiettivo storico che tra i socialisti disfattisti italiani e lo stato maggiore di Francesco Giuseppe non esisteva nessuna solidarietà e collaborazione di finalità o di mezzi, nessuna corrispondenza o collegamento organizzativo, nemmeno nelle più spinte diffamazioni avversarie.

Nemmeno ve n’erano tra lo stato maggiore germanico e i leninisti russi, malgrado il famoso vagone piombato, in quanto la prospettiva storica dei marxisti rivoluzionari è sempre stata quella di un paese invaso, nel quale la rivoluzione sociale interna comunica l’incendio alle file dell’esercito invasore ed alla nazione vincitrice. E poco dopo la pace definita disfattista di Brest Litovsk il vincitore tedesco cadeva anch’esso travolto, ed il proletariato di Berlino impegnava a fondo le sue forze migliori nel tentativo di assalto rivoluzionario alla borghesia nazionale dei partiti di guerra e di pace, come quello di Parigi aveva fatto dopo la disfatta di Sedan.

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I grandi avvenimenti in Russia del 1917 e 1918 ponevano in nuova luce i problemi storici della rivoluzione operaia. Stabilito contro tutte le deviazioni socialdemocratiche socialnazionali ed anche libertarie il valore decisivo nella lotta di classe non solo dell’impiego della violenza ma della istituzione di uno Stato politico di ferreo potere dittatoriale (stabilito tale cardine centrale così nella vivente storia ed in fatti fiammeggianti, come nella critica teoretica restauratrice del robusto filone originario del marxismo) veniva in tutta evidenza la necessità per il potere della vincitrice classe proletaria – spezzato l’apparato statale vecchio, liquidata la guerra nazionale e l’armata nazionale – di avere non solo una polizia di Stato ma un vero e proprio esercito rosso.

Non si trattò infatti soltanto di assicurare la esecuzione dei decreti economici e sociali del potere rivoluzionario (il classico intervento dispotico del Manifesto, per tanti anni incompreso dai troppi socialisti infetti da libertarismo) contro le resistenze dei borghesi, di “speculanti” e d kulaki, non si trattava soltanto di spegnere cospirazioni o insurrezioni di partiti anticomunisti insidianti il nuovo potere, ma si dovettero sostenere vere e proprie campagne militari per impedire assalti e spedizioni di forze organizzate contro i territori e le capitali rivoluzionarie. Di tali imprese militari si fecero iniziatori i tedeschi da una parte, gli Alleati dall’altra con lo stesso obiettivo di rovesciare i bolscevichi; e ciò avvenne perfino contemporaneamente prima che cessasse la guerra europea: gli Stati borghesi si combattevano tra loro, ma al tempo stesso combattevano contro lo Stato proletario in una tacita alleanza, sostenendo le forze armate, procedenti da diverse direzioni, dei Kornilov, dei Denikin, degli Judenic, dei Kolchak.

Chiusa vittoriosamente questa fase di guerre civili interne e cessate le vere e proprie guerre statali con la Finlandia e con la Polonia, mentre il regime proletario sussisteva in Russia, ma tuttavia non riusciva ad attuarsi negli altri paesi, i comunisti in tutte le nazioni si posero molto seriamente il problema del comportamento in una successiva guerra in cui uno o più Stati borghesi avessero potuto attaccare la Russia con l’intento di restaurarvi il dominio del capitalismo.

Ove in un tale scontro la Russia fosse rimasta sola contro un gruppo di Stati nemici la soluzione era ovvia; i comunisti in quei paesi avrebbero gettato tutte le loro forze nell’opposizione alla guerra, nel sabotaggio e nel disfattismo di essa, con l’intento finale di rovesciare rivoluzionariamente il potere borghese indigeno attaccandolo alle spalle del fronte.

Ma il problema assumeva un aspetto ben più complesso e difficile davanti alla ipotesi di una guerra generale tra due gruppi di Stati, in uno dei quali si fosse trovata come alleata la Russia sovietica e comunista.

Per i partiti comunisti dei paesi alleati alla Russia, o quanto meno in linea di fatto impegnati in operazioni di guerra contro gli Stati nemici ed aggressori della Russia stessa, andava mantenuta la linea politica ristabilita dalla Terza Internazionale che condannava ogni appoggio alla guerra ed ogni forma di concordia nazionale e imponeva anzi l’aperto sabotaggio allo sforzo militare borghese? Non avrebbero dovuto piuttosto i partiti comunisti in queste situazioni appoggiare i governi e gli eserciti in lotta contro i nemici della Russia, od almeno desistere dall’ostacolarne l’azione, per evitare l’evidente conseguenza di facilitare la vittoria delle armate che tendevano ad abbattere la rivoluzione invadendo il paese socialista?

Questa ipotesi appariva tanto suggestiva quanto in sostanza era artificiosa. Anzitutto non ve ne era ancora un esempio storico: come abbiamo ricordato, alla fine della prima guerra mondiale i due gruppi di Stati borghesi in conflitto avevano agito parallelamente contro la Russia in rivoluzione; contro la Comune parigina erano stati solidali versagliesi e prussiani, contro gli spartachisti di Berlino tedeschi kaiseristi e Weimariani, tra la compiacenza dei vincitori. E oggi si tiene occupata la Germania dell’Est e dell’Ovest, dopo la decantata vittoria per la liberazione dei popoli, al fine di impedirvi una vampata rivoluzionaria sorgente dalla disfatta della classe dominante nazionale. Risalendo agli esempi delle rivoluzioni borghesi (senza dimenticare le sostanziali differenze di impostazione storica: quelle erano a carattere nazionale e tendevano ad un nuovo dominio sociale di classe; la rivoluzione proletaria è internazionale e tende ad abolire ogni dominio di classe) va notato che nelle coalizioni tra gli Stati feudali contro la Francia, questa non solo non trovò mai tra i primi nessun alleato, ma la stessa Inghilterra retta a regime borghese da molto tempo partecipò alle guerre antifrancesi.

La impostazione del quesito che esaminiamo sembra inoltre nel suo semplicismo presupporre che i rivolgimenti sociali nascano dalle idee degli uomini e siano diffusi per il mondo sulla punta delle baionette, vecchio motto borghese ben lontano dalla nostra concezione delle determinanti economiche che ovunqe sollevano le classi sociali oppresse contro l’ordine costituito in una lotta interna. E la vittoria delle coalizioni della Santa alleanza non impedì il diffondersi in tutto il mondo della rivoluzione borghese, come la vittoria in due guerre mondiali delle potenze capitalistiche rette a sistemi di democrazia rappresentativa non toglie che in tutto il mondo il capitalismo si vada organizzando nella sua forma più moderna e sviluppata di amministrazione accentrata e di potere totalitario potenziando con ciò stesso le possibilità obiettive della rivoluzione socialista.

Ancora: una delle caratteristiche essenziali dell’azione rivoluzionaria in caso di guerra, contrapposta dal leninismo a quella opportunista dei socialpatrioti, è la diffusione da un paese all’altro dello sciopero militare con la fraternizzazione attraverso i fronti. Mentre i poteri feudali combattevano con eserciti professionali e mercenari, la borghesia avendo attuato il militarismo forzato si serve nelle guerre delle masse proletarie, per cui non si può combattere contro uno Stato borghese sui fronti militari senza combattere contro il suo proletariato e quindi senza ripercuotere al di là del fronte l’alleanza di classe stabilita da uno dei lati, rovinando ogni sviluppo delle possibilità rivoluzionarie internazionali. Tale rapporto già evidente nell’esperienza della prima guerra mondiale, è oggi reso ancora più evidente dal fatto che la guerra impegna direttamente intere popolazioni anche molto lontane dalle linee militari di contatto. Così è stato nella seconda guerra, e probabilmente in una terza sarebbero colpite ed impegnate le popolazioni del mondo intiero.

I comunisti rivoluzionari non potevano dunque in nessun caso rendere ammissibile una partecipazione alla guerra condotta da stati maggiori di eserciti capitalistici; ed una sospensione durante una simile guerra della lotta di classe in tutti i suoi sviluppi. Dopo la vittoria proletaria in un singolo paese la sola supposizione conforme alle direttive rivoluzionarie è la lotta in tutti i paesi contro lo Stato capitalistico per giungere rapidamente alla diffusione mondiale della rivoluzione. La sola ipotesi militare storicamente ammissibile è quella di una generale coalizione capitalista contro lo Stato comunista, ed in tal caso le sorti della nostra causa più che ad una vittoria dell’esercito rosso sono affidate al crollo interno degli eserciti offensori per effetto della solidarietà rivoluzionaria col nemico dei proletari militarizzati.

La stessa ipotesi di una diffusione forzata della rivoluzione a mezzo di una guerra offensiva o controffensiva dell’armata rossa è antistorica e antisociale. Per ragioni di natura economica, connesse alle basi della concezione marxista e del tutto evidenti, non solo va negata la possibilità di costruzione del sistema socialista in un solo anche grande paese ove vivano nel mondo le grandi economie capitalistiche dei paesi del primo e più potente industrialismo, ma la cosa diviene ancora più assurda se si pretende che il “paese socialista isolato” debba non solo patteggiare la produzione dei suoi lavoratori alle condizioni del mercato commerciale e monetario mondiale, ma addossarsi di più l’onere spaventoso di una preparazione militare equipollente a quella dell’intiero mondo borghese.

Quindi alla fine di assicurare gli sviluppi della lotta internazionale di classe diretta dai partiti comunisti stretti nella nuova Internazionale all’indomani della prima guerra europea, vi era buon motivo di anteporre di gran lunga la dirittura e continuità dell’opposizione rivoluzionaria contro l’ordine costituito del capitale alle speculazioni sul ripercuotersi degli eventi di guerra, così familiari al politicantismo borghese e ai rinnegati del socialismo. Né Lenin, fra le tremende difficoltà della prima rivoluzione, nel cedere territorio all’esercito germanico, aveva invocato che socialisti francesi o inglesi o americani avessero lavorato per crescere la pressione militare sul fronte d’occidente; egli seguitò invece proprio in quel periodo di organizzazione del Comintern a bollarli quali traditori appunto per tale atteggiamento unionsacrista.

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La vicenda della seconda guerra mondiale non smentisce le direttive che abbiamo tracciate: non si è verificata la comoda ipotesi che una parte del capitalismo lotti alla morte contro l’altra stringendo alleanza con uno Stato rivoluzionario. Se questo avesse mantenuto fede alla politica bolscevica e comunista non avrebbe trovato alleati ma solo nemici in entrambi i campi.

Solo perché lo Stato proletario aveva degenerato fu possibile la sua intesa in un primo tempo con l’Asse germanico, in un secondo con i nemici di esso. L’avere ammessa la doppia strategia dei partiti comunisti esteri, disfattista in un caso, bellicista nell’altro, condusse alla definitiva liquidazione delle forze rivoluzionarie mondiali.

I successivi grandi episodi di presentazione della guerra come crociata ideologica per conquiste sociali generali affidate alle armi di una delle parti, restano per noi assolutamente paralleli, ed il cadere nei loro inganni costituisce sempre pericolo di crisi e di disfacimento del movimento proletario.

Nella prima guerra mondiale i socialisti tedeschi pretesero che la Germania difendesse la civiltà europea contro l’assolutismo russo, i socialisti dei paesi dell’Intesa parlarono invece di salvezza della democrazia contro il militarismo tedesco.

Nella seconda guerra fu pretesa la solidarietà dei lavoratori da parte delle “grandi democrazie” di Occidente contro nazisti e fascisti, tanto nel primo periodo in cui la Russia era legata alla Germania dal patto per la spartizione della Polonia, quanto nel periodo successivo in cui la Russia fu in guerra coi tedeschi.

I partiti comunisti furono costretti in un primo tempo a deridere la presentazione democratica della guerra; in un secondo a farla propria clamorosamente; oggi in presenza del contrasto tra l’Occidente e la Russia sono costretti di nuovo a tornare alla prima tesi per battere in breccia la presentazione della nuova alleanza sotto l’aspetto della solita crociata della libertà contro i paesi dittatoriali (Togliatti – vedi sopra i riferimenti alla personale coerenza storica e teorica – vien fresco fresco a provare che le democrazie hanno sempre fatto la guerra). È evidente che una tale strada, come ha condotto alla rovina la Seconda Internazionale e poi la Terza, non può condurre oggi che al successo delle forze controrivoluzionarie, comunque le future guerre avvengano e chiunque le vinca.

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Partendo per la chiara impostazione del problema del caratteristico neutralismo italiano nel 1914/18 volevamo arrivare all’atteggiamento dei partiti italiani di oggi nell’ipotesi di guerra.

Soltanto un vero partito comunista può rivendicare la tattica disfattista in qualunque ipotesi di guerra. Il partito stalinista attuale sembra minacciarla nella sola ipotesi di una guerra contro la Russia.

Dinanzi ad una simile posizione i partiti borghesi al governo dovrebbero dire se la liberalità democratica ammette tale tipo di dottrina e di azione politica, ovvero se considerandola tradimento lo Stato cercherà di schiacciarla.

Ora a parte il fatto che una democrazia borghese che faccia questo ragionamento prende semplicemente la via che i fascisti italiani tracciarono per i primi nel 1919, va rilevato che i signori liberali, democristiani, demosocialisti e repubblicani italiani dovranno sfoggiare una notevole faccia cornea nel condannare un disfattismo ed una collaborazione col nemico che essi stessi hanno largamente praticata, ed alla quale soltanto debbono di essere pervenuti al potere.

Essi diranno che lo Stato di Mussolini era illegittimo ed anticostituzionale, e per tal motivo diveniva non solo giusto che il popolo corresse alle armi ma che gli avversari cercassero aiuti stranieri. Il fatto è che essi, come cittadini e come partiti, versavano in tale avviso, ma Mussolini ed i suoi pensavano l’opposto, li definivano traditori e se avessero vinta la guerra li avrebbero tutti fucilati. Può dunque ogni cittadino ed ogni partito stabilire a suo criterio se il potere ne suo paese va rispettato o va sabotato dal di dentro e dal di fuori?

Gli stalinisti rivendicano tale azione ove si attacchi la Russia, molti autentici conservatori la hanno applicata nei confronti del regime fascista, se l’Italia cadesse nella sfera militare sovietica la sperimenterebbero i governanti d’oggi. Quinticolonnisti (o per converso collaborazionisti) dunque tutti in potenza, e agli stipendi di uno stato maggiore straniero – meno i marxisti rivoluzionari il cui disfattismo è lotta dei lavoratori per se stessi e, insieme, per i loro fratelli di tutti i paesi. È chiaro che tra tutta questa gamma di casi una discriminante ideologica non può trovarsi; unico criterio distintivo pratico è quello dell’esistenza di un potere di fatto, che tenga nelle sue mani lo Stato. Tutt’al più si può esigere che si tratti di un potere stabile per alcuni anni, che le sommosse interne siano cessate, che siano stati stabiliti rapporti normali diplomatici con l’estero.

Mussolini aveva da tutti questi punti di vista le carte in regola. Se è stata azione meritoria la lotta contro di lui fino all’ultimo sangue da parte dei Nitti, dei De Gasperi, degli Sforza, dei Pacciardi, perché contro il governo attuale sarebbe un crimine l’analogo procedere dei Togliatti o dei Nenni? Evidentemente l’unica risposta è che i signori prima nominati disapprovano le idee e la politica dei secondi. Ma è indubitato che anche il signor Mussolini disapprovava vivamente l’opera che tutti compievano da Parigi da Londra o da Mosca, e questa non pare sia stata una ragione sufficiente, dinanzi alla storia, alla civiltà, alla morale, tutte parole che si mettono a larga disposizione di chi è riuscito a schierarsi dalla parte che ha saputo picchiare più forte.

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È ormai chiaro che se ci fosse la terza guerra – od anche in funzione di quella forma cronica di conflitto che potrebbe sostituirla – in ogni paese del mondo agiranno due gruppi opposti che reciprocamente si imputeranno il crimine di tradimento alla civiltà alla democrazia e soprattutto alla pace. Per la cerchia dei politicanti di professione e per larghi strati soprattutto dei famosi ceti medi, si rinunzia in partenza a decifrare il grande problema teorico e storico delle ragioni e dei fini dei due contendenti.

Si tratta per loro di domandarsi non solo quale dei due alla fine sarà vittorioso, ma in primo tempo quale avrà il controllo politico e militare della zona in cui si vive. Essendo lo Stato italiano oggi non un soggetto ma un oggetto del problema, la tesi politica della neutralità, che non è mai stata una tesi proletaria, non si pone nemmeno come tesi nazionale.

Il dubbio amletico è altrove: se un conflitto scoppierà e un fronte militare sarà tracciato tra Oriente ed Occidente, dove passerà questo fronte? Le forze delle potenze atlantiche stabiliranno di comprendere nelle loro linee di partenza la penisola italiana tenendola saldamente occupata? Il panciafichismo indigeno, ben sicuro che la polizia motorizzata e l’amorevole occhio delle portaerei che bordeggiano tra i nostri porti bastano a salvare da ogni attentato turbolento l’ordine yankee-vaticano che regna saldamente ormai in Italia, ha dei gravi fremiti quando sente parlare di fronti sulle Alpi e addirittura sui Pirenei; si tratterebbe di passare una volta ancora di mano in mano, di traversare penose angosce prima di sapere quali scarpe si debbano lustrare.

Per la soluzione di così ardente problema non contano nulla i pareri e i voti del parlamento italiano e, dopo i trionfi dell’opportunismo, nemmeno le azioni nella piazza secondo ruffianesche regìe.

Meno che nulla conta la concessione o meno di basi militari a potenze straniere; oggi che si fa il giro del mondo senza scalo una base si crea dovunque con un nugolo di aeroplani scaricando tutto in dieci minuti, dall’uranio alle vitamine col cioccolato, e soprattutto senza permesso e senza preavviso.

In effetti a combattere per la patria, qualunque sia il governo al potere e qualunque sia l’alleanza internazionale, oggi non si impegna nessuno. I due gruppi hanno l’insigne sfacciataggine di sostenere entrambi che fanno “politica nazionale” che lottano per la pace e che sono contro gli aggressori. Su quest’altro famoso trucco dell’aggressore e dell’aggredito, su cui si specula da sempre, Palmiro ha avuto una trovata nuova. Che campino di trovate Totò e Macario è logico e rispettabile, ma i capi dei Grandi Partiti! E negli Storici Discorsi! L’esercito sovietico non vuole attaccare nessuno, ma potrebbe venire sul nostro territorio “inseguendo un aggressore”. La formula è alquanto dialettica: l’aggressore è colui che scappa. Ettore fuggendo tre volte intorno alle mura della natia Troia inseguito da Achille, era evidentemente l’aggressore. Non gli spetta più onore di pianto per il sangue per la patria versato.

Almeno l’esempio di tanti ciarlatani arrivasse a liquidare finalmente e con anticipo sui preventivi di Ugo Foscolo questa rovinosa superstizione del patriottismo!